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C'era una volta la canapa. Testimonianze e fatti storici sulla coltivazione della canapa in Garfagnana

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la raccolta della canapa
Vi prego, non facciamo la solita ironia da quattro soldi, non ci perdiamo nei consueti discorsi banali. Nel secolo scorso e ancor di più nei secoli passati la coltivazione di questa pianta è stata una cosa seria e il sostentamento di molti garfagnini, solo oggi ricominciamo a scoprire nuovamente la sua utilità negli svariati settori della vita quotidiana. Di cosa sto parlando? Naturalmente della canapa. Oggi sembra strano pensarlo ma l'Italia è stata per secoli (fino ai primi anni del 1900) il secondo produttore mondiale di canapa dopo l'Unione Sovietica. In tutta la penisola (ancora nel 1910) si coltivavano oltre 80mila ettari di terreni e il suon buon contributo a questa produzione lo dava anche la Garfagnana e la Valle del Serchio in genere. Questa coltivazione era una voce importantissima nell'economia contadina nostrale già nel XV secolo, tant'è che in Garfagnana si diceva che la canapa era come il maiale, non si butta via niente, ogni sua parte infatti veniva utilizzata e questo fino agli anni '50, quando poi rapidamente la canapa è sparita dalle nostre campagne "grazie" alla concorrenza del cotone e di altre fibre meno costose, l'invenzione poi delle fibre artificiali decretò il "de profundis" di questa produzione che richiedeva un enorme impiego di forza lavoro e un notevole tribolo. Ancora oggi però, c'è chi si ricorda di questi immani fatiche che servivano comunque a soddisfare le necessità della famiglia e l'allegro amico Giuseppe (quasi novant'anni, portati egregiamente) originario di Castelnuovo ed emigrato poi in Inghilterra, ricorda fase per fase tutta la lavorazione di questa pianta. I ricordi che affiorano alla mente di Giuseppe sono particolareggiati e pensare che sono passati circa settant'anni dall'ultima volta che a messo mano su questo arbusto:

- La canapa veniva seminata verso la fine di marzo e il campo dove
un "canipajo"
veniva seminata era chiamato il "canipajo" (in dialetto). Una volta finita la semina era usanza metter su lo spaventapasseri, di questo se ne occupavano i ragazzetti, ma di solito questa trovata non faceva desistere gli uccelli che erano voracissimi di questi semi, allora a scongiurare questo pericolo ci pensavano i soliti ragazzetti che fino a quando non spuntava la pianticella dal terreno facevano turni giornalieri
 per salvaguardare il canipajo dagli uccelletti. Era una vera e propria meraviglia questa pianta, credetemi,  che a cose normali cresceva rigogliosa e spesso superava i tre metri di altezza. A fine luglio, inizio agosto con una falce i lunghi steli venivano tagliati e posati a terra per l'essiccazione delle foglie. I "mannelli"(fasci di canapa) venivano così incrociati fra di loro con le foglie in
I mannelli messi a seccare a
cono rovesciato
alto in modo che si formasse un cono rovesciato e che in caso di pioggia l'acqua scivolava via meglio, inoltre in questo modo l'aria circolava intorno al fogliame e ciò permetteva alla canapa di non marcire. Una volte che le foglie erano secche i mannelli li sbattevamo in terra e le foglie cadevano dallo stelo velocemente, fatta questa operazione le portavamo a casa nel "riparo" (al coperto) e qui avveniva la selezione, ogni stelo doveva essere di lunghezza uniforme e allora per fare questo i fasci venivano disposti su un bancale e qui selezionati e uniti in altrettanti mannelli di misura pressochè uguale. Verso la metà di agosto avveniva un'altra importante operazione: il macero. Per tale scopo alcuni tratti del Serchio erano l'ideale, figuratevi che in quel periodo dell'anno c'erano per le sconnesse strade garfagnine molti "barrocci"(carri) trainati da buoi carichi di canapa che andavano verso il
il trasporto della canapa
nostro beneamato fiume. Immaginatevi voi che per fare questo lavoro venivano in parte deviate le acque del Serchio per formare delle 
"vasche" chiuse dove veniva totalmente immersa la canapa in due o più strati e per circa otto giorni. Questa fondamentale operazione permetteva lo scioglimento delle sostanze collanti che tengono uniti fibra tessile e stelo. Per tenerla bene sommersa ci si serviva semplicemente dei sassi di fiume, era importante che nessun stelo venisse in superficie, a controllare tutto questo ci pensava il custode del macero che prontamente in caso di bisogno prendeva la bicicletta e andava ad avvisare il proprietario dei fasci in questione. Passati i giorni di macerazione cominciava il duro lavoro
fasci di canapa estratti dall'acqua dopo
la macerazione
dell'estrazione dei mannelli dall'acqua, in compenso ci si consolava con qualche bicchiere di vino e ne approfittavamo anche di scherzare con le ragazze che erano venute a lavorare, in più era una buona occasione per vedere gente che non avevi più visto dall'anno prima, perfino i bimbetti venivano a dare una mano a noi contadini, in cambio davamo loro un mannello di canapa piccola. In questo modo tutti si portavano a casa un po' di canapa da filare durante l'inverno per poi tessere la tela per fare le lenzuola e asciugamani Insomma, nonostante tutto era una giornata di festa, sebbene il nauseabondo odore della canapa macerata non aiutasse tanto questo clima gioioso. Una volta che
la macerazione
tutta la canapa era stata poi tolta dal macero veniva riportata a casa e messa ad asciugare, seguiva poi la fase di lavorazione detta "l'ammaccatura" che consisteva nel battere con dei bastoni lisci gli steli, facendo in questo modo rimaneva solamente la fibra, mentre a terra restavano i "canapujori" che venivano ammucchiati da una parte per essere usati per accendere il fuoco nel camino. Infine per ripulire alla meglio la parte legnosa residua, dopo l'ammaccatura si passava alla gramolatura che veniva fatta quasi sempre da delle giovanotte svelte ed esperte. A questo punto sarebbero passati alcuni mesi prima di rimettere mano alla canapa lavorata in estate. A ottobre entrava in scena una figura fondamentale per la buona riuscita del prodotto finale, questa figura era conosciuta come il "canapino". Il canapino era colui che pettinava
i "canapini"
la canapa, aveva con se dei pettini particolari che passati più volte sulle fibre le rendeva più soffici e lavorabili. A seconda della pettinatura si ottenevano tre tipi di filo: quello più grossolano serviva per fare le corde per vario uso (per gli animali, per stendere il bucato e per usi domestici in genere), poi c'era quello per tessere sacchi, infine si arrivava a quello più pregiato che si usava per la tessitura della biancheria -.

Fino a qui arrivano le memorie di Giuseppe, ma la storia e la tradizione della canapa come già detto si rifà a secoli e secoli addietro, quando il Nardini, esimio storico di Barga racconta nel suo libro "Comunità parrocchiale San Pietro in Campo- Mologno"di lotte feroci fra barghigiani e gallicanesi per regimentare la correnti del fiume Serchio per l'irrigazione dei campi e sopratutto per creare le famose "vasche" per il macero della canapa. Si narra infatti che già nel Medioevo la piana di Mologno aveva una popolazione non stabile, dedita completamente all'agricoltura, nel giorno si adoperava nei
Il Serchio scorre
placido nella valle
lavori dei campi, mentre all'imbrunire rientrava nelle mura dei vicini castelli. In questa piana si effettuavano anche tre tagli di fieno che avrebbe poi alimentato un numeroso bestiame che pascolava beatamente ed in più si riferisce, che in apposite pozze nei pressi della Corsonna e sulle due rive del Serchio si macerava la canapa, queste pozze erano la fonte di interminabili diatribe, a complicare la situazione ci si mettevano anche problemi di confini, poichè il fiume era diviso fra tre stati:quello fiorentino, quello di Modena e quello di Lucca, insomma tutti cercavano di disordinarlo a proprio favore. Per secoli è stato lavoro delle varie Cancellerie dello Stato che cercavano di dirimere pacificamente le spinose questioni e nonostante la buona volontà dei giudici si arrivò anche al fattaccio. Era il lontano 1666 quando i barghigiani e i gallicanesi si presero ad
prodotti in canapa
archibugiate da una sponda all'altra del fiume, proprio per questioni legate alla canapa e in particolare al cambio di direzione delle acque. Come vedete la coltivazione di questa pianta era talmente importante che di canapa si poteva anche morire. Oggi i tempi sono cambiati e non ci rimane che dire che neanche la canapa è più quella di una volta...





Bibliografia:

  • Testimonianza diretta di Giuseppe (non vuole che si menzioni il cognome) di anni 89 abitante nel Regno Unito, ex coltivatore di canapa
  • " Comunità parrocchiale di San Pietro in Campo Mologno" di Antonio Nardini, stampato da tipografia Gasperetti, anno 2006
  • "Una vita fra la canapa" Museo della vita contadina

La straordinaria storia di Ercole Testoni da Bagni di Lucca e...l'affondamento del Titanic

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C'è poco da fare, gira che ti rigira i nativi (e i loro discendenti)
della Valle del Serchio si trovano in ogni parte del mondo, sotto questo aspetto con le dovute proporzioni siamo simili ai napoletani, che le puoi trovare anche loro negli angoli più remoti della Terra e riconoscerli dal loro inconfondibile dialetto. Naturalmente a tutto questo c'è un perchè, la nostra valle nei secoli scorsi è stata terra di emigrazione fortissima e i nostri avi e la loro progenie si è sparsa per tutto il mondo conosciuto e se si vuole non è nemmeno difficile trovarli all'interno di storie che hanno fatto epoca e di cui ancora oggi parliamo. In questo senso ecco venire a galla una vicenda interessantissima e particolare, è la straordinaria storia di Ercole Testoni e dell'affondamento del mitico Titanic. La storia dell'"inaffondabile" ormai la sappiamo tutti, James Cameron nel suo bel film del 1997 ha portato ancor di più alla ribalta le vicende di questo transatlantico e sopratutto ha descritto bene quello che patirono i viaggiatori di seconda e terza classe, insomma non sta certo a me raccontare nuovamente una storia che a questo punto tutti sappiamo, ma però mi sento in dovere di raccontarvi i fatti di coloro che in questi avvenimenti sono stati dimenticati, delle loro piccole ma grandi storie che si sono confuse con eventi più considerevoli. Sono passati ormai 105 anni esatti, era la notte fra il 14 e il 15 aprile 1912 quando la nave urtò un iceberg decretando la sua ineluttabile fine, a bordo fra le 2200 persone c'erano 37 italiani (alcuni fonti dicono 47) che sono
10 aprile 1912 il Titanic parte
stati ignorati dalle cronache e dalla storia, solo due si salvarono, gli altri perirono in fondo al mare al largo delle coste americane. Sette di questi nostri connazionali erano dei semplici passeggeri (due di seconda classe e cinque di terza), gli altri trenta lavoravano sul Titanic come camerieri, cuochi e macellai. Fra tutti questi italiani spiccava Luigi Gatti che era originario di un piccolo paese in provincia di Pavia ed era il direttore della sala da pranzo di prima classe, dove sedevano ospiti del calibro di Benjamin Guggenheim magnate del rame o di Isidor Straus fondatore dei famosi Grandi Magazzini "Macy's" di New York, ma non ci si può dimenticare però della gente comune e quindi nemmeno di Emilio Poggi di Calice Ligure(Savona) di professione cameriere che sapeva tre lingue e che lasciò il paese natio con la ferma intenzione di lavorare proprio sul Titanic, oppure che dire del passeggero Alfonso Meo Martino di 48 anni originario di Potenza, mestiere liutaio che parti dal Dorset (Inghilterra)dove abitava con la famiglia per consegnare a New York un semplice violino e ancora ecco che il destino beffardo si accanì su Giuseppe Peduzzi di 25 anni, a 12 era emigrato a Londra, si sarebbe dovuto imbarcare su un'altra nave l'Oceania, ma a a causa di uno sciopero del carbone venne dirottato sul Titanic. Fra tutti questi, sei erano toscani e uno di loro veniva proprio dalla Valle del Serchio (o meglio dalla Val di Lima). Racconteremo dunque di Ercole Testoni di Bagni di Lucca, lì era nato il 14 ottobre 1888 e da li giovanissimo emigrò lasciando a casa gli anziani genitori. Il padre Pietro e la mamma Maria Stefanelli raccomandarono l'anima del figlio alla Madonna quando andò a cercar fortuna in Inghilterra. Partì senza la preoccupazione di moglie e figli (dal momento che non ne aveva), da poco giunto nella terra di Sua Maestà Britannica capitò subito
Ercole Testoni
l'occasione di trasferirsi nella capitale, la città di Londra gli parve subito un mondo meraviglioso, vario e pieno di opportunità, abituato poi alla calma e alla vita contadina della valle questa megalopoli faceva proprio al caso suo e alle sue ambizioni. Nel frattempo, a quanto pare, Ercole conobbe un altro toscano che proveniva da Marradi (in provincia di Firenze,)tale Francesco Nannini che gli raccontò che un certo Luigi Gatti (che era un italiano che già aveva fatto fortuna tanto da possedere già due rinomati ristoranti proprio a Londra), cercava personale addetto alla cucina e alla sala ristorante da imbarcare su un transatlantico diretto nelle lontane Americhe. Ben presto i due giovani si presentarono da Luigi Gatti in persona che raccontò loro che eventualmente sarebbero dovuti salire a bordo a Southampton per il viaggio inaugurale di quella che sarebbe stata la nave più importante e prestigiosa al mondo: il Titanic. L'entusiasmo dei ragazzi salì alle stelle, in più c'era l'occasione di andare anche in America, quella che per gli emigranti era considerata una vera e propria terra promessa. Gatti cercò di placare l'entusiasmo, gli spiegò che anche per lui sarebbe stata la prima esperienza in tal senso, inoltre il lavoro sarebbe stato duro, l'orario di servizio massacrante(andava dalle sei di mattina alle dieci della sera, 
secondo i turni), in più il personale non sarebbe stato assunto dalla White Star Line (la società proprietaria della nave) ma da lui stesso, in aggiunta per essere ben chiari il ristorante
Luigi Gatti 
sarebbe stato di prima classe e cosa più importante li avrebbero mangiato oltre al capitano, anche gli uomini più ricchi della Terra. I due ragazzi dopo tutte le raccomandazioni accettarono anche tutte le condizioni e furono così assunti presso "La Cartè Restaurant", così si chiamava il ristorante di prima classe del Titanic. Nannini fu impiegato come capo cameriere, già aveva una discreta esperienza nel settore, mentre il nostro Ercole partì dal basso, dato che era il suo primo lavoro e che non aveva mai fatto questo tipo di mestiere, fu preso come addetto ai bicchieri, a lui spettava la loro cura e la pulizia, tutto questo per tre sterline e quindici scellini di paga. Il 9 aprile del 1912 Ercole partì da Londra per raggiungere il 10 aprile Southampton, salì a bordo, salutò allegramente anche
Il ristorante di prima classe deò Titanic
 dove lavorava Ercole
lui dai parapetti della nave più famosa al mondo la gente sottostante, che a sua volta festante acclamava la partenza del favoloso Titanic. Cinque giorni dopo, il 15 aprile 1912 alle ore 02:20 il transatlantico dopo l'urto con la montagna di ghiaccio avvenuto poco meno di tre ore prima si spezzò in due tronconi e affondò inesorabilmente nelle gelide acque atlantiche al largo di Terranova, portandosi per sempre con se le speranze di Ercole di una vita felice. Il corpo di
La lista dell'equipaggio
In rosso le 20 persone
assunte da Gatti
Ercole Testoni non fu mai trovato o riconosciuto, i poveri genitori non ebbero nemmeno una tomba su cui piangere, di lui ci rimane solamente l'indirizzo di recapito che fornì il 9 aprile al momento dell'impiego: 132a (o 32a) St. James Buildings, Little Poultenay Street, London. Resta poi l'ulteriore dolore e l'ennesima ingiustizia, quando dei passeggeri sopravvissuti riferirono che i dipendenti del ristorante furono bloccati dal personale interno nelle loro cabine al fine di impedire loro di correre verso le scialuppe di salvataggio, queste voci non trovarono mai conferma ma molto lascia pensare, dato che i numeri parlano chiaro: delle 20 persone assunte da Gatti ne sopravvisse solamente una... 

Due giorni dopo la notizia giunse anche in Italia, così riportava i fatti "Il Corriere della Sera"

ANCORA MANCA UNA LISTA COMPLETA DEGLI ITALIANI NAUFRAGATI" Londra, 17 aprile - A mezzanotte nessuna nuova lista dei superstiti è pervenuta, sembrerebbe che tranne Portaluppi e Peracchio, nessuno degli italiani si sia salvato. Questa notte nelle 50 famiglie di italiani a Londra si soffre per il dolore e per l'angoscia... c'è soltanto una lista parziale della squadra italiana imbarcata come camerieri sul TITANIC [..]. Il sig. Gatti aveva questa lista e si era riservato di telegrafare l'elenco generale alla White Star Line a Southampton da New York. C'era un cameriere italiano, Venturini, che può considerarsi miracolosamente salvato. Ci ha telefonato questa notte da Newcastle, dove vive, dicendoci che
I giornali italiani dell'epoca
alla vigilia della partenza, per un malinteso, non ha ricevuto il telegramma di conferma della White Star Line. Lui ha pensato che l'azienda ha rinunciato alle sue prestazioni ed ha accettato un'altra offerta di lavoro.-
Ercole quindi non fece più ritorno a Bagni di Lucca, una tragica fine di un ragazzo che aveva una vita davanti a se, il suo futuro sarebbe stato negli Stati Uniti d'America, dove già aveva trovato lavoro come assistente maggiordomo. Questa è l'ultima notizia che abbiamo di lui...Requiescat in pace...

In memoria di Ercole Testoni



Bibliografia
  • Particolarità dell'Incarico, dall'ufficio di registrazione Pubblica
  • Rapporto Senato degli Stati Uniti d'America n°806/1912
  • "Corriere Mercantile" Genova, 18 aprile 1912
  • "Il lavoro" Genova 25 maggio 1912
  • "Corriere della Sera" 17 aprile 1912
  • Encyclopedia Titanica- Titanic victim

La tragica deportazione di un popolo: gli Apuani

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La deportazione degli Apuani
 dal porto di Luni
La parola deportazione è senza dubbio un brutto vocabolo, proprio perchè ci riporta istantaneamente alla memoria la seconda guerra mondiale e nello specifico lo sradicamento degli ebrei dalle proprie case per esser mandati nei campi di sterminio di tutta Europa. Ma le deportazioni sono sempre esiste, è che nella nostra memoria storica questa è la più recente e quella che forse ci ha colpito di più, ma sicuramente non ci possiamo dimenticare la deportazione degli Israeliti da parte degli Assiri o quella degli africani verso le colonie europee o americane, oppure quella degli indiani d'America nelle riserve e fra le più recenti ed efferate rimane quella che fra il 1915 e il 1916 vide la deportazione di un milione e duecentomila armeni da parte dell'impero Ottomano. Fra tutte queste deportazioni che (come detto) hanno fatto da corollario alla storia dell'uomo rimane una che colpì anche la Garfagnana e la Lunigiana, per bene intendersi non fu una deportazione di piccole dimensioni ma riguardò un intero popolo composto da ben cinquantamila persone circa. Questi eventi saranno meglio noti come la "deportazione apuana". Come abbiamo già visto in altri miei articoli i Liguri Apuani erano un etnia che abitava le nostre terre diversi secoli prima della nascita di Cristo, la loro vita si svolse tranquillamente sulle Apuane (e non solo) dedicandosi alla pastorizia e alla caccia, fino al momento in cui il loro destino non incappò con la dirompente espansione di Roma. Siamo intorno al III secolo a.C e qui incomincia la dura guerra contro i potenti romani che definirono gli Apuani: "durum in armis genus"(abili nell'uso delle armi), tali avvenimenti bellici sono ben raccontati dallo storico Tito Livio (Padova 59 a.C- Padova 17 d.C) in una sorta di "de bello Apuano"("sulla guerra apuana"), sarà una lotta che si protrarrà per tredici lunghi anni (per questa guerra leggi:http://paolomarzi.blogspot.it/-de-bello-apuano--di.html). Roma di certo non poteva fermare la sua espansione verso nord a causa di un piccolo popolo e così dopo svariate battaglie senza mai giungere alla definitiva sconfitta degli Apuani, giunse alla più drastica delle decisioni... Correva l'inizio primavera dell'anno 180 a.C
Guerra fra Apuani e Romani
quando i proconsoli Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo decisero un'azione a sorpresa nel territorio apuano, in men che non si dica dodicimila apuani furono costretti alla resa. Il successo dell'impresa romana fu dovuto furbescamente grazie ad un fatto: infatti proprio quello era il periodo stagionale in cui i nostri antenati si dedicavano ancora ai pascoli invernali che si svolgevano in posizioni meno elevate e di conseguenza meno difendibili, per di più (di solito) le battaglie si sarebbero svolte nel periodo estivo. Una volta assicurato il successo della battaglia i proconsoli con una lettera avvisarono il Senato della vittoria ottenuta e ancora nella missiva si diceva di attendere istruzioni per stabilire il destino dei prigionieri. Il messaggero tornò dopo pochi giorni con la terribile ed impietosa risposta...Agli Apuani fu dato immediato ordine di scendere dalle montagne ma in zone ben lontane dai loro villaggi poichè non vi fosse speranza di ritorno: altrimenti si riteneva senza se e senza ma che la guerra ligure non avrebbe mai avuto fine. Una volta arrivati in pianura ai capi tribù apuani fu comunicata la decisione nei loro confronti: per loro era stata deliberata la deportazione. Roma possedeva un agro pubblico (n.d.r:terre conquistate ai nemici appartenenti allo Stato) nel territorio dei Sanniti (quel territorio che oggi possiamo inquadrare nella provincia campana di Benevento) appartenuto prima ai Taurasini e proprio qui in queste terre sarebbero stati deportati gli antichi garfagnini.In pochi giorni si sarebbero dovuti preparare per il lungo esodo, venne detto loro di far scendere dalle montagne anche donne e bambini e di portare con se i loro beni. La disperazione di questo popolo si manifestò nei loro ambasciatori che tentarono un

ultimo e disperato tentativo di convinzione nei confronti dei due
proconsoli, in cambio della permanenza nella terra terra dei loro padri offrirono la consegna totale delle armi e di eventuali ostaggi, ma l'angoscia di questa gente - racconta ancora Tito Livio- toccò il suo apice quando una tribù situata ai piedi delle Apuane scelse la via del suicidio collettivo per non abbandonare la terra e i sepolcri degli avi, anche questo evento non sortì alcuna pietà e non avendo le forze per ribellarsi gli Apuani dovettero
Il Sannio il territorio
dove furono deportati gli Apuani
ineluttabilmente obbedire. Così quarantamila uomini liberi, con le loro donne e i loro bambini furono trasferiti a spese dello Stato nel Sannio, inoltre perchè poi nelle nuove terre si potessero procurare tutto il necessario per vivere furono assegnate a loro centocinquantamila libbre di argento. Cornelio e Bebio in persona si occuparono dell'esodo apuano percorrendo la dorsale appenninica fino al raggiungimento del Sannio, ad attenderli lì c'erano cinque membri di un collegio con il compito di assegnare le nuove terre, ad operazione compiuta l'esercito romano tornò a Roma per celebrare il trionfo, furono i primi a trionfare-racconta ancora Tito Livio- senza aver condotto nessuna guerra:"
nullo bello gesto". Ma la tremenda diaspora non finì qui. Nel corso del medesimo anno il console Quinto Fulvio Flacco marciò da Pisa con due legioni contro gli Apuani che abitavano nella zona del fiume Magra, anche qui senza quasi colpo ferire furono costretti alla resa altri settemila uomini, nemmeno il tempo di rendersi conto della sconfitta subita e i prigionieri furono imbarcati sulle navi nel porto di Luni e di li portati via mare fino a Napoli per poi continuare a piedi nel Sannio dove raggiunsero i loro sventurati compatrioti, a questo punto si potè dichiarare conclusa una vera e propria pulizia etnica. Gli anni poi passarono e i rudi, caparbi e temerari Apuani furono sostituiti con fedeli coloni romani incentivati da sgravi fiscali ad occupare le nuove terre di Garfagnana. Così ecco nascere le nuove colonie garfagnine: vediamo allora il fido colono Cornelius Gallicanus fondare il paese omonimo (Gallicano), per non parlare del console Quinto Minucio Termo che si insediò nei territori dove sorge adesso il paese di Minucciano e ancora come non dire di Sillano, quando proprio li, il dittatore Lucio Cornelio Silla decise di far costruire alcune
Minucciano paese di fondazione romana
capanne per far riposare e ristorare i suoi uomini durante le abbondanti nevicate invernali. Ma però per Roma non fu tutta rose e fiori l'insediamento nei nuovi territori della nostra valle, difatti in alcune vallate isolate sopravvivevano ancora migliaia di irriducibili Apuani che si erano sottratti al loro amaro destino, agguati e imboscate erano ancora all'ordine del giorno e i nuovi abitanti non riuscivano a trovare pace. Nel 155 a.C venne mandato sulle nostre montagne il console Marco Claudio Marcello e il suo esercito per risolvere per sempre
"la questione apuana", questa volta non ci furono prigionieri e deportati ma solo morti. Così anche l'ultimo apuano fu estirpato dalla propria terra e Marco Claudio Marcello ottenne quel trionfo tanto agognato e sperato dai suoi predecessori nella gloriosa Urbe. E i nostri antenati come vivevano in terra di Campania? Si dice che vivranno per secoli in un isolamento etnico umiliante, divisi addirittura per nome in Ligures Baebiani e Ligure Corneliani, dal nome dei pro consoli che li sconfissero. Comunque sia, nonostante siano passati duemila anni ancora oggi nel Sannio c'è ancora traccia negli abitanti odierni di sangue garfagnino, spieghiamoci meglio. L'illustre genetista Silvio Garofalo da recenti studi fatti e da risultati usciti fuori da un convegno dal titolo "La storia scritta nel D.N.A umano. I geni dei Liguri deportati in Sannio" ha portato alla luce una clamorosa scoperta e così testualmente da una sua intervista ci dice: - La nostra ricerca ha messo in evidenza delle affinità sui geni del cromosoma Y tra gli
L'aspro territorio apuano
abitanti della Garfagnana e della Lunigiana di oggi e quelli che vivono attualmente a Circello e in altre zone della Campania. Gli individui liguri hanno un marcatore che non esiste nel sud Italia, ma che ha un picco nelle zone dove furono deportati gli Apuani- 


Benchè anche l'ultimo degli Apuani sia sparito dalla faccia della Terra nelle nostre vene (e come abbiamo visto non solo nelle nostre)scorre ancora il sangue di questi guerrieri ribelli, ancora qualcosa del loro carattere e del loro spirito è nella nostra anima.



Bibliografia:

  • "Ab urbe condita" Tito Livio "Storia di Roma dalla sua fondazione" 1a edizione originale tra il 27 a.C e il 14 a.C
  • "La Repubblica" articolo di Laura Guglielmi "Cromosoma Y, i geni "deportati" dei Liguri

I santi "garfagnini" e le loro leggende. Quando storia e mito si fondono

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"Popolo di santi, poeti e navigatori". Con questa famosa frase Benito Mussolini definì gli italiani. Era il 2 ottobre 1935 e da poco era cominciata la conquista dell'Abissinia, le Nazioni Unite condannarono l'Italia per questa aggressione e Mussolini volle giustificare questa invasione parlando di un popolo italiano apportatore di civiltà nei secoli in tutto il mondo. Questa citazione rimase così impressa nella memoria di tutti che tre anni dopo !1938) fu scolpita a chiare lettere nel nuovo e moderno Palazzo della Civiltà Italiana, meglio conosciuto come Palazzo dell'EUR di Roma, ancora oggi campeggia fieramente nella sua facciata principale. Tutto questo per dire e confermare la tesi mussoliniana. In effetti non si può dire che in Italia manchino sublimi poeti, famosi navigatori e sopratutto una moltitudine di santi quasi incalcolabile ed è quindi impossibile che tutti questi santi non abbiano lasciato segno di se anche in terra di Garfagnana. Ecco allora nascere nella nostra valle racconti e leggende sul passaggio di questi santi uomini venuti da lontano, alcuni lasceranno segni indelebili della loro presenza tanto da essere ancora oggi venerati
e spesso queste leggende si confonderanno con la storia, tanto da creare una sorta di superstizione devozionale nei garfagnini. Ad esempio ecco tre storie che fanno proprio al caso nostro e fondono (come detto) al contempo storia e leggenda, tanto da non capire dove comincia l'una e finisce l'altra. La prima narrazione riguarda San Doroteo, amico fraterno del più famoso San Pellegrino

SAN DOROTEO
In tutta la Valle del Serchio, data la conformità del suo territorio
San Doroteo
era molto praticata la vita eremitica. Gli eremi sorgevano nella parti più impervie della Garfagnana e gli eremiti li stavano a scopo ascetico e spesso operavano in maniera caritatevole fondando degli "hospitali". A Cardoso infatti esisteva l'Ospedale di San Concordio di Colle Asinaio (oggi Colle Acinaia), successivamente venne sostituito dall'Ospedale di San Tiroteo nella pieve di Gallicano e questa è la prima testimonianza di culto di San Doroteo che potrebbe risalire intorno al X secolo. Si presume infatti che questo frate nato in Palestina fosse un eremita ospedaliere proprio dell'hospitale di Colle Asinaio, li vi giunse con San Pellegrino, uno decise di proseguire, mentre l'altro decise di fermarsi. A questo punto ecco cosa riporta lo storico Giuseppe Moriconi in uno scritto del 1928.

"San Doroteo era un compagno di San Pellegrino, insieme col quale peregrinava visitando i Santuari e macerandosi le carni di aspre penitenze. Quando San Pellegrino, seguendo l'impulso del cuore che era impulso divino, si portò sulle alpi di Castiglione per liberare dalle fiere (n.d.r:animale selvaggio o feroce)la gran selva tenebrosa. Doroteo lo seguì lungo la via risalendo il corso del Serchio. Giunti nelle selve di Cardoso, attraverso le quali passava la Via Romana, i santi si baciarono, s'incoraggiarono l'un con l'altro a sostenere con fermezza le lotte del demonio e della carne e si dettero l'addio per vivere solitari una vita eremitica e caritativa nella contemplazione e nella penitenza. San Pellegrino proseguì il viaggio e San Doroteo rimase nella foltissima selva di Cardoso, dalla quale poteva scorgere la selva tenebrosa dove il compagno si portava ad ammansire le fiere che dilaniavano gli uomini. Stanco dal lunghissimo viaggio, affranto dai disagi e dalle fatiche San Doroteo si adagiò sulla nuda terra, all'ombra pia di un castagno e fatta preghiera si addormentò. Doroteo la mattina dopo si risvegliò cullato dal canto soave degli uccellini. Cercò l'acqua ma non la trovò e ispirato dal cielo con il suo bastone fece un buco nel terreno dove cominciò a sgorgare acqua in abbondanza, si dice che quella è la fontana che zampilla ancora adesso presso la chiesa di Cardoso. Si costruì poi un rifugio di rami di albero ricoperti di terra. Nella selva di Cardoso il santo visse molti anni una vita rigidissima rivestito di pelli di animale e di corteccia di albero intessuta. Passava giorni e notti perlustrando la foresta per rimetere sulla buona via i viandanti che per disgrazia si erano persi. Li accompagnava presso i sentieri che portano a Valico e per quelli che portano verso la Palodina che conducono a Gallicano, talora li aiutava pure a guadare il Serchio. Si cibava di radici,
Cardoso
ghiande ed erbe selvatiche e si dissetava dalla fontana scaturita dalle sue mani sante. Spesso rivolgeva lo sguardo sul monte dove si trovava il suo amico San Pellegrino, non mancava nemmeno che i due santi si salutassero dandosi segnali con il fuoco dei falò che incendiavano nel cuore delle notti, dalle selve di Cardoso infatti si vede benissimo l'alpe di Castiglione. Arrivò anche il momento della morte per entrambi i santi che spirarono quasi lo stesso giorno. I funerali di San Pellegrino furono certo più clamorosi per la presenza di vescovi e da bestie feroci ammansite che scavarono la fosse per seppellire il santo. San Doroteo invece fu sepolto senza nessun clamore da alcuni abitanti vicini, forse proprio quegli abitanti che costituirono il primo nucleo del paese. Quasi subito si gridò alla santità e quasi subito eressero una chiesetta sulla sua tomba. Il Signore volle confermare la santità del buon Doroteo concedendo che sulla sua tomba molti infermi si ritrovassero risanati e che la fontana che non ha periodi di magra fosse salubre e prodigiosa nei malori. Una volta la chiesa di San Doroteo fu inondata da un ruscelletto che le corre vicino l'acqua raggiunse un metro di altezza ma lasciò incredibilmente asciutta la tomba del santo"
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SAN GUGLIELMO D'AQUITANIA
Questa è la meravigliosa e avventurosa storia di Guglielmo d'Aquitania, un santo poco conosciuto in Garfagnana, la sua storia
San Guglielmo d'Aquitania
però vale la pena di essere raccontata. Il Repetti sostiene che il santo vissuto in Toscana sia un certo Guglielmo il Grande, così detto per il suo imponente fisico, proveniva con ogni probabilità dalla buona società di Francia e la tradizione lo ricorda come San Guglielmo duca d'Aquitania. Condusse una vita dissoluta, peccaminosa, prima divenne brigante, poi ripudiò la moglie e infine parteggiò per l'antipapa Anacleto. San Bernardo di Chiaravalle lo ricondusse sulla retta via e alla conversione. Cominciò così un pellegrinaggio in Galizia a Santiago di Compostela, raggiunse poi Roma per arrivare al cospetto di Papa Eugenio III in persona dove chiese perdono dei propri peccati, il Papa gli impose un lungo pellegrinaggio in Terra Santa, al suo ritorno raggiunse la Toscana entrandovi dall'alta Garfagnana. A questo punto ecco fiorire svariate leggende popolari. Scendendo proprio dal nord della Toscana uno dei primi paesi che si incontra entrando in Garfagnana è Minucciano dove proprio si fermò Guglielm
l'erba di
San Guglielmo

o. Giunto in paese bussò alla porta della famiglia Sarteschi per chiedere ospitalità per la notte. Il pover'uomo  non mangiava da molti giorni, i componenti della famiglia Sarteschi gli diedero quindi da mangiare e da bere e lo fecero accomodare in casa presso il grande camino dove un fuoco ristoratore riscaldò le stanche membra del futuro santo. La mattina seguente Guglielmo era già partito di buon ora e aveva lasciato nel letto una carta con scritto a lettere d'oro il suo nome, si racconta che lasciò anche un'altro prezioso dono alla famiglia Sarteschi, una preziosa erba, conosciuta oggi come "erba di San Guglielmo", un erba che ha il privilegio di curare malattie come la foruncolosi, il "giradito" o il vespaio (n.d.r:malattia infiammatoria acuta della pelle). Per curarsi da questi malanni arriveranno a Minucciano da tutta la Garfagnana e anche dalla Versilia, quest'erba veniva prima essiccata e polverizzata e poi applicata sulla parte malata. Un forte fondamento di verità ci deve essere in questa leggenda, dato che la stessa università di Pisa nei trattati di medicina del 1600 e del 1700 parla di queste affezioni come di "Morbo Minuccianensis" e l'erba e riconosciuta scientificamente come "l'agrimuda eupaterica". Fattostà che negli anni la stanza dove aveva alloggiato il santo fu trasformata dal
la famiglia Sarteschi in una piccola cappella e ancora oggi in questa casa(in Via San Guglielmo n 11) è apposta una targa commemorativa:"Qui ospitato, qui ebbe oratorio S. Guglielmo. Casa Sarteschi questa memoria pose."

SAN GEMINIANO
Questa invece è la breve storia del vescovo che non volle diventare
San Geminiano
vescovo. Geminiano fu per molto tempo diacono del vescovo di Modena Antonio e quando questi morì Geminiano fu designato all'unanimità suo successore. Il sant'uomo non se la sentiva di caricarsi sulle sue spalle tanto responsabilità e fuggì da Modena nonostante le insistenze dei fedeli. I segni della volontà divina e la pressione delle persone fu talmente alta e fece si che Geminiano dovette accettare l'elezione. Le paure del nuovo vescovo ben presto sparirono, le cronache ci raccontano che il suo magistero fu davvero esemplare, riusci a convertire tutta la città di Modena al cattolicesimo, le sue doti di taumaturgo giunsero perfino alle orecchie dell'imperatore Gioviano che lo volle a Costantinopoli per liberare sua figlia dal demonio. Geminiano morì in odore di santità nel 397, sulla sua tomba fu costruita la prima cattedrale di Modena, il suo sepolcro non fu più aperto fino a quando non venne trasferito nel duomo in costruzione. Il 7 ottobre 1106 alla presenza di Papa Pasquale II e la contessa Matilde di Canossa la bara fu aperta, ne furono tolte delle reliquie e il Papa lo consacrò santo. Ma dove fuggi Geminiano per paura di diventare vescovo? Fuggì sulle pendici settentrionali dell'Alpicella delle Radici non distante da San Pellegrino, ancora oggi ci sono dei prati che si chiamano appunto i "prati di San Geminiano" e ricordano proprio i posti dove si rifugiò prima di essere notato da alcuni pastori del luogo, fu costretto così (come detto) a tornare ben presto a Modena per accettare la nomina . Prima di partire però volle mangiare un piatto di insalata, seminata il mattino stesso ma già cresciuta bella e lussureggiante. Ancora oggi in quei luoghi per dire che una cosa è successa in maniera molto rapida si dice che "è come l'insalata di San Geminiano" .

l'alpicella delle Radici

Queste sono solo alcune storie che legano i santi e la Garfagnana, ciò conferma il legame che la nostra terra ha con la Chiesa, un legame che nei secoli non sempre sarà apportatore di bene...

Storia di un ponte: il ponte Attilio Vergai nel comune di Villa Collemandina, era il più alto d'Europa

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"La casa dei sette ponti"è un bellissimo libro di Mauro Corona, è
una favola moderna ambientata nelle valli dell'appennino tosco-emiliano, un libro particolare a metà strada fra "Il canto di Natale" di Dickens e la parabola biblica del figliol prodigo. Una frase su tutte mi ha colpito di questo scritto e mi è venuta alla memoria proprio quando mi accingevo a scrivere questo articolo: "I ponti uniscono separazioni, come una stretta di mano che unisce due persone. I ponti cuciono strappi, annullano vuoti, avvicinano lontananze". Proprio così, la funzione di un ponte è questa, simbolica e concreta allo stesso tempo ed quanto di mai più appropriato si può dire del ponte stradale più famoso di tutta la Garfagnana: il ponte Attilio Vergai che si trova sulla statale 48 nel comune di Villa Collemandina, tra i paesi di Magnano e Canigiano. Questo ponte è famoso essenzialmente per tre motivi: il primo motivo risale al 1933, quando fu inaugurato era il ponte più alto d'Europa, era ed è considerato tutt'oggi a detta di molti tecnici e storici un pregevole ed ardito esempio delle prime strutture realizzate in cemento armato in Toscana, la seconda ragione riguarda il personaggio a cui è dedicato, Attilio Vergai, eroe della resistenza e principale fautore della sua realizzazione, infine l'ultimo e triste ragione consiste che questo ponte è meta di poveri disperati che decidono di chiudere in maniera volontaria la propria vita gettandosi dai suoi 87 metri d'altezza. Analizziamo adesso però i primi due motivi principali, tralasciando il terzo per le sue infelici e private storie.
Il cartello informativo all'inizio del ponte parla chiaro:
"Ponte Avv. Attilio Vergai. Anno di costruzione 1932-1933. Lunghezza metri 160. Altezza m 83. Sviluppo arcate m 40 e m 60. Progettista Ing. Danusso politecnico Milano". 
Ma cominciamo dall'inizio. L'avvocato Attilio Vergai fu nominato podestà di Villa Collemandina nel lontano 1927. Era la persona più adatta per ricoprire il ruolo di primo cittadino di questa comunità, aveva da parte sua il titolo di avvocato per districarsi fra le mille burocrazie che anche una volta affliggevano il nostro Paese e in più aveva un amore sconfinato per la propria terra. Nella sua veste istituzionale volle così dare ai suoi compaesani un infrastruttura grandiosa degna delle più grandi città non solo d'Italia ma anche d'Europa: il ponte sopra il torrente Corfino, un viadotto a due arcate, alto nel suo massimo 87 metri e costruito a ben 800 metri d'altitudine nelle impervie strade della Garfagnana. Era un'ossessione per il buon avvocato Attilio questa opera, in cuor suo credeva molto in questo progetto tanto da coinvolgere i corfinesi emigrati all'estero per finanziarlo, grazie al loro contributo si potè raggiungere una cifra ragguardevole per l'epoca: oltre duecentomila lire. Il sogno ormai stava per concretizzarsi, i lavori cominciarono così nel 1932. 
Dopo aver letto queste righe quello che per i cari lettori può sembrare un ponte voluto quasi per capriccio dal Vergai aveva invece solide motivazioni per essere costruito e tali motivazioni nacquero qualche anno prima quando nel primo decennio del 1900 fu (quasi) costruita la strada di collegamento fra Villa Collemandina e la frazione di Corfino. Sfortuna volle purtroppo che l'impresario edile  addetto alla realizzazione della strada morì, il fatto compromise i lavori e lasciò di fatto incompiuta la nuova via di comunicazione. 
Il terribile terremoto del 1920 che devastò la Garfagnana e in particolar modo proprio quei paesi dette però l'imput al suo
completamento e nel 1921 i lavori ripresero, si evidenziò fortemente la necessità di velocizzare i soccorsi in caso di un futuro sisma, difatti in precedenza gli aiuti giunsero clamorosamente in ritardo proprio a causa delle accidentate strade. L'amministrazione comunale affidò allora l'opera all'ingegner Aldo Giovannini che doveva studiare l'ultimazione della strada e la maniera più economica  per realizzarla. Dopo aver messo sul tavolo varie possibilità venne scelta la soluzione che prevedeva un lungo e alto ponte, ciò avrebbe anche valorizzato l'intera area in tutti i suoi aspetti. I piani strutturali di questo ponte furono molteplici, un progetto per esempio comportava la sua realizzazione in due arcate di 30 metri ciascuna, in cemento armato, con una pila centrale alta 33 metri, la pendenza e il fattore  puramente estetico di questo proposito fu bollata dagli ingegneri  come "scempio del paesaggio". Con buona pace di tutti finalmente il progetto venne definitivamente assegnato all'ingegner Arturo Danusso, i lavori ebbero così fine con la sua inaugurazione il 7 luglio del 1933 e le cronache dell'epoca così la definirono: "Ciò che pareva irrealizzabile e ora realtà e sull'abisso si curva agile ed elegante l'arco che sembra tracciato da una mano onnipotente con una facilità e con una leggerezza veramente fantastica".
La gioia per il suo principale sostenitore Attilio Vergai era immensa, finalmente aveva potuto regalare alla sua terra un'opera
Attilio Vergai
che anche lui sapeva che sarebbe durata per sempre. I momenti felici però  presto cesseranno per Attilio, due mesi più tardi da quel bellissimo giorno terminò il suo mandato di podestà e cominciò a lavorare a Castelnuovo Garfagnana nella filiale della Cassa di Risparmio di Lucca. Arrivò anche lo scoppio della II guerra mondiale e lui si contraddistinse subito come un fervente anti fascista, tanto che dopo l'otto settembre 1943 entrò in contatto con i primi partigiani garfagnini attivi in Campaiana aiutandoli nell'attività di sostegno ad ufficiali inglesi fuggiti dai campi di prigionia. Nel 1944 accadde il fattaccio, quando si oppose alle Brigate Nere che volevano i soldi custoditi dentro la banca di cui lui era il direttore, nella notte infatti modificò la combinazione della cassaforte e prelevò il denaro che inviò tramite una staffetta alla direzione di Lucca, città che già era stata liberata dagli americani. Ormai era entrato di fatto nella lista nera dei fascisti e il 27 febbraio 1945 fu catturato a Corfino e fu accusato di attività spionistica e favoreggiamento alla diserzione militare, dato che nell'anno precedente si era fortemente esposto aiutando alcuni giovani compaesani a non rispondere alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale. Fu trasferito dunque nel carcere di Camporgiano dove fu brutalmente maltrattato, gli venne addirittura promessa la libertà in caso di

confessione, ebbe anche l'opportunità di fuggire ma non lo fece per paura di ripercussioni sulla sua famiglia. Un mese dopo la sua cattura Il 27 marzo 1945 comincia il mistero sulla morte di Attilio Vergai. Di prima mattina fu prelevato da Camporgiano e fu condotto in prigione a La Spezia, questa fu l'ultima volta che fu visto vivo. Il corpo di Attilio non fece mai più ritorno a casa, all'epoca si fecero alcune ipotesi sulla sua morte, la più probabile rimane quella che in una successiva traduzione carceraria da La Spezia a Genova via mare, la nave che trasportava Attilio fu attaccata da aerei anglo americani, nel corso del bombardamento si presume che l'imbarcazione affondò e gli uomini a bordo uccisi...

Nel 1952 il magnifico ponte gli fu giustamente intitolato.


Bibliografia

  • "Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo, guerra e resistenza" di Feliciano Bechelli edito Pezzini editore 2016
  • Pietre della memoria, il segno della storia

I terremoti dimenticati della Garfagnana. Una tragica cronistoria lunga 600 anni

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La paura è sempre la solita, tremenda, paralizzante. Le ante
Il terremoto del 1920 in Garfagnana
(foto collezione Silvio Fioravanti)
dell'armadio iniziano a tremare, il tavolo le segue, l'incredulità è mescolata con la realtà, poi ti rendi conto...il terremoto!!!..., un urlo strozzato cerca di coprire quella specie di rombo angosciante, nonostante tutte le raccomandazioni del caso dimentico tutte le buone norme...dovrei buttarmi sotto la scrivania? No! Volo le scale a grandi passi, esorto tutti ad uscire, la gente è già in strada, i bambini corrono, e gli adulti hanno le mani nei capelli per lo spavento...eppure in questi attimi la più temeraria di tutti era sempre lei...la nonna. Lei aveva affrontato insieme a due bimbe piccole i bombardamenti del '44 in Garfagnana, aveva visto il paese distrutto e aveva vissuto sulla sua pelle anche il devastante terremoto del 1920. Si, proprio quel terremoto. Ormai per noi garfagnini quel sisma è quasi entrato di diritto nella leggenda popolare, ogni volta che la nostra terra viene colpita dal più piccolo tremolio la mente va sempre a quel maledetto 7 settembre 1920 e ai suoi 171 morti. I nostri nonni hanno tramandato da padre in figlio la memoria di quei terribili giorni, ognuno nella propria casa ha storie ed aneddoti legati a quel terremoto, tutti questi ricordi lo hanno fatto entrare nell'immaginario collettivo solo ed esclusivamente come "il terremoto", come se prima non ce ne fossero stati altri di così forti e potenti, eppure non è così, la lista dei terremoti garfagnini non si ferma a quel 1920, l'elenco di distruttivi terremoti è documentata sin dal XV secolo. Infatti era il 7 maggio del 1481 quando si ha la prima testimonianza di un sisma di grande entità. L'epicentro di quel secolare terremoto fu
il terremoto visto nel 1500
localizzato nell'Alta Lunigiana e fu percepito distintamente fimo a Lucca, Massa e i paesi circostanti. All'epoca la Lunigiana era annessa alla Repubblica di Firenze governata da Lorenzo Il Magnifico e grazie ai precisi riferimenti dei messaggeri medicei, oggi si può stabilire in base ai loro scritti sui danni causati alle abitazione e alle cose una probabile magnitudo di quel sisma che si dovrebbe aggirare intorno al 5.6, pari all'VIII° della scala Mercalli. Si racconta che nel borgo di Fivizzano crollarono diciassette case, oltre duecento fabbricati subirono gravi danni ai solai, ai tetti e ai muri, purtroppo vi furono anche delle vittime non quantificate con precisione ma con ogni probabilità potrebbero essere state comunque di più se non fosse che alcuni mesi prima (addirittura i cronisti del tempo parlano di  febbraio) scosse premonitrici avevano già messo in allarme tutta la popolazione. Della Garfagnana non si fa alcun cenno particolare, ma con sicurezza possiamo dire che i danni alle persone e alle case furono ingenti, di pari portata sicuramente agli accadimenti avvenuti nella vicinissima Lunigiana. Rimanendo su questo tema in effetti c'è un dato a dir poco curioso che riporta sia il Dipartimento di Protezione Civile e poi anche Claudio Vastano nel suo bel libro "Garfagnana la valle dei terremoti" sul fatto che non si hanno notizie più antiche e documentate (come appunto nel caso del sisma del 1481) riguardo ai terremoti in Garfagnana. Il motivo è da ricercarsi in due fattori: il primo è da ricondurre alla scarsa importanza che aveva la nostra valle, difatti non erano presenti nè grandi centri economici nè culturali e di quella vallata incastonata fra Appennini e Apuane non importava quasi niente a nessuno, quasi però...se è vero come è vero che l'altro fattore è da ricercarsi nell'importanza strategica e militare che aveva la Garfagnana per gli Estensi(n.d.r: la famiglia che governava la zona), con ogni probabilità erano proprio gli stessi funzionari locali a nascondere le notizie riguardanti catastrofici eventi naturali (proprio come terremoti e alluvioni), perchè si aveva timore che eventuali nemici avrebbero potuto sfruttare la situazione di crisi per assaltare la valle ed estendere così i propri possedimenti.

A confermare questo è la data del successivo sisma che risale (così dicono le cronache) all'8-10 giugno 1641, le scosse furono avvertite nell'intera Lunigiana e Garfagnana e sopratutto la zona più colpita fu l'abitato di Pontremoli. La documentazione in questo caso è molto lacunosa, le fonti addirittura non riescono nemmeno a stabilire il
Le faglie attive presenti da
secoli in Garfagnana
giorno preciso della sciagura e ciò potrebbe far pensare ad una scossa principale seguita da forti repliche per almeno altri due giorni, inoltre non si hanno notizie specifiche dei danni.

Un altro fatto da sottolineare è che dai dati presenti in archivi storici si passa a momenti di intensa attività sismica a momenti di calma assoluta. Una tesi a riguardo sostenuta dagli esperti dice che tali periodi potrebbero essere effettivamente dovuti a un rallentamento dei movimenti geodinamici del sottosuolo (parolone degli esperti...non mie!) ma è anche possibile che vi siano ancora delle omissioni nei documenti. A prova di tutto questo eccoci allora di fronte a un salto temporale di cento anni e ritroviamo notizia di un forte terremoto nell'anno 1740. A proposito, il 1700 sarà il cosiddetto "saeculum horribilis" ("il secolo orribile") per quanto riguarda i terremoti in Garfagnana, saranno ben tre quelli violenti che colpiranno la valle. Il primo come detto correva l'anno 1740, era il 6 marzo quando il sisma colpì sopratutto la Garfagnana, l'area dei danni si estese a parte della Versilia e all'appennino modenese. I forti danni subiti appartenevano a stati diversi e sono documentati negli archivi estensi, lucchesi e fiorentini (così come era divisa politicamente la zona). Uno dei centri più danneggiati fu Barga dove si contarono tre morti, in più crollarono diverse case e molte furono danneggiate, si può calcolare che questo sisma sia stato dell'VII° della scale Mercalli e di magnitudo 5,2. Passano solo sei anni e il 23 luglio 1746 la paura torna a fare la padrona con un'altro terremoto dell'VII° scala Mercalli magnitudo 5,1. I paesi più danneggiati furono ancora Barga e Castelnuovo, la sequenza iniziò il 9 luglio e continuò fino ad ottobre, la gente si trasferì in campagna e costruì baracche. Arrivò così anche il 21 gennaio 1767, questo terremoto causò i suoi danni più gravi a Fivizzano dove ci furono gravi lesioni alle abitazioni, agli uffici pubblici e alle chiese. Eravamo in periodo di carnevale, vennero sospesi tutti i festeggiamenti, sostituiti da lunghe veglie di preghiera, stavolta questo sisma fu il maggiore per intensità di tutto il secolo, si toccò il VII° della scala Mercalli ma il suo magnitudo fu di 5,4.
Questo invece è il terremoto dei nonni dei nostri nonni e questo fu veramente catastrofico, era l'11 aprile del 1837, l'origine del
Campo di residenza provvisorio per gli
abitanti di Villa Collemandina 1920
(foto collezione Silvio Fioravanti)
sisma si può ricercare nelle viscere delle Alpi Apuane, la sua potenza si scatenò sulla superficie terrestre e arrivò al IX° Mercalli magnitudo 5,8. Il sisma prese nella parte nord-orientale delle Apuane sul confine fra Garfagnana e Lunigiana, la scossa causò gravi danni nei territori di Minucciano (dove morirono in tre) e Fivizzano. Il borgo di Ugliancaldo fu raso al suolo, qui i decessi furono cinque e diciotto i feriti. I rispettivi governi mandarono i tecnici a fare rilevamenti, vennero stanziati aiuti finanziari ed esenzione dalle tasse per i paesi colpiti.

Eccoci infine ai "giorni dell'apocalisse" che tutti conosciamo e di cui abbiamo sempre sentito raccontare. Era il 7 settembre 1920, la scossa (X° Mercalli magnitudo 6,5) interessò un area di oltre 160 chilometri quadrati, fu avvertita a Genova, Reggio Emilia, Pisa e anche a Milano, i morti furono ben 171, i feriti 650, migliaia di persone senza casa. Le scosse di assestamento durarono fino all'agosto del 1921 (per saperne di più leggi http://paolomarzi.blogspot.it/2014/09/7-settembre-1920-il-grande-terremoto-i.html) .
Così da secoli in Garfagnana viviamo con questa spada di Damocle sulla testa e  con l'angoscia di sentire che c'è qualcosa di più
Il biglietto della lotteria in
sostegno delle popolazioni colpite
della Garfagnana 1920
grande di noi: la natura che ha il potere di distruggere e di creare.




Bibliografia

  • Sismicità storica in Garfagnana- Dipartimento della Protezione Civile
  • "Garfagnana la valle dei terremoti" di Claudio Vastano Garfagnana editrice

Garfagnini: fondatori di città. Una storia sconosciuta

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Italiani fondatori di nuove città
"...Romolo attaccò all'aratro il vomere di rame, accoppiando al giogo il toro e la vacca e tracciò un solco profondo a base delle mura. Questo solco costituì il circuito che doveva percorrere la muraglia chiamata poi dai latini Pomerio, cioè post murum. Che questa cerimonia di fondazione avvenisse il 21 aprile è da tutti creduto ed i romani festeggiano quel giorno con il nome di natività della patria"
Così Plutarco nelle sue "Vite parallele"ricorda la fondazione della città per eccellenza: Roma. La fondazione di Roma è stata una delle date più importanti della storia dell'umanità, questa città cambiò letteralmente i destini del mondo e ancora oggi il riverbero di ciò è ancora presente. In Garfagnana non voliamo così in alto, ma anche nella nostra valle abbiamo avuto i nostri "Romolo", cioè dei fondatori di città. Si, avete capito bene, questa è una pagina davvero poco conosciuta dei nostri emigrati, ma alcuni di loro posero le fondamenta per nuovi abitati che ancora oggi sono vivi e vegeti. Ma andiamo per gradi e cominciamo a raccontare la nostra storia dicendo che noi italiani abbiamo avuto sempre la prerogativa di essere degli esploratori provetti, d'altronde Marco Polo, Colombo e Vespucci qualcosa avranno pure lasciato...Infatti così è, tant'è che quando alla fine dell'800 e gli inizi del '900 ci fu il boom dell'emigrazione molti italiani non si limitarono a vivere nelle grandi città ma andarono a cercar fortuna in lidi quasi inesplorati come al tempo era quel lembo di terra nello stato dell'Arkansas (Stati Uniti) dove oggi sorge la città dal curioso nome di Tonti Town. Fu fondata nel 1898 da un gruppo di immigrati cattolici italiani, guidati dal loro prete Pietro Bandini, si stabilirono in questo posto perchè così dissero che il clima e il terreno erano simili a quelli del loro luogo nativo nella lontana Italia. Decisero perdipiù di onorare un altro italiano, esploratore come loro: Henri De Tonti, in suo onore fu dato il nome a questa cittadina, a colui che aiutò Renè Robert Cavalier de La Salle ad esplorare il fiume Mississipi. Oggi la città è famosa per il Tonti Town Grape festival
Tonti Town Grape Festival
, dove si sponsorizza l'ottimo (così almeno si dice) vino locale e sempre a proposito di vino che dire allora di Asti?...No! Non capitemi male non parlo della ridente città piemontese, ma bensì dell'Asti che è in California nella Sonora Valley, sorta nel 1881 per volontà del ligure Andrea Sbarboro che fra l'altro creò pure un'azienda vinicola che per molto tempo è stata il principale produttore di vino di tutta la California. Diversa per esempio era la situazione in America del Sud. In Brasile agricoltori veneti, friulani, trentini e lombardi fondarono nuclei coloniali a cui diedero il nome dei loro paesi di origine. In Argentina invece a Villa Regina i coloni italiani trasformarono letteralmente il deserto in splendide distese di frutteti e vigneti. Altresì nel confinante Cile ho potuto personalmente toccare con mano l'intraprendenza italiana, visitando in gennaio 2017 Capitan Pastene amena località del Cile meridionale. Qui ancora oggi esiste l'unica comunità italo cilena, fu creata da emigranti di Pavullo (in provincia di Modena) ai primi del '900. Per chi ha la fortuna di fare un giro in città può vedere che nei ristoranti si mantiene ancora salda la tradizione emiliana e così si possono mangiare dell
Io a Capitan Pastene Cile
e buonissime tagliatelle o dei buoni tortellini e anche gli insaccati non sono niente male. Il nome dell'abitato anticamente era Nueva Italia cambiato poi in Capitan Pastene in memoria dell'esploratore Giovanni Battista Pastene navigatore del '500 a cui va il merito di aver esplorato gran parte delle coste cilene.

Tornando al nocciolo della questione i nostri garfagnini non furono di meno di altri italiani e anzi la loro mente fu lungimirante quando intuirono (proprio in America Latina) che bisognava acquistare terreni adatti alle future stazioni ferroviarie, difatti in quegli sperduti luoghi era in forte espansione la costruzione di nuove ferrovie ed è proprio qui che i nostri conterranei ebbero l'intelligenza di precedere, piuttosto che seguire i binari, sorsero così nuovi paesi la cui principale produzione era la fabbricazione di traversine per i binari. Lampante è il caso di Primo Fiori di Gragnana (Piazza al Serchio). Suo padre era già partito per il Brasile all'inizio del secolo scorso e Primo non trovando lavoro nel 1926 ripetè la scelta del genitore. Arrivò in quel di San Paolo e con l'aiuto di alcuni compaesani trovò finalmente lavoro. Non contento nel 1932 si trasferì nello stato del Paranà dove partecipò alla costruzione della ferrovia, si fermò così in quella che sarebbe diventata la città  di Londrina (che oggi per numero è la seconda più popolosa dello stato) con la moglie di origine russa e insieme
Londrina oggi
a circa altri mille compagni di avventura. Aprì in seguito un'officina, poi una concessionaria internazionale di camion e trattori, infine fece arrivare nel luogo la prima linea aerea commerciale. Nel 1984 
nel cinquantenario della nascita della città  fu insignito con la moglie del diploma di onore "Pioneiro de' Londrina", insieme a lui altri vecchi emigranti dell'Italia del nord furono premiati che in quel lontano 1934 vollero dare merito però al primissimo insediamento inglese (li impiegato nella lavorazione del cotone), chiamando Londrina la nuova cittadina in onore alla capitale Londra. Sempre in Brasile rimarranno epiche le gesta di Pietro Pocai che in un mio vecchio articolo definì l'Indiana Jones garfagnino (per leggerlo clicca qui http://paolomarzi.blogspot.it/2014/07/lindiana-jones-garfagnino-pietro-pocai.html). Pietro nacque ad Eglio (comune di Molazzana) nel 1853, era il secondo di cinque figli e siccome la vita era grama e povera la famiglia decise di mandarlo in seminario con la speranza di ricavarci un prete. Ma il "latinorum" non era il suo forte, quindi lasciò la famiglia e gli affetti più cari e s'imbarcò clandestino verso il Brasile. In quel periodo in quei luoghi giungevano avventurieri da tutti i porti che si addentravano in Amazzonia, nel Mato Grosso e nel Rio Grande do Sud a cercar fortuna, Pietro le segui. Studiò così le varie tribù indigene imparandone la lingua, gli usi e la religione. Dai Munduro (una tribù del luogo specializzata in mummificare le teste dei nemici), ebbe in sposa la figlia del capo, visse nel villaggio per un po' e poi stanco della vita "coniugale" scappò dalla moglie e s'incammino nelle impervie foreste del sertao paulista. Nel 1886 giunse finalmente nei pressi di un grandissimo fiume: il Parapanema, era un luogo stupendo, verde, lussureggiante, talmente bello che il nostro Pietro decise di fermarsi. Il suo insediamento fu subito ostacolato dagli indios Coroados (i temibili tagliatori di teste)che subito gli bruciarono la capanna, allora Pietro chiamò a se altri emigrati italiani, dopo alcuni mesi sorse un improvvisato numero di abitazioni.I nuovi abitanti formarono un simil- esercito che si mosse senza pietà contro gli indigeni, il sangue scorse copioso e alla fine i Coroados furono sconfitti. Una cascata d'acqua meravigliosa rompeva con il suo frastuono il silenzio di quel luogo, in onore a
Salto Grande oggi
detta cascata la nuova città fu chiamata Salto Grande.In pochi anni le abitazioni crebbero. Gli emigrati italiani giunsero da tutto il Brasile con l'intenzione di aggregarsi alla
 "tribù del Pocai". Adesso gli italiani erano padroni di un intera regione, incominciarono a coltivare il caffè, canne da zucchero, si costruirono chiese e negozi.Il suo capo incontrastato rimase Pietro Pocai fino al giorno della sua morte avvenuta l'8 settembre 1913.

Queste storie nella loro eccezionalità  un po' si assomigliano tutte. Simili furono i fatti che capitarono ad Angelo Guazzelli di Chiozza che trovò il suo paradiso terrestre sulle sponde del fiume Apiay a trecento chilometri da San Paolo del Brasile, qui vi costruì la prima capanna, in poco tempo ne sorsero altre e altre ancora, nacque così nel 1886 la città di Bury. Stessa cosa per Polinice Mattei di San Romano Garfagnana, uomo dalle idee politiche ben chiare e quindi spesso in contrasto con il governo locale, la sua caparbietà lo portò quindi a fondare una città tutta sua: Tanabi. Oggi questo luogo insieme ai suoi 25.000 abitanti può vantare una università e una squadra di calcio di buon livello. Pasquale Toti di Cardoso invece è il padre di Uberaba, situata nello stato del Minas Gerais anch'essa in Brasile. Questa terra si prestò subito  a nuovi tipi di cultura mai provati nella Valle del Serchio, come la soia e la canna da zucchero ed in più sterminati pascoli favorirono il nascere di intere mandrie di mucche, insomma anche nel XI secolo questa regione rimane uno dei centri agricoli più importanti del Paese. Addirittura c'è chi fondò una città in collaborazione tra fratelli e per buona fortuna non andò a finire come fra Romolo
festa dei fondatori di Rudge Ramos
e Remo e ad onor del vero, Tommaso, Adelfo e Romualdo Piagentini da Chiozza con buona pace e rimboccandosi le maniche costruirono le prima case di Rudge Ramos e così nacque ufficialmente il nuovo villaggio nel giorno di Santo Stefano del 1891 con l'autorizzazione avuta dalla diocesi di San Paolo nel dire la prima messa nella nuova chiesa, proprio in quelle terre che alcuni anni prima i fratelli Piagentini avevano acquistato dalla Stato paulista.

Per l'emigrato la conquista di una casa propria non è solamente uno dei più rassicuranti segnali di condizioni economiche è anche il luogo in cui ci si può sentire "solamente" se stessi. Alcuni garfagnini non si accontentarono di una semplice casa, furono
Tommaso Piagentini, uno
dei tre fratelli fondatore
di Rudge Ramos
 dei nuovi coloni, fu un percorso singolare, alla maniera cinematografica di "C'era una volta il West". L'aver avuto parte in queste nascite meritò ai protagonisti il meritato titolo di "fondatori di città". 



Bibliografia

  • "Storie di ieri, di oggi, di donne, di uomini" Fondazione Paolo Cresci per la storia dell'emigrazione italiana

Non solo Pascoli. Viaggio nei poeti garfagnini di una volta

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Per l'amor di Dio, ci mancherebbe altro! Il Pascoli è sempre il
Pascoli e i paragoni che andrò a fare possono essere effettivamente irriverenti. Lungi da me quindi fare certi confronti impari, d'altronde certi versi come questo non s'inventano a caso:

Al mio cantuccio, donde non sento
se non le reste brusir del grano
il suon dell'ore vien col vento
dal non veduto borgo montano,
suono che uguale, blando cade,
come una voce che persuade
(L'Ora di Barga 1907)

Comunque sia, proprio al tempo del Pascoli e nei decenni seguenti la Garfagnana ha avuto la sua bella  schiera di poeti locali, conosciuti però solamente negli ambiti nostrali e poi purtroppo miseramente ed ingiustamente dimenticati. Questo articolo allora rivuole dare lustro a tutti quei cantori di versi che per lungo tempo sono stati all'ombra del grande Giovanni Pascoli. Eppure anche quelli nella loro modestia erano poeti di tutto rispetto, dotati di tecniche metriche innate, di fantasia e di sentimenti profondi. Il tutto nasceva dalla spontaneità poichè nessuno insegnava loro come fare versi e la loro lingua non era il forbito e melodioso italiano di inizio secolo ma bensì il dialetto garfagnino che per molti secoli fu l'unico mezzo di espressione. Ci si sentiva liberi così da ogni inceppo della cultura, la creatività non veniva ostacolata e la metrica scorreva spontanea. Molti di questi personaggi erano persone particolari, estroverse e divertenti come Luigi Prosperi nato a Careggine nel 1832 e semplicemente conosciuto come il "Chioccoron"(per saperne di più leggi http://paolomarzi.blogspot.it/2014/03/il-chioccoron-il-poeta-che-oso-farsi.html). Di famiglia modesta, finita la scuola cominciò a lavorare nei campi, ma già il maestro
Careggine
elementare aveva visto in lui un'abilità innata nel comporre versi e la passione per la letteratura per il "Chioccoron" diventò quasi maniacale. Nelle osterie del paese non mancava occasione che gli amici lo invitassero a "poetare", riusciva a declamare "a braccio" poesie talvolta piccanti e irriguardose nei confronti delle autorità locali, tant'è che il sindaco un giorno mandò i carabinieri per riportarlo all'ordine, il Prosperi fuggì nel bosco e dalla cima di un colle cantò una quartina rimasta memorabile:


"Son venuti gli angioletti
per portarmi alle prigioni
non pensavano i minchioni
c'io passato avrei i colletti" 

L'apice il "Chioccoron" lo toccò quando menzionò in una sua poesia i quattro artefici dell'Unità d'Italia: Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini e Cavour, questa "composizione gravemente denigratoria" (come al tempo fu definita) giunse perfino a Roma dove fu pubblicata, arrivando addirittura nelle mani del Re d'Italia Umberto I che convocò al Quirinale il poeta garfagnino, fra un rimbrotto ed un altro il re lo perdonò regalandogli anche una banconota da 50 lire; - Comprateci il pane per la vostra famiglia!- affermò il re. Oggi al "Chioccoron"è dedicata la biblioteca comunale di Careggine.
Amico e nemico del "Chioccoron" era il "Boccabugia" di Vergemoli al secolo Andrea Jacopo Vanni altro poeta estemporaneo. Rimarranno epiche le sfide del giovedì mattina (giorno di mercato) nella piazza principale di Castelnuovo Garfagnana, quando a "colpi" di versi incantavano e meravigliavano una platea divertita e numerosa. Il
Il concorso di poesia
che si tiene tutti gli
anni a Vergemoli
 dedicato al Boccabugia
"
Boccabugia" era così chiamato per la totale assenza di denti, ma questo non lo fermava nel suo declamare. La sua figura ironica e beffarda aleggia ancora a Vergemoli, dato che dal 1972 ogni anno la seconda domenica di agosto un concorso di poesia estemporanea vive ancora nel suo nome.
Personalmente parlando, Pietro Bonini poeta castelnovese, aveva qualcosa di più degli ultime due citati. Per trenta lunghi anni scrisse versi in dialetto garfagnino, poesiole niente di più, ma avevano il pregio di essere immediate, aderenti ai fatti, alle persone e agli aspetti della natura. Nel 1916 pubblicò un libro con un titolo indovinatissimo che rispettava in pieno la sua arte popolare: "Cose da contà a vejo":

"Dico quello che penso e nulla più
vojo parlà come si parla qui, 
e se a qualcun qualcosa non va giù
che si ni vadi a fassi binidi"

Alcuni letterati parlavano del Bonini come se venisse da una famiglia agiata. Altri pensavano che non avesse nemmeno un titolo di studio e forse la tesi giusta è questa, dato che lui stesso in uno dei suoi componimenti diceva:

"Da cicco mi mandavino alla scòla
senza sapè che ci dovevo fà
e infatti c'imparai una cosa sola:
la strada per andacci e per tornà"

Giovan Battista Santini (nato a Castiglione Garfagnana nel 1882)
Santini mentre dipinge
invece era tutt'altro tipo, era un'artista a tutto tondo: era pittore, scrittore e poeta. Quando il tempo si faceva uggioso e la luce non era favorevole per dipingere i suoi quadri, allora si metteva a scrivere. Pubblicò un libro di poesie intitolato "All'ombra del torrione", anche questo libro in rigoroso dialetto garfagnino. Una poesia di lui (fra le tante) mi è piaciuta molto, perchè attuale e perchè ci fa capire che nonostante tutto i tempi cambiano ma la musica è sempre la solita:


Politica

"Se tu leci un qualunque manifesto
della schifa campagna'letttorale,
sia rosso, bianco, verde, o liperale 
non ci n'è un che s'appresenti onesto

Cambia 'l colore ma nun cambia 'l testo 
per via che la promessa è sempre uguale:
pace, lavoro; e, cosa principale,
lipertà d'esse porco e disonesto.

Se ci fai caso, vederai che questo
lo promettono avanti l'elezioni;
ma doppo, che votando, hai fatto 'l gesto
ditto sovran, di nominà i mangioni, 
abbadà di stà 'n guardia e d'esse lesto,
sennò ti pijn a calci ni cojoni"

Il "Togno della Nena", ovverosia Michele Pennacchi, benchè fosse
Il Togno della Nena mentre declama
nato nell'800 fra tutti i poeti garfagnini era il più attuale e al passo con i tempi. Il professor Guglielmo Lera (uno dei maggiori esperti di cultura locale)sul periodico "La Garfagnana" così scriveva di lui:"Come tutti i veri poeti dialettali il Pennacchi canta le cose che l'hanno colpito: le conquiste spaziali, la fame nel mondo, la guerra del Medio Oriente, quella del Vietnam, il...festival di Sanremo". A conferma di ciò la famosa legge sul divorzio del 1970 stuzzicò la fantasia del "Togno":


Il Divorzio

Bella robba davero! Ma dich'io,
in du èn finiti i poveri itagliani?
li vojen fa vinì peggiod'i cani,
che cambin sempre cagna, giuraddio?

E' inutile che adesso il parlamento 
facci la cuncurrenza al Padreterno
io arispetto le leggi del guverno
ma un sagramento è sempre un sagramento

(ndr: della poesia queste sono rispettivamente la terza e la decima quartina sulle undici dell'intera versione)

Fra tutti questi cantori non poteva mancare sicuramente Alfezio Giannotti di Eglio. La sua fu una vita tormentata, presto rimase orfano del padre e dovette quindi farsi carico di tutti i fratelli, questo non gli impedì di proseguire gli studi su Dante, Foscolo e Giusti. Nel 1911 dette alle stampe il suo primo libro di poesie, "Raffiche". Tre anni più tardi fu ammesso ad un concorso letterario di una nota rivista dell'epoca: "Juventus", al quale potevano partecipare solo poeti già affermati. Fu un vero trionfo, vinse su circa mille concorrenti. Dietro l'angolo però l'aspettava la prima guerra mondiale, tornò al paesello con una gamba amputata, nonostante tutto continuò a comporre poesie e a scrivere su dei quotidiani firmandosi con lo pseudonimo"il Grillorosso". La sventura si accanì definitivamente contro di lui il 7 ottobre 1944, durante un bombardamento una granata lo uccise mentre andava a soccorrere un ferito.
Questo poeta invece l'ho lasciato volutamente per ultimo, perchè è
Silvano Valiensi (il primo a sinistra)
insieme a mio padre (il terzo in piedi)
il mio preferito e perchè ho avuto l'onore di essere suo amico. Silvano Valiensi nato a Vergemoli nel 1923 (ma trasferito da sposato a Gallicano), in paese era conosciuto semplicemente come "il maestro", era una persona che tutti amavano per la sua bonarietà-burbera dei vecchi maestri elementari di una volta. La sua fu una vita spesa in gioventù nel gruppo partigiano Valanga, nella scuola, nell'amore che aveva per le Apuane e infine aveva una forte passione per la poesia, interesse quasi sempre celato, mai pubblicizzato, tranne che in alcune rare apparizioni ai concorsi poetici. Le sue poesie infatti girano intorno a quella che fu la sua vita, la mente per esempio ritorna alle lotte partigiane e ai compagni morti:


...cari compagni miei, tutti ventenni
caduti fra le rocce,in mezzo al timo
e alle gialle ginestre, arsi dal sole,
con su le labbra spente, le parole:
"Ho dato tutto per la libertà"

Non potevano mancare poesie rivolte alle sue montagne: le Apuane che amava scalare in ogni stagione:

...d'estate sotto il sole mi bruciavo;
d'inverno fra le raffiche del vento,
fra la tormenta e il ghiaccio ero contento;
di tutto il resto mi dimenticavo...

Tornava anche a galla la nostalgia dei tempi andati quando:

Sapeimo legge e scrice gnente male
e 'n più vangà 'na porca (n.d.r: lo spazio fra due solchi della terra) e segà 'l fieno

(per leggere ancora di Valiensi leggi http://paolomarzi.blogspot.it/2014/05/silvano-valiensi-partigianomaestro-e.html)

Finisce qui questo breve viaggio nei poeti garfagnini di una volta,
un viaggio che ci ha fatto conoscere una porzione di gente di Garfagnana che forse in buona parte ignoravamo. Quindi non è vero come dicevano una volta che la Garfagnana era terra di lupi e di briganti...ma è più giusto dire: terra di lupi, briganti e poeti... 



Bibliografia:

  • "Il vernacolo garfagnino e i suoi poeti" di Gian Mirola. Nuova grafica lucchese 1973
  • "Profili di uomini illustri della Garfagnane della Valle del Serchio" di Giulio Simonini Banca dell'identità e della memoria 2009
  • "Faccio versi così come si cantas quando qualcosa dentro mi fa male" di Silvano Valiensi. Unione dei comuni della Garfagnana 2014

Leggende medievali garfagnine: " Il cerbiatto bianco e la dama ripugnante"

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-Ascolta Paolo, ti voglio raccontare una storia, in modo che quando
avrò finito di raccontarla ti sembrerà di averla vissuta veramente-. Con queste parole la signora Alma inizia a raccontarmi una delle leggende più belle che io abbia mai sentito, così mi affretto a prendere il mio smartphone dalle tasche e ad impostare la registrazione vocale. La leggenda si svolge intorno all'anno mille, quando la Garfagnana  
non aveva un padrone ben definito, ma era tenuta in scacco da una folta schiera di signorotti che con un semplice:-Qui c'è mio !- istituirono posti di blocco, pretesero obbedienza, pedaggi e contributi. La leggenda difatti coinvolge uno di questi signori locali, tale Gherardo di Gottifredo signore delle Verrucole (n.d.r: personaggio realmente esistito) ed un essere mitologico fra i più belli in assoluto: il cerbiatto bianco. Questo animale nelle leggende garfagnine lo sentiamo nominare solo due volte e ciò rende ancor più rara questa storia. I nostri racconti tradizionali di solito sono infestati di lupi, orsi, buffardelli, l'Omo Verde, personaggi tipici alla conformità geografica della valle. Il cerbiatto bianco invece  è fuori da questi canoni e fa parte di quegli esseri dotati di forza magica, nella tradizione celtica sono considerati messaggeri dell'aldilà e secondo leggende sono creature impossibili da catturare e la caccia dell'animale da parte dell'uomo rappresenta la ricerca della sua spiritualità. Si dice inoltre che coloro che riescono a vedere l'animale stanno per vivere un momento di grande importanza a conferma di questo ecco il racconto della signora Alma che parla di questa leggenda ritrovata in manoscritti risalenti al XIV-XV secolo:
Sulle pagine di questo antico testo leggiamo che Gherardo di
Lo stemma di
 Gherardo di Gottifredo
Gottifredo signore delle Verrucole, durante una battuta di caccia, si imbatte in un favoloso cerbiatto bianco, che nelle leggende celtiche è spesso preludio di fantastiche avventure nell’altromondo. Affascinato dalla sua bellezza, egli lo insegue a lungo e quando finalmente riesce a raggiungerlo, lo uccide. In quell’istante, però, un cavaliere dalla sfarzosa armatura gli appare dinnanzi e, rivolgendosi a lui in maniera aggressiva, lo rimprovera aspramente per aver concesso al proprio nipote Lorenzo alcune terre che invece erano di sua proprietà. Il misterioso uomo, che dice di chiamarsi Aldobrandino, minaccia di morte il signorotto locale per questo oltraggio, ma poco prima di mozzargli la testa decide di offrirgli la possibilità di riscattarsi. Se infatti Gherardo, trascorso un anno esatto, si presenterà nello stesso luogo dell’incontro con la risposta ad una misteriosa domanda postagli dal suo avversario, potrà avere salva la vita. La domanda del cavaliere è “Qual è la cosa che la donna desidera di più?”. Gherardo dalle Verrucole accetta il compromesso e, terminata la caccia, torna al suo castello. Nonostante cerchi di non far trapelare i suoi pensieri, il nipote prediletto Lorenzo si accorge della sua preoccupazione e gli chiede quale mai possa esserne il motivo. Gherardo risponde raccontandogli la sua avventura nel bosco e il timore di non riuscire a trovare la vera soluzione all’enigma, così il nipote decide di aiutarlo. Insieme partono all’alba, prendendo direzioni diverse per porre la domanda a più donne possibili. Queste, però, rispondono dicendo che desiderano abiti lussuosi, un uomo valoroso che le sposi, oppure denaro e piccole soddisfazioni materiali; tutte cose che non convincono i due cavalieri. Intanto l’anno trascorre velocemente e Gherardo, seppur abbia riempito due

grossi libri con le risposte di tutte le donne del feudo, non ne ha ancora trovata una che sia veramente soddisfacente. Sulla via che conduce al luogo dell’incontro, in cui Aldobrandino lo attende, egli incontra una dama che cavalca un mulo, con un liuto appeso in spalla. La donna, di nome Lodovica, è davvero terrificante, indescrivibilmente brutta, con la faccia tutta rossa, i denti gialli e storti, le guance enormi, gli occhi simili a quelli di un gufo e il corpo completamente deformato. Ella dichiara che nessuna delle risposte che egli porta con sé è quella giusta, perché l’unica che conosce quella esatta è lei. Tuttavia gliela comunicherà volentieri, a patto che egli le prometta di recarla in moglie al suo caro Lorenzo, in cambio del qual gesto potrà avere salva la vita. Indeciso sul da farsi, data la tremenda bruttezza della dama, Gherardo torna di corsa al castello per confidare a Lorenzo l’accaduto. Il giovane e splendido combattente accetta senza esitazione di sposare Lodovica, nonostante il suo brutto aspetto; così Gherardo, ripresa la strada per il bosco, raggiunge la dama per riferirle la decisione e ricevere la risposta. Ludovica, allora, gli rivela che la cosa che la donna desidera di più è la sovranità. Il riconoscimento completo della sua sacra ed innata Libertà. Recatosi da Aldobrandino, Gherardo risponde alla sua domanda, così l’uomo lo risparmia. Di ritorno al castello delle Verrucole vengono subito
Gherardo di Gottifredo
Signore delle Verrucole
messi in atto i preparativi per le nozze, che la sposa desidera ricchi di cerimonie e festeggiamenti, perché tutti possano conoscere e vedere con i propri occhi qual è stata la scelta di Lorenzo. Dopo il matrimonio i due sposi si ritirano nelle loro stanze e Lodovica chiede gentilmente a Lorenzo di darle un bacio. Il giovane non esita un momento e, anzi, dice alla sua sposa che non farà solo questo, ma adempierà pienamente al suo dovere di marito, giacendo amorevolmente con lei. Ma non appena pronuncia queste parole, voltandosi verso la donna, scopre che al posto della tremenda dama ripugnante vi è la fanciulla più bella mai vista sulla Terra. Sorridendo al cavaliere, Lodovica gli svela di essere stata vittima di un incantesimo, una maledizione terribile che si sarebbe spezzata soltanto quando un uomo fosse riuscito a guardare oltre la sua bruttezza e l’avrebbe sposata. L’incantesimo però non è ancora del tutto spezzato e la fanciulla dice che solo per una metà del giorno potrà essere così bella, mentre per l’altra metà tornerà ad essere la dama ripugnante. Spetta a Lorenzo decidere se la vorrà bella di notte, tra le morbide coperte, oppure di giorno, di fronte a tutta la corte; ma il cavaliere, dopo averci riflettuto, lascia a lei la libertà di scelta, l’unica che può scegliere per se stessa. A tali parole la splendida dama esulta raggiante, poiché questa era la risposta che come d’incanto avrebbe rotto definitivamente il maleficio. Riacquistata la sua sacra Libertà, Lodovica potrà rimanere sempre bella, come ella stessa desidera. E la sua Sovranità investirà dolcemente Lorenzo fino alla fine dei suoi giorni.
 


Interrompo la registrazione, la storia è finita... ecco che piano, piano ritorno al mondo reale. Eppure ero lì, il cerbiatto bianco l'ho visto anch'io, e ho vissuto momenti di paura reale mentre Aldobrandino sta per tagliare la testa a Gherardo e che bella che è Lodovica adesso...Peccato, spariti i cavalieri e i castelli salgo mestamente in auto verso casa, ringrazio Alma per il bellissimo racconto e nonostante tutto torno a casa soddisfatto, perchè anche questa leggenda garfagnina è stata salvata dall'oblio dei tempi. 

I liberatori venuti dal Brasile. La F.E.B in Garfagnana 1944-1945

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I meriti sono sempre i loro, non è che non ce l'abbiano, anzi, ma
l'America in fatto di guerra quando la vince si prende quasi tutti gli onori (senza condividerli), mentre quando la perde non la perde... non ha semplicemente vinto... è un po' il solito giochino dei nostri politici che ad elezioni avvenute nessuno esce mai sconfitto. A parte ciò, tornando a parlare di guerra questo fenomeno è tipicamente americano e questo ben si dovrebbe sapere anche in Garfagnana, poichè certi onori vanno condivisi e riconosciuti... Chi ha liberato fattivamente la Garfagnana dalle forze nazi-fasciste nella seconda guerra mondiale? In coro la maggioranza di voi mi risponderà gli americani (e in buonissima parte è vero), ma coloro che nei nostri martoriati paesi misero per primi il naso sotto il fuoco incessante degli MP40  tedeschi furono i brasiliani. Quindi diamo a Cesare quello che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio...Si, perchè furono loro, i brasiliani, a liberare e ad entrare per primi nei nostri borghi, furono loro che persero (circa)duemila uomini per liberare l'Italia dall'oppressione nemica, loro, che erano conosciuti semplicemente come F.E.B ovverosia Força Expedicionária Brasileira (Forza di spedizione brasiliana), perchè come vedremo Brasile non è solo calcio e samba. 
il presidente Vargas
Prima di analizzare come i brasiliani operarono in Garfagnana approfondiamo il perchè una nazione lontana migliaia e migliaia di chilometri arrivò a fare una campagna di guerra in Italia. Innanzitutto cominciamo con il dire che il Brasile fu l'unica nazione sudamericana a partecipare attivamente alla guerra, anche se nel 1939 (all'inizio del conflitto) il paese era ancora neutrale, coerente con la politica del suo presidente Vargas che furbescamente decise di non farsi nemica nessuna super potenza in modo di godere dei vantaggi offerti da queste. Questa scaltra manovra durò fino al 1942 quando gli Stati Uniti bussarono alla porta di un Brasile dal governo a dir poco vacillante, chiedendo (o meglio ordinando)l'uso dell'isola di Fernando de Noronhae e della costa nord orientale brasiliana per il rifornimento delle loro basi militari, inoltre dal gennaio del medesimo anno i sommergibili italo- tedeschi iniziarono una serie di siluramenti contro navi mercantili brasiliane, questo attacco contro le navi carioca mirava a isolare il Regno Unito impedendo così di ricevere forniture vitali dal continente sudamericano a sostegno della guerra. Questi attacchi avevano anche un'altro scopo, cioè quello di intimidire il governo brasiliano, in modo che si mantenesse neutrale, dall'altra parte agenti segreti infiltrati e fascisti brasiliani diffondevano la voce che gli affondamenti fossero opera degli stessi anglo americani interessati all'ingresso del Brasile in guerra. Insomma, la situazione non era delle più chiare ma tuttavia l'opinione pubblica non si fece abbindolare, le morte dei civili e i proclami provocatori di Hitler fecero chiedere a gran voce dal popolo lo stato di belligeranza contro i paesi dell'Asse. Detto, fatto ! Il 22 agosto 1942 il Brasile dichiarò guerra all'Italia fascista e alla Germania nazista.
Finalmente dopo due lunghi anni d'attesa da quel 22 agosto 1942
La FEB sta per sbarcare a Napoli
arrivò in Italia sbarcando a Napoli
(era il 2 luglio 1944) il primo scaglione della F.E.B sotto il comando generale di Joao Batista Mascarenhas Morais. L'ambientamento fu subito difficile, le prime settimane furono dedicate all'acclimatamento e all'addestramento, tutto naturalmente sotto la supervisione statunitense, la quale F.E.B. era subordinata. La Força Expedicionária Brasileira fu integrata così in seno al IV corpo d'armata americano sotto il comando del generale Crittemberger, corpo a sua volta assegnato alla mitica V armata comandata dal generale Clark. Quindi era tutto pronto per cominciare le difficili battaglie che attendevano i brasiliani, mancava ancora una cosa, un dettaglio se si vuole, che in qualche maniera contraddistinguesse la F.E.B dagli altri battaglioni integrati dagli Stati Uniti presenti da ogni parte del globo (giapponesi, africani, indiani...): il simbolo. Il simbolo fu infatti realizzato quando le truppe erano già in Italia e tale emblema raffigurava curiosamente un serpente che fuma la pipa, come risposta ironica a chi in Brasile
lo stemma della FEB
sosteneva che era più facile vedere un serpente fumare piuttosto che l'esercito brasiliano partecipare alla guerra in Europa. Curiosità nella curiosità il bozzetto del disegno fu approvato dal ministro della guerra Dutra, durante la visita alle proprie truppe fatta alla metà dell'ottobre '44 quando la F.E.B si trovava proprio in Garfagnana. Venne così iniziata una produzione artigianale presso le varie famiglie garfagnine che ospitavano i soldati, dove le donne si davano da fare a realizzare queste simpatiche figure che poi venivano cucite sulla manica sinistra della giacchetta militare in modo da diversificarsi dagli altri alleati che portavano il loro simbolo rigorosamente a destra. -A cobra està fumando!!!- divenne anche il grido di battaglia e anche stavolta il brasiliano seppe distinguersi, mentre gli altri usavano simboli di forza come teschi, coltelli, fucili, la F.E.B fu presto identificata come "i soldati del cobra che fuma". Fu tale il successo di questa effige che anche Walt Disney ne realizzò un ulteriore bozzetto, ma non venne mai usato dalle truppe. 

La Força Expedicionária Brasileira entrò così in combattimento in Garfagnana e nella Valle del Serchio nel settembre 1944 forte di 25.334 soldati(un secondo contingente si aggregherà nel febbraio 1945), le difficoltà però furono subito evidenti. La carenza di equipaggiamento e del vestiario sopratutto fu la prima cosa che si rese necessaria da cambiare. La divisa d'ordinanza non era sicuramente adatta ai rigidi inverni garfagnini, molti brasiliani poi nei mesi a seguire incontreranno nel loro cammino anche la neve, cosa che loro non avevano mai visto. A fargli la vita difficile ci si mise anche la caratteristica spocchia degli americani stessi, ne è testimone questo singolare episodio che è stato raccolto proprio da dichiarazioni brasiliane e racconta che in una radura in Garfagnana le truppe americane dividevano il campo con le truppe brasiliane. Gli alloggi brasiliani si trovavano a circa duecento metri da quelli americani ma c'era la totale libertà di andare e venire da un campo all'altro, ad un certo punto i brasiliani si
Brasiliani della FEB
(forcaexpedicionariabrasileira1944.
wordpress.com )
accorgono che dalla dispensa sta scomparendo del cibo e anche munizioni, i responsabili di cucina avvertono subito il comandante che gli americani sono stati scoperti a rubare. Il comandante brasiliano così va a parlare con il collega americano che una volta ascoltata la storia e si mette sonoramente a ridere:- Questa è una guerra, non un college, se non sapete proteggere il vostro materiale è un problema che riguarda solo voi...- 
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Nonostante tutto, in precedenza i brasiliani era già entrati in linea di combattimento nell'agosto 1944 nella zona di Vecchiano (Pisa) e dopo aver liberato Massarosa e Camaiore e aver tenuto un buon comportamento nell'inseguimento dei nazisti in ritirata, i soldati furono spostati come detto nella Valle del Serchio, dove trovarono subito una forte resistenza in Val Pedogna alle porte di Pescaglia. Il 28 settembre i brasiliani ebbero la meglio ed entrarono in paese, li si unirono alla 92° Divisione Buffalo e insieme il 30 settembre entrarono in Borgo a Mozzano, qui stabilirono il proprio comando. In quei giorni non mancò la collaborazione con i partigiani locali e tra il 26 e il
La FEB passata in rassegna a
 Borgo a Mozzano sullo sfondo
il Ponte del Diavolo)
27 settembre il gruppo partigiano "Valanga" prese il controllo del Monte Croce e del Matanna. Sull'altro versante il 1° ottobre gli americani riuscirono ad entrare a Bagni di Lucca, mentre i tedeschi in fuga continuavano la loro opera di distruzione delle varie infrastrutture. Nella solita settimana la F.E.B avanzò di ben 20 chilometri, liberando il 6 ottobre Fornaci e occupando di fatto anche la S.M.I. Il giorno dopo alle 12:15 una pattuglia brasiliana si spinse fino a Barga oramai abbandonata, ma tornò indietro, due giorni dopo alle 10:30 gli alleati con i volti dei brasiliani liberarono e occuparono Barga, a seguire uguale sorte toccò a Gallicano, Sommocolonia, Ghivizzano e Pian di Coreglia. Lo scoglio più duro doveva però ancora venire poichè il fronte si attestò (come ben si sa) sulla Linea Gotica, qui i brasiliani nel tentativo di sfondare per raggiungere Castelnuovo Garfagnana persero molti uomini. Il generale carioca Zenobio cercò di consolidare le posizioni e mandava di tanto in tanto pattuglie in avanscoperta per studiare le operazioni nemiche, così la mattina del 30 ottobre malgrado la forte pioggia si decise l'attacco su
Soldati brasiliani in posa in
 Piazza Garibaldi
a Borgo a Mozzano
Castelnuovo. I contrattacchi tedeschi furono impetuosi e costrinsero i brasiliani a ritirarsi, questo fu l'unico loro fallimento nella campagna di guerra nella nostra valle, nonostante la ritirata furono catturati 208 prigionieri ma purtroppo 290 soldati della F.E.B persero la vita. Questa fu così la loro ultima operazione militare in terra di Garfagnana, il destino della F.E.B prosegui con successo sull'appennino bolognese e modenese, nella provincia di Parma, Reggio Emilia e in parte del nord Italia in genere. 
In questa campagna il Brasile catturò più di ventimila soldati
Brasiliani liberatori
nemici (14.779 solo a Fornovo in provincia di Parma), ottanta cannoni,millecinquecento autovetture e quattromila cavalli, ma quello che pesò di più furono gli oltre duemila morti nelle proprie file che in parte furono sepolti a Pistoia. Nel 1960 furono poi 
trasferiti in Brasile nel monumento che fu eretto nell'Aterro do Flamengo a Rio de Janeiro in onore del loro sacrificio.Cinque anni
dopo sempre a Pistoia nello stesso luogo dove si trovava il cimitero si inizio a costruire il Monumento Votivo Militare Brasiliano, durante i lavori venne ritrovato un corpo mai identificato, si decise così di lasciarlo nel sacrario stesso come milite ignoto.
Nonostante le indubbie avversità la F.E.B tenne sempre un comportamento irreprensibile distinguendosi per coraggio ed energia in tutte le operazioni in cui venne impiegata. Onore alla F.E.B !!!






Bibliografia

  • Si ringrazia sentitamente il portale web portalfeb.com e il signor Caetano Silva per le preziose notizie fornite
  • Notizie tratte anche da: brasilescola.uol.com.br/historiag/forca-expedicionaria-brasileira-feb.htm
  • Questo articolo naturalmente non ha la pretesa di completare tutto l'argomento. Per una maggiore completezza consiglio il libro "Il Brasile in guerra: la Força expedicionária brasileira in Italia" dell'amico Andrea Giannasi 

Una storia antica: il pane di patate della Garfagnana e... del forno a legna

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Era proprio (ed è) un'altra cosa...Vuoi mettere una qualsiasi
pietanza cotta in un forno a legna con un altra qualsivoglia cotta in qualunque altro forno? Non c'è paragone. Il sapore, la fragranza e la bontà che da il forno a legna ai cibi resta ineguagliabile. Negli anni passati il forno a legna rappresentava un elemento fondamentale all'interno delle case contadine della Garfagnana, dal momento che il forno veniva considerato il punto focale della casa, fornendo calore, ma sopratutto cibi dai sapori antichi. Questo lo scoprirono già un milione e mezzo di anni fa, quando l'Homo Erectus riuscì a domare il fuoco ed a scoprirne le sue potenzialità, probabilmente un fulmine che infiammò un ramo di un albero fece scattare l'idea dell'utilizzo di quel ramo per migliorare il cibo. Dobbiamo comunque aspettare 29.000 anni e l'Homo Sapiens per giungere alla costruzione di un primo rudimentale forno: una fossa interrata dove veniva messo il cibo, spesso coperto da fogliame, ma tuttavia siamo sempre lontanissimi da quello che poteva somigliare al forno a legna dei nostri nonni. Il forno a legna inteso come lo concepiamo oggi è un'invenzione degli egizi nel 5000 a.C. Alcuni di questi forni sono arrivati perfino ai giorni nostri ed erano costituiti da una struttura conica costruita in mattoni d'argilla del Nilo, aveva un apertura superiore dove si metteva il cibo che era separata da quella inferiore dove si accendeva il fuoco da una lastra di pietra la quale assorbiva il calore della fiamma e lo trasmetteva poi alla parte superiore. Le migliorie con i secoli non mancarono e così anche i greci ci vollero mettere "lo zampino" perfezionando ancor di
Forno a legna egizio
più questa utilissima invenzione, sviluppando l'odierna volta a cupola che evolvendo divenne poi a camera unica con apertura frontale che insieme ad altri accorgimenti permetteva una minore dispersione del calore. I romani naturalmente non potevano mancare a questa evoluzione e una volta imparato dagli stessi greci l'arte di costruire forni vollero dire la loro in materia e siccome erano molto bravi nella costruzioni degli archi applicarono questa loro abilità al forno a legna, infatti decisero che la parte interna doveva essere ad arco, contornando il tutto da un intercapedine vuota che aveva il compito di creare un isolamento termico. Fu una vera e propria rivoluzione alimentare e gastronomica per i nostri cari romani tanto che il re Numa Pompilio introdusse una serie di festeggiamenti chiamati fornacalia. La fornacalia era un'antica festa romana che veniva celebrata nella prima quindicina di febbraio in onore della dea Fornace che era la divinità del forno in cui si cuoce il pane, era a lei che bisognava affidarsi per il buon funzionamento del forno e la buona riuscita del pane. Difatti oggi (e ancor di più al tempo dei nostri avi) il forno a legna serviva sopratutto per cuocere il pane...e che pane!!! Su questo argomento ne sappiamo qualcosa in Garfagnana, dove il pane garfagnino è noto come il pane di patate. Un antica specialità tipicamente locale che può essere datata intorno alla fine del settecento, quando le patate furono introdotte nella nostra valle, qui trovarono subito una terra adatta a ospitare la loro coltivazione, diventando ben presto uno dei prodotti principali dell'economia nostrale. Questo pane è un tipo di pane rustico, faceva parte dei cosiddetti cibi poveri nato dall'esigenza di sostituire gli altri cereali in annate di carestia, integrando così la farina di grano con patate lesse schiacciate. Aveva due caratteristiche principali questa prelibatezza, la morbidezza e sopratutto la lunga durata di
conservazione. Tutto questo era appunto dovuto alle patate che venivano messe nell'impasto e grazie proprio all'umidità di questi tuberi permetteva al pane di mantenersi morbido e di durare per molto tempo. In questo modo le massaie garfagnine impegnate nel lavoro nei campi potevano prepararlo anche una sola volta a settimana, di solito era il sabato il giorno dedicato alla panificazione e una volta sfornato e fatto freddare veniva poi riposto nelle classiche madie. Le pregiate patate indicate per il particolare tipo d'impasto del pane garfagnino (detto anche il "il panon") solitamente provengono da coltivazioni situate nel comune di Sillano, a Metello e Dalli a circa 1200 metri d'altezza. Tutt'ora nelle famiglie garfagnine non è raro che settimanalmente si prepari il pane di patate come una volta, mani sapienti ancora preparano il suo impasto che si ricava mescolando farina di grano tenero o integrale (e in alcuni casi anche di farro), acqua, un pizzico di sale, olio extravergine di oliva, patate bollite e sbucciate (circa un 20% del peso della farina), un poco di semola tritello e lievito pasta madre. Il tutto viene mescolato e lavorato per una ventina di minuti e fatto poi riposare per circa un ora, prima della cottura. Alcuni impastano nuovamente il composto prima di formare le pagnotte che, una volta cosparse di farina di mais, vengono lasciate lievitare per un'ora e mezzo, due ore circa, prima di essere messe nel forno a legna ben caldo e cotte per circa trenta minuti. Una volta pronto il pane di patate si presenta di colore marrone più o meno scuro a seconda della cottura, la sua forma è ovale e raggiunge tranquillamente i due chili di peso. Il sapore è inteso,il suo profumo inebriante, il sapore di patate non è particolarmente deciso, ed è ottimo abbinato ai salumi garfagnini, in
particolare con il biroldo, la mondiola, lardo o pancetta.

Un antico adagio diceva che un vero contadino riconosce la sua terra dal sapore del suo pane...Niente di più vero per il pane di patate della Garfagnana!





Bibliografia

  • "Il pane di patate della Garfagnana. Un sapore frutto della tradizione toscana" La via dei pani delle Apuane di Luisa Malaguti

I cognomi più diffusi in Garfagnana e la loro storia

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Buffi, stravaganti, curiosi e talvolta simpatici: i cognomi hanno un
legame strettissimo con la storia, narrano le vicende di individui o di intere famiglie, sono strettamente legati ai luoghi e alle circostanze che li hanno generati. Infatti studiare questa materia, esplorare la genesi e l'etimologia di un cognome è il modo migliore per scoprire come vivevano i nostri antenati, che mestiere facevano e perfino quali caratteristiche fisiche li contraddistinguevano.
Naturalmente nemmeno la Garfagnana sfugge a queste peculiarità e la nascita dei nostri cognomi non si differenzia da quelli di tutto il resto d'Italia, ed effettivamente la loro comparsa vedeva la necessità di distinguere le persone fra loro e di censire la popolazione. I primissimi registri di nomi erano già presenti in epoca romana(questi romani erano proprio un passo avanti !!!) e i cittadini venivano segnati in base a tre criteri:

-praenomen: paragonabile al nome proprio di persona
-nomen: anche se il termine inganna è assimilabile al cognome odierno
-cognomen: riconducibile alla definizione contemporanea di soprannome

Tanto per far capire bene presumiamo che il prenomen (il nome) fosse Caio e il nomen o gens (ovverosia la famiglia di provenienza) fosse Giulia, quando questi due nomi non furono più sufficienti per distinguere le persone, poichè gli omonimi erano diventati troppi si aggiunse il cognomen (un soprannome)ad esempio Cesare che
curiosamente significa colui con gli occhi chiari. Ma perchè mi direte voi questi cognomi romani non sono giunti fino a noi? Semplicemente perchè dopo la caduta dell'impero romano i registri anagrafici andarono distrutti o perduti e nei secoli a venire con l'imbarbarimento della società non si senti il bisogno nè di cognomi nè di registri. Però come si sa i tempi cambiano e fra il X e l'XI secolo si ebbe una forte crescita demografica e per distinguere le persone e per rendere sicuri anche gli atti pubblici diventò nuovamente usuale l'uso del cognome da registrare poi nei municipi in cui si abitava. I campi in cui darsi un cognome erano vastissimi e potevano derivare da una caratteristica fisica (Biondi, Gobbi, Bassi, Mancini) o da un soprannome: Rossi ad esempio era attribuito alle persone rosse di capelli, ma non solo, anche dalla provenienza(Dal Colle, Monti, Piacentini), dal mestiere (Fabbri Cacciatori, Barbieri, Tintori), o anche dal capofamiglia (Di Francesco, Di Matteo), figuriamoci che anche i più sfortunati come "i trovatelli", (i piccoli pargoletti che venivano abbandonati negli orfanotrofi) troveranno il loro cognome, ma grazie al loro stato di abbandonati, ecco allora gli Esposito, Innocenti e Trovato. Ma c'è di più, e questo ci fa capire veramente quanto si può nascondere dietro ad un semplice cognome, dal momento che da un'attento studio linguistico si può capire il luogo d'origine della famiglia che lo porta. Analizziamo un cognome derivante da un mestiere, per esempio il fabbro e vediamo  così che di regione in regione ha prodotto cognomi diversi. In Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna è diventato Ferrari, Ferrario, Ferreri, in Toscana e Veneto eccolo trasformarsi in Fabbri e Favero, in Campania e Lazio in Forgione. A dissipare ogni dubbio e a rendere obbligatorio l'uso del cognome  ci pensò Santa Romana Chiesa nel 1564 quando con il Concilio di Trento stabilì che i preti dovessero tenere un registro con nome e cognome di tutti i battezzati. Oggi il 75% dei cognomi esistenti possono essere comprensibili nel loro significato originale, il
Il Concilio di Trento, qui si stabilì
l'obbligatorietà del cognome
resto hanno subito variazioni fonetiche o di trascrizione che ne hanno stravolto il senso originario.

Adesso per tirare le somme e per tornare alla nostra Garfagnana guardiamo comune per comune i primi cinque cognomi più diffusi. Ognuno poi tragga le sue conclusioni e faccia le sue ricerche o ne faccia tesoro per la pura e semplice curiosità.

Camporgiano

  1. Suffredini
  2. Luccarini 
  3. Comparini
  4. Grassi
  5. Bravi
Careggine
  1. Conti
  2. Franchi
  3. Puppa
  4. Poli
  5. Rossi
Castelnuovo Garfagnana
  1. Biagioni
  2. Dini
  3. Rossi
  4. Pieroni
  5. Bertoncini
Castiglione Garfagnana
  1. Rossi
  2. Pioli
  3. Lucchesi
  4. Giannotti
  5. Pieroni
Fabbriche di Vergemoli
  1. Graziani
  2. Giusti
  3. Mariani
  4. Paolini
  5. Rigali
Fosciandora
  1. Bonini
  2. Bertoncini
  3. Lunardi
  4. Nardini 
  5. Salotti
Gallicano
  1. Simonini
  2. Mazzanti
  3. Franchi
  4. Saisi
  5. Poli
Minucciano
  1. Romei
  2. Casotti
  3. Orsi
  4. Paladini
  5. Torre
Molazzana
  1. Biagioni 
  2. Battaglia
  3. Bertozzi
  4. Pieroni
  5. Rossi
Piazza al Serchio
  1. Bertei
  2. Fontanini
  3. Bertolini
  4. Ferri
  5. Borghesi
Pieve Fosciana
  1. Angelini
  2. Toni
  3. Bertoncini
  4. Pieroni
  5. Rossi
San Romano Garfagnana
  1. Santi
  2. Bravi
  3. Biagioni
  4. Crudeli
  5. Salotti
Sillano Giuncugnano
  1. Pagani
  2. Angeli
  3. Bertolini
  4. Danti
  5. Bosi
Vagli di Sotto
  1. Orsetti
  2. Coltelli
  3. Baisi
  4. Balducci
  5. Braccini
Villa Collemandina
  1. Lemmi
  2. Cerretti
  3. Manetti
  4. Mariani
  5. Pieroni
Aggiungerò a questa statistica anche Barga seppur considerata fuori dai classici "confini" garfagnini, in omaggio ai tanti lettori che ho in questo comune

Barga
  1. Gonnella
  2. Biagioni
  3. Bertoncini
  4. Santi
  5. Pieroni  
Facendo quindi un rapido consuntivo generale possiamo considerare che i cognomi più diffusi in Garfagnana sono:

  1. Rossi
  2. Pieroni
  3. Biagioni
  4. Bertoncini
  5. Poli, Franchi, Bertolini e Bravi (grosso modo si pareggiano)
Curiosamente il cognome Rossi che è  il più diffuso in Garfagnana è anche il più comune in Italia con 45.677 famiglie che portano questo cognome di cui 6.092 solo in Toscana.
In provincia di Lucca il segnale è in controtendenza, il cognome Rossi si trova solamente al settimo posto. Fra i primi cinque troviamo:
  1. Guidi 
  2. Papini
  3. Lucchesi
  4. Benedetti
  5. Pardini
Infine per chiudere questo originale e interessante argomento vi lascio un ultimo dato su cui pensare, tratto da uno studio fatto da Enzo
Toscana i cognomi cinesi superano
 quelli italiani
Caffarelli docente di onomastica e pubblicato sulla rivista Anci, il giornale dell'associazione dei comuni italiani, ebbene, il cognome più comune a Brescia è Singh (provenienza India e Pakistan), a Prato vince il cinese Chen, neanche a Milano scherzano i cinesi se è vero (come è vero) che gli Hu ormai battono i Brambilla ed a Imperia la medaglia d'argento è dei tunisini Fatnassi...


Bibliografia
  • Elenco dei cognomi garfagnini tratto da: Italia in dettaglio.it i comuni e la frazioni d'Italia. Da Reti e Sistemi s.r.l (dati aggiornati nel 2016)
  • "Gli italiani del XX secolo" ricerca sui cognomi italiani del professor Enzo Caffarelli pubblicata su Anci (aprile 2012)


"Il tiro della forma". Storia e origini di uno sport e di un mondo tutto particolare...

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Il momento del lancio
Chi vuole identificare la Garfagnana in un gioco non può pensar
altro che a "Il tiro della forma", inutile girarci intorno la passione, l'esaltazione e il fanatismo che ha dentro di sè questo sport nemmeno il calcio. Ormai si pratica in pochi luoghi della nostra valle, ma dove ancora si gioca intorno a se vive un mondo particolare, fatto di varia umanità, di strategie, di alleanze e di... scommesse. E' sempre stato così fin dai secoli scorsi, in certe epoche per evitare disordini sociali fu anche proibito il suo svolgimento in modo da tenere pacifiche le nostre umili comunità. Infatti il gioco ha origini antichissime e come ogni gioco che si rispetti ha le sue regole e le sue leggi. Ma andiamo per gradi e prima di approfondire l'argomento spieghiamo bene a chi non conosce questo passatempo in cosa consiste. Le sue regole generali sono semplici a dirsi: fra due contendenti vince colui che riesce a tirare (o meglio a far rotolare) una forma di formaggio il più lontano possibile, detto così lo scopo del gioco può essere quasi puerile, al limite dell'infantile, ma alla fine di questo articolo il mio ignaro lettore cambierà idea.
Il luogo in cui si svolge oggi (e sempre si è svolto) è all'aria
Il campo di gioco: il tiro (Gallicano anni 80)
(tratta da Daniele Saisi blog foto di
Adolfo Da Prato)
aperta, di solito è situato all'ombra dei nostri secolari castagni o nelle piane del fiume, nei tempi remoti il gioco si svolgeva però per le vie dei paesi. Ma per quale motivo in Garfagnana è nato e si è sviluppato questo anomalo e bizzarro divertimento? L'illustrissimo professor Alcide Rossi nel suo libro "Folklore garfagnino" del 1967 individua tre cause, la prima fa riferimento alle caratteristiche economiche della Garfagnana e quindi alla forte attività pastorizia e alla conseguente abbondanza di formaggio pecorino, la seconda la si può ricercare nelle scarse e disagiate vie di comunicazione per raggiungere i borghi vicini, perciò per rompere la monotonia paesana i pastori locali s'inventarono questo svago per grandi e piccoli, la terza causa stava nel poco costo e nella grande produzione di
il raro libro di Rossi di
mia proprietà
formaggio, per questa ragione perderlo o vincerlo non incideva in maniera particolare sul portafoglio del giocatore. 

Prima di cominciare una partita seria a monte di tutto esisteva un cerimoniale vecchio di secoli, così agli inizi del 1900 a Castelnuovo (in località Carbonaia) il giovedì verso le due quando terminava il mercato cittadino, gli uomini raggiungevano "il tiro"
(n.d.r: così si chiama il luogo della competizione), appassionati e curiosi si accalcavano nel luogo stabilito pronti ad assistere ai consueti rituali; uno dei partecipanti si avvicinava alle pile delle forme di formaggio e una volta scelta la più adatta a sè (secondo gli allenamenti fatti o al proprio fisico)l'alzava in alto in segno di sfida, una volta che questa era stata accettata ci si accordava sulle regole da mettere in campo, giacchè erano tre le varianti della competizione. La prima era quella classica ed era chiamata "la scinta" e consisteva nel lanciare la forma una sola volta, il più lontano possibile, oppure si poteva
il momento della scelta della forma
(archivio Pascoli.Comune di Barga)
anche scegliere per "la sfunata e rivolta", ossia era possibile fare anche un tiro (oltre che di andata) di ritorno sul medesimo percorso. Il cosiddetto "rivoltatiro" era la seconda opzione, qui i due giocatori facevano il proprio lancio dalla medesima posizione e il secondo in direzione opposta nel punto esatto in cui si era fermata la forma dell'avversario nel tiro precedente. Infine la terza e ultima modalità era chiamata in maniera diversa da paese in paese e così la si poteva denominare sia"vantaggio", "resa", "aggiunta" o "abbuono" e veniva solitamente applicata quando era evidente la differenza di forza fra un competitore ed un altro, in questo caso il più forzuto concedeva qualche metro di vantaggio al più mingherlino, questo vantaggio veniva misurato "a pugno" o a "bracciata". Vediamo gli strumenti indispensabili per qualsiasi rispettabile concorrente, Alcide Rossi descrive minuziosamente in
Qui si vedono bene il tricciolo,
 la manetta, il briolo e il bracciolo

termini tecnici tipicamente garfagnini tutti gli utensili per una buona partita e spiega che stabilita la modalità di gioco la forma viene bucata sul dorso, in modo da identificarla come prenotata e sopratutto tale buco servirà per introdurvi il piccolo nodo che si trova sull'estremità del "tricciolo". Il "tricciolo" è una cinghia intrecciata fatta solitamente di canapa ed è l'indispensabile attrezzo che serve per avvolgere, lanciare e dare il movimento rotatorio alla forma, normalmente non è larga più di due o tre centimetri e la sua lunghezza deve essere tale da arrotolare tre volte e mezzo le piccole forme e quattro volte le grandi, termina con una "manetta", un passante in cui il giocatore introduce la mano, altro aggeggio essenziale e il "brioloun traversino di legno di cinque o sette centimetri che si afferra fra il dito indice e il medio e serve per sostenere e tener ben ferma la forma. Fondamentale per la salute del giocatore è invece il "bracciolo", cioè un bracciale di cuoio di otto centimetri di larghezza da mettersi ben stretto al polso, che fa si che i tendini del polso stesso non si strappino, in special modo quando si tirano forme che superano i quindici o anche i trenta chili di peso.
Prima di effettuare qualsiasi lancio esiste anche una parte squisitamente tecnica, dove i giocatori controllano le forme di formaggio, le battono con le nocche per verificarne la compattezza e
vengono anche provate sul terreno di gioco per vederne l'equilibratura, viene poi ispezionato anche il rettilineo dove si svolgerà la partita per ravvisare bene quale percorso fare alla propria forma.
Un semplice pari o dispari decide chi inizia per primo:
"L'atleta sorteggiato per primo cinge la forma il più aderente possibile con il "tricciolo" introduce la mano nella "manetta", aggiusta "il briolo" ad una distanza tale da essere strettamente afferrato, alza e abbassa alcune volte il braccio quasi a provarne la perfetta elasticità e si  accinge "a sfunare" cioè a lanciare la forma. La folla che nel frattempo vociava e lanciava frizzi come per incanto al grido di "eccola, eccola" sgombra la pista tirandosi ai margini e sgrana gli occhi su tutti i movimenti del tiratore, il quale prima inizia la rincorsa adagio adagio, poi accelera sempre più e giunto alle vicinanze del segno, precedentemente fatto sul terreno e che non deve oltrepassare, spicca un salto e "sfuna" o "scinge" la forma"
Già il salto. Il salto sembra una cosa da poco ma è basilare per una

(Archivio Pascoli-Comune di Barga)

buona riuscita del lancio, importante è che sia eseguito al tempo propizio, con eleganza ed elasticità nei movimenti. La partita naturalmente si concludeva con un vincitore che generalmente diventava proprietario della forma, almeno che non ci fosse stato il precedente accordo di giocare "a gode", in quel caso la forma veniva totalmente pagata dallo sconfitto che però aveva diritto alla metà. Una regola a cui si conformavano tutti "i tiri" della valle era quella che se nel caso la forma di formaggio si fosse spaccata per un urto o altro qualsivoglia incidente ai competitori spettavano i pezzi più grossi e gli spettatori più svelti (di solito erano i bambini) si potevano accaparrare il resto. Per chi non ha conosciuto questi luoghi non può immaginare cosa ci girava intorno, tutto questo rappresentava un momento di forte aggregazione, la folla che assisteva alle partire era pervasa da emozioni forti che rasentavano la totale esaltazione: 
" Era tutto un vociare, uno stringere mani, un dare consigli ai
L'ambiente del tiro
Gallicano anni'80 (tratta da
Daniele Saisi blog foto di Adolfo Da Prato)

(
tiratori, un sussurrare all'orecchio dell'atleta su cui era stata puntata la somma, chissà quali raccomandazioni segrete, un agitarsi frenetico ed un trinciar giudizi su questo o su quel tiratore"
I giocatori più forti erano visti come delle vere e proprie star, la loro fama si spandeva per tutta la Garfagnana, ma naturalmente quello che attirava (e attira) di più la gente erano (e sono) le scommesse, la possibilità di racimolare un bel gruzzoletto la faceva da padrona e si puntava dalle piccole somme a somme ben consistenti su questo o su quel giocatore, allora a quel punto la trepidazione saliva di partita in partita e l'agitazione si sentiva nell'aria, speranza e timore erano i sentimenti che prevalevano e di li a poco gli animi si sarebbero sicuramente surriscaldati (aiutati da qualche bicchiere di vino) e non era difficile che al culmine della partita ci fosse qualche contestazione sulla sua regolarità ed allora ecco che scoppiava la baruffa e il passo dalla baruffa alla rissa era breve... Era proprio per questi motivi che nei tempi andati il gioco era stato proibito. Nel 1605 a Camporgiano era stato ordinato che:"per evitare li scandali ed ogni altro buon rispetto, nessuna persona terriera o forestiera aderisca, ne presuma tirar trottole di legno"Infatti certe volte quando le competizioni si svolgevano all'interno dei paesi capitava spesso e volentieri che le forme urtando sui muri delle case si rompessero ed allora in alcuni casi erano sostituite con forme di legno. Comunque sia anche Gallicano nel 1668 ribadì il suo no a questo sport: "Per l'avvenire s'intende sia proibito nel Castello di Gallicano e suo territorio ad ogni persona di tirar formaggio, girella, ecc per le strade o altrove senza licenza del signor Commissario, pena di due scudi d'oro per uno". A Vergemoli
Ancora oggi in certe occasioni speciali si
tira la forma nei paesi
invece furono molto più risoluti, era il 1764: "il giuoco, della trottola, forma o ruzzolone e perpetuamente bandito e proibito da S.A Serenissima entro l'abitato di Vergemoli", non contenti l'anno successivo inasprirono la legge quando il gioco venne vietato "in tutta la terra di Vergemoli". Dentro il paese non era nemmeno difficile che un povero malcapitato prendesse una forma sulla testa e così a Palleroso nel 1848 si denunciava che: "gravi danni ai fabbricati ivi esistenti ma anche pericoli dei viandanti terrieri o forestieri, che anzi, giorni orsono fu sorpresa una giovane che transitava per la strada da un colpo di forma, che la rovesciò in terra tramortita, con relative contusioni". Nonostante le proibizioni nessun paese rispettava la legge e si continuava tranquillamente a giocare, a sorvegliare sul mantenimento dell'ordine pubblico c'erano gli agenti comunali che spesso invece di vigilare...: "L'agente del luogo anzichè impedirlo è uno dei giocatori che colla presenza, e coll'esercizio incoraggia gli altri ad un gioco tanto riprovevole e pericoloso nelle pubbliche strade". Su questo divertimento volle metter becco anche la Chiesa, possiamo immaginare il proliferare di bestemmie ed improperi e allora ci si ricordò di un fantomatico articolo 4, di una notificazione datata 7 aprile 1820 che così diceva: "Nei giorni di Festa è proibito

qualsiasi gioco, e soltanto potranno esercitarsi i permessi della legge, ultimate però le funzioni ecclesiastiche della sera".
Insomma come vedete il tiro della forma per la Garfagnana non è un semplice passatempo, ma è un qualcosa che è intimo, vivo e palpitante e per chi non ha mai visto o vissuto l'ambiente del "tiro" consiglio di farci un salto, almeno una volta, scoprirete tutti i sentimenti del genere umano...


Bibliografia:

  • "Usanze, credenze, feste, riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rossi edito dalla Comunità Montana della Garfagnana- Banca dell'identità e della memoria, anno 2004
  • "Folklore garfagnino (il tiro della forma)" di Alcide Rossi edito Leo S. Olschki Firenze, anno 1967

Gli "Enemy Aliens" garfagnini. L'internamento degli italiani in America nella II guerra mondiale

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Queste sono le dolorose vicende accadute durante la II guerra
l'ingresso nel campo di concentramento
di detenuti italiani
mondiale a due famiglie originarie della Valle del Serchio, che in questo articolo hanno scelto di rimanere anonime. Sono due famiglie che oggi (e come al tempo dei fatti) vivono serenamente e agiatamente negli Stati Uniti d'America, una proveniente da Barga e da tre generazioni residente in California, mentre l'altra è di Vergemoli ed è nello stato dell'Oregon da circa novant'anni. Hanno una cosa in comune, oltre alla solita origine, hanno da raccontarci la storia dei loro avi, partiti da emigranti dalla Garfagnana nei primi anni del 1900, pieni di buone speranze di essere accolti nella Terra Promessa d'America come lavoratori e cittadini onesti...e così fu, fino al momento in cui non furono dichiarati "Enemy Aliens", ossia, stranieri nemici.

Chi erano coloro che gli stessi americani identificarono come Enemy Aliens? Tutto cominciò quel maledetto 10 giugno 1940 con la dichiarazione di guerra, quando Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia palesò la volontà di mettere a ferro e fuoco Gran Bretagna e Francia e si concretizzò definitivamente nei fatti l'11 dicembre 1941, quando anche gli Stati Uniti d'America diventarono ufficialmente nostri nemici. A quel punto seicentomila civili italiani e italo -americani regolari che si trovavano sul territorio statunitense furono trattati da ostili e per questo sottoposti a coprifuoco, ai controlli della polizia, al sequestro dei beni e alla
I giornali dell'epoca italiani parlavano già
degli arresti degli italiani negli U.S.A
deportazione in campi di concentramento americani, tutto questo senza aver commesso nessun tipo di reato. Avvenimenti poco conosciuti questi, che anche gli stessi italiani che furono sottoposti a queste restrizioni cercarono presto di dimenticare, sono stati oltre settant'anni di silenzio e giusto negli ultimi lustri comincia a riaffiorare qualche storia che i nipoti e i figli di questi poveri deportati hanno raccolto dai loro nonni, zii o padri, episodi che raccontavano malvolentieri, narrazioni quasi estorte dalle loro bocche, l'amarezza e il pudore affioravano dalle loro parole per un Paese che mai a loro ha chiesto scusa. Ecco allora le testimonianze da me raccolte, grazie all'aiuto fondamentale dell'amico giornalista freelance Francis Poli che mi ha messo in contatto con queste due famiglie sopracitate che mi hanno raccontato le vicende dei loro cari, relegati nel campo di concentramento di Fort Missoula nel Montana. Anche i parenti (come detto) per rispetto alla volontà che fu espressa dai loro antenati hanno preferito rimanere anonimi.

"Il primo a partire- racconta Al (diminutivo di Alfredo)- fu mio padre da Vergemoli. A Vergemoli lavorava nei campi, era il secondo
Il campo di concentramento di Fort Missoula
di nove fratelli e da mangiare per tutti non ce n'era. Prese così la decisione insieme ad uno zio di partire per l'America. Raggiunse così le coste del New England dove lavorò come facchino nei vari porti della zona, poi si presentò l'opportunità di trasferirsi in Oregon a lavorare come taglialegna, qui la paga era buona, così mio padre richiamò anche mia madre dal'Italia. Si stabilirono definitivamente a Medford ed ebbero quattro figli (fra cui io). Purtroppo mio padre morì presto e mia madre rimase sola con i bambini da crescere. Il mondo ci cadde addosso un giorno di novembre del 1942, quando ricevemmo a casa due comunicazioni ufficiali del governo. La prima ci informava che durante l'operazione Torch (n.d.r: l'invasione del Marocco da parte delle truppe americane) mio fratello era deceduto sotto il fuoco avversario durante lo sbarco, mentre l'altra lo stesso governo che aveva portato via un figlio a mia madre per difendere la bandiera a stelle e strisce ci dava notizia che proprio la mia mamma era stata classificata come "enemy alien"...una straniera nemica. Quanto prima doveva prepararsi per essere arrestata ed internata. La polizia e l'F.B.I sarebbero venuti a prenderla"

La cronaca di quel periodo ci racconta che la polizia nel giro di poco tempo chiuse scuole, giornali, circoli italiani, pizzerie, rosticcerie, tutti luoghi sospettati di essere centri di
I giornali americani cosi
dicevano "Gli Italiani
hanno colpito.
Mussolini è in azione qui"
propaganda fascista o addirittura cellule fasciste di reclutamento.

"Mia madre -continua Al- non si riprese più, dopo la liberazione la nostalgia per la Garfagnana fu ancora maggiore, pregava giorno e notte che la riportassimo a vivere all'ombra della Pania, non fu mai possibile se non in qualche breve vacanza, ed è il mio più grande dispiacere"
Per capire bene a che livello fosse in America la psicosi anti-italiana è emblematico il fatto successo a Francesco Di Maggio che abitava a San Francisco, era il padre del più famoso giocatore di baseball di tutti i tempi Joe Di Maggio (futuro marito di Marilyn Monroe), mentre lui era negli stadi a infiammare le folle il suo papà era a casa agli arresti domiciliari per il suo cognome italiano...e lui era fra i più fortunati. Niente in confronto a quello che successe a Mario, partito da Barga in giovanissima età, ben presto dimenticò il paese natio, si trovava bene in California, il clima, la gente, la fidanzata appena trovata e un buon lavoro. Tutto bello fino al giorno in cui tornò a casa dopo aver svolto alcune faccende domestiche e lì trovò la polizia ad attenderlo: "Gli chiesero di seguirlo - racconta il nipote- lui gli rispose perchè, la risposta degli agenti fu lapidaria: sei italiano. A mio nonno gli fu poi sequestrato anche il suo peschereccio, strumento principale del suo lavoro. Lavorava infatti come pescatore e forniva pesce alle industrie del settore. Le autorità portuali dichiararono che il suo peschereccio "italiano", così come tutti quelli "italiani" presenti sulle coste californiane potevano essere usati per introdurre nel Paese armi o spie".
A causa di tutto questo l'industria della pesca californiana subì un tracollo vertiginoso, gli italiani pescavano il 90% del pesce locale.
Sempre il nipote di Mario ci narra che la stessa sorte di suo nonno la subirono anche i vicini di casa del quartiere italiano: 
"Rimanevo sempre a bocca aperta ed incredulo quando mi diceva che un suo amico paralizzato fu portato via su una sedia a rotelle,
Particolare di Fort Missoula
perdipiù era residente legalmente negli U.S.A da oltre cinquant'anni".

Come detto i più fortunati che per qualche motivo agli occhi dell'F.B.I apparivano meno "pericolosi" se la cavavano con forti costrizioni alla libertà personale, come il divieto di allontanarsi oltre i dieci chilometri da casa e con l'obbligo di firma alla stazione di polizia più vicina, per gli altri la destinazione era il campo di concentramento. Ma com'era la vita in questi campi di prigionia?
" Mio nonno Mario fu rinchiuso a Fort Missoula, e diceva che malgrado l'inquietante presenza del filo spinato e delle torri di guardia sorvegliate da soldati armati non si stava poi tanto male, il mangiare non mancava mai e fu ancor meglio quando arrivò nel campo l'equipaggio di una nave da crociera, si arrivò a mangiare perfino bene, tant'è che anche le guardie stanche del rancio
Internati Italiani
venivano a cenare nelle cucine del campo"
. Insomma niente a che vedere con i lager tedeschi o i gulag russi, capiamoci bene, ma benchè questo, la libertà che è il bene più importante era pur sempre negata.

La caccia all'italiano durò fino alla caduta del regime fascista (25 luglio 1943) e cessò definitivamente con l'armistizio di Cassibile (8 settembre '43), ma già quando il presidente americano Roosevelt alla fine del 1942 era in odor di nuove elezioni presidenziali, desideroso di accaparrarsi il sostegno degli italo americani, allentò fortemente le restrizioni per i nostri connazionali sospendendo di fatto ogni imprigionamento.
Gli internati fecero così mestamente ritorno alle loro vite e alla propria casa:
"Molti - afferma ancora Al- dei nostri amici e conoscenti dopo questa brutta esperienza fecero ritorno in Italia e anche in Garfagnana.Un amica della mamma (nata nel paese di San Romano) e tutta la sua famiglia, compresi i tre figli nati negli Stati Uniti furono tutti arrestati ed imprigionati, ottenuta la libertà lavorò giorno e notte per racimolare soldi per tornare con la sua famiglia in Garfagnana. Il suo terrore era che prima o poi sarebbero tornati per catturarli nuovamente. Quando la signora salutò mia mamma per fare ritorno nella Valle del Serchio si congedò con queste parole: -Meglio poveri, ma liberi a casa propria-"
Oggi parlamentari americani di origine italiana lottano perchè vengano perlomeno riconosciute agli emigranti italiani delle scuse ufficiali che mai ci sono state, un bel documentario intitolato "Bella Vista" (n.d.r: l'ironico nome che i prigionieri avevano dato a Fort Missoula)e un libro della studiosa Carol Van Valkenburg
Mappa dei campi di detenzione americani
("Alien Place") hanno riportato a galla l'attenzione dell'opinione pubblica. Medesima sorte (anzi molto peggiore) toccò ai giapponesi in terra americana, il presidente Clinton però, anni orsono riconobbe la colpa e oltre che chiedere fortemente perdono il governo statunitense pagò un rimborso di oltre ventimila dollari a ogni nippo- americano internato. Agli oltre seicentomila italiani fino ad oggi l'unico tributo è stato il silenzio... e niente più. 



Fonte:

  • Un ringraziamento particolare a Francis Poli giornalista freelance americano ma di chiare origini lucchesi, per avermi segnalato e messo in contatto con le famiglie sopracitate. L'articolo rivisto e integrato verrà pubblicato negli Stati Uniti sul periodico "Voce Italiana", giornale per italo americani di Washington D.C

I centenari di Garfagnana e il loro segreto per l'elisir di lunga vita

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La storia è fatta sopratutto da memoria e testimonianze e fra le più
grandi risorse per chi scrive di storia come me, i racconti delle persone anziane sono fondamentali. Sono una fonte inesauribile di notizie e di aneddoti, talvolta felici e talvolta commoventi, basta mettersi lì cominciare un discorso ed ecco che magicamente il loro album dei ricordi si apre...Grazie a Dio in fatto di memoria e quindi di gagliardi vecchietti la Garfagnana (e i suoi storici) possono andare tranquilli, secondo statistiche recenti infatti i centenari in tutta la provincia di Lucca sono addirittura triplicati, da indagini ISTAT non sono mai stati così tanti. Ben 144 in totale e il gentil sesso è in stragrande maggioranza con 120 signore che hanno spento le cento e più candeline, mentre i signori sono "solamente" 24, così ripartiti geograficamente: 115 vivono fra la Piana e la Garfagnana e 29 in Versilia. Il dato è impressionante paragonato a quello del 2002 (appena 15 anni fa), ed effettivamente all'epoca si contavano appena 53 centenari (un incremento del +170% !!!), consideriamo poi che è in forte aumento anche la fascia degli over 75, nel 2015 erano 39 mila, oggi siamo già oltre le 49 mila unità. Anche nel resto della nostra regione (la Toscana) non si scherza, anche  qui i centenari sono in abbondanza (1506) e addirittura si prevede che in provincia (Lucca) nel 2030 gli arzilli nonnetti che arriveranno ai cento anni saranno  oltre 500, dati che fanno ben sperare, dal momento che la stessa Toscana risulta essere fra le primissime in Italia in quanto "a speranza di vita" (80,9 per gli uomini e 85 per le donne, primato che in 25 anni
è aumentato di 6 anni per i signori e 4 per le signore). Ecco allora comune per comune (Mediavalle e Garfagnana comprese) la dislocazione e la classifica di coloro che hanno un secolo (o oltre) di veneranda età:
  • Barga 8 centenari
  • Borgo a Mozzano 5
  • Castelnuovo Garfagnana 3
  • Bagni di Lucca 2
  • Molazzana 2
  • Gallicano 2
  • Giuncugnano- Sillano 2
  • Minucciano, Fabbriche di Vergemoli, Camporgiano, Piazza al Serchio, Pieve Fosciana, San Romano, Villa Collemandina, Coreglia 1

In tutta la Valle del Serchio coloro che toccano il secolo di vita sono 32. Da segnalare il dato di Barga e Borgo a Mozzano (coloro che hanno più centenari), nelle due località in questione sono presenti case di riposo, dove loro probabilmente hanno lì il domicilio.

Andiamo ancora di più nello specifico e guardiamo anche il resto della provincia:


  • Lucca 37 centenari
  • Viareggio 17
  • Capannori 17
  • Pietrasanta 12
  • Camaiore 12
  • Altopascio 4
  • Porcari 4
  • Stazzema 3
  • Massarosa 2
  • Montecarlo, Pescaglia, Seravezza,  Villa Basilica 1
Insomma in Garfagnana a quanto pare si vive bene e si vive a lungo, secondo fonti mediche tutto è legato alla connotazione rurale della valle, lo stile di vita contadino di una volta incide in maniera
Natura e aria buona (Isola Santa)
particolare sulle prospettive di vita, ancor di più incide però la qualità del cibo, alimenti sani, ortaggi senza l'aggiunta di additivi chimici e animali allevati naturalmente sono un vero toccasana. A conferma di questo molti dei nostri anziani ultra ottantenni ancora badano personalmente alle bestie e agli orti e Mario 
originario di Villa Collemandina e agricoltore a tempo pieno (che da poco ha festeggiato i 100 anni) ci dice che il segreto dei centenari è non morire prima dei 100 anni...effettivamente non fa una grinza...
Studiosi di gerontologia incuriositi dal fenomeno garfagnino hanno incominciato in questi anni a metterci dentro il naso e quindi a studiare per scoprire il possibile elisir di lunga vita, interessati sopratutto dall'eventuale crescita di questi, che ci sarà nei prossimi decenni. In particolare stanno studiando il loro stile alimentare, valutando il nesso tra composizione di cibo, invecchiamento e malattie, con un occhio anche all'antropologia sociale. Walter Longo ordinario di gerontologia e di scienze biologiche alla University of Southern California di Los Angeles ci spiega meglio il concetto: - Tutti i centenari del mondo mangiano poco e quasi sempre le stesse cose. Apprezzano e si godono i momenti della vita in comune, la chiesa, le feste, la piazza, ma sanno anche essere indipendenti dal sistema sociale, pensiero poi che vale non solo per i centenari ma per tutti gli anziani in genere-.
La buona cucina di una volta

Dunque non è solo una sana alimentazione che ci porta a vivere più a lungo, così Harriet Jameson giovane professoressa di 28 anni dell'Indiana University dice che la longevità garfagnina e in generale nella maggioranza dei casi sia legata al "senso dei luoghi":- Noi crediamo che l'assenza di stress sia da misurare anche attraverso gli spazi in cui vivono, l'aria che si respira, la frequenza dei contatti umani. In sostanza quello che noi definiamo rapporto di comunità è fondamentale per vivere meglio e più a lungo. Indaghiamo nelle "blu zone" (n.d.r: termine usato per identificare le zone geografiche dove le persone vivono più a lungo) di tutto il mondo e questo sembra essere il filo comune che lega tutti i più longevi-. la collega Asa Escocker(28 anni anche lei) porta un esempio:- Non può esserci paragone fra chi vive in una famiglia circondato dall'affetto dei figli e dei nipoti e chi passa i suoi giorni in un ospizio. Non può esserci relazione per chi vive nella frenetica New York o a Pechino e chi passa le sue giornate nella serenità di un paese. Stiamo constatando che in questi piccoli paesini la qualità della vita è diversa, è migliore. Il tratto dominante è la serenità, non la frenesia. La tranquillità, non l'ossessione e tutto avviene in spazi liberi e non soffocati, naturalmente non è da sottovalutare che questi vecchietti
La vita contadina, dura ma sana
beneficiano di nuovi standard di comodità di vita, dei progressi della medicina. Nelle interviste che abbiamo fatto a queste persone centenarie le classiche patologie dell'invecchiamento sono quasi assenti, il signor Bruno ad esempio ci ha impressionato, a una memoria vivida e lucida e ci ha raccontato la sua esperienza di guerra quando da giovane braccato dai nazisti fuggiva nei boschi di San Pellegrino in Alpe, ricordi nitidi e precisi come se fossero accaduti ieri- 

Questo è quello che scienza ci dice, ma i diretti interessati la pensano un po' diversamente e Giuseppe, 97 anni ha le idee chiare sul segreto per vivere molti anni. Lui tutti i giorni si occupa dell'orto, dei suoi pomodori, dell'insalata, delle zucchine ma per lui la sua salvezza dall'invecchiamento sono state le donne, anche ultimamente ha chiesto a una signora di uscire per bere qualcosa e ha riscoperto che è una cosa indispensabile e che fa stare felice, allegro e vivo. Di pensiero totalmente opposto è un suo omonimo (anch'egli di nome Giovanni), lui è zitello e dice che sicuramente il matrimonio gli avrebbe levato vent'anni vita, i suoi coetanei si sono tutti sposati, le mogli sono sopravvissute e loro sono tutti al cimitero... 
Poi c'è la Luigina madre di sette figli e 98 anni sul "groppone",
Secondo alcuni
allunga la vita...
lei consiglia che per vivere a lungo bisogna essere sempre ottimisti, mantenersi in attività e buttare via le sigarette. Altri consigli dispensa Vincenzo (94) e la butta sul bere, vino rosso e "bono"è la panacea di tutti i mali. L'ex maestra garfagnina Giuseppina dall'alto della sua esperienza afferma che il cervello e il corpo vanno sempre mantenuti attivi, lavora in giardino tutti i giorni e legge ancora Cechov a 92 anni. Per ultimo i ricercatori dell'Indiana University hanno incontrato Antonio e Anna marito e moglie che abitano in un paesello fra i boschi garfagnini, 96 anni lei e 95 lui e hanno fatto intuire agli scienziati che erano li ad intervistarli  che non può essere solo il buon cibo la formula del vivere a lungo, hanno affermato che senza affetto ed amore la loro vita sarebbe durata molto di meno...ed ecco allora che a un tratto mi ritornano alla mente le parole di un romanzo di Romano Battaglia:

"Chi ama profondamente non invecchia mai, neanche quando ha cent'anni. Potrà morire di vecchiaia ma morirà giovane".




Bibliografia:

  • Analisi di Coldiretti-Epaca su dati ISTAT riferiti al 2016, dati per l'argomento trattato fortemente suscettibili a variazioni
  • Studio fornito dall'Indiana University in collaborazione con University of Southern California, anno 2016
  • Cielochiaro di Romano Battaglia, anno 1993, BUR editore

Una bontà tutta garfagnina, la farina di neccio. Le sue origini e la sua storia

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"Il castagno è il nostro albero del pane. Ci andrebbe messa, in ogni
castagno, una croce, come si fa con gli alberi divenuti sacri..."
Giovanni Pascoli nel 1908 descrisse così sulle pagine del giornale "La Prensa" agli italiani emigrati in Argentina  il significato profondo che poteva avere il castagno per la gente della Valle del Serchio. Nulla di più vero e rappresentativo, d'altronde i numeri di ieri e di oggi parlano da se, difatti nel 1846 Carlo Roncaglia funzionario estense, da una statistica generale sullo stato modenese contava in Garfagnana più di due milioni di piante di castagno (per l'esattezza 2.052.157) con una resa in castagne secche pari a 76.135 quintali. Oggi i numeri naturalmente sono cambiati, ma ciò non toglie che la lucchesia sia a livello regionale e sia a livello  nazionale è la provincia con la maggior superficie boschiva a castagneto, nel 1978 risultavano oltre 29 mila ettari e solo in Garfagnana prosperavano castagni che coprivano 12.740 ettari. Con gli anni il numero si è drasticamente ridotto, anche se ancora rimangono cifre di tutto rispetto e secondo il censimento del 2005 promosso dalla comunità montana e dall'associazione castanicoltori della Garfagnana risultano a castagneto 3.000 ettari, con una resa di castagne fresche pari a 25.000 quintali che si trasformeranno in ben 2000 quintali di prelibata farina di neccio. Già, la squisita farina di neccio, salvezza dei garfagnini in svariate epoche storiche, anche
Il castagneto di Pratomaleta
 (Sillano Giuncugnano)
lei merita la sua storia e una sua identità che va ricercata intorno all'anno mille, quando con l'aumento della popolazione garfagnina ci fu bisogno di mettere a frutto anche le diverse zone incolte della vallata, si pensò così di incrementare la coltivazione del castagno, naturalmente non è che mancassero in quel periodo, ma loro presenza era considerata secondaria e il consumo dei suoi frutti irrilevante, ma anche questa volta il bosco fu piegato alla volontà dell'uomo, ed ecco affermarsi una volta per tutte il castagno in Garfagnana. Uno dei maggiori promotori di questa nuova politica economica-alimentare fu Paolo Guinigi, signore di Lucca che capì da subito l'importanza di questa pianta: "cultivazioni più idonee alla produzione di farina buona e serbevole", ritenendo a giusta ragione che questa avrebbe sfamato una famiglia per gran parte dell'anno. Ma non solo, Paolo Guinigi intuì da subito che una selva pulita ed una cura del castagno avrebbe portato un raccolto  molto più ampio e di conseguenza a una maggior quantità di farina, a questo scopo fu istituito nel 1487 "l'Offizio
Paolo Guinigi
sopra le Selve
", fra le altre cose fu sempre sua cura impedire il taglio indiscriminato dei castagneti, così nei luoghi concessi al taglio sussisteva l'obbligo (sottolineo l'obbligo) entro tre anni  di innestare da 50 a 100 piedi di castagni per coltra (ogni coltra misura 2000 mq circa), la legge inoltre prevedeva che adoperandosi in queste mansioni si acquisiva legalmente il diritto di usufruire del raccolto per otto anni e in alcuni anni si poteva anche prendere il possesso del terreno, in aggiunta sussisteva il dovere di ripulire il bosco da tutte le piante che non davano frutto, dai rovi e dalle pietre, al fine di migliorare il pascolo poichè sotto questi alberi vi pascolavano le pecore in una simbiosi fra castanicoltura e pascolo ovino, fra castagne e formaggio. Un concetto questo e un modo di vivere tutto garfagnino confermato dall'agronomo Vincenzo  Tanara nel 1664 nel suo "L'economia del cittadino in villa": "I castagni sono di due sorti, selvatico il naturale, domestico l'artificioso. Dal frutto si ricava una farina dalla quale si fa pane e di tanto nutrimento, che levatone quello di frumento nutrisce più di ogni altro grano, e ce ne accerta vedere uomini robustissimi e donne giovani che nella carne somigliano al latte, e nelle guance rosa, vivendo solo di questa farina, di formaggio e di acqua". Insomma la farina di neccio era entrata ormai a buon titolo come fonte principale del sostentamento garfagnino, bisognava quindi proteggerla con delle leggi ad hoc e Barga in questo senso fu una delle prime, nel suo statuto nel 1360 si leggono severe disposizioni sulla raccolta delle castagne e per la farina (tanto per cambiare) furono messe delle tasse sulla sua produzione. Fondamentale per la
metato garfagnino
creazione della farina di neccio era, ed è il metato, casupole in muratura fatte in modo da contenere le castagne messe li ad asciugare. Sono costruzioni sparse qua e là per i castagneti, divise a metà da un solaio a stecche di legno, poste l'una accanto all'altra (il canniccio) dove sopra verranno messe le castagne, al piano inferiore invece si fa 
una brace, un fuoco leggero,  con gli stessi ciocchi di castagno, il fumo sale così verso "il canniccio" e fa si che le castagne a poco a poco diventino secche, dopo 40 giorni di essiccatura sono pronte per essere portate al mulino per farne farina. Ancora oggi se si va per i boschi della Garfagnana non ci si può non imbattere in un metato e anche se non sono mai stati fatti censimenti in tal senso possiamo stimare dalla produzione di farina degli anni '50 del '900 che i metati in funzione nella provincia di
castagne messe a seccare nel metato
Lucca erano circa 7.000 e per far capire ancor meglio l'entità della produzione della farina di neccio in Garfagnana possiamo sicuramente affermare che nell'ottocento i mulini attivi erano 245. Ma il vocabolo "neccio" che da il nome alla squisita farina e in buona parte agli altri piatti fatti con le castagne, da dove viene? Alcune fonti ci dicono che  in epoche lontane i garfagnini con le ghiande producevano una sorta di farina, che anche questa aveva il solito procedimento di essiccazione delle castagne è presumibile che queste ghiande fossero ghiande di leccio, con l'andar dei decenni questa farina fu abbandonata negli usi alimentari per essere sostituita con quella di castagne è possibile quindi che nel linguaggio comune si sia mantenuta la solita parola "ilceus"(leccio- neccio), altri affermano che 
potrebbe anche derivare da parole latino medievale o liguri. Certo che le prelibatezze  che si possono fare con la farina di neccio
Necci con ricotta
sono innumerevoli, un tempo erano piatti poveri per la povera gente e ora sono fra i piatti più ricercati in gastronomia, come la "polenta e ossi", ottima polenta di neccio accompagnata con ossi di maiale e zampucci con ancora abbastanza carne attaccata, oppure il classico "neccio", schiacciatella cotta fra due testi da gustarsi con dell'ottima ricotta locale, o sennò "i manafregoli" la stessa polenta cotta nel latte, per non parlare del "castagnaccio" , torta di farina di castagne guarnita con pinoli, noci e bucce d'arancia... e la vinata invece? Questo piatto è per palati forti e si consumava specialmente nelle sere "a veglio", quando la polenta di castagne resa ormai una morbida crema veniva versata in un piatto fondo, servita con del vino già fatto bollire e una spolverata di zucchero. Finalmente nel 1998 la farina di neccio eb
casta
be il riconoscimento che da sempre meritava, grazie sopratutto all'associazione dei castanicoltori garfagnini, quando la Comunità Europea gli ha riconosciuto ufficialmente il marchio di Denominazione di Origine Protetta. Un suggello doveroso dopo mille anni di storia.



Biblografia



  • "I castagni della Garfagnana" Studi per la tracciabilità di filiera e la caratterizzazione qualitativa della farina di neccio della Garfagnana DOP- "L'albero del pane storia della farina di neccio della Garfagnana" di Ivo Poli. Edito Regione Toscana anno 2009
  • "Statistica generale degli stati estensi" a tutto l'anno 1847 di Carlo Roncaglia edito da tipografia Vincenzi 1849
  • "L'economia del cittadino in villa" di Vincenzo Tanara 1664

Alla curiosa e intrigante scoperta del significato dei nomi dei paesi garfagnini

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Mamma mia che brutta parola! "Toponimo". Un vocabolo che fa venire
alla memoria mille cose strane fuorchè quella esatta, invece è uno dei termini più affascinanti ed interessanti che ci sia. Nel suo specifico tale parola proviene dal greco, ed è composta dalle parole tòpos = luogo e onoma = nome, infatti la toponomastica (altra terribile parola) è lo studio dei nomi dei luoghi, ed una materia bellissima che attraversa nello stesso tempo altre materie, come la storia, la geografia, la glottologia (n.d.r: lo studio delle lingue) e la filologia (n.d.r: l'insieme delle discipline che ricostruiscono i documenti letterari alla loro corretta interpretazione). Come tutti sanno ogni nome di luogo, città o paese ha dietro di se una storia molto antica che al suo interno racchiude un significato nascosto che non sempre si conosce e allora vi siete mai chiesti come mai il vostro paese si chiama proprio così? Da dove deriva il suo nome? Qual'è il suo significato? Avete mai notato che alcuni dei paesi garfagnini hanno dei nomi composti, altri invece sono apparentemente indecifrabili, mentre altri ancora contengono un nome di un santo? I toponimi hanno di fatto un origine molto varia, ad esempio possono derivare da alture del terreno e d'impulso ecco mi viene in mente
Il paese del Poggio
il paese del Poggio (comune di Camporgiano)che si è formato difatti originariamente sul Colle della Capriola, o sennò possono nascere da cime, passi, valli, corsi d'acqua, boschi, colture, miniere e attività lavorative in genere e vediamo in questo caso paesi come Fornovolasco che deve la sua denominazione a dei forni legati alla fusione del ferro, o Fornaci di Barga che deve ricercare le proprie radici etimologiche sempre intorno ad un forno, ma che stavolta serviva però per cuocere mattoni. Ma sopratutto i nostri paesi hanno legato il proprio nome a una persona, che in origine poteva essere il fondatore, il feudatario o il proprietario di quell'appezzamento di terreno. Un "trucchetto" per capire ancor di
Le attività dei coloni romani in un
mosaico del III secolo
più l'origine dei borghi (in questo caso la regola è generale) sta nell'osservare come termina il nome del proprio paese o città che sia e vediamo che quelli che terminano con il suffisso ano e ana sono di origine latina, mentre ago-aga-ico-ica sono di derivazione gallica, ciò che finisce in engoè di chiara genesi germanica. Tornando alle località che hanno i suffissi ano-ana, questi con ogni probabilità si sono formati dal nome del proprietario del terreno sul quale e poi sorto l'insediamento, per ben chiarire portiamo il caso di Gallicano, e vediamo appunto che "fundus Gallicanus", significa fondo (agricolo) appartenente a Gallicanus. Da non tralasciare sono i toponimi con i nomi religiosi, questi luoghi verosimilmente sono di origine medievale (Pieve, Badia, Angeli e così via...)e in particolare i nomi dei paesi che provengono direttamente da un santo si chiamano niente di meno che  "agiotoponomi" (altro parolone) e in Garfagnana da questo punto di vista possiamo portare una miriade d'esempi: San Michele (Piazza al Serchio), San Romano, San Pellegrino in Alpe...Altra curiosità intrigante è vedere che ci sono nomi che vengono da viabilità antiche e di conseguenza alludono alle miglia romane, caso esemplare nella provincia di Lucca sono le località di Sesto di Moriano (sextum lapidem), Valdottavo (octavum lapidem) e Diecimo (decimun lapidem) che segnalavano le miglia sull'antica Via Clodia. Molto comuni inoltre sono quei toponimi garfagnini(e non solo garfagnini) che riprendono l'appellativo dalla presenza in loco di antichi
L'antica Via Clodia
castelli, fortezze o anche torri, lampante l'esempio nostrano di Castelnuovo Garfagnana, Castiglione o Castelvecchio Pascoli. 

Sia chiara una cosa, non sempre è possibile risalire all'origine del luogo, origine persa ormai nel tempo, a volte è possibile fare delle ipotesi, ed è quello che farò adesso, naturalmente non sono mie personali supposizioni, ma di studiosi dell'argomento che hanno cercato di dare un perchè del nome ai paesi della Garfagnana. Per non fare "torto" a nessuno faremo però un excursus sui comuni, uno per uno. Cominciamo da...

Camporgiano: L'origine del toponimo è incerta e anche se non sembra questo è un nome composto, la prima parola deriva dal latino
Camporgiano e la sua rocca
"campus" (campo). La seconda parola potrebbe avere origine dal nome della vicina località "Rogiana" (ora Poggio San Terenzio), oppure dal latino "hordeum" (orzo), con significato globale di campo coltivato a orzo.


Careggine: Per alcuni questo nome è derivante da "Caricinum" o "Cariginae" e starebbe a significare "campo della regina" e se come si presume fosse riferito ad un accampamento militare romano varrebbe a dire "campo a capo di altri castra (intesi come accampamenti)". Altra ipotesi vorrebbe che il nome nascesse da "Pagus Caricius", in riferimento ad una pieve edificata secondo la tradizione paleocristiana sui "pagi" (villaggi rurali), in alternativa un luogo ricco di "carices", ovvero giunchi.

Castelnuovo Garfagnana: Il nome fa riferimento ad un "Castrum Novum" ossia ad un nuovo castello di costruzione recente rispetto ad uno già esistente. 

Castiglione Garfagnana: Tale appellativo risale al periodo della
Il Castello del Leone:
Castiglione
Garfagnana
dominazione romana quando si costruivano i "castra" (cioè di fortificazioni). Tra queste fortificazioni c'era "Castrum Leonis", il castello del leone, al tempo tenuto in gran considerazione per la sua posizione di controllo per la più facile via che conduceva al di là dell'Appennino. Era quindi l'antico "castrum leonis", la più forte delle fortificazioni capace di battersi e difendersi come un leone per proteggere il proprio territorio. 


Fabbriche di Vergemoli: Nome composto. "Fabbriche" viene fatto risalire a dei mastri ferrai che si stabilirono in zona nel XIV
Fabbriche e il ponte medievale
secolo, quando l'economia del luogo era basata sulla lavorazione del ferro. L'etimologia del nome Vergemoli è più complessa ed è piuttosto controversa e incerta, le ipotesi sono svariate. Si parla che sia riferita ad una persona tale Geminus, potrebbe derivare anche dalla posizione geografica del paese che sorge sullo spartiacque di due valli: "vallis gemina" (valli gemelle), oppure dal latino 
"Virgemulum", vale a dire piccolo piantonaio(n.d.r: vivaio con terreno opportunamente lavorato dove si interrano le pianticelle innestate). Si può anche ipotizzare che il nome sia composto da "Ver",(radice di vertice) vale a dire luogo in alto e da "moli" che significherebbe macine, il nome perciò significherebbe "molini in alto", vista la numerosa e antica presenza di questi nella zona.

Fosciandora: Questo toponimo è fra i più curiosi e singolari e ci dice che la provenienza di questo nome verrebbe da "fuscandola", ciò probabilmente indicava il colore fucsia delle pietre utilizzate per la costruzione delle case in epoca remota. 

Gallicano: Il nome era già in uso nel 771 come Galicanum,
Il centro storico di Gallicano
probabilmente dal nome di un colono romano di nome Gallio o Gallicano (a dire il vero nella tabula Alimentare di Veleia è noto come Cornelius Gallicanus).


Giuncugnano: Il nome della località nascerebbe dal nome proprio "Iucundius", al quale viene aggiunto il suffisso "anus" indicante l'appartenenza.

Minucciano: Il paese prende il nome dal console romano Quinto Minucio Termo (in precedenza il luogo si chiamava Saltus), incaricato della difesa del confine dalle invasioni barbariche.

Molazzana: Difficile risalire all'origine di questo nome. Diverse sono le interpretazioni, tutte però riconducono alla mola, intesa
Molazzana
come macina. Tutto questo però non ha alcun fondamento documentato, anche se c'era l'antica presenza (sul torrente 
Vescherana) di due importanti  mulini per la comunità di Molazzana.

Piazza al Serchio: Il nome è composto da "piazza" che farebbe riferimento a uno spiazzo o meglio a una vasta area che in epoca medievale era usata come luogo di mercato e "al Serchio", che si riferisce al fiume che scorre vicino al paese. Da far notare che fino al 1923(anno in cui il borgo passò alla provincia di Lucca) il paese si chiamava Piazza Massese.

Pieve Fosciana: Eccoci ancora davanti a un nome composto, in questo
Pieve Fosciana
caso da "Pieve" che ha chiara attinenza alla parola chiesa, infatti dall'XI secolo prese il nome di "Plebes de Fosciana". Il toponimo Fosciana ha anche in questo caso origini romane ed è attribuibile al latifondista Fuscus che a quanto pare avrebbe avuto una superficie agraria dove oggi è situato il Piano Pieve, che al tempo si chiamava "Campus Fuscianus", cioè i campi di Fuscus.


San Romano Garfagnana: Il paese prende semplicemente il nome dal santo a cui è dedicata la chiesa principale.

Sillano: Lucio Cornelio Silla generale romano è alla genesi di
L'illustre generale
romano Lucio Cornelio
Silla
questo paese. Si racconta che le sue armate dirette in Gallia dovettero fermare la loro avanzata nei pressi dell'attuale paese a causa di una forte nevicata, visto il maltempo per un certo periodo i valorosi soldati di Silla soggiornarono in questi boschi costruendo delle casupole, alla loro partenza queste casupole furono occupate dagli abitanti locali. 


Vagli: Il temine Vagli deriva da "Vallis", valle.

Villa Collemandina: Il paese nasce da una fattoria (o casa di campagna) romana: "Villae". Con l'arrivo dei longobardi si hanno le prime notizie documentate sul luogo che continua ad essere citato come "Villa". Nel 1168 viene nominata in una bolla papale come "Ecclesia Sancti Sixi de Villa (Collemondinga)" che indicava il luogo della fondazione del paese: Colle Mondingo. Nel tempo il nome varierà in "Villa di Colle", "Villa Colle Mondingo", "Villa Colle Mondina", ed infine Villa Collemandina.

E questo è quanto. Naturalmente non va tutto preso per oro colato, il campo in questione e la materia sono difficilissimi da interpretare,
d'altronde si fa riferimento a nomi nati mille e più anni fa. Di questi ricercatori c'è solo da apprezzare il puntiglioso studio e la minuziosa ricerca, per la "sola" e semplice voglia di sapere e di farci conoscere le nostre radici. 



Bibliografia:

  • "Dizionario della toponomastica-storia e significato dei nomi geografici italiani" UTET

"W la Garfagnana, W il re". Quello che accadde prima, durante e dopo le elezioni di quel fatidico 2 giugno 1946

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Che brutta "bestia"! Molti dicono che è un male necessario, altri
La scheda elettorale del 1946
dicono che senza si potrebbe vivere meglio, alcuni la dividono in due categorie: in quelli che la fanno e in quelli che ne approfittano. Personalmente mi piacque molto la definizione che ne dette Ronald Reagan, il 40o presidente degli Stati Uniti d'America, che così disse:- La politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. Certe volte trovo che assomigli molto alla prima-. Già, la politica, un argomento delicato, difficile da affrontare e pericoloso da trattare, ma prendiamone atto e approfondiamo la questione, d'altronde con la politica ci si vive tutti i giorni e poi i fatti  narrati risalgono a una Garfagnana di settantuno anni fa e alle elezioni, referendum compreso, più importanti della nostra Italia repubblicana. Si, infatti correva l'anno 1946, l'Italia era uscita da oltre vent'anni di dittatura e finalmente si poteva esprimere liberamente al voto. La Garfagnana (o meglio buona parte di essa) affrontò le votazioni prima di tutti con le elezioni amministrative del 10 marzo 1946, i comuni di Careggine, Castelnuovo, Castiglione, Gallicano, Giuncugnano, Piazza al Serchio, Pieve Fosciana, Sillano, Trassilico, Vergemoli e Villa Collemandina scelsero il loro primo sindaco post-guerra e finalmente, cosa da non dimenticare, per la
Per la prima volta le donne al voto
prima volta le donne garfagnine andarono a votare (leggi un mio articolo sull'evento: http://paolomarzi.blogspot.it/la-prima-volta-al-voto-delle-donne.html). Arrivò poi lo storico 2 giugno 1946 e le elezioni politiche che determinarono l'Assemblea Costituente a cui sarebbe stato dato il mandato di redigere la nostra Costituzione, in contemporanea attraverso un referendum si doveva scegliere fra la Monarchia o la Repubblica. I risultati di ciò nella nostra valle da un certo punto di vista furono clamorosi, ma analizzando bene furono in tendenza con quello che era la nostra tradizione, la nostra cultura e il nostro modo di vivere. Certo, quello che si sarebbe presentato davanti alla nuova dirigenza politica locale e nazionale non era un compito sicuramente facile, anzi, la guerra aveva distrutto le case e il morale delle persone, e c'era da ricominciare proprio da lì, a dare nuove speranze, ad aver nuovamente fiducia nella vita e nella politica, ma in Garfagnana il quadro della situazione prima di quelle elezioni non era certo idilliaco: morti da piangere, odi personali e tra fazioni che impiegheranno anni per sopirsi, processi da celebrarsi per le violenze subite, ponti, strade e ferrovia da ricostruire, bombe e mine da rimuovere. La situazione nelle valle
Castelnuovo Garfagnana bombardata
era talmente grave che furono istituiti comitati "Pro Garfagnana" per la raccolta di fondi a sostegno della ricostruzione, ma già nel settembre 1945 a soli cinque mesi dalla fine della guerra e nello stile della più classica delle  storielle all'italiana ci si domandava dove fossero finiti quei soldi. Da un punto di vista occupazionale forse la situazione era anche peggiore, nel gennaio 1946 i reduci di guerra e i disoccupati minacciavano l'occupazione della "Metallurgica" di Fornaci di Barga se entro breve tempo non fossero stati riassunti a pieno titolo, dall'altro canto l'azienda invece continuava a licenziare costretta a riconvertire la sua produzione da bellica in civile, la "Valserchio" (n.d.r:fabbrica tessile) a Castelnuovo dava lavoro a trecento
La "Valserchio" bombardata
operai, adesso era completamente distrutta, l'estrazione del marmo fonte di reddito vitale per l'Alta Garfagnana versava ormai da anni in una profonda crisi, ma non solo, i disoccupati di Molazzana passarono alle vie di fatto occupando il comune e accusando gli amministratori di scarso impegno nei loro confronti. Di  fronte a tutto questo c'erano gli "sciacalli" che approfittando della crisi occupazionale vendevano merce di prima necessita al mercato nero a prezzi altissimi, la grave recessione sfociò in una grande manifestazione di piazza dove si chiedeva che i salari fossero adeguati ai prezzi esorbitanti. Anche l'ordine pubblico non si riusciva a domare, molti garfagnini nonostante la fine della guerra nelle loro cantine conservavano armi degli eserciti in ritirata, praticamente la Garfagnana era ancora un arsenale a cielo aperto. Il colonnello americano Hamilton (commissario provinciale alleato)emise diversi bandi in cui ordinava di consegnare le armi e di cessare anche gli atti di violenza, vendette politiche trasversali si stavano infatti consumando in tutta la valle e per di più in tutto questo caos generale trovò terreno fertile anche la delinquenza comune che rapinava i denari a persone comuni (ma sopratutto ai commercianti). Malgrado tutto, un barlume di speranza affiorava e le buone notizie cominciarono ad arrivare, il governo centrale esentò per due anni la Garfagnana dal pagamento delle tasse, la voglia di vivere cominciava a fare capolino e le richieste per aprire sale da ballo furono numerose, riaprirono anche i cinema, le fiere paesane(seppur a ritmo ridotto)ripresero vita, rinasceva così anche l'associazionismo: le Misericordie, i circoli culturali, le pro loco
Gallicano: macerie sullo sfondo,
 ma la vita riprende
e rinacquero anche i partiti, vecchi e nuovi e la vita politica riprese forza e vigore. A Castelnuovo nel settembre '45 si tenne il primo congresso locale del Partito Comunista, idem a San Romano dove la sezione contava già più di cento iscritti, altri partiti come il Partito d'Azione, il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana cominciavano ad "affilare le armi" per la tornata elettorale che sarebbe avvenuta di lì a poco tempo. Ci furono così i primi comizi politici nella valle, personalità che sarebbero diventate di spicco nel panorama nazionale visitarono la Garfagnana, su tutti il futuro Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi (democristiano). Insomma, questa era la situazione generale della Garfagnana, questi erano i gravi problemi che dovevano risolvere i nuovi amministratori e in quel 10 marzo 1946 i primi risultati delle prime elezioni (amministrative) libere parlavano già chiaro:

(***i numeri sotto riportati fanno riferimento ai seggi conquistati)

                      Iscritti    % voto    D.C    Blocco Sinistre    Indip    Indi

Careggine:      945          76          /                  /                   12            3

Castelnuovo  3998         65        16                4                    /              /

Castiglione     2135         59        16                4                     /              /

Gallicano        2908         78        16                4                     /              /    

Giuncugnano                                4                                       4             3

Piazza. S         1787         70       12                3                     /              /

Pieve Fosc.                                   3                12                   /              /

Sillano                                           6                  /                    9             /

Trassilico      1152          89           /                  /                   12            3

Vergemoli       948           81           3                 /                   12             /

Villa Coll.      1293          75          12                3                    /              /


La Democrazia Cristiana mise così il suo suggello nella Valle del Serchio, un suggello che durerà per quasi mezzo secolo, ed effettivamente analizzando quello
storico voto vediamo che i comuni dei centri più importanti della Garfagnana erano in mano al partito scudo-crociato: Castelnuovo, Gallicano, Castiglione e Piazza al Serchio. Il blocco delle sinistre si affermava in un solo comune: Pieve Fosciana, probabilmente quell'antico nucleo locale comunista, stroncato violentemente dalla forze nazi-fasciste non era morto, anzi nel tempo aveva continuato a vivere in clandestinità facendo proseliti fra gli abitanti del posto. Il dato più interessante viene dai cosiddetti Indipendenti, dei populisti ante-litteram che avevano una visione della politica molto vicina alle idee delle persone, infatti non avevano fiducia nei partiti e nella politica in generale, il loro pensiero sostanzialmente diceva che un comune per essere ben amministrato non occorre che sia comunista, socialista, repubblicano o cattolico, un buon comune ha bisogno di buoni amministratori, tutti quegli amministratori che sono legati ad una idea politica sono di parte e non farebbero il bene della gente. Queste idee portarono gli Indipendenti a conquistare ben cinque comuni (così come la D.C): Careggine, Giuncugnano, Trassilico, Vergemoli e Sillano, proprio in quei comuni dove la lotta partigiana era di casa, questo lascia pensare che nonostante tutto quelle lotte e quelle idee partigiane  non siano state comprese dalla gente, oppure questa riluttanza era dovuta a una mentalità conservatrice tipica della Garfagnana dell'epoca.
La riconferma di questa mentalità si riebbe clamorosamente due mesi più tardi quando ci furono le elezioni per la Costituente e il referendum Monarchia o Repubblica. I dati sul referendum sono impressionanti:     
                   REPUBBLICA     MONARCHIA
                  
                                             
Camporgiano           40,8          59,2
Careggine             29,7          71,3
Castelnuovo           46,6          53,4
Castiglione           24,1          75,9
Fosciandora          13,7          84,3
Gallicano             53,5          46,5
Giuncugnano           19,5          81,5
Minucciano           37,0          63,0
Molazzana             28,4          71,6
Piazza al Serchio    45,9          54,1
San Romano            48,0          52,0
Pieve Fosciana        48,1          51,9
Sillano              46,9          53,1
Vagli                 48,3          51,7
Vergemoli             31,3          68,7
Villa Collemandina    20,4          79,6

(*i numeri sono espressi in percentuale: Garfagnana monarchica con il totale del 61,5%)

La Garfagnana al grido di "W il re" risultava irremovibilmente
monarchica, un solo comune, Gallicano, era repubblicano, ma il resto della comunità confermava Umberto II Re d'Italia. Fanno sensazione i numeri di comuni come Fosciandora che con l'84,3% dei voti si affermava come il comune più monarchico della Garfagnana a ruota seguivano con percentuali altissime Giuncugnano, Villa Collemandina, Vergemoli, Castiglione e Careggine. La provincia di Lucca risultava invece repubblicana con il 57,7%, così come il resto d'Italia con il 54%. I dati garfagnini facevano profondamente riflettere, in sintesi premiavano quella monarchia che aveva consegnato il potere a Mussolini e che aveva portato alla guerra civile. D'un tratto la guerra vissuta sulla propria pelle, le lotte partigiane, i lutti e le macerie sembravano che non avessero sortito nessun effetto sulla loro coscienza, prevaleva quindi  l'indole conservatrice, la nostra paura atavica della novità e il timore di lasciare la strada vecchia per quella nuova. Questo conservatorismo si riflesse anche sull'elezione dell'assemblea Costituente, le radici fortemente cattoliche della Valle del Serchio e l'influenza dei preti sulle persone premiarono la Democrazia Cristiana con percentuali totali addirittura più alte che di quelle referendarie pro monarchia; con il 66% dei voti la D.C surclassava tutti gli altri partiti che si dovettero accontentare delle briciole, P.C.I e P.S.I ottennero insieme il 24%. Dopo cinquant'anni la Garfagnana aveva però un suo rappresentante parlamentare,l'onorevole Loris Biagioni(D.C). Quello che accadde dopo queste votazioni fa parte di tutto quel bagaglio politico tipicamente italico che ormai conosciamo tutti bene. Coloro che durante la guerra avevano compromesso fortemente il loro passato, senza vergogna alcuna fecero ben presto a salire sul carro del vincitore, emblematico fu quell'episodio che riportò al tempo  sulle proprie pagine"La Gazzetta del Serchio" e che accadde al già citato colonnello Hamilton, quando in
Il re Umberto II lascia
l'Italia dopo i risultati
del referendum
una delle sue visite in Garfagnana si fermò a Camporgiano, tutte le autorità comunali accolsero l'importante ospite, fra queste autorità: "...c'era un fascistone conosciuto in tutta la provincia per le altissime cariche ricoperte nell'ex partito nazionale fascista, tra cui marcia su Roma, fascia littorio, membro federale, fondatore dei fasci in Garfagnana. Ecco, allora vorremmo sapere chi sono i componenti di questo comune per non conoscere l'attività deleteria del dottor XYZ, svolta in venti anni di regime fascista. Forse questi signori vivono in un altro mondo? Conoscevano per fama la sfacciataggine di questo gerarca, ma non fino a questo punto...". Di questo clima se ne accorsero di più e meglio coloro che tornarono dai campi di prigionia e che avevano subito angherie inverosimili da questi aguzzini, il loro sbigottimento era totale: "Le cose continuavano come prima, chi aveva collaborato con il nemico continuava imperterrito nel proprio lavoro avendo cambiato solo casacca" .

Così la Garfagnana e l'Italia entravano nell'era repubblicana.


Bibliografia


  • "Dal fascismo alla resistenza. La Garfagnana fra le due guerre mondiali" di Oscar Guidi. Banca dell'identità e della memoria . Anno 2004

Quando (un simil) Halloween si celebrava anche in Garfagnana. Analogie fra la ricorrenza americana e le antiche tradizioni garfagnine

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Alla fine dei conti la colpa è un po' anche nostra se adesso ce la
ritroviamo fra i piedi. Per nostra intendo di noi europei e se si vuole scendere nel particolare anche di noi garfagnini. La tanta vituperata ricorrenza di Halloween che crediamo tipicamente americana, tipicamente americana non lo è, gli americani hanno avuto semplicemente il "merito" di perpetuare nel tempo un'usanza e una tradizione di chiara origine europea, questa infatti era una ricorrenza che i primi emigranti europei si erano portati dietro dal vecchio al nuovo continente, d'altronde questa festa da noi nei secoli ha perso del suo significato pagano e macabro ed è andata presto nel dimenticatoio, assumendo poi un carattere prettamente religioso, in compenso si è sviluppata negli Stati Uniti attraverso un merchadesign e una pubblicità impressionante. Le sue origini sono da ricercarsi nell'Europa precristiana e nelle tradizioni celtiche. Nelle isole britanniche il 31 ottobre segnava la fine dell'estate e tale ricorrenza era chiamata "Samhain", il nome viene dal gaelico e indica precisamente la conclusione della stagione dei raccolti e l'inizio dell'inverno, una stagione dura dove le tenebre prendono il posto della luce ed è proprio in quella notte di passaggio fra due mondi e due modi di vivere che le anime dei morti tornano a vagare sulla terra. Per trovare ancora similitudini e analogie con Halloween non occorre scomodare nemmeno i rudi e rozzi celti se è vero come è vero che la potente e progredita Roma festeggiava i "Parentalia", una tradizione che si celebrava ogni anno in onore dei
Mosaico sulla morte dell'antica Roma
propri defunti. La differenza stava nella data di celebrazione, che cadeva fra le idi di febbraio (il giorno 13) e il 21 febbraio, giorno vero e proprio in cui si omaggiavano pubblicamente i morti (Feralia), in quel giorno c'era l'usanza di "portare" doni ai morti perchè si credeva che in quel periodo le anime dei defunti potessero girare liberamente insieme ai vivi. I doni che venivano portati alle tombe dei propri cari erano diversi: ghirlande di fiori, spighe di grano, un pizzico di sale e pane imbevuto nel vino e viole, semplici offerte forse introdotte da Enea che aveva versato vino e viole sulla tomba del padre Anchise. Erano guai seri se però ci si dimenticava di onorare i defunti; Ovidio narra che una volta quando i romani erano impegnati in una guerra si dimenticarono di questa consuetudine, i morti allora uscirono dalle tombe girovagando per le strade rabbiosamente. Insomma, tutti questi riti sparsi per l'Europa assumevano ovunque il medesimo significato che era quello di accogliere, confortare e placare le anime degli avi defunti, un modo quindi per esorcizzare la paura dell'ignoto e della morte. Figuriamoci che la ricorrenza era talmente radicata fra la gente che Santa Romana Chiesa la volle fare sua, plasmando e modificando tale aberrante significato pagano. Innanzitutto questa costumanza fu spostata di un giorno (il 2 novembre), poichè questa data faceva  riferimento all'evento biblico del diluvio universale, con particolare riferimento a quell'episodio in cui Noè costruì l'arca, che secondo il racconto cadde nel "diciassettesimo giorno del secondo mese" e che corrisponderebbe proprio all'attuale novembre. La Chiesa con ciò volle quindi dare onore a tutte quelle persone che Dio stesso aveva condannato alla morte al fine di scongiurare la paura di nuovi eventi simili. Nell'835 per sradicare ogni culto pagano residuo Papa Gregorio II spostò la festa di "Ognissanti" dal 13 maggio al 1 novembre e nel 998 Padre Odilo, abate di Cluny istituì ufficialmente nel calendario cristiano il 2 novembre come data per commemorare i defunti. Ma la Garfagnana in tutto questo che c'entra? Certo che c'entra, anche noi abbiamo dato il nostro contributo a

diffondere queste credenze che nascevano proprio dai quei lontani tempi. Con il passare dei secoli abbiamo amalgamato questo credo in una sorta di leggenda mista a religione che è arrivata fino ai giorni nostri. Testimonianze raccolte ricordano ancora che i morti tornavano silenziosi, rientravano nelle loro case, mangiavano e bevevano e tornavano a dormire nel loro letto, si cibavano sopratutto di mondine (n.d.r: caldarroste), che erano difatti uno dei loro cibi preferiti, le donne garfagnine così le lasciavano pronte per loro sul tavolo da cucina. La castagna si legava a filo doppio con la tradizione dei morti e così ricorre spesso nelle testimonianze orali di quel giorno in cui si rammentava che nelle aie garfagnine si festeggiava e si ballava intorno ad un grande fuoco dove venivano preparate scoppiettanti mondine e tradizione voleva che i partecipanti dovevano tingersi la faccia con il nero della castagne bruciate, tale "travestimento" già nel medioevo era in uso e era credenza che fosse utile per confondersi con le anime dei morti che il giorno dopo sarebbero tornate sulla terra e quel giorno in effetti cominciava molto presto. La messa per la commemorazione dei defunti solitamente veniva celebrata alle 4 della mattina, orario giustificato dal momento che con la luce del sole sarebbero cominciati i lavori nei campi e la raccolta della castagne. I bambini naturalmente erano i primi ad impressionarsi e alzarsi a quel ora  non era affatto facile, allora servivano delle "spintarelle" e un bambino di Sermezzana (Minucciano) di quell'epoca ricorda che i genitori dicevano di buttarsi giù dal letto il prima
possibile, sennò da li a poco sarebbero venuti i morti a tirarlo per i piedi, poi sarebbe toccato ai defunti dormire e riposarsi nuovamente nel proprio letto che avevano abbandonato in vita. Altre leggende e storie di paura garfagnine degne del miglior Stephen King fanno da corollario per il 2 novembre, un episodio forse accaduto a Nicciano (Piazza al Serchio) racconta che dopo la messa dedicata ai morti la gente riprendeva le sue opere e in quel periodo ancora si raccoglievano le castagne e nel tempo che serviva per dire la messa e la raccolta delle castagne stesse non si poteva assolutamente rientrare a casa, perchè era lì, nelle proprie case che i morti venuti dall'aldilà tornavano. Un uomo curioso volle sfidare la sorte per vedere se era vero che i defunti tornassero in vita per tornare nelle loro dimore, decise così di preparare delle mondine e di metterne un piatto sul tavolo, dopodichè si nascose, ad un tratto comparve nella cucina una fitta nebbia, una volta svanita il piatto con le mondine era vuoto... Un'altra testimonianza viene dalle Verrucolette(Minucciano): “Nel giorno dei morti alla mattina io mi alzavo alle 5, chiudevo la finestra, bella ‘stricca’ (stretta) e poi dopo m'alzavo e lasciavo il posto; dicevan così i nostri vecchi,bisognava che i morti tornassero nel loro letto. Allora io alle 5 della mattina m'alzavo, venivo giù in casa, stavo laggiù a fare le mie faccende e con le finestre sempre chiuse per far dormire questi morti. Io ci credevo perchè facevano così il mio babbo, la
mia mamma e i miei nonni mi raccontavano così. Poi ci si preparava, s'andava alla messa,  pigliavo un po’ di fiori nell'orto, li portavamo lassù alla chiesa. Dopo quando il prete aveva detto la messa, la funzione dei morti, la benedizione e tutto, si ritornava a casa. Si veniva a casa a piedi e s'andava tutti insieme, si facevano le mondine, si cantava e si stava lì. Avevamo paura. Avevamo paura perchè c'erano questi morti, allora un po’ si pregava e un po’ si cantava e si stava tutti insieme e così si passava la giornata. Alla sera quando si tornava a letto si aveva un po’ di timore perché i morti erano stati li e non si voleva andare, così si stava in cucina e dopo, a una cert'ora, quando non ci si faceva più s'andava a dormire. Io andavo a letto con la mia mamma e col mio babbo perché avevo paura che questi morti mi venissero addosso”. Fra tutte queste testimonianze ci sono alcune in cui traspare anche affetto e tenerezza, come l'episodio di quella moglie che tutti i 2 di novembre apparecchiava la tavola con la tovaglia bianca e preparava il cibo preferito da suo marito morto: maccheroni, pane, formaggio e vino. 
A tagliare la testa al toro sul fatto delle affinità e delle somiglianza fra Halloween e le tradizioni locali basterebbe leggere una vecchia e ormai sparita usanza garfagnina chiamata "ben dei morti" che si svolgeva non nel giorno dedicato ai cari estinti, ma bensì nella notte fra l'ultimo giorno dell'anno e il primo, le ultime testimonianze risalgono ormai a cavallo fra le due guerre mondiali, quando i bambini andavano di casa in casa a chiedere generi alimentari di ogni tipo: arance, noci, biscotti, castagne secche, a queste donazioni i bambini promettevano di pregare per l'anima dei defunti del gentile benefattore. 

I tempi passano e certe superstizioni e leggende sono belle da ricordare, ognuno è libero di fare e credere ciò che vuole, ma  rimane il fatto che l'unico posto dove rimarranno sempre vivi i nostri cari sarà nel profondo del nostro cuore.


Bibliografia:

  • Umberto Bertolini http://museoimmaginario.net
  • "Usanze, credenze, feste  riti  e folklore in Garfagnana" di Lorenza Rossi, edito Banca dell'identità e della memoria, anno 2004

Cent'anni fa l'influenza "spagnola" Morte e malattia nella Garfagnana del 1918

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H1N1. Una sigla che non dice niente a nessuno, potrebbe significare
 molte cose...magari era una delle prime navicelle spaziali russe o americane che solcarono la volta celeste, o forse un nuovo tipo di cocktail, di quelli che vanno adesso in discoteca, è probabile che allora sia il nuovo motore della Ferrari per il prossimo campionato mondiale di Formula 1...niente di tutto questo. Questa sigla secondo studi scientifici uccise in un anno più persone che la peste nera del medioevo in un secolo e in ventiquattro settimane quanto l'AIDS ha ucciso in ventiquattro anni, il suo nome completo è "influenza virus A, sottotipo H1N1" meglio conosciuta come "influenza spagnola"  o semplicemente "la spagnola" che  tra il 1918 e il 1919 (solamente cento anni fa)colpì tutto il mondo, uccidendo 50 milioni di persone e ne infettò oltre 500 milioni. Eravamo ormai alla fine della I guerra mondiale che da sola in cinque anni di conflitto causò 15 milioni di morti, molti di meno dell'influenza spagnola stessa. Si credeva ormai di vivere con la pace ottenuta una nuova prosperità, ma quello che si stava per abbattere sul mondo intero era niente a confronto. La Garfagnana non fu per niente risparmiata, morti su morti si accumulavano nei cimiteri dei nostri paesini, fu la peggior disgrazia di sempre che si abbattè sulle teste dei nostri nonni, peggio anche del famoso terremoto del 1920. Pensiamo che per la Valle del Serchio questo  fu uno dei periodi più bui e tragici della sua storia: prima il lungo conflitto mondiale che portò via dalle proprie case mariti, figli e nipoti, poi la sciagura della "spagnola" e poi quando sembrava debellata questa nefasta epidemia ecco che arrivò il devastante terremoto del 1920.
Ai primi di febbraio del 1918 l'agenzia di stampa spagnola FABRA aveva trasmesso il seguente comunicato: "Una strana forma di malattia a carattere epidemico è comparsa a Madrid...l'epidemia è a carattere benigno non essendo risultati casi mortali". Con queste poche parole di sottovalutazione fu dato il primo annuncio della più grave forma di pandemia della storia dell'umanità, in effetti dapprima si presentò come una semplice influenza, ma poi nell'agosto del 1918 l'influenza gettò la maschera mostrando il suo vero volto divenendo in poco tempo una vera e propria calamità. Fu chiamata impropriamente "spagnola" ma di spagnolo aveva veramente poco e in realtà questo nome trova il suo perchè nella stampa iberica che fu la prima a parlarne dal momento che la Spagna essendo neutrale nella
guerra in corso non era sottoposta a regime di censura. Negli altri paesi (compresa la nostra bella Italia)il violento diffondersi della malattia venne tenuto nascosto dagli organi d'informazione che tendevano a parlarne come di un'epidemia circoscritta alla sola Spagna, ma non solo, la censura colpiva anche le lettere inviate ad amici e parenti, la guerra era più importante non bisogna demoralizzare e mettere nel panico ancor di più una popolazione che veniva ormai da quattro anni di guerra, insomma la parola ordine era minimizzare, questo era il volere del Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando. Quando si cominciò poi a diffondere veramente con tutta la sua virulenza e a colpire senza distinzione di ceto e di razza (fu infettato anche il re di Spagna Alfonso XIII)si cominciò a cercare il suo ceppo, che a quanto sembra fu trovato nelle truppe americane; a Fort Riley nel Kansas infatti 1100 soldati statunitensi furono costretti a letto dalla malattia, soldati del medesimo forte saranno quelli che sbarcheranno in Europa poco tempo dopo. La conseguente mancanza di igiene dovuta dalla guerra, lo spostamento dei militari e la forzata vicinanza degli stessi con le popolazioni locali fece il resto, contribuendo a far crescere a dismisura gli infettati, inoltre il rientro a casa dei militari alla fine della guerra decretò la massima diffusione del contagio. I classici sintomi erano febbre alta e vomito, ma ben presto il corpo reagiva riempiendo i polmoni di sangue, seguiti da sanguinamento dalla bocca, orecchie o dal naso, pelle che diventava
L'ospedale militare di Fort Riley,
da dove forse
partì il contagio
bluastra e morte susseguente che arrivava in un paio di giorni completavano il terribile quadro clinico.

Molti comuni della Garfagnana nonostante l'imperversare della pandemia inizialmente non riconobbero la gravità della situazione al punto che nei primi casi di decessi come causa di morte veniva scritto "morte improvvisa" o "improvviso morbo", i primi rimedi prescritti dai medici garfagnini si limitavano alla cura dell'igiene personale, alla somministrazione di pastiglie e sciroppi che magari forse potevano guarire un raffreddore, ma il tempo e le continue morti aprirono gli occhi a tutta la Valle. Nessuno in verità sapeva come gestire l'emergenza, le prime misure precauzionali prese dai sindaci furono quelle di gigantesche opere di disinfestazione degli
ambienti pubblici e di istituire una specie di coprifuoco per limitare i contagi, per cui furono sconsigliate le visite ai malati, i viaggi da un luogo ad un altro, furono sospesi mercati e fiere, la sera sera poi le osterie anticipavano la chiusura e i teatri non aprivano nemmeno. I sindaci comunicavano con i prefetti dichiarando che si stavano trovando di fronte a qualcosa di spaventoso e sconvolgente e che quello che stava avvenendo "era peggio della guerra". Decine e decine di morti colpivano i paesi garfagnini, a Vagli ad esempio la terribile spagnola fece ricordare al "Corriere della Garfagnana" le "stragi descritte dall'immortale Manzoni", seicento furono gli ammalati e ben 53 i morti. Verso la fine del 1918 era talmente alta la possibilità di essere contagiati che il prefetto di Massa diramò a tutti i comuni di competenza "misure estreme di contenimento e comportamento" al fine di evitare ulteriori diffusioni del virus:
A completamento delle misure profilattiche suggerite da questo ufficio con le precedenti circolari, comunicasi che per maggiormente salvaguardare l’incolumità delle persone ed impedire la diffusione dell’influenza, ha disposto quanto segue:
  1. Da oggi e sino a nuovo avviso sono proibiti tutti i cortei funebri
  2. Tutti i feretri, di qualunque categoria, dovranno essere
    trasportati direttamente dalla casa del defunto al Cimitero e sarà in permanenza un sacerdote per le assoluzioni di rito
  3. Potranno seguire il feretro soltanto un sacerdote e i rappresentanti della famiglia dell’estinto
  4. Tutti i Cimiteri resteranno chiusi al pubblico dal 27 Ottobre corrente all’11 Novembre inclusi, rimanendo così oppresse tutte le funzioni e le onoranze alle tombe, solite a farsi nei primi di Novembre per la commemorazione dei defunti
Venne perfino proibito il suonare delle campane a morto, avrebbero abbattuto lo spirito pubblico, non si trovavano più nemmeno le casse da morto, i falegnami non stavano dietro alla sequela di morti che si era abbattute sulla Garfagnana. Lettere ritrovate e scampate al taglio della censura parlano di morti "trasportati come sacchi di patate " e "seppelliti come cani", addii senza croci, senza fiori e senza gente. Altre lettere ancora:" Nel paese c'è una malattia che fa paura, ce ne muore di giovani nel fiore della vita. Tanti ammalati che fan paura, pare tutto un castigo di Dio un tempo per meditare e per pregare". A proposito di pregare rimase indelebile nei ricordi di una signora di quel episodio in cui un prete invitò i propri parrocchiani a pentirsi, perchè questa malattia arrivata sulla Terra era una punizione divina mandata da Dio per le cattiverie dell'umanità, per tutta risposta alcuni "amabili"parrocchiani lo picchiarono a sangue, ricoverato all'ospedale il parroco chiedeva la precedenza sugli altri ammalati, non accontentato chiamò i carabinieri, il dottore così si giustificò di fronte ai militi: -Ditegli che gli toccherà aspettare, adesso dobbiamo curare i malati. Intanto mentre aspetta ditegli che provi a pentirsi lui...-. 
Fra tutti questi dottori si distinse particolarmente Ubaldo Santini che i castelnuovesi insignirono nell'estate del 1919 di una medaglia d'oro e una pergamena per "...l'opera pietosa spiegata durante l'epidemia spagnola..."
Nel 1920 silenziosa così come arrivò, altrettanto silenziosamente la "spagnola" tornò via. Il conteggio dei morti e degli ammalati nella Valle del Serchio non fu mai stimato con precisione visto
Gallicano agli inizi
 del secolo scorso
l'emergenza e il caos regnante, lo possiamo calcolare approssimativamente (dati sulla media nazionale)in qualche centinaio di morti, contando che mediamente in un paese di 600 persone ne morivano 40/50. Ad esorcizzare la paura e il dolore ci provò alla sua maniera il poeta dialettale castelnuovese Pietro Bonini che in un verso di una sua poesia illuminò chiaramente la situazione di quel tempo:


"...Tanto più che s'un trovin alla lesta 
un velen che distruci tale malore
fortunato sarà chi vivo resta"

E come detto gradualmente l'emergenza cessò, ma per la Garfagnana le sofferenze non finiranno qui... Ad un anno circa dalla fine della tremenda pandemia lo sconvolgente terremoto del settembre 1920 porterà ancora morte e distruzione.


Bibliografia:

  • "Dal fascismo alla resistenza. La Garfagnana fra le due guerre mondiali" di Oscar Guidi edito Banca dell'identità e della memoria
  • "Il flagello della spagnola" Sanità e grande guerra
  • Testimonianze riportate oralmente
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