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L'incredibile viaggio degli emigranti garfagnini per le lontane Americhe. Storia di sacrificio e tribolazione

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Emigranti Italiani arrivano a New York
"Li chiamano (e in effetti sono) i viaggi della disperazione, gente
che sfugge dalle miserie di una vita grama e che cerca per se e per la propria famiglia un po' di benessere. Sono viaggi talvolta fatti in condizioni miserevoli, su navi fatiscenti, l'igiene e la pulizia su queste navi sono costantemente in contrasto con la speculazione. Manca lo spazio, manca l'aria...". 
Può sembrare ma non è...Può sembrare uno stralcio d'articolo di qualsivoglia quotidiano comprato stamani in qualsiasi edicola della Garfagnana sulla condizione dei migranti odierni, ma appunto non è...Questo brano è tratto da una valutazione semestrale che il prefetto locale faceva sull'emigrazione garfagnina ad inizio del 1900 e che veniva poi inviata puntualmente al ministero dell'interno. Come si può vedere tali fenomeni non conoscono epoca, noi garfagnini ci siamo passati per primi da questi fenomeni migratori di massa, naturalmente le differenze ci sono e non starò qui ad elencarle, ma quello che a me interessa è sottolineare la voglia dell'uomo di migliorare la propria condizione di vita ed è questa la molla principale che muove
emigranti italiani in partenza.
Una mano la dava
l'opera assistenza
emigranti
un individuo ad abbandonare la propria casa e avventurarsi in una nuova nazione. Ma prima di arrivare nel nuovo Paese in cui sarebbe cominciata una nuova vita bisognava e bisogna affrontare un viaggio, lungo e terribile, oggi 
come allora. Ecco dunque come si accingevano al viaggio nelle lontane Americhe (o in Brasile, piuttosto che in Argentina) i garfagnini, un viaggio se si vuole non troppo diverso in tutto e per tutto da quello dei migranti di oggi.
La situazione era veramente disperata, la Garfagnana nei primi dieci anni del 1900 registrò una preoccupante decadenza demografica, in montagna la percentuale dei disoccupati saliva addirittura al 70% e come racconta sempre un rapporto del prefetto di quegli anni:-...il garfagnino cerca i mezzi minimi di esistenza nello sfruttamento del bosco e del sottobosco con la raccolta a seconda della stagione di legna, di funghi e di frutta(castagne,fragole, lamponi e mirtilli)- l'analisi si fa più profonda e continua dicendo che:-...come si può biasimarli, l'agricoltura è arretrata, le colture sono quelle
tradizionali e poi la sognata ferrovia Lucca- Modena sembra essersi fermata a Castelnuovo Garfagnana...- La conseguenza di tutto ciò
Un biglietto per le Americhe
porterà  i nostri nonni ancor di più ad emigrare nei paesi d'oltre mare. Ma il primo ostacolo che trovavano era la mancanza di soldi per comprare il biglietto per le lontane Americhe, allora in buona parte dei casi ci si indebitava già prima di partire. Molti garfagnini infatti si rivolgevano già nel 1874 al Banco di Anticipazioni e di Sconto di Castelnuovo che tramite l'ipoteca sui beni terreni concedeva il prestito per acquistare il biglietto, tale prestito veniva ripagato dalla famiglia dell'emigrante attraverso i primi guadagni del congiunto che ogni tanto inviava. La partenza spesso avveniva su richiamo dall'estero per bisogno vero e proprio di maestranze o era anche il parente stesso già partito in precedenza che richiamava i nipoti o altri familiari come in questo caso:

"San Paolo 5 maggio 1910
Carissimi genitori ringraziando il Signore e Maria Santissima si gode una buona e perfetta salute ...Sono a dirvi che Angiolino che se non ne cavate da niente se volesse venire con me e se avesse voglia di lavorare, meglio che stare a fare i vagamondi si sta sempre, oppure lo mando in San Paolo coi zii che incomincia guadagnare i primi soldi" (lettera di Amose Abrami di Chiozza che chiama il fratello). 
Ma prima di partire tutto passava da un librettino rosso che i
Un passaporto del tempo
garfagnini manco avevano mai visto:il passaporto. La procedura per l'espatrio prevedeva appunto la richiesta di tale documento. Per ottenerlo era necessario fare richiesta al sindaco del comune di residenza che a sua volta girava la domanda al ministero degli esteri. Sul passaporto venivano iscritti (se l'uomo aveva famiglia) la moglie, i figli e anche gli ascendenti conviventi. Naturalmente si pagava una tassa che era esente per le persone che andavano all'estero per lavorare. Fu un esodo epocale quello che accadde in Toscana nel decennio 1906-1916, le statistiche su base decennale parlano di ben 330.000 partenze e questo studio vide la Garfagnana e la Lucchesia al primo posto, avanti a tutti i comuni di Barga, Capannori e Castelnuovo. L'avventura per nostri conterranei cominciava quasi sempre nel porto di Genova a loro si mostravano davanti i più grossi transatlantici
Italiani in partenza mostrano
orgogliosamente il tricolore
che mai avevano solcato quei mari: il Rex o il Nastro Azzurro per

citarne alcuni, naturalmente per loro la prima e la seconda classe erano una lontana chimera, per i garfagnini (e per tutti gli emigranti in genere) si aprivano le porte della terza classe, un vero e proprio "carnaio" di persone stipate, buttate li, quasi come capitava, a questo proposito c'è un ricordo di un'illustre personaggio: Edmondo De Amicis(n.d.r::l'autore del libro "Cuore"). Il famoso scrittore s'imbarco sul "Galileo"a Genova diretto a Buenos Aires, un viaggio che durerà 22 giorni in compagnia di varia umanità e fra questa umanità incontrerà anche i garfagnini: "Chi parte? Il Galileo portava mille e seicento passeggeri di terza classe, dei quali più di quattrocento di donne e bambini[...] Tutti i posti erano occupati. La maggior parte degli emigranti, come sempre provenivano dall'Italia alta, e otto di dieci dalla
Edmondo De Amicis
campagna[...]. Di toscani un piccolo numero: qualche lavoratore d'alabastro di Volterra, fabbricatori di figurine di Lucca, agricoltori nei dintorni di Fiorenzuola, qualcuno dei quali, come accade spesso, avrebbe un giorno smesso la zappa per fare il suonatore ambulante[...] calzolai e sarti della Garfagnana"(brano tratto
dal libro di De Amicis "Sull'Oceano",1888). 

In che condizioni era la terza classe ve lo lascio immaginare. Augusta Molinari (storica contemporanea) le ebbe a chiamare "Le navi di Lazzaro". Fino al 1901 non esisteva alcuna norma che regolamentasse gli aspetti sanitari dell'emigrazione e da un rapporto medico del 1902 si deduce che: "Le cuccette degli emigranti vengono ricavate in due o tre corridoi e ricevono aria per lo più attraverso i boccaporti. L'altezza minima dei corridoi e di un metro e cinquanta centimetri. Nei dormitori così allestiti è frequente l'insorgenza di malattie, specialmente bronchiali e del'apparato respiratorio. Per sottolineare la mancanza delle più elementari norme igieniche si può fare riferimento al problema della conservazione e distribuzione dell'acqua che viene tenuta in casse di ferro rivestite di cemento. A causa del rollio della nave il cemento tende a sgretolarsi e intorbidire l'acqua che, venuta a contatto con il ferro ossidato assume un colore rossastro e viene consumata così dagli emigranti. Dal punto di vista dietetico la razione viveri giornaliera risulta sufficientemente ricca di elementi proteici. Sulla modalità di distribuzione del rancio viene segnalata la discriminante distribuzione del pasto da parte dei "capi rancio". Il cibo viene consumato nelle cuccette o sul ponte in quanto non previsti refettori". 
Il ponte stipato all'inverosimile
 di una terza classe
Per gli emigranti della terza classe veniva però anche il momento del divertimento. Il garfagnino Camillo Angelo Abrami ricordava così quei momenti: - Fra i pochi divertimenti vi era la tombola. Banchi di pesce a volte ci davano qualche allegra sorpresa, rari i delfini che per lungo tratto accompagnavano la nave[...] Il lavoro a bordo era andare a prendere il cibo, pane e vino mattina e sera, qualche partita a tombola e osservare lo spartiacque alla prua di bordo lungo la rotta-. Altro svago era la musica suonata con l'organetto a questo proposito basta ricordare la famosa canzone "Mamma mia dammi cento lire". Arrivava finalmente dopo lunghe ed estenuanti settimane il momento dello sbarco e qui i problemi non finivano, ma anzi cominciavano di nuovi e più grandi. Spesso capitava ai nostri emigranti di non sapere neanche in che parte di mondo erano capitati, tanto da non comprendere geograficamente parlando dove erano finiti. Una cartolina illustrata del 1902 del garfagnino Nicola Ambrogi ne è un fulgido e se si vuole simpatico esempio. Tale cartolina venne spedita dopo lo sbarco negli Stati Uniti e il nostro emigrante era deluso perchè il piroscafo non era passato da Parigi. Dispiaciuto se ne scusa con l'amico Enrico. Ma l'America allora dov'era? L'America intesa con l'A maiuscola era ancora ben lontana. Appena arrivati gli emigranti rimanevano esposti a rapine e a fregature varie, mancava infatti qualsiasi tipo di assistenza da parte del governo italiano, supplirono a ciò a partire dalla fine del 1800 istituzioni private: la Congregazione dei missionari scalabriniani che dava la sua assistenza sopratutto in Europa, nelle Americhe e in Australia, l'Opera Bonomelli (anch'essa cattolica)attiva in Europa e nel Mediterraneo e la Società
All'arrivo in America
Umanitaria
d'ispirazione laica. La vita all'interno delle strutture d'accoglienza per i garfagnini e non, era sempre traumatica. In Argentina esisteva"L'Hotel degli immigranti" un ampia struttura in pietra che aveva sostituito un fatiscente edificio nel porto di Buenos Aires, questa struttura serviva a coloro che non erano attesi da parenti e amici ed era utilizzata  come avviamento al lavoro, a tale scopo l'Oficina de trabajo (n.d.r:l'ufficio del lavoro) smistava le richieste di lavoro che venivano da tutto il paese. Cosa molto simile esisteva in Brasile. Dopo lo sbarco a Santos c'era il trasferimento nell'Hospedaria di San Paolo. Il peggio del peggio però accadeva negli Stati Uniti. Prima di Ellis Island a New York c'era il Castle Garden, nelle intenzioni era un centro a cui tutte le imprese che cercavano lavoratori dovevano far capo, ma non era proprio così. In pratica in questi locali gli emigranti italiani venivano ammassati come bestie e trattati proprio come se fossero a una fiera del bestiame o ad un mercato degli schiavi. Molti immigrati
Mulberry Street New York emigrati italiani
e non in posa
garfagnini caddero nelle maglie del rinomato "Padrone system", in pratica un boss, che in cambio di una tangente procurava a loro lavoro, ma non solo, si occupava anche dell'alloggio che di solito era in qualche lurida pensione a prezzi esorbitanti. Il lavoro era settimanale in modo che ad ogni rinnovo il boss riscuoteva la solita mazzetta, inoltre solitamente aveva in gestione anche uno spaccio in cui le merci costavano il doppio che da altre parti, d'altronde era difficile sottrarsi a questa ragnatela una volta caduti dentro, l'emigrato non conosceva la lingua e gli usi locali e dipendeva esclusivamente dal boss. Questo sfruttamento finalmente trovò un grosso argine nella cattolica St Raphael's Italian Benevolent Society. 

Grazie a Dio, esisteva anche chi questo tribolato
Corfino
viaggio lo concludeva in maniera soddisfacente, lavorando duramente cominciava a farsi la sua nuova vita. 

Molti dei nostri emigranti oggi sono benestanti, grazie proprio ai sacrifici e ai patimenti dei loro nonni partiti oltre un secolo fa e per questo voglio raccontarvi quello che accadde a una comunità garfagnino-californiana. Tutto nacque nella contea di San Joaquin nella città Stockton (in California appunto) oltre un secolo fa. Eravamo negli anni compresi fra il 1880 e il 1905 quando un gruppo di soli uomini (circa 18) si insediò in questo luogo, lavorando come braccianti e operai in fabbriche di mattoni. Il tempo passava e una volta che finalmente fu raggiunta la stabilità economica questi uomini cominciarono a
Corfino Lane a Stockton
chiamare anche la loro famiglia e oggi se vi capita di passare da quelle parti leggete i nomi sui campanelli, possiamo notare cognomi a noi familiari: Nelli, Gregori, Manetti, Cecchini, Vergai, Pennacchi, Santi, Nicoli, sono tutti cognomi riconducibili alla 
Garfagnana e in particolar modo al paese di Corfino. Una vera e propria colonia di corfinesi  che attraverso un flusso emigratorio avvenuto a più riprese popolò questa ricca contea e fa una certa impressione passare per la via cittadina denominata Corfino Lane (n.d.r:Corso Corfino) e curiosità nella curiosità con ogni probabilità Corfino può contare oggi più oriundi negli States che residenti nella provincia di Lucca, anche se ad onor del vero è difficile quantificare il numero dei corfinesi a Stockton, molti hanno americanizzato il proprio cognome (da Lombardi a Lombard per esempio), ma comunque facendo un sommario calcolo sono 140 le famiglie di origine corfinese che hanno contribuito
La città di Stockton
fattivamente allo sviluppo di questa città lavorando
 come semplici manovali o braccianti, impiegati spesso nelle miniere, i pionieri garfagnini si sono integrati alla perfezione senza rinunciare alle proprie origini, facendo poi studiare i loro figli che adesso fanno i professionisti, i commercianti e gli operai specializzati. Quello che si dice un viaggio finito bene...


  • Notizie tratte da: Archivio Fondazione Paolo Cresci (Lucca)

Un ritorno inaspettato: i lupi. Ecco la loro perseguitata storia in Garfagnana

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"Ci sono tre predatori che mettono paura all'uomo medio: lo squalo mangia uomini, un branco di lupi,e il dipartimento delle tasse", così ebbe a dire Sir Charles James Lyall funzionario di sua maestà britannica nelle lontane Indie. Questa frase in parte può essere accostata anche alla nostra Garfagnana, poichè togliendo lo squalo la paura rimane (da tempo immemore) per le tasse e ultimamente è tornata a galla per il ritorno dei lupi. Ormai erano spariti dalle nostre terre già da molto tempo ma negli ultimi anni sono tornati prepotentemente alla ribalta. La loro presenza è segnalata in ogni dove nella valle, si parla di due grossi branchi all'interno del Parco delle Apuane, inoltre tempi duri si prospettano anche per i cacciatori di cinghiali, dato che questi lamentano di un dimezzamento delle prede rispetto agli anni passati, colpa dei lupi a quanto si dice. Nei boschi pare non sia difficile neppure trovare carcasse di daini e mufloni, ma non solo, a lamentarsi per il grave danno procurato sono anche i pastori garfagnini, ad esempio in località Cerasa nel comune di Pieve Fosciana delle pecore furono letteralmente sbranate dai lupi. La cosa che però desta più preoccupazione è quello che accadde nel febbraio 2016 a Gorfigliano, quando i lupi scesero dalle pendici apuane per giungere direttamente nel paese, furono avvistati proprio dai paesani stessi che li videro arrivare fino alla piazza principale del borgo, per l'amor di Dio, niente è successo nè a persone nè ad animali domestici, ma un certo timore si fa avanti e a questo proposito furono allertati dal sindaco, sia la Prefettura che la regione che prospettarono come soluzione l'installazione di dissuasori acustici per tenere lontano questi animali. Si, perchè è bene sapere che i lupi non si possono uccidere, quindi la regola di farsi giustizia da soli non vale, anzi il buon lupo deve dire sopratutto grazie della sua salvaguardia a due persone: il ricercatore Luigi Boitani dell'università La Sapienza di Roma ed al professor Erick Ziemen che all'inizio degli
Luigi Boitani uno dei
salvatori del lupo
anni '70 su commissione del W.W.F studiarono la distribuzione della specie e sottolinearono che senza un intervento mirato di li a poco il lupo si sarebbe estinto. Detto fatto in breve tempo (nel 1971) fu emanato un decreto ministeriale che eliminava il lupo dalla lista degli animali nocivi (dove prima era stato inserito con Regio Decreto 1423 del 1923 e che così dettava "la presa degli animali nocivi e feroci può essere fatta con lacci, tagliuole e bocconi avvelenati...")e proibiva appunto l'uso di questi bocconi. Nel 1976 a maggior tutela fu introdotto un ennesimo decreto, il decreto Marcora che sanciva la protezione integrale e il divieto di caccia totale, fino poi ad arrivare alla legge vera e propria del 27 dicembre 1977, numero 968 e tanto per rimanere sempre in tema di leggi e decreti ecco ancora un altro decreto, il 121 che punisce i cacciatori di animali protetti con il carcere da uno a sei mesi o un ammenda fino a 4000 €...mica noccioline! La storia garfagnina come vedremo ci dice che nei secoli il lupo ha sempre abitato le nostre montagne, ma allora quali furono le cause della sua scomparsa? E quali le motivazioni per cui è riapparso ai giorni nostri? La causa primaria della sua scomparsa fu la caccia fatta in maniera selvaggia e continuativa che portò l'animale quasi all'estinzione, d'altronde nei tempi antichi la protezione del gregge era fondamentale per la sopravvivenza e per l'economia di una famiglia. Ecco poi che piano piano e in maniera graduale il lupo è 
riapparso nelle nostre terre e vediamo come mai. L'abbandono progressivo della montagna da parte dell'uomo e il

conseguente ripopolamento di cervi, daini e cinghiali ha fatto si che il lupo potesse tornare a vivere nei nostri boschi. Negli anni si sono susseguite molte voci sul fatto che lo stesso lupo fosse stato reintrodotto in Garfagnana per mano umana, ma gli esperti rifiutano questa ipotesi, smentiscono poi di particolari incroci della specie con lupi americani o cecoslovacchi, in parole povere il Centro di salvaguardia del lupo appenninico dice che il ripopolamento(per mezzo dell'uomo)sull'Appennino Tosco- emiliano non c'è mai stato e con queste parole conferma che:- il fenomeno di colonizzazione di nuove aree è totalmente naturale-. In pratica questo lupo che gira famelico per i greggi nostrali è il solito lupo che già da tempi remotissimi vagava nei boschi di casa nostra, cacciato più che mai in maniera spietata. Si presume che il lupo fosse già presente nella valle già nel VI secolo d.C, all'indomani delle prime invasioni barbariche, quando questi fieri guerrieri misero a ferro e fuoco sia la Garfagnana che tutta la penisola italiana, fu un lungo periodo di completa disorganizzazione sociale, per di più la peste e la povertà ridussero notevolmente la popolazione locale, questi fattori crearono le condizioni ideali per il lupo di potersi riprodurre in tutta tranquillità per mancanza di competitori naturali e tutto il territorio era in completo stato di abbandono. Ma presto l'uomo tornò a fare i conti con questo predatore. La società con il tempo riprese il suo naturale cammino, ora però il lupo era il re assoluto dei boschi e delle selve. Il numero di questi predatori in quegli anni raggiunse livelli mai più raggiunti, tanto da mettere in serio pericolo l'uomo e ciò che gli apparteneva. Siamo infatti intorno al 1300 quando cominciano a nascere le leggende e le credenze più disparate su questo animale ed è proprio in quel periodo che il lupo suo malgrado diventa il protagonista cattivo delle fiabe, ecco allora che uccidere un lupo diventa un atto di giustizia e un dovere e le carcasse dei lupi più feroci vengono esposte fuori dai paesi garfagnini, ma non solo, per quanto la cosa appaia ridicola ci sono documenti che attestano di processi a questo animale, si ha notizia di maledizioni lanciate sulle belve ad opera di preti, dal momento che è il lupo che viene cavalcato
La caccia al lupo dura da secoli
dalle streghe per andare al sabba e le stesse si dice che abbiano rapporti sessuali con questo animale. Il lupo così si sarà fatto nei secoli la sua etichetta, per tutti adesso rappresenta il male e per questo doveva essere combattuto con tutti i mezzi possibili e i legislatori dei nostri comuni adottarono vari sistemi per vincerlo. Il più praticato era mettere una vera e propria taglia sulla testa del mal 
capitato animale. Il comune era quindi pronto ad elargire premio in denaro a chiunque portasse un lupo vivo o morto. Addirittura in certi comuni si faceva l'obbligo ai contadini di dare la caccia all'animale. A questi propositi ecco una norma della Stato di Lucca del 24 maggio 1343 che così diceva:

"Bandisce da parte di messer lo Vice vicario
Che ciascuna persona di qualunque conditione sia, la quale consegnerà et appresenterà alla Camera di Lucca alcuno lupo o lupa vivo o morto arà incontenente dal Camarlingo della dicta camera tre lire di piccioli, se serà lupo grande et atto a nuocere; e se fusse delli altri lupi piccoli, di ciascuno vivo, avrà soldi XL, et di ciascuno morto soldi XX..."
Ma questi soldi non bastarono e per incrementare ancor di più lo sterminio del lupo nella valle gli amministratori furono costretti
Branchi di lupi sterminati messi in mostra
fuori dal paese
ad aumentare il premio, dalle tre lire il compenso fu aumentato notevolmente fino ad arrivare a 17 lire. La lotta fra l'uomo e lupo continuò nei secoli a venire, tanto che duecento anni dopo troviamo ancora vigente la taglia sul lupo. Difatti dal registro "dell'Offizio dell'entrate" ecco qualche annotazione dei pagamenti eseguiti per la cattura dei lupi. Ad esempio nel 1565 tal Gian Maria di Pellegrino di Bolognana si ritrova in tasca 17 lire suonanti per la cattura di un lupo grosso. L'anno dopo (1566) a Baccio da Castiglione ecco le solite lire ma stavolta per ben sei lupacchiotti, che dire poi di Lentino di Batista e Cesare di Francesco di Eglio che nel 1568 ebbero l'ardire di catturare ben due lupi grossi, naturalmente la taglia venne raddoppiata. 
A metter il bastone di traverso a questo bistrattato animale non bastava solamente, come si è visto il vigente Stato, ci si mise pure

la chiesa: chi non rispettava i precetti di "Sanctae Romanae Ecclesiae" poteva essere attaccato dal lupo, o lui o i suoi greggi e per confermare questo leggiamo una leggenda figlia di quel lontano periodo. La leggenda si intitola semplicemente "Il pastore e il lupo".
-C'era un pastore nei pressi di Vagli che viveva sperduto con il suo gregge per le montagne, nessuno mai lo incontrava, scendeva in paese solamente per andare alla messa. In quei tempi lontani i lupi erano un vero flagello per i pastori, ma questo problema non toccava il nostro caro pastore perchè la sua fede  e il suo coraggio erano più che sufficienti per tenerli lontani, quando vedeva un branco di lupi all'orizzonte o intento ad uscire dalle impervie gole montane, ecco che il buon pastorello si inginocchiava e cominciava a pregare e alzando solamente una mano fermava l'avanzata inesorabile dei lupi. Una domenica il pastore non scese in paese per andare alla messa, aveva molte faccende da sbrigare, ma quella notte le pecore si misero a belare a più non posso, egli capì subito che i lupi erano ormai vicini. Salì su un masso e si inginocchiò, ma questa volta l'avanzata dei lupi non si fermava, il pastore capì che non essendo andato alla messa i suoi poteri erano spariti, allora estrasse dalla tasca il suo Rosario, chiese perdono e i lupi immediatamente si ritirarono-. Sul
masso dove si inginocchiò ancora oggi si possono vedere le impronte delle ginocchia del pastore.
Insomma è dura la vita del lupo, da Cappuccetto Rosso in poi non ha avuto più pace, una pace che credo neanche ai giorni nostri riuscirà ad avere...


Bibliografia:


  • Rivista di archeologia storia e costume. Anno XLIV N 1-2 2016 "Brevi note sulla presenza del lupo in Lucchesia" di Osvaldo Nieri
  • "Racconti e tradizioni popolari nelle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi

Il "maconeccio", un singolare rito millenario garfagnino a salvaguardia delle castagne

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"Già cominciavano a calare le prime ombre della sera nell'imponente selva di castagni di Campaiana e a ottobre c'è poco da fare le giornate si fanno più fredde e il sole tramonta prima. Il lavoro è molto in questi giorni e i metati nel bosco sono sempre in funzione, gli uomini intanto sono a battere le castagne che sono dentro il sacco di canapa, i "pistatori" come si dice in dialetto, le battono sopra un ciocco ritmicamente e senza intrecciarsi tra loro, ma all'improvviso verso la Pania di Corfino ecco scorgere una lunga fila di lumini che vagano dall'alto in basso, di qua e di là, si aggirano per il monte senza una fissa meta. Uno degli uomini spossato dalla fatica urla:- Venite ad aiutarci invece di star li a far niente !- , dal buio della selva improvvisamente esce un uomo che si offre di dare una mano, riempe un solo sacco di castagne e poi come misteriosamente era apparso, altrettanto misteriosamente scompare nel nulla, un brivido sale nella schiena dei lavoratori e un vago sospetto gli si fa spazio nella mente. All'indomani gli uomini quasi si sono dimenticati dell'accaduto della notte prima, ma quando caricano il mulo di balle si accorgono che un sacco contiene solo castagne bruciate e sulla tela è impressa la forma di una mano annerita. Il raccolto di castagne per quell'anno è andato perso è stato maledetto dagli streghi".
Questa leggenda si rifà ad un'antica paura, la più grande per la Garfagnana per i tempi passati e cioè, come abbiamo visto, che la
raccolta delle castagne andasse in malora o quantomeno fosse misera e povera, d'altronde non per niente "l'albero del pane" (come veniva chiamato il castagno) dava i suoi frutti proprio perchè questi erano l'alimento base per tutta la valle. Questo timore risaliva da tempi lontanissimi, da quando praticamente intorno all'anno 1000 il castagno aveva messo le sue radici in Garfagnana, ma allora a chi dare la colpa di tali sventure? La cura dei castagneti era affidata a Dio, ma la loro rovina era sicuramente opera degli streghi. Gli streghi (come già possiamo vedere in un mio precedente articolo http://paolomarzi.blogspot.itlo-strego-la-macabra-storia-di-un.html)erano esseri tipicamente garfagnini, di sesso maschile, capaci come le streghe di fare incantesimi e magie, potevano parlare con i morti e farli tornare in vita, non mancavano nemmeno di fare fatture e in più facevano strane processioni come quelle lette nella leggenda alle quali partecipavano anche i morti, la loro specialità, se così si può dire, era recare danno alle cose e agli animali e di notte chiamavano le persone che terrorizzate si chiudevano nelle loro case. Ma per fortuna esisteva anche un efficace usanza per la salvaguardia delle castagne e questo rito si chiamava il Maconeccio. Tale tradizione tutta garfagnina si rifà anche questa a tempi antichissimi, non si sa esattamente l'origine ma ci sono già documenti del 1671 che parlano di questa cerimonia, nella "Descrittione cronologica della Garfagnana" lo storico di allora Anselmo Micotti ce la spiega:

"Ha chiesa di honesta fabrica sotto il titolo di S.Pietro (n.d.r: il riferimento è al paese di Careggine) et è Pieve, ma non ha altra chiesa sotto di se che l'Hospedale dell'Isola Santa posto fra i dirupi della Pania. In questa terra anch'oggi conservano un'usanza molto strana. Ogn'anno la notte di S. Michele di Settembre gli huomini vanno fuori alla campagna e come essi dicono a cacciare gli streghi, suonando campane, tamburi e scaricando archibugi e facendo altri strepiti, gridando ad alta voce - maconeccio, maconeccio-, parole cred'io affatto barbare e credono in questo modo di assicurare la raccolta delle castagne dalle stregharia".

Si ritrova una simile descrizione anche nel 1728 nel "Viaggio per i monti di Modena" dell'illustre naturalista trassilichino Antonio Vallisneri e ancora nel 1879 ricompare nella "Descrizione geografica storica ed economica della Garfagnana" di Raffaello Raffaelli che cambia la parola in questione da "maconeccio" in "macconeccio"e
la pubblicazione del 1728 di Antonio Vallisneri
cerchiato in rosso la nota a margine
 del significato
della parola "maconeccio"
ritiene appunto che "macco" significhi polenta, quindi italianamente tradotto "polenta di castagne", ma non è così e in realtà il giusto significato di questa bizzarra parola ce la da il Vallisneri stesso che riporta una nota a margine del suo interessante libro e fa riferimento niente di meno che all'Accademia della Crusca
(n.d.r: la più antica accademia linguistica del mondo) per ricercare l'origine di tale vocabolo e scopre appunto che il termine "maco" significa letteralmente 
"abbondanza", per cui maconeccio starebbe a dire abbondanza di neccio, abbondanza di farina, cioè di castagne. A leggere queste righe possiamo notare quant'era radicata nella Valle del Serchio questa usanza, che la vediamo protrarsi nei secoli pressochè intatta, tanto è vero che a noi contemporanei sembra un mondo distante e inverosimile, ma il professor Oscar Guidi specialista in materia ci smentisce e sfogliando il testo del Raffaelli rimane colpito quando legge che alla fine del 1800 usava ancora fare questo rito. Cercando incuriosito nei paesi della Garfagnana il professor Guidi scopre che perlomeno fino a pochi decenni fa questa tradizione era ancora viva e a Colli di Capricchia (comune di Careggine) nel 1988 ancora diversi anziani ricordavano questi fatti. Tali vecchietti raccontano che questa consuetudine era praticata fino a poco tempo fa, almeno fino a pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, così dalla loro viva voce ha potuto ascoltare come si svolgeva questa atea liturgia. 
Accadeva sempre il 29 settembre, la notte di San Michele e non
San Michele Arcangelo
che vince il diavolo
un'altra data poichè proprio San Michele Arcangelo era considerato l'avversario per eccellenza del demonio, colui che come narra il libro dell'Apocalisse al capitolo 12 aveva vinto l'ultima battaglia contro satana e i suoi sostenitori e fra i suoi sostenitori la tradizione garfagnina dice che c'erano anche i maledetti streghi. A questo rito 

-raccontano ancora gli anziani- partecipavano uomini, donne e anche bambini che all'imbrunire si radunavano tutti nella piazza principale del paese, ognuno portava con se un "mannello" (n.d.r: un fascio) di paglia che veniva incendiato ed iniziava così una processione per le vie del borgo e nei castagneti vicini che si concludeva con il ritorno nella piazza di partenza e l'accensione di un grande falò purificatore. Nella versione "moderna" però non si fa riferimento ad uso di archibugi, strumenti musicali o a sguaiate grida, ma si parla di formule di buon auspicio che sempre Oscar Guidi ne ha raccolte alcune:

"Che bel boccone è la castagna
quest'anno chi la mangia ne sente il sapor"

"Quanta abbondanza che abbiamo quest'anno
lo ridiranno per l'avvenir?"

"Anche quest'anno abbian l'abbondanza
a crepa pancia se n'ha a mangià"

"Fate tanti ripari e palancite
che presto le castagne coglierete"

Alla fine della processione ognuno faceva ritorno alla propria casa,
Un falò purifucatore
convinto che anche per quell'anno gli streghi non si sarebbero visti, così da salvare il raccolto delle castagne dalle loro potenti malie. Al maconeccio, assicurano sempre i testimoni, che mai nessun prete ha partecipato alle processioni e alle litanie beneauguranti e tanto meno venivano recitate preghiere, questa cosa rende ancor più rara questa usanza perchè nonostante sia fatta per scongiurare eventi infausti non richiede, come spesso accade in questi casi l'aiuto di Dio, l'unico riferimento religioso è la data di svolgimento che (come abbiamo visto) si rifà ad un particolare santo. Una cerimonia puramente laica e suggestiva, una lotta testa a testa fra uomini e streghi per la fecondità del castagneto.



Bibliografia

  • Gli streghi,le streghe. Antiche credenze nei racconti popolari della Garfagnana (1990) di Oscar Guidi (Maria Pacini Fazzi editore)

Gaetano Bresci, un regicida nella Valle del Serchio

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-29 luglio 1900, il sovrano,sua maestà Umberto I di Savoia, salutati ed incitati gli atleti presenti a quella serata, tornò nella sua carrozza insieme ai due generali, il ministro della Real Casa,Ponzio Vallia e Felice Avogadro di Quinto, aiutante di campo del re. I tre partirono in direzione della Villa Reale alle 22 e 30 e, tra le ovazioni della gente e il suono squillante della Marcia Reale, partirono tre–o quattro colpi di rivoltella verso la persona del Re che, pochi minuti dopo, si accasciò e spirò di fronte ai due generali attoniti. La popolazione lì radunata scorse l’attentatore e tentò di linciarlo, questi da prima cercò di dileguarsi passando per un turista, avendo al collo una macchinetta fotografica, poi per sua fortuna venne tratto in salvo dal maresciallo dei Carabinieri,Giuseppe Braggi, che lo trasse dai pugni e dai calci sferrati dalla gente e lo tradusse nella Regia Caserma monzese. Fuori dalla caserma la popolazione indemoniata gridava a l’unisono: "morte all’attentatore". Alcuni cittadini presenti all'attentato raccontano:Ero vicino alla carrozza– narra alla stampa il testimone Giuseppe Buggioli – il Re era in piedi, stava sedendosi, quando il primo colpo lo ferì nella parte posteriore del collo; il Re si voltò istintivamente, e fu colpito al petto da altri due colpi, alla regione cardiaca. Accasciandosi, rivolto al cocchiere ordinò: "Avanti, Avanti”-
Gaetano Bresci

Questa è la cronaca di quel tragico 29 luglio 1900 e dell'assassinio del re d'Italia Umberto I, avvenuto a Monza dopo un concorso ginnico promosso dalla società sportiva "Forti e liberi". Così, con questo fatto clamoroso e mai più ripetuto gesto il nuovo secolo si aprì per gli italiani, dopo le due guerre mondiali per la nostra nazione fu l'evento più sconvolgente e a commetterlo fu un anarchico toscano: Gaetano Bresci. Per conoscere la personalità di Bresci basta raccontare uno degli ultimi episodi che lo vide in vita, quando dopo il regicidio fu condotto in carcere nell'Isola di Santo Stefano(n.d.r:isola fra il Lazio e la Campania), ai marinai che lo conducevano in prigione fu dato il tassativo ordine di non scambiare alcuna parola con l'assassino, ma il marinaio Salvatore Crucullà infrangendo la consegna domandò:-Perchè hai ammazzato il re?- Bresci lo guardò con compassione e gli rispose:-L'ho fatto anche per te...-, non comprendendo a fondo il significato di quelle parole, tutti si misero a ridere, il regicida si arrabbiò e accusò la sua scorta di ignoranza politica e sociale e chiuse lapidario con una frase:-Comunque sia io passerò alla storia, voi sarete polvere!-
Questo era il temperamento di Gaetano Bresci e mai frase più
Il momento dell'attentato al re

veritiera. Ma cosa c'entra uno degli assassini più famosi d'Italia con la Valle del Serchio? Tanto, dal momento che con ogni probabilità proprio nelle nostre terre cominciò a maturare l'idea di assassinare il re. Guardiamo tuttavia come arrivò a stabilirsi a Ponte all'Ania, frazione nel comune di Barga, facendo un po' di antefatto per comprendere così al meglio tutta la situazione.
Bresci nacque a Coiano, vicino Prato il 10 novembre 1869, destino volle che nascesse esattamente un giorno prima di Vittorio Emanuele III (n.d.r:nato l'11 novembre 1869) colui che diventerà re d'Italia per sua mano dopo i fatti di Monza. Il padre Gaspare era un agiato contadino, proprietario di un piccolo podere e di una casa a tre piani. Il giovinetto cominciò ben presto a lavorare e a undici anni era già "al pezzo" come apprendista in quello che a Prato era conosciuto come il"fabbricone", ovverosia l'industria tessile Hosler. A quindici anni Gaetano si dimostrava già sveglio e pronto, tanto da essere fatto operaio specializzato e fu proprio in quegli anni che cominciò a frequentare i circoli anarchici della città. La "marmaglia", così come venivano chiamati gli anarchici
Il re Umberto I
dalle forze dell'ordine era tenuta costantemente sott'occhio e nel 1892 ci fu la prima occasione per tarpare le ali alle idee rivoluzionarie di quel "giovanotto impenitente" del Bresci. L'opportunità capitò quando ci fu da difendere un fornaio che teneva aperta la bottega oltre l'orario di chiusura, Gaetano non esitò ad insultare le guardie, si beccò immediatamente quindici giorni di reclusione, ma non pago di tutto ciò prese parte anche agli scioperi che portarono all'occupazione del "fabbricone", una volta terminato lo sciopero si licenziò per poi in seguito venire fermato e nuovamente arrestato "per misure di pubblica sicurezza" e condannato nel 1893 al confino nella lontanissima isola siciliana di Lampedusa. Durante il processo uno dei suoi datori di lavorò dirà:- onestamente devo riconoscere che come operaio ce ne erano pochi come lui-, ma questo non bastò a trovare un nuovo lavoro, quando a distanza di oltre un anno fu liberato insieme ai suoi 52 compagni anarchici, grazie ad una amnistia concessa per il disastro di Adua (n.d.r: guerra coloniale in Africa). Ecco a questo punto entrare in scena la Valle del Serchio e Ponte all'Ania. Gli fu infatti suggerito dagli ambienti anarchici di sparire un po' dalla circolazione e di rimanere tranquillo e gli fu consigliato di trasferirsi in "una sperduta valle" a nord di Lucca, li, in un piccolo paese di nome Ponte all'Ania vi era già uno stabilimento laniero:"Michele Tisi & C", con la sua esperienza lavorativa sicuramente sarebbe stato assunto, così fu. Alcuni nel paese negli anni 30 del secolo passato si ricordavano ancora (dopo i fatti del 29 luglio) di quel giovane elegante dalle idee un po'strane, che era soprannominato da tutti "il paino", il damerino. Si, perchè Bresci era un'anarchico atipico, dai gusti borghesi, sfoggiava abiti di
Una vecchia foto di Ponte all'Ania
di 75 anni fa
buon taglio e foulard di seta di ottima fattura e frequentava spesso i barbieri e i ristoranti della zona. Arrigo Petacco (n.d.r:noto storico) nel suo libro "L'anarchico venuto dall'America" sostiene che in questo modo di vivere influì il ricordo di un agiatezza perduta, che da un lato lo spinse a manifestare certi gusti borghesi e dall'altro aumentò il livore e la rabbia verso la medesima classe sociale ritenuta responsabile della rovina della sua famiglia. Si racconta ancora che andava in giro per Ponte all'Ania e nei paesi vicini con la sua rivoltella, a quanto pare come diceva lui regolarmente denunciata. Uno dei suoi passatempi preferiti era proprio andare nel vicino greto del torrente Ania a sparare e mai nessun colpo rimaneva fuori dal bersaglio, inoltre quello che colpiva in quelli che lo avevano conosciuto era la sua ottima cultura e il suo spirito godereccio, indimenticabili rimarranno le gite domenicali da lui
Piazza Grande. La Lucca di inizio 900, quando
veniva frequentata da Bresci
organizzate per andare a Lucca, gite a base di...vino e donne. Già le donne, insieme al tiro al bersaglio con la pistola questo rimaneva il suo passatempo preferito, a dimostrazione ancor di più, (sempre ce ne fosse stato bisogno) del suo spirito indipendente e libertino, in pratica era un vero "tombeur de femme", ne sapevano qualcosa le operaie del lanificio locale "Michele Tisi" e fra le svariate storielle amorose la relazione più infuocata e passionale fu con una certa Maria, dalla quale nell'estate 1897 ebbe addirittura un figlio che nacque proprio nel paesello del comune di Barga. La cosa non fu presa bene da Gaetano Bresci, nell'autunno del solito anno fece ritorno a Coiano a casa del fratello per chiedere in prestito 30 lire, poi ritornò a Ponte all'Ania per poche settimane, qui prese la decisione di licenziarsi dal lanificio e di ritornare nuovamente alla casa natale dove annunciò alla sua famiglia di volersi trasferire in America. Nessuno capì mai l'avventata decisione o meglio nessuno la capì al momento. Molti pensarono a due ipotesi: la prima fu il fuggire dalle responsabilità di padre, lasciando il pargolo solamente alle cure della povera Maria in quel di Ponte all'Ania, la seconda tesi dice che il richiamo degli anarchici fuggiti negli Stati Uniti fu forte, con ogni probabilità entrambe le teorie erano esatte e comunque sia nel febbraio del 1898 arrivò in America, nel New Jersey a Paterson, quella che era
La città di Paterson in New Jersey
considerata la patria dell'anarchia italiana, qui ritrovò molti compagni del "fabbricone" e nuovi amici con cui condividere le idee rivoluzionarie, con queste idee in testa e con una pistola Hamilton and Booth calibro 9 in tasca ripartì dall'America nel maggio del 1900. Tornò in Italia per vendicare i drammatici fatti accaduti nel 1896 
(quando lui era ancora a Ponte all'Ania) nel corno d'Africa e sopratutto tornò per lavare l'onta degli avvenimenti del 1898, quando il Regio Esercito a Milano represse nel sangue le proteste popolari, sparando con le artiglierie sui civili e in conseguenza a questi fatti proprio il Re Umberto I fu colpevole (secondo gli anarchici) di aver concesso al generale Bava Beccaris (comandante in quei giorni)l'alta onorificenze del Collare dell'Annunziata per aver "pacificato Milano". Così si arrivò a quel fatidico giorno di luglio di inizio secolo e a tutte le sue inevitabili conseguenze, Bresci dichiarò sempre di aver agito da solo senza complici. Nel suo processo che ebbe inizio un mese dopo l'attentato (29 agosto 1900), l'avvocato difensore Francesco Saverio Merlino si accalorò rivendicando l'infermità mentale che fu smentita clamorosamente dal Bresci stesso, che affermò per tutta risposta di non aver ucciso un Re, ma un'idea. Tutto questo gli costò però la condanna all'ergastolo con l'aggiunta di sette anni isolamento.
L'originale pistola Hamilton
and Booth usata da Bresci
che uccise re Umberto I
(museo crimonologico di Roma)
Il 22 maggio del 1901 l'ufficio matricola della Regia Casa di Pena di Santo Stefano registrò la morte del detenuto "Gaetano Bresci fu Gaspero, condannato all'ergatolo per l'uccisione a Monza del re d'Italia". Il secondino dichiarò di essersi allontanato per pochi minuti, poichè il detenuto doveva espletare bisogni fisiologici, al suo ritorno il Bresci era già cadavere, impiccato con un tovagliolo alla sbarra della finestra. Ma con un tovagliolo non ci si può avvolgere il collo, fare il nodo scorsoio e poi legare l'altro capo all'inferriata! La direzione dichiarò comunque il suicidio. I sospetti su questa morte rimangono tutt'oggi, il suo corpo ad esempio scomparì nel nulla, si pensò fosse stato sepolto nel cimitero del
La macchina fotografica di Bresci e gli
effetti personali al momento dell'arresto
(museo criminologico di Roma)
carcere senza alcun riferimento e targhetta, ma con ogni probabilità fu invece gettato in mare, scomparvero anche documenti privati mai più ritrovati, ad alimentare ulteriormente i sospetti furono gli strani e repentini scatti di carriera delle autorità coinvolte nel "caso Bresci".

Questa, comunque sia è la storia dell'anarchico pratese che visse a Ponte all'Ania. Rimangono in ogni caso domande senza risposta: agì veramente da solo? Fu dunque "suicidato" in carcere? Gli fu fatto pagare il regicidio? Su commissione di chi? Sembrano interrogativi scolpiti nella pietra dura della storia, che non troveranno mai risposta certa. 



Bibliografia

  • Arrigo Petacco, "L'anarchico che venne dall'America", Mondadori, 1970 
  • Tommy Cantafio "Gaetano Bresci e il mistero della morte del re d'Italia" Associazione culturale misteri d'Italia, aprile 2016
  • Nazareno Giusti "L'anarchico Gaetano Bresci a Ponte all'Ania" Il Giornale di Barga 12 settembre 2010

Nei meandri di un terremoto: Garfagnana 7 settembre 1920. Storia di solidarietà, malgoverno e truffe.

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Sono giorni tristi, tristissimi per il nostro Paese, i terremoti
Garfagnana devastata, il giorno dopo
(collezione Paolo Marzi)
hanno sconvolto il centro Italia e le nostre anime. Città famose in tutto il mondo per la loro rinomata cucina, per la loro immensa arte e per i loro prodotti sono sparite da un minuto all'altro e dove prima si potevano ammirare stupendi paesaggi, adesso si possono vedere solo cumuli di macerie. La tragedia più grande rimane però quella relativa alle vittime e alle persone che sono rimaste senza casa. La vicinanza a questi luoghi e a queste gente noi garfagnini la sentiamo ancor di più sulla nostra pelle, poichè come tutti ben sappiamo viviamo in una zona ad alto rischio sismico e nel vedere queste immani disgrazie pensiamo a quello che potrebbe essere, vivendo nella speranza che questo non accada mai, ed è per questo che ad ogni tremore balziamo fuori da casa e puntualmente ad ogni piccolo o grande movimento della terra ci ritornano alla memoria i racconti dei nostri nonni sul quel drammatico terremoto del 7 settembre 1920 che colpì la Garfagnana e non solo. Ho già avuto modo di raccontare e scrivere su questo nefasto terremoto, due anni fa feci un apprezzato articolo e affrontai il tema riportando la pura cronaca e le testimonianze di quei giorni (leggi cliccando qui http://paolomarzi.blogspot.it/-settembre-1920-il-grande-terremoto-i.html). Oggi voglio parlare sempre di quel terremoto, ma voglio approfondire certi aspetti che poche volte sono stati affrontati, in modo da fare così un paragone con quello che succede attualmente e vorrei quindi entrare nelle viscere di quel sisma e vedere come si svilupparono i soccorsi, quali furono gli interventi e gli aiuti dello Stato e scrivere ancora degli altri terremoti che colpirono la nostra valle, tutti ci ricordiamo "di quello del '20", perchè il più vicino ai giorni nostri, ma altri e di grossa intensità e con relativi morti ci furono anche nei secoli passati, in queste righe ne farò un veloce elenco.

7 settembre 1920 ore 7:56, un sisma di magnitudo 6,48, colpì inesorabilmente un area di 160 Km2, in particolare la Garfagnana e la Lunigiana. L'intensità all'epicentro fu calcolata intorno al IX-X grado della scala Mercalli. I morti ufficialmente furono 171 e i feriti 650. Con queste fredde parole si può riassumere brevemente il terremoto di quel maledetto settembre 1920. Andiamo invece dentro a
(collezione Paolo Marzi)
questo sisma e analizziamo attraverso le relazioni tecniche dell'epoca quello che accadde.

I primi telegrammi dei prefetti alla direzione generale di pubblica sicurezza del Ministero dell'Interno furono inviati la mattina stessa e sottolineavano la violenza del terremoto, ma ancora non inquadravano bene la situazione generale, al momento non era stata valutata bene la distribuzione degli effetti e la gravità del danno. Solo a tarda mattina da Massa, la provincia più colpita e di cui al tempo faceva parte la Garfagnana, il prefetto De Berardinis segnalò i primi preoccupanti dati. Alle 15:30 anche il prefetto Bodo da Castelnuovo Garfagnana inviava un ennesimo e lapidario telegramma : -Disastro sempre più maggiore. Comuni con case crollate inabitabili, richiesta soccorsi urgenti-. Molti paesi furono rasi al suolo, fra le località più colpite naturalmente Villa Collemandina, Barga e Castelnuovo, gli ingegneri dopo svariati sopralluoghi constatarono che le case erano fatte generalmente con materiali scadenti, dato che erano costruite con grossi sassi di fiume tondeggianti, inoltre anche le malte non erano buone, non considerando poi i numerosi difetti di irrazionalità al momento della costruzione, in poche parole già partivamo con un patrimonio abitativo estremamente fragile, d'altronde l'ultimo grande terremoto fu quello del 1837, ben ottanta anni prima con epicentro nelle Alpi Apuane. La macchina dei soccorsi partì in ritardo, grandi furono le difficoltà organizzative, in buona parte giustificabili con l'interruzione delle comunicazioni telegrafiche e dalle frane che caddero sull'unica strada che portava nella valle, peggio ancora era per tutti quei paesi garfagnini sparsi per la montagna. I primi ad arrivare furono i giornalisti de "La Nazione" e ciò che comparì davanti ai loro occhi è ben descritto in questo stralcio di articolo che inviarono alla redazione di Firenze: "A mano a mano che ci inoltriamo nella regione colpita, tutto conferma, purtroppo la fondatezza delle prime notizie. I paesi che si sono successivamente attraversati con la nostra macchina, mostrano sempre più gravi gli effetti della formidabile scossa, che ha scrollato tutto il sistema montuoso che corona le Valli del Serchio e dei suoi affluenti. E'una triste teoria di rovine che mette sgomento nell'animo, un inseguirsi di scene di dolore e disperazione che ci procura una pena infinita
(collezione Paolo Marzi)
per l'impossibilità di portare soccorso e un aiuto che possa lenire in parte il danno irreparabile dell'immensa rovina"
. Finalmente la situazione si sbloccò, dopo una prima sottovalutazione delle conseguenze dell'evento ci si cominciò a rendere conto della grande disgrazia. Le prime squadre di soccorso ad arrivare furono 
i marinai della nave Cavour provenienti da La Spezia, subito si prodigarono allo sgombero delle macerie, al recupero dei cadaveri e al salvataggio dei superstiti. Già la sera del 7 settembre sempre da La Spezia fu inviato un treno speciale per ricoverare gli sfollati e il giorno seguente arrivarono altri due treni con a bordo, tende, viveri, medici e medicinali, attrezzatura da sgombero e ingegneri per la valutazione del danno e per gli interventi di ripristino. La stazione ferroviaria di Aulla era diventato il centro di smistamento di tutto il materiale, umano e non. Al tempo, è giusto sottolinearlo non esisteva il Dipartimento di Protezione Civile e veniva nominato dal governo nel momento di necessità colui che doveva coordinare i soccorsi e tale compito in questo caso fu dato al sotto segretario ai Lavori Pubblici onorevole Bertini che assunse sul posto l'alta direzione e il coordinamento dei servizi, mentre al Ministero dell'Interno e alla direzione generale della sanità pubblica erano di pertinenza i servizi sanitari, la parte che riguardava i generi alimentari e il vestiario spettava sempre al ministero dei Lavori Pubblici. Il gran cuore degli italiani anche in questo caso si dimostrò tale, le forze armate come consuetudine svolsero un grande lavoro per fronteggiare l'emergenza, ma non solo, squadre di volontari arrivarono da La Spezia, Massa, Carrara e ancora giunsero squadre di pubblica assistenza, insieme ad un migliaio di soldati di fanteria, zappatori del genio di Firenze, Piacenza, Bologna, Reggio Emilia che operarono alternandosi fino al dicembre 1920. Un ruolo importantissimo lo svolsero i pompieri venuti da tutte le regioni limitrofe, rimarrà nel cuore di tutti il contingente inviato dal comune di Rimini che intervenne senza mai fermarsi, abbattendo gli edifici pericolosi per la pubblica
I pompieri del comune di Rimini
incolumità  e puntellando i muri e le case che potevano forse essere recuperate, aiutarono la popolazione nel compito del recupero degli effetti personali e si inerpicarono nei luoghi più nascosti e impervi della valle per portare soccorso, caricandosi gli attrezzi in spalla o a dorso di mulo. Ma purtroppo nell'avversità non ci furono solo note liete, tutt'altro. Nei giorni seguenti al terremoto si avviò il dibattito parlamentare in quel di Roma per emanare provvedimenti in favore delle popolazioni colpite dal sisma. Venne chiesta dall'assemblea presieduta dal primo ministro Giovanni Giolitti di adottare l'applicazione delle leggi fatte in occasione dei terremoti di Messina del 1908 e della Marsica del 1915, arrivando di conseguenza all'emanazione del Regio decreto legge, 23 settembre 1920 n° 1315 "Provvedimenti per i danneggiamenti dal terremoto 6-7-settembre 1920", in base a questa delibera lo stato si impegnava a provvedere interamente ai lavori per la tutela della pubblica incolumità (demolizioni, puntellamenti, sgomberi di aree pubbliche), come pure alla realizzazione di ricoveri provvisori per le persone senza tetto e si prendeva l'onere di applicare le agevolazioni governative per la riparazione degli edifici pubblici (sussidi del 50% e mutui di favore) e privati (mutui di favore e contributi diretti e riparazione gratuita per i soli non abbienti, però nel limite massimo di 5000 lire). Ed è qui, a questo punto che nasce l'ennesimo papocchio all'italiana. La ricostruzione di tutto ciò fu affidata su delega dello stato all'U.E.N (Unione Edilizia Nazionale) nata all'indomani del catastrofico sisma messinese, quest'ente nacque appunto come consorzio di proprietari danneggiati e aveva lo scopo sostituendosi ai privati di facilitare sia la costruzione, sia la riparazione della casa danneggiata, basando la sua attività su due tipi di contratto: il primo riguardava il singolo cittadino e prevedeva la cessione incondizionata dei diritti del proprietario a fronte della ricostruzione, trasformando di fatto il proprietario stesso in un affittuario perpetuo, la seconda riguardava gli edifici pubblici, dove anche qui avrebbe acquisito diritti di non poco conto. Anche in Garfagnana fu dunque 
I primi soccorsi in arrivo alla
stazione di Castelnuovo
(foto collezione Silvio Fioravanti)
messo in pratica il "solito servizietto", la ricostruzione riguardò 214 case, ma fu proprio durante la ricostruzione di queste case che finalmente scoppiò lo scandalo che travolse l'U.E.N, che portò il governo a decidere la sua liquidazione in breve tempo, furono scoperte fra le altre cose speculazioni legate all'acquisto di fabbricati distrutti, appartenuti a chi non aveva le possibilità economiche per poterli rimettere in sesto. Nel frattempo e in attesa di queste riedificazioni i garfagnini furono alloggiati in baracche di legno, in totale ne furono costruite 669 per complessivi 1920 vani, per un importo complessivo di oltre sette milioni di lire, tale costo comprendeva anche la manutenzione per due anni e la dotazione di cucinette in muratura o di stufe-cucina. Dai privati poi ne furono allestite altre 121, mentre per uso adibito a edificio pubblico ne furono costruite 50, delle quali 34 dalle amministrazioni locali e 16 dai comitati di beneficenza. Alla fine della storia nonostante un decreto legge che fissava termini e provvedimenti in favore dei danneggiati, la maggior parte della gente rimase per molto tempo in attesa dei contributi da parte dello stato, solo chi aveva disponibilità economica (pochi)potè affrontare in proprio (in attesa dei soldi del governo) la ricostruzione delle proprie case. La situazione cominciò a tornare alla normalità tre
Baracche terremotati a Fosciandora
anni dopo il tremendo sisma del 7 settembre, grazie sopratutto a due ennesimi decreti legge con cui venivano affrontati con risolutezza i problemi dei terremotati garfagnini, fra i più significativi e importanti fu l'introduzione della legge n° 2089 del 23 ottobre 1924 che finalmente introduceva nuove norme e regole per le costruzioni nelle aree classificate sismiche.

Per arrivare a questa legge ci vollero distruttivi terremoti in tutta Italia, che colpirono più volte nei secoli passati anche la nostra valle . Guardiamo allora un elenco dei maggiori "terremoti garfagnini":

  • 7 maggio 1481 Lunigiana e Garfagnana VIII, magnitudo 5,4. La scossa danneggiò particolarmente l'alta Lunigiana provocando numerosi morti.La scossa fu sentita anche a Lucca
  • 6 marzo 1740 VIII, magnitudo 5,7 Garfagnana. Il terremoto colpì sopratutto la Garfagnana, ma l'area dei danni si estese anche alla Versilia e all'Appennino modenese. Fra i centri più colpiti Barga e i suoi dintorni, ci furono tre morti, crollarono diverse case e molte furono danneggiate
  • 23 luglio 1746 VII, magnitudo 5,3. Le località maggiormente colpite furono Barga e Castelnuovo Garfagnana. La sequenza dei
    L'ingresso al duomo di Barga
    puntellato
    (foto bargainfoto.altervista.org)
    terremoti cominciò il 9 luglio e durò fino a ottobre. La popolazione per mesi si trasferì in campagna e costruì baracche
  • 21 gennaio 1767 Fivizzano VII,magnitudo 5,4. I danni più gravi le subì Fivizzano, dove ci furono gravi lesioni alle abitazioni e il crollo di molti comignoli, oltre ai danni alle chiese e agli edifici pubblici. Era tempo di carnevale i festeggiamenti vennero sospesi per far posto a riti devozionali
  • 11 aprile 1837 Alpi Apuane IX-X, magnitudo 5,6. Il terremoto colpi il versante nord orientale delle Alpi Apuane, al confine fra Garfagnana e Lunigiana. La scossa causò gravi danni nei territori di Fivizzano e Minucciano, dove si contarono pure delle vittime. Fra i paesi più danneggiati Ugliancaldo dove crollarono quasi tutti gli edifici e dove si contarono cinque morti e diciotto feriti.
Sandro Pertini, l'amato presidente della Repubblica, dopo il sisma che colpì l'Irpinia nel 1980 ebbe a dire: "Qui non c'entra la politica, qui c'entra la solidarietà umana, tutte le italiane e gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto di questi fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perchè credetemi, il modo migliore per ricordare i morti è quello di pensare ai vivi" 




Bibliografia
  • Il terremoto della Garfagnana del sette settembre 1920 a cura della Protezione Civile

La "Santa"inquisizione in Garfagnana e il singolare caso del suo governatore Fulvio Testi

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Ha fatto più morti la Santa Inquisizione spagnola (che di santo aveva poco)che un intero anno di guerra in Siria. I numeri parlano chiaro, da uno studio di inizio 1800 di don Juan Antonio Llorente (che conosceva bene gli archivi del Santo Uffizio per avervi ricoperto cariche di responsabilità) nella sua "Historia critica de la inquisicion en Espana" parla di ben 340.592 vittime dalle origini (1480) al 1815, così tristemente ripartite: 31.913 individui arsi vivi, 17.659 sempre arsi, ma come si suol dire in "effige" (n.d.r: antica pratica giudiziaria consistente nel distruggere il ritratto di un reo che non si poteva catturare o giustiziare), 291.021 "riconciliati" alla fede cattolica o condannati a pene minori. Quattro secoli dopo è stato chiesto un tardivo perdono da Papa Giovanni Paolo II, era il dodici marzo del 2000 e di fronte al mondo e alla storia pronunciò parole dure come la pietra: - Per la parte che ciascuno di noi, con i suoi comportamenti che ha avuto in questi mali, contribuendo a deturpare il volto della Chiesa, chiediamo umilmente perdono per gli errori commessi nel servizio della verità attraverso il ricorso a metodi non evangelici-. Da questo perdono papale non si sottrae nemmeno la Garfagnana, anche la nostra terra cadde sotto l'inesorabile scure del Sant'Uffizio. L'inquisizione romana(o Sant'Uffizio), nacque 64 anni dopo la famosissima inquisizione spagnola, era il 1542 e Papa Paolo II con la bolla "Licet ab initio" dette il via ad una persecuzione senza pari in tutta la penisola italica, solo la Repubblica di Lucca si oppose sempre alla sua penetrazione sul suo territorio, ma questo non impedì la persecuzione di streghe e di eretici, portata avanti dai magistrati statali. Anche il ducato di Modena di cui faceva parte la maggioranza dei comuni garfagnini aveva avuto i suoi problemi nei confronti della nuova riforma, anche da queste parti non erano visti di buon occhio questi cambiamenti e anche qui un gruppo di dissidenti delle classi sociali più ricche e alcuni altolocati religiosi fece sentire la sua voce senza esito,
il simbolo dell'inquisizione
davanti ad una bolla pontificia c'era poco da fare, molti di questi dissidenti si rifugiarono per paura di essere perseguitati a sua volta nella (anche allora) neutrale Svizzera. Fu così, che volenti o nolenti nei primi anni del 1600 la complessa macchina dell'inquisizione cominciò a funzionare a pieni regime, specialmente (nello specifico) quando fu completato il trasferimento della capitale ducale da Ferrara (donata alla Santa Sede) a Modena. L'ufficio inquisitorio di Modena (così come gli altri) aveva il compito di salvaguardare l'integrità della fede e aveva una duplice funzionalità, dividendosi praticamente in due rami distinti, da una parte svolgeva attività giudiziaria come un vero e proprio tribunale, dall'altra faceva attività censoria, relativa al controllo della stampa, in particolare dei libri, i due ordini si fondevano quando venivano violate le leggi in materia e nella ricerca del colpevole, a capo di tutto questo apparato c'era l'inquisitore generale, che una volta insediato nella nuova capitale estense cominciò a fare un po' d'ordine e in una nota in calce del 1600 nell'"Inventario delle robbe del Sant'Ufficio dell'inquisizione di Modona" prende ufficialmente giurisdizione sui territori della Garfagnana: "Con occasione della felice memoria di Clemente VIII, furono presi il possesso della città di Ferrara e fatte tre inquisizioni: quella di Ferrara, quella di Reggio e quella di Modana. A Modana furono sottoposte l'insigne Abbazia di Nonantola, la città di Carpi e quella parte di Garfagnana che in temporale è soggetta alli signori duchi di Modana et in spirituale parte al Vescovato di Lucha et parte a quello di Sarzana". Si, perchè ad onor del vero era nato qui un vero e proprio guazzabuglio. La nuova sistemazione di questi territori non si concretizzò tanto facilmente, molti furono i ritardi. Cesare d'Este duca di Modena aveva in quel tempo conti aperti con i lucchesi che sfoceranno in due guerre, per di più nel territorio già esistevano alcune comunità che erano sotto Lucca(Castiglione, Gallicano Minucciano), ma non solo, il dilemma più grosso rimaneva nel fatto che l'autorità civile aveva sede a Modena, mentre religiosamente parlando la valle faceva capo a Lucca e a Sarzana e in una lettera del 29 settembre 1601 l'inquisitore generale di Modena scriveva alla sacra Congregazione di Roma dicendo che nonostante l'avvenuta ripartizione, la provincia della Garfagnana "non fu consegnata ne a questa ne a quella inquisizione, per il che al presente non riconosce inquisizione alcuna", fu risolto tutto in men che non si dica, tutti i territori ad ovest dell'Appennino erano sotto l'inquisizione modenese. Per un po' di tempo la Garfagnana godè nell'essere in questo limbo
La sede della Santa Inquisizione a Modena
oggi sede di un istituto d'arte
amministrativo, nessuno infatti in quel periodo fu indagato, incarcerato o condannato, ma i tempi stavano per cambiare. Una volta definite tutte le questioni, l'inquisizione stabilì in loco tre congregazioni locali, ognuna a capo aveva un vicario, una si stabilì a Castelnuovo Garfagnana, una al Sillico e un'altra alle Verrucole presso l'inespugnabile fortezza omonima. Grazie a questi sedi distaccate l'inquisitore si poteva mantenere in costante consultazione con il territorio, dove così poteva avere occhi e orecchie dappertutto e in realtà bastava veramente poco per accusare una persona. Le denunce potevano essere fatte tranquillamente, bastava "ho sentito dire che..." ed era fatta, non mancavano inoltre casi di procedimenti per auto denuncia, avete capito bene, ci sono frequenti casi in cui il "colpevole" dietro sollecitazione del prete confessore si presentava spontaneamente davanti all'inquisitore, naturalmente era possibile procedere anche per ufficio senza denuncia alcuna e una volta constatata la denuncia e indagato il presunto colpevole si svolgeva il processo che si faceva sempre nella sede centrale di Modena, davanti all'inquisitore generale. Il processo avveniva in una o più sedute, in varie fasi, ciascuna delle quali eventualmente conclusiva, con l'interrogatorio dei testi e dell'imputato, in buona parte dei casi per i fatti più gravi come l'accusa di stregoneria si arrivava quasi sempre alla confessione del reo, estorta con la tortura, che (fatto curioso) doveva essere fatta sotto parere medico, l'imputato doveva essere in buona salute per affrontare tale supplizio...e che supplizio!!! I metodi di tortura erano fra i più svariati e fantasiosi. Fra i più diffusi c'era il cosiddetto"tratto di corda"che consisteva nel legare con una lunga corda i polsi del malcapitato dietro la schiena 
e poi nell'issare il corpo per mezzo
il famoso "tratto di corda"
di una carrucola, per aggravare gli effetti la corda veniva ripetutamente allentata di colpo e poi bloccata, ciò provocava lo strappo di muscoli e la rottura delle ossa delle braccia. Altra tortura molto presente nei documenti era la
"pulizia dell'anima", questa più che una tortura era proprio un atto dovuto, se mi posso permettere il termine, dal momento che l'anima di una strega o di un eretico si credeva corrotta e sporca, andava allora pulita, prima del giudizio le vittime venivano forzate a ingerire acqua calda, carbone e sapone, la famosa frase "sciacquare la bocca con il sapone" risale proprio a questa tortura, non di meno si può dimenticare "l'annodamento", tortura specifica per donne, si attorcigliavano i capelli a un bastone dopodichè robusti uomini ruotavano l'attrezzo in modo veloce, provocando enormi dolori, in alcuni casi si arrivava a togliere lo scalpo. Risparmio al sensibile lettore di continuare in questo macabro elenco, ma assicuro che la lista sarebbe ancora lunghissima. Rimane il fatto che per terminare questa immane sofferenza l'imputato confessava ed era sicuramente meglio morire che continuare a patire in questo modo. La verbalizzazione di confessione portava quasi sempre il segno di croce come vera e propria firma, visto che era quasi sempre il popolo che cadeva sotto la ferocia dell'inquisizione. La sentenza di condanna o di assoluzione veniva emessa dall'inquisitore generale e dal vescovo competente, anche se l'ultima parola spettava sempre alla Congregazione Romana. Le pene non si concludevano sempre con la condanna a morte, a chi andava bene "pagava" spiritualmente con l'obbligo di partecipare a messe varie e rosari, ad altri toccava di pagare moneta suonante, tale pena toccava spesso agli ebrei che sapendoli ricchi e benestanti venivano dissanguati dei loro averi, non si disdegnava come pena nemmeno l'esilio perpetuo o temporaneo, la pubblica fustigazione, la condanna ai remi per alcuni anni sulle navi pontificie e il carcere secolare. La Garfagnana però può ritenersi fortunata. Nei primissimi anni del 1600 conosciamo solo cinque procedimenti e solo due contemplavano l'accusa di stregoneria, il più famoso rimane quello riferito alle streghe di Soraggio(per leggere la storia clicca qui http://paolomarzi.blogspot.itle-streghe-di-soraggio-un-processo-di.html) . Per il resto, in tutto il restante secolo sono circa trecento i processi svolti a carico dei garfagnini. Le accuse variavano, dalle bestemmie, al possesso e lettura di libri proibiti, all'inosservanza dei precetti della Chiesa, bigamia, sollecitazione erotica. Per
La lista dei libri proibiti
dal Sant'Uffizio
quanto riguarda i possedimenti lucchesi, i procedimenti sono solamente quattro, tre dei quali colpiscono Minucciano e uno, una garfagnina abitante a Lucca, anche in questi processi la stregoneria era estranea. Ma fra tutti questi poveri diavoli ci fu un personaggio particolare ad essere accusato di preposizione ereticale, lui era Fulvio Testi (n.d.r: a cui è intitolata la via principale del centro storico di Castelnuovo), pochi forse conoscono questo personaggio che fu Governatore di Garfagnana dal 1640 al 1642, anch'egli poeta, proprio come il suo più illustre predecessore Ludovico Ariosto. Infatti fu lui a prendere il suo posto nella rocca castelnuovese. Fulvio Testi fu un personaggio scomodo, molto vicino più ai Savoia che ai suoi "padroni" gli Estensi, in aggiunta era pure di idee anti spagnole (nazione cattolicissima...)e forse proprio per questi motivi rimase nelle maglie del Sant'Uffizio quando era reggente di Garfagnana. Correva il mese di marzo, anno di grazia 1641, quando venne inviata dal Vicario Sanzio Corsi una lettera all'inquisitore modenese Padre Giacomo Tinti da Lodi, questa missiva riportava le confidenze del capitano di Camporgiano, dove secondo lui, il governatore Testi avrebbe affermato: -
che sia lecito a un principe o altro signore far ammazzare chierici (n.d.r: uomini di chiesa)di qualsivoglia sorte senza peccato per buon governo, e che così gli aveva detto un teologo-. Nonostante tutto questa vicenda non finì in un processo, sappiamo bene come vanno le cose e oggi come ieri il peso politico conta e contava sempre...La suddetta lettera parti senza dubbio verso Modena e verso il padre inquisitore, ma insieme a quella furono mandati in dono a quanto pare "un quartuccio di
Fulvio Testi
ritratto di Francesco del Cairo
cappari minuti"
, l'inquisitore fu "preso per la gola" e la severità con cui di solito operava fu calmata con l'ingordigia e la...ragion di stato. Al povero Fulvio Testi comunque le cose non andarono bene negli anni che seguirono. Le sue simpatie filo francesi verso la casa savoiarda furono scoperte nel 1646 dal duca di Modena e per questo imprigionato nella fortezza cittadina con l'accusa di alto tradimento, li troverà la morte sette mesi più tardi. Ma questa è un'altra storia, rimane il fatto di una verità assoluta, quando si dice che la più grande arma di distruzione di massa è l'ignoranza...



Bibliografia:

  • "Historia critica de la inquisicion de Espana" 1817, Juan Antonio Llorente
  • Archivio Statale di Modena
  • "L'inquisizione in alcuni territori estensi in particolare riferimento alla Garfagnana" di Elena Pierotti
  • "Ursolina la Rossa e altre storie" Oscar Guidi

Morire sul lavoro. La strage di Bolognana 24 novembre 1939. Storia di dolore e di dubbi

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Centrale SELT Valdarno Gallicano 1938
Morire lavorando, la cosiddetta "morte bianca"" Le chiamano "morti bianche", come avvenissero senza sangue.Le chiamano "morti bianche", perchè l'aggettivo bianco allude all'assenza di una mano direttamente responsabile dell'accaduto, invece la mano responsabile c'è sempre, più di una.
Le chiamano "morti bianche", come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna.
Le chiamano "morti bianche", ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica.
Le chiamano "morti bianche", tanto non meritano che due righe sui quotidiani, si e no una citazione nel telegiornale. 
 
Le chiamano "morti bianche", ma non sono incidenti, dipendono dall'avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro".

Questo è un brano di uno scritto di Mauro Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, da sempre in prima linea per la sicurezza sul lavoro. Leggevo questa bella lettera proprio in questi giorni e fra le tante frasi  mi è rimasta nella memoria la parte in cui dice: "Le chiamano "morti bianche", tanto non meritano che due righe sui quotidiani, si e no una citazione nel telegiornale". Niente di più vero, di solito queste notizie passano in secondo piano e ben presto ci si dimentica di coloro che la mattina sono usciti da casa, hanno salutato moglie e figli recandosi al lavoro e di li non hanno fatto più ritorno e i numeri di quelli che non hanno fatto più ritorno a casa nei primi sette mesi del 2016 sono agghiaccianti. Secondo
Statistiche morti sul lavoro
 regione per regione anno 2015
l'osservatorio di sicurezza sul lavoro Vega Engineering di Mestre sulla base degli elementi forniti dall'I.N.A.I.L
 i morti sono 562, una media di 80 morti al mese, 20 a settimana...una mostruosità!Non dimentichiamoci allora dei morti sul lavoro che anche la Garfagnana ha avuto e purtroppo ha ancora, le disgrazie che in questo ambito questo lembo di Toscana ha avuto sono molteplici: dai morti di inizio '900 per la realizzazione della ferrovia Lucca- Aulla, alle disgrazie avvenute nei decenni alla S.M.I (società metallurgica italiana) di Fornaci di Barga, alle tremende morti nelle cave di marmo garfagnine, fino ad arrivare alle due più gravi e pesanti (in quanto a perdita di vite umane) che sono accadute entrambe nel territorio comunale di Gallicano. Impossibile quindi dimenticarsi dello scoppio della polveriera S.I.P.E NOBEL, era il febbraio 1953 e nell'esplosione dello stabilimento gallicanese di polvere pirica trovarono la morte dieci persone(per questa storia clicca qui:http://paolomarzi.blogspot.it/esta-del-lavorola-tragedia-che.html). Ma c'è ancora un'altra strage di lavoratori, ormai quasi dimenticata e tornata agli onori della cronaca nel 2002, quando qualcuno nel piccolo paese di Bolognana si ricordò che sulla vecchia
Bolognana (foto Giro-Vagando)
strada che conduceva a Lucca, dietro ad una folta vegetazione c'era ancora un piccolo monumento neoclassico che ricordava l'estremo sacrificio di alcuni uomini, oramai la boscaglia l'aveva nascosto alla vista dei passanti e per di più anche la sua stabilità era quasi compromessa. Ma finalmente dopo 63 anni E.N.E.L (colei che al tempo commissionò l'opera), con la piena collaborazione e disponibilità sia della provincia che del comune decisero di restaurare il monumento e riportare alla memoria collettiva la storia di questi valorosi uomini. Sono passati oggi settantasette anni da quella disgrazia, era il 1939, era il periodo delle grandi opere fasciste e in un articolo sul "Popolo d'Italia" il primo luglio 1926 Mussolini scriveva: "Ho ancora una battaglia da vincere: è la battaglia per la restaurazione economica dell' Italia. Nelle altre battaglie che il regime fascista ha dovuto combattere, la vittoria è già stata conseguita...". La cosiddetta restaurazione economica passò attraverso opere di grande utilità, in tutta Italia presero il via progetti imponenti: costruzione di scuole, di edifici pubblici, di dighe e bonifiche di aree urbane altrimenti inutilizzabili. Parte di queste opere furono intraprese anche in Garfagnana e una di queste era proprio la costruzione di una galleria che era destinata a portare l'acqua dalla centrale di Gallicano all'impianto idroelettrico di Turritecava. Il cantiere dei lavori era appena fuori il paese di Bolognana, 
precisamente sulla
Centrale di Turritecava, cerchiato in rosso
l'uscita della galleria di Bolognana
vecchia strada provinciale Lodovica all'altezza di Rio Forcone, torrente che sfocia nel Serchio. La società elettrica ligure toscana al tempo meglio conosciuta come S.E.L.T Valdarno (n.d.r: la futura E.N.E.L) aveva commissionato i lavori a lotti per tre ditte, la D'Amioli, la Pighini e la Scardovi, era questa un'impresa a più mani dato che il lavoro da fare era piuttosto arduo, c'era d'aprire una galleria attraverso la montagna per quasi dieci chilometri. I lavori procedevano a rilento, a causa proprio delle difficoltà incontrate nel penetrare il monte, la data ultima di consegna dei lavori si stava infatti avvicinando inesorabilmente, la precisione e la disciplina fascista dell'epoca non ammetteva ritardi, perciò bisognava andare svelti e per questo furono organizzati tre turni lavorativi giornalieri. Testimonianze raccolte da Adolfo Moni (n.d.r: docente gallicanese dell'università della terza età)da un vecchio abitante di Bolognana raccontano che già poco prima della tragedia ci si era resi conto della pericolosità dei lavori e già nell'estate di quel maledetto 1939 ci furono due incidenti, uno causato da uno scoppio di glicerina utilizzata per fare le mine che determinò la morte di due persone,l'altro ci fu un po' più a sud verso Turritecava. Ma quello che successe la sera di
Sul luogo della tragedia il
restaurato monumento neoclassico del 1942
quel 24 novembre fu veramente spaventoso. Il terreno già di per se poco stabile in condizioni di tempo buono, subì un vero e proprio peggioramento con l'arrivo della stagione delle piogge, tutta quest'acqua formò nella terra una specie di "sacca" che causò lo smottamento nella galleria, un'operaio garfagnino rimase fin da subito sotto il fango, mentre altri sette rimasero imprigionati all'interno della galleria, era una squadra dell'impresa di costruzioni Scardovi di Bologna che era sotto la direzione di Alfredo Lepri di San Benedetto Val di Sambro (cittadina dell'Appennino bolognese)anche lui rimasto bloccato all'interno del

traforo. Furono sei lunghi giorni di agonia nei vani tentativi di liberare le persone dalla morsa del buio, del fango e dei sassi. Ogni secondo, ogni minuto e ogni ora erano preziosi per salvarli da una delle peggiori morti: l'asfissia. In quei giorni alcuni lamentarono che non fu fatto abbastanza per salvare i malcapitati e in molti si domandarono del perchè non furono usate quelle piccole gallerie "di servizio" che erano più a sud del paese utilizzate 
Particolare del monumento
per movimentare uomini e materiale e ancora, perchè non fu accettato l'appoggio della vicina metallurgica? La S.M.I si rese disponibile ad aiutare con dei tubi, che avrebbero portato aria all'interno della galleria ma in questo caso il testimone di Adolfo Moni chiude di netto la vicenda con lapidarie parole:- non vollero...non vollero far nulla!-. Le casse da morto arrivarono quando all'interno quei disgraziati erano ancora agonizzanti e dopo sei lunghi interminabili giorni finalmente i corpi furono estratti dal maledetto tunnel, tutti morti e a quanto pare alcuni non avevano ancora il rigor mortis...Finì così per sempre la vita terrena di quelli che oramai erano considerati dagli abitanti del posto dei paesani "aggiunti", infatti alcuni di questi avevano stretto amicizia con i lavoratori che per tutta la settimana mangiavano e dormivano in paese e nelle vicinanze. Fu per il piccolo borgo garfagnino e per la valle un vero e proprio dramma.

Nel 1942, a tre anni di distanza dai fatti e nei pressi del luogo della sciagura fu eretto dalla società elettrica un tempietto neoclassico in ricordo di quei morti. Si pensò come era usanza al tempo di scrivere su marmo una pomposa e retorica dedica funeraria:
-NELL'ARDUA OPERA DI ASSERVIRE IL FLUSSO DELLE ACQUE ALLA MAGGIORE POTENZA D'ITALIA, PER ATROCE INSIDIA DELLA NATURA, SACRIFICAVANO LA VIGOROSA GIOVINEZZA.

In memoria di:
  • Bertei Desiderio di Piazza al Serchio
  • Bertozzi Guglielmo di Sassi
  • Giuliani Amelio di Camporgiano
  • Cassettari Giovanni di Piazza al Serchio
  • Grassi Giovanni di San Romano Garfagnana
  • Lepri Alfredo di San Benedetto Val di Sambro (Bologna)
  • Mucci Renato di Bologna
  • Muccini Guerrino da Camporgiano
  • Rocchiccioli Amerigo di Castelnuovo Garfagnana 
  • Borgia Antonio di Minucciano
Questa è la fine di questa storia, ma a questa storia nel tempo ce ne sono state purtroppo aggiunte altre, fatte di altrettanti racconti, altrettanti nomi e altrettante facce...


Bibliografia:


  • "Morti Bianche" di Mauro Bazzoni
  • "INCIDENTE DRAMMATICO SUL LAVORO IN GALLERIA DEL 24 NOVEMBRE 1939 a sera" di Adolfo Moni da "L'Aringo-il giornale di Gallicano" n°5 marzo 2016

Dalle pagine de "La Domenica del Corriere" del 1946, promozione turistica della Garfagnana

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L'Italia era uscita prostrata dalla seconda guerra mondiale, gran
parte del suo patrimonio nazionale era andato distrutto e dappertutto vi erano lutti e rovine. Nonostante tutto un nuovo spirito di rinascita si faceva strada nella nazione, la volontà di essere partecipi dell'opera di ricostruzione animava tutti, ma non c'era da ricostruire solamente le case bombardate, i ponti distrutti e le sconnesse strade, c'era da ricostruire l'animo di una nazione intera. Il fascismo era finito per sempre, finalmente si poteva tornare ad esprimersi liberamente con parole, con scritti e ognuno era libero di seguire la propria vocazione politica. Per l'Italia cominciava allora una nuova epoca e bisogna tornare a dare voce a tutti e a dare spazio a tutte le idee. La Garfagnana in questo caso era stata colpita duramente, in tutti i sensi, c'era da ridare anche qui nuova linfa ad una regione già di per se povera, c'era da farla conoscere questa terra dimenticata da Dio nella speranza di portare nella valle dei visitatori (la parola turista al tempo non era ancora nel parlar comune) a fare gite nella nostra valle, perchè poi una volta giunti, questi visitatori si dovevano fermare beatamente nelle nostre botteghe a comprare i nostri prodotti e a bere nei nostri bar. Un idea rivoluzionaria questa per l'immediato dopo guerra, c'era già chi pensava a portare turismo in Garfagnana, figuriamoci che ancora oggi c'è chi fra i nostri amministratori locali nemmeno ci pensa... Ma chi aveva avuto un idea tanto arguta e lungimirante quanto sovversiva? Solo un'intelligenza sopra la media come quella di Almiro Giannotti alias il Gian Mirola poteva pensare una cosa così sbalorditiva. Il Gian Mirola per i pochi che non lo conoscono fu lo scrittore e giornalista(a mio avviso) più dotato, brillante e pronto che la Garfagnana (e non solo) abbia mai avuto.Inutile stare qui a
Il Gian Mirola
raccontare tutta la sua storia (n.d.r anche se ho in preparazione un articolo), ma brevemente basta dire che Almiro (il nome di battessimo) nacque a Eglio nel 1915, fu maestro in vari paesi della Garfagnana e sindaco di Molazzana negli anni 50, ma sopratutto era uno studioso di folclore e un fine analista di problemi locali e da conoscitore di questi fenomeni capì subito qual'era una possibile soluzione per far emergere la sua amata terra, dilaniata dalla guerra e dalla povertà: il turismo o quantomeno far conoscere a tutti che anche la Garfagnana esisteva. L'idea che ebbe fu sensazionale, scrivere un articolo con foto annesse su una delle tante riviste per cui già scriveva. Infatti il Gian Mirola firmava articoli per i maggiori giornali italiani: "Eva", "Divagando", "Famiglia Cristiana", "Scuola Moderna", ma in particolare c'era un giornale a cui puntava per pubblicare questo benedetto articolo, anzi per dire la verità non era nemmeno un giornale nel vero senso della parola, ma bensì un supplemento ad un quotidiano, questo supplemento si chiamava "La Domenica del Corriere" che veniva dato settimanalmente insieme (con l'aggiunta di poche lire) al quotidiano italiano per eccellenza, "Il Corriere della Sera". Apparire quindi su "La Domenica del Corriere" voleva dire affacciarsi nelle case di tutti gli italiani, dato che le

tirature di questo supplemento toccavano cifre stratosferiche,negli anni trenta arrivò ad essere il settimanale più letto d'Italia con una tiratura di oltre seicentomila copie, mentre negli anni '40 e '50 confermando il primato di giornale più letto la tiratura toccò addirittura il milione di copie. Questo giornale colpì subito l'italiano medio e fu concepito proprio come il settimanale degli italiani, che doveva scandire come un calendario le giornate liete e le tragedie, si dava molto spazio alle foto e ai disegni, storiche furono le sue copertine disegnate prima da Achille Beltrame e poi da Walter Molino, in ogni numero il disegnatore aveva il compito di rendere vivo con la sua tavola il fatto più interessante della settimana, insomma, pubblicare qualcosa qua sopra significava farsi conoscere in tutta Italia e così fu che il Gian Mirola riuscì nel miracolo. Il suo articolo sulla Garfagnana comparve su "La Domenica del Corriere" solamente un anno e cinque mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale, il 3 novembre 1946 riuscendo ad uscire insieme all'importante tavola di copertina che rappresentava l'altrettanto importante evento: la prima volta che le Nazioni Unite si riunivano nella nuova sede di New York, quanto sia stata voluta o fortunata questa coincidenza non si sa, il fatto portò comunque a una maggior quantità di copie vendute di questo bellissimo numero, che anch'io oggi posseggo nella mia
3 novembre 46.Il numero de
La Domenica del Corriere
dove si parla di Garfagnana
(collezione Paolo Marzi)
collezione di fascicoli de "La Domenica del Corriere". All'epoca non esisteva la televisione, naturalmente nemmeno internet e questa operazione che riuscì al Gian Mirola era perciò la maniera più diretta per far conoscere "l'illustre sconosciuta", come definisce egli stesso la Garfagnana  nell'articolo, dove racconta degli usi e dei costumi e dove descrive la gente "...buona cortese e attaccatissima agli usi degli avi..", non manca nemmeno di illustrare i famosi personaggi che l'hanno abitata, senza nemmeno dimenticare i prodotti delle nostre terre. Ma bando alla ciance, ecco per voi questo stupendo e avveniristico articolo di promozione del territorio, che fra pochi giorni fa ha compiuto 70 anni, era precisamente il 3 novembre 1946 e a
 pagina 7 campeggiava questo titolo:


"Garfagnana terra sconosciuta"


La pagina sulla Garfagnana
(collezione Paolo Marzi)
La Garfagnana non è una delle misteriose provincie dell'Asia, né uno sperduto villaggio della Patagonia. Se qualcuno, leggendo il titolo di questo articolo, lo avesse immaginato, si ricreda.
E' invece un pittoresco lembo di terra toscana, incuneato fra gli Appennini e le Apuane, dove termina il regno dell'ulivo ed incomincia quello del castagno.
Terra ricca di tradizioni folcloristiche, d'usi e costumi intatti da più secoli.
"L'ultima regione dell'Universo" la chiamano gli abitanti, alludendo argutamente alla corona dei monti orridi e belli, che la circondano.
Qui il castagno nasce e vegeta spontaneamente e nelle selve abbondano, come in un piccolo lembo di Paradiso terrestre, funghi, fragole, lamponi, mirtilli, more.

Usi e costumi
Le didascalie:Un tipo
garfagnino,con
qualche annetto ma ancora
in gamba
La gente è buona, cortese e attaccatissima agli usi e alle tradizioni degli avi. Nelle vie e nelle piazze dei paesi si canta ancora il "Maggio", che è una specie d'opera drammatica, paragonabile in certe forme più erudite, al melodramma.
Scettri di cartone, corazze di latta, elmi e spade di legno formano l'arredo scenico e il vestiario degli artisti che, accompagnati da un unico violino, cantano su un motivo semplice, poggiando sulla prima e sulla quinta sillaba di ogni verso.
Gli argomenti dei "Maggi" possono essere scelti fra i fatti più salienti della storia greca o romana, fra le vite dei Santi, degli eroi, o fra i poemi classici, come La Gerusalemme Liberatao L'Orlando furioso.
Altre forme d'arte popolare sono le "Befanate", gli "Stornelli", i "Rispetti"; ancora vive e in uso fra i contadini della regione. Abbiamo conosciuto, in Garfagnana, contadini che non sapevano fare l'o col tondo dei un bicchiere e recitavano, magari a memoria, uno o più canti della Divina Commedia, illustrandone poi, con esattezza, il significato storico e letterale.

Ospiti illustri e briganti cortesi
Le didascalie:Dove l'orrido
 è bello...e il bello orrido
Nel 1523 venne a governare la Garfagnana, per conto degli Estensi di Modena, un poeta celebre: Ludovico Ariosto.
In quel tempo gli Appennini erano covo di numerosi bande di briganti e attraversare le montagne per recarsi da Castelnuovo (sede del governatorato) a Modena (capitale estense) o viceversa non era impresa troppo facile.
Durante uno di questi viaggi l'Ariosto fu fermato e, col seguito, spogliato e derubato. Proprio come succede oggi sui valichi alpini.
I briganti stavano insaccando la refurtiva quando, ad uno del seguito, sfuggì il nome del poeta. Il capo dei banditi, premuroso, chiese subito: Dov'è messere Ludovico?
- Sono io - rispose tutto tremante il poeta.
- Non sia torto un capello al grande Ariosto - ordinò allora il campo ai compagni.
Fece restituire a tutti quanto era stato rubato e proseguì, poi, rivolto al poeta:
- Messere, anche i banditi della Garfagnana, che voi sferzate nelle vostre "satire" vi stimano e vi apprezzano - E s'inchinò in segno di rispetto.
Ordinò poi, ad una parte della banda, di scortare il poeta ed il suo seguito fino al limite della "Gran selva" affinchè non corressero il rischio di essere disturbati da altri.
Così l'autore dell'Orlando furioso giunse a Modena sano e salvo, benedicendo le muse che lo avevano protetto in una brutta avventura.

Marmo, carbone e... fragole
Oggi la Garfagnana è una delle Regioni d'Italia più dimenticate.
Le didascalie: Nel regno del
castagno, quando le pecorelle
 escon dal chiuso. La Pastorella
 pudica si copre la faccia
per non farsi fotografare
La guerra vi sostò per sette mesi. Villaggi interi furono distrutti o bruciati. Uomini di tutte le razze bivaccarono nelle case abbandonate e molti, oggi, leggendo questo articolo ed osservando le fotografie riprodotte in questa pagina, sussurreranno, compiaciuti o rammaricati, la famosa frase manzoniana: "Io c'era!"
Sulle strade, solcate allora dalle pesanti ruote dei pezzi d'artiglieria, discendono oggi i più importanti prodotti della regione, diretti ai vari mercati del mondo: marmo per le Indie e per le Americhe, castagne e farina di castagno per la Francia e per la Spagna, legna e carbone per l'Italia settentrionale.
Una delle occupazioni più caratteristiche è la raccolta delle fragole, che qui nascono spontaneamente. Ceste e cestelli vengono allineati, ogni giorno, durante la raccolta, lungo i margini delle strade, in attesa delle macchine che passeranno, nelle prime ore del mattino, a caricare.
Importante è anche la raccolta dei funghi, i quali vengono inviati, nelle annate di massimo raccolto, in tutta Italia.
Funghi, fragole e castagne per la mensa; lana e canapa per i vestiti, che qui vengono filati e tessuti a mano; carbone e legna per la stufa; marmo e calce per la casa.

Tutto questo dà la Garfagnana, l'illustre sconosciuta, che un giornalista ha scoperto, in questi giorni, senza passare i confini dello Stato. Scoperta, descritta, illustrata: per voi.

Gian Mirola













La macchina da scrivere, un'invenzione a due mani fra un garfagnino e un lunigianese

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Possiamo dirlo senza ombra di dubbio che in fondo il p.c da cui
Una lettera di Carolina battuta
con la macchina da
scrivere di Fantoni Turri
scriviamo non è che l'evoluzione naturale della macchina da scrivere e quindi l'antenata dei moderni computer. Perchè questo pensiero? Proprio nei giorni passati un amico conoscendo la mia passione per la storia mi domandò se sapevo niente a proposito dell'invenzione della macchina da scrivere, poichè aveva un confuso e lontano ricordo che tale invenzione fosse opera di un garfagnino. Ad onor del vero presi le sue parole con un po' di sufficienza e scetticismo, dicendogli che niente conoscevo al riguardo ma che comunque mi sarei documentato. Giorni dopo mi ritornarono alla mente le sue parole e per pura curiosità cominciai a ricercare qualcosa sull'argomento e in effetti come si suol dire mi "si aprì un mondo" ed ebbi clamorosamente in parte conferma delle sue parole. Tale storia ha scombinato quello che davo per certo, cioè che la macchina da scrivere in Italia fu brevettata da Giuseppe Ravizza nel 1855, questo apparecchio era denominato "cembalo scrivano", così chiamato perchè dotato di tastiera simile a quella di un clavicembalo. L'avvocato Ravizza nel corso degli anni creò ben 17 modelli, purtroppo però non riuscì mai a trovare uno sponsor che ne sostenesse una produzione industriale, ciò non accadde all'americano
La macchina da scrivere di Ravizza 
Cristopher Latham Shoeles che presentò la sua trovata nientedimeno che alla fabbrica d'armi Remington. I fratelli Remington non erano convinti dell'invenzione ma stipularono comunque un contratto con Sholes, che per dodicimila dollari cedette tutti i suoi diritti. La macchina da scrivere nel 1876 cominciò così la sua produzione industriale e la sua diffusione in scala mondiale. Questo era tutto quello che sapevo su questa scoperta, e non immaginavo certo che la Garfagnana entrasse a buon titolo in questa invenzione. Ma bando ai preamboli andiamo subito al nocciolo della questione e raccontiamo questa storia che si sviluppa e trova nuove documentazioni nel corso degli anni. La vicenda nasce dai più nobili sentimenti, quali l'amore e la pietà umana. Siamo agli inizi del 1800 e il protagonista di questi fatti è anche Pellegrino Turri da Castelnuovo Garfagnana. Il Turri nacque nel capoluogo garfagnino da una famiglia nobile nel 1765, da giovanotto si trasferì a Reggio Emilia dove faceva parte delle Guardie Nobili del Duca di Modena con il grado di brigadiere, lì conobbe il conte Agostino Fantoni di Fivizzano, diventarono grandi amici, tanto che Pellegrino diventò uno di casa. In questa casa di Reggio Emilia Pellegrino Turri fece conoscenza anche con la sorella del conte, la contessina Carolina, tra i due nacque dapprima un'affettuosa amicizia che a quanto pare si trasformò ben presto in amore. Questa relazione non partì sotto una buona stella, le cose non cominciarono bene dal punto di vista
Pellegrino Turri
della salute, tant'è che la vista della contessina andava via via sempre peggiorando a causa di una brutta malattia che la portò in giovane età alla completa cecità. L'innamorato si impietosì di fronte all'infermità e nel 1802 decise di mettere in pratica
 la sua eccentricità, il suo ingegno e sopratutto i suoi studi meccanici per rendere più facile e autonoma la vita alla contessa cieca, creando un macchinario che permettesse alla ragazza di scrivere senza ricorrere all'aiuto di intermediari e che sopratutto in quel modo potesse proseguire la corrispondenza privata con l'amato garfagnino, facendo si, che la relazione potesse continuare. Questa per anni è stata la versione e la convinzione originaria, cioè che la paternità della macchina da scrivere fosse da attribuire al Turri, e in parte è vero ed è confermato, ma studi recentissimi (2010) ridisegnano nuovamente questa storia. Il ricercatore fivizzanese Rino Barbieri spulciando l'Archivio Fantoni conservato a sua volta nell'Archivio di Stato di Massa ha trovato documenti inconfutabili che assegnano l'invenzione primaria non a Pellegrino Turri, ma all'amico Conte Agostino Fantoni, fratello della contessina cieca. A testimonianza di quanto detto ci sono anche alcune lettere battute con la macchina da scrivere in questione che dissipano ogni dubbio e che sono consultabili presso l' Archivio Storico di Reggio Emilia. Questi a seguire sono poi gli stralci di lettere datate 1802 (quindi prima di Ravizza e di Sholes) che non lasciano alcun se o alcun ma in sospeso sulla questione della paternità dell'invenzione. La lettera è inviata dallo stesso Agostino Fantoni allo zio Giovanni."Ti do avviso che ho inventato uno strumento onde l'Anna (n.d.r: nome completo della contessina Anna Carolina Fantoni)possa scrivere liberamente, se in questa settimana verrà il legnaiolo per la posta ventura ti scriverà di proprio pugno, mi struggo di vedere come riuscirà in pratica la mia idea, ma mi lusingo da alcuni tentativi fatti che riuscirà perfettamente" e in un'altra successiva lettera sempre scritta allo zio si dice ancora: "l'istrumento per scrivere a occhi chiusi non lo potuto far ancora eseguire da un maestro che
lettera battuta da Carolina con la
 macchina Fantoni Turri
finora ho atteso invano e questo non è lavoro da effettuarsi senza l'assistenza di chi lo ha ideato, un informe abbozzo da me fatto ti produsse quelle due righe dell'Anna...in questi ultimi giorni ho trovato il modo per fare il gambo alle lettere T.D.B.Q che finora non avevo potuto trovare".
Questa invece è una lettera che scrive la contessina per interposta persona allo zio ed a un certo punto dice:"...spero di scrivervi due versi con il metodo di Agostino..." e ancora una testimonianza scritta da Glauco Masi editore di Livorno dove si sottolinea che il conte Agostino è molto preso nelle sue cose in quei giorni tanto che:"Agostino è un gran pezzo che non mi scrive ne so il perchè, ho piacere che abbia trovato la maniera per far scrivere l'Annina, così potesse trovar quelle di guarirla dai suoi incomodi, povera ragazza!" ed infine una nuova missiva di un amico di Agostino, tale Baldassar Vetri (ingegnere e matematico in quel di Pisa) che scrive sempre allo zio Giovanni: "...l'ingegnosissima invenzione del tanto caro al mio cuore Agostino..." e ancora:"...egli si è reso caro e memorabile all'umanità...".

Il marchingegno fu poi messo in pratica e non immaginiamoci certo una moderna macchina da scrivere ma piuttosto pensiamo ad un qualcosa di primitivo e al tempo stesso efficiente con un telaio certamente in legno (o forse in metallo), rimane il fatto che la contessina Carolina definì questa strana macchina "la tavoletta" o con il più ricercato appellativo di "la preziosa stamperia". Probabilmente dentro questa piccola struttura in legno si potevano far scorrere dei quadratini anch'essi di legno che portavano in incisione traforata le diverse lettere dell'alfabeto riconoscibili al tatto. La scrittura avveniva mediante un'asticella che seguiva la fessura delle lettere allineate nel binario a formare le parole, inoltre si può notare nelle missive rimaste ai posteri che i caratteri sono privi di apostrofi e punteggiatura varia e le lettere impresse sono tutte maiuscole.
Ma dopo tutto questo vi domanderete voi, Pellegrino Turri da Castelnuovo Garfagnana, allora che cosa c'entra? Eccome se c'entra! Come abbiamo letto non fu l'originario inventore di tale prodigio ma perfezionò l'invenzione dell'amico in maniera molto significativa e profonda, inventando di fatto quella che diventò negli anni a venire la celeberrima carta carbone. Di questa invenzione il Turri ne può assumere pienamente la paternità. Già nel 1802 la"carta nera" così come era chiamata, fornì efficacemente alla"preziosa stamperia"
Il brevetto della carta carbone
di Wedgwood,
invenzione "rubata" a turri
l'inchiostro,in modo che si potessero leggere nitidamente tutte le lettere che in origine erano semplicemente traforate. La funzione della "carta nera" era praticamente quella che tutti oggi ancora conosciamo e consisteva in una carta rivestita da uno strato di inchiostro asciutto, di solito unito a della cera. Anche qui però qualcuno fu più furbo e lesto del nostro concittadino e come si sa sono i brevetti che danno la primogenitura a un idea e così l'inglese Ralph Wedgwood il 7 ottobre 1807 depositò l'esclusiva della cosiddetta carta copiativa.

E per gli amanti del pettegolezzo come prosegui la storia fra Pellegrino e la contessina? A quanto se ne sa nel 1808 la contessa madre Maddalena Fantoni scrive al benemerito garfagnino facendogli capire che sua figlia avrebbe avuto bisogno di un marito...la macchina da scrivere per quanto utile e dilettevole non le bastava più: "Le basterebbe un uomo- scriveva la contessa- passati i quarant'anni (n.d.r: Turri al tempo ne aveva 43...), ben mantenuto, che non le faccia mancare da mangiare, nè da vestire, senza sforzi e che fosse di bona morale; non occorre poi tanta nobiltà, non importerebbe neppure in Reggio, ma anche in quei paesi circonvicini. Lei desidererebbe questo marito: io desidero che riesca a trovarglielo...". L'ingegnoso Pellegrino Turri dopo il velato (ma neanche troppo...) invito, con dispiacere non se la sentì di portare avanti la relazione, la differenza di età era troppa, fu così che ognuno prese strade diverse. La contessina trovò comunque l'agognato marito nella persona del trentenne Domenico Ravani Pollai, le nozze ebbero luogo il 23 ottobre 1809. Pellegrino Turri morì diciannove anni dopo quel matrimonio, era il 1828, mentre Carolina spirò nel 1841 a Reggio Emilia, lasciando alcuni figli i quali due giorni dopo la morte della madre donarono a Giuseppe Turri, figlio di Pellegrino la famosa macchina da scrivere in segno di profonda riconoscenza per quanto aveva fatto il padre. Di quella "preziosa stamperia" non rimase niente e niente è arrivato ad oggi. Il figlio di Pellegrino Turri verosimilmente la smarrì e forse la gettò ritenendola cosa inutile, di quel congegno di legno e ferro non è rimasto nemmeno un disegno. 
il libro
Tuttavia ci vollero più di venti anni prima che fosse apportata qualche modifica alla"macchina", ci volle più di mezzo secolo prima che in Italia se ne costruissero più modelli e ci vollero più di settanta anni prima che prendesse il via una produzione industriale in America. Nella nostra Garfagnana e nella vicina Lunigiana eravamo arrivati prima di tutti e fu un'altra occasione persa per far primeggiare su tutti il nostro genio italico.
Per chiudere in modo completo quest'articolo segnalo che su questa vicenda addirittura è stato scritto anche un apprezzato romanzo che si intitola "Le parole perdute"(titolo originale "The blind contessa's new machine" ovvero "La nuova macchina della contessa cieca") scritto da Carey Wallace (scrittrice americana) edito da Frassinelli, la storia ricalca verosimilmente il caso, con i nomi originali,i fatti di Pellegrino e Carolina e la miracolosa macchina da scrivere. 


Ringrazio per l'ispirazione a questo articolo l'amico Alessandro Veneziano



Bibliografia

  • Documentazione Rino Barbieri
  • Typewriter-macchine da scrivere
  • Archivio di Stato Reggio Emilia
  • La prima macchina da scrivere fu costruita in Garfagnana. Almiro Giannotti "La Garfagnana" n°6/1979

L'Organizzazione TODT in Garfagnana e nella Valle del Serchio

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Fritz Todt era un uomo qualunque, un signore serio, schivo, nato nel 1891 a Pforzheim, città confinante con la famosa Foresta Nera, era figlio di una Germania borghese e benestante, quella stessa Germania che poi alcuni anni dopo si butterà a capofitto in due scellerate guerre mondiali che porteranno alla fame un intero popolo. Il padre di Fritz era proprietario di alcune industrie e lui non potè far altro che intraprendere gli studi di ingegneria civile che interruppe per partecipare alla prima guerra mondiale come ufficiale nell'aeronautica militare nel fronte occidentale. Finita quella maledetta guerra finalmente riprese gli studi che concluse brillantemente laureandosi nel 1920 a Karlsruhe. Nel 1921 entrò a lavorare come ingegnere nell'impresa di costruzioni Sager & Woerner per la realizzazione di gasdotti e strade.
Una storia questa uguale ad altre mille, una storia comune, insignificante, di un uomo medio, che però indirettamente legherà il suo nome ai destini di molti garfagnini(e non solo).
Tutto cambiò a metà degli anni '30 del 1900, quando conobbe il cancelliere del Reich germanico Adolf Hitler a cui fece subito un eccellente impressione, tant'è che fu messo a capo di un ufficio tutto nuovo per l'attuazione della grande rete autostradale tedesca che grazie all'imponente mole di lavoro si riprometteva di assorbire una parte della disoccupazione germanica. Ma non solo, allo scoppio
"Un uomo qualunque":Fritz Todt con la moglie
della seconda guerra mondiale Todt divenne progressivamente responsabile dell'attuazione logistica e infrastrutturale dello sforzo bellico del Reich: la rete stradale dei territori occupati, le linee ferroviarie, i rifugi di sottomarini e inoltre si doveva occupare di erigere fortificazioni, bunker e rifugi a protezione ed in difesa dei nuovi territori occupati: la linea Sigfrido, il Vallo Atlantico e la famosa Linea Gotica, da tutto questo nacque la famigerata "Organizzazione TODT", meglio conosciuta con l'acronimo di O.T.

L'organizzazione TODT sarà una struttura paramilitare che all'inizio riunirà operai di più di mille imprese di costruzioni private. La quantità di manodopera impiegata fu enorme, dagli iniziali 35.000 lavoratori in poco tempo si passerà a ben 340.000. La prima grande opera di questa organizzazione fu la realizzazione di una serie di fortificazioni lungo il confine francese per oltre 500 chilometri, in soli diciassette mesi questi uomini riuscirono a costruire il Westwall (n.d.r.: il muro dell'ovest), più comunemente conosciuto ai più come linea Sigfrido. Per questa costruzione verranno impiegate più di sei milioni di tonnellate di calcestruzzo, pari a più della metà della produzione annua di cemento della Germania. I giornali
Todt con Hitler mentre gli illustra la
costruzione di un ponte
esaltarono quest'opera, la propaganda celebrò l'avvenimento come un trionfo della TODT. L'onore della O.T crebbe ancor di più quando ebbe il privilegio assoluto di edificare in Assia il celeberrimo "Nido dell'Aquila" quartier generale di Hitler. La popolarità di Fritz Todt era alle stelle. Il 17 marzo 1940 fu nominato ministro degli armamenti, ispettore generale per le strade, ispettore per le acque e l'energia elettrica e plenipotenziario dei lavori edili e per non farsi mancare niente gli fu conferito il grado di Maggiore Generale della Lufwaffe. Nel frattempo la TODT era sempre più impegnata su tutti i fronti di guerra. Arrivò così nella nostra valle nel settembre 1943 per completare gli ultimi tratti della Linea Gotica, ultimo e fondamentale avamposto difensivo che gli alleati dovevano affrontare prima di giungere nella Pianura Padana(sulla storia della Linea Gotica. In quegli anni la TODT toccò il suo apice in quanto a manovalanza, ormai erano qui impiegati oltre un milione e mezzo di lavoratori, una cifra spaventosa, però raggiunta "grazie" al lavoro coatto. Molti garfagnini furono costretti a lavorare forzatamente, rastrellati nelle case e portati a dare di picco e mazza sui nostri monti per ore e ore a scavare trincee nella roccia, tale sorte toccò anche ai prigionieri di guerra e a chi l'8 settembre aveva abbandonato l'esercito e in maniera volontaria si presentava ai lavori,
"Il nido dell'Aquila" oggi, costruito dagli
uomini della TODT
altrimenti sarebbe stato deportato nei campi di concentramento del nord Europa. Intanto nel 1942 "l'uomo qualunque" Fritz Todt morì in un misterioso incidente aereo, il comando dell'organizzazione passò sotto la guida de "l'archietetto del Reich" Albert Speer, che come il suo predecessore non si risparmiò nell'impiego di uomini e mezzi. Oltre ad un numero spropositato di operai, l'organizzazione potè contare su un parco smisurato di autocarri e macchine speciali, riversati questi anche in buona parte nella Valle del Serchio, punto nevralgico del fronte. Già nel 1938 il Genio Militare Italiano ordinò la costruzione di fortificazioni nelle coste versiliesi e nelle montagne garfagnine, i lavori non furono completati ma vennero ripresi proprio dagli ingegneri della TODT che avevano a capo l'ingegnere Hosenfled, il quale collocò le sue sedi a Borgo a Mozzano: la sede tecnica a Palazzo Giorgi e la sede amministrativa a Palazzo Santini. In soli dieci mesi si riuscì a creare tutte le difese che partivano dal Piaggione, toccavano Domazzano e 
arrivavano fino a Borgo a Mozzano, era un intersecarsi di camminamenti, muri anticarro, postazioni armate, gallerie, campi minati e chilometri e chilometri di filo spinato, ma l'errore commesso fu però clamoroso, un vero e proprio smacco morale per gli infallibili ingegneri TODT e in effetti fu così e non si considerò che costruendo posizioni difensive in quel tratto di valle si rendeva possibile un eventuale incursione americana attraverso la Val di Lima (raggiungibile da Pistoia), rischiando in questo modo di essere presi clamorosamente alle spalle (per la storia della Linea Gotica "garfagnina" leggi: http://paolomarzi.blogspot.it//conosciamo-lalinea-gotica.html). Kesserling, capo supremo delle forze tedesche in Italia ordinò di far indietreggiare il
Palazzo Giorgi a Borgo a Mozzano
sede della TODT (Foto bargarchivio)
fronte di ben 20 chilometri, attestando gli avamposti nelle zone di Molazzana, Gallicano, Ponte di Campia, in questo arretramento furono distrutti, ponti, strade e gallerie. Così anche in quella zona furono impiegati nei lavori forzati altri garfagnini, che furono questa volta facilitati nei lavori dalla morfologia delle montagne, la linea fu modellata seguendo le postazioni vantaggiose che offriva la natura. Si calcola che in tutti questi bunker e gallerie costruite nella Valle del Serchio vi abbiano lavorato al servizio della TODT più di tremila abitanti delle zone circostanti, per dodici mesi circa. Lavori forzati, duri, interminabili, senza essere minimamente pagati se non con una inqualificabile brodaglia, perdipiù tutti i lavoratori catturati durante i rastrellamenti, una volta finito il turno di lavoro venivano trattenuti nel campo di concentramento di Anchiano (n.d.r:piccola frazione di Borgo a Mozzano), ideato proprio a questo scopo. Don Alberto Santucci scrive: "Avendo fatto i tedeschi un campo di
Coprifuoco a Borgo a Mozzano,
pena la fucilazione (foto Paolo Marzi)
concentramento alla Socciglia,nei pressi di Anchiano, il Proposto si recava ogni giorno la, a visitare e a confortare i concentrati e spesso otteneva dal comandante tedesco la liberazione di alcuni di essi"
. Nella messa della domenica si riusciva pure a portare qualche indumento contro il freddo pungente e perfino qualcosa da mangiare a questa povera gente. Accadde però un episodio drammatico, l'11 agosto 1944. Otto uomini del campo di Anchiano vennero portati a lavorare a Forte dei Marmi, quando nei pressi di una località versiliese assistono alla fucilazione da parte dei tedeschi di 31 rastrellati, per eliminare testimoni scomodi vennero fucilati anche loro, si salverà solo uno. Rimarrà invece eroica l'impresa del geometra Silvano Minucci di Borgo a Mozzano, 
che si arruolò volontario nella TODT per non finire negli spietati campi di concentramento. Con la sua professione infatti aveva contatto più con le carte che con la terra e riuscì in questo modo ad intercettare e ricopiare in tre copie un accurato rilevamento topografico delle opere di difesa, delle aree minate e in pratica di tutte le postazioni tedesche. La preziosa mappa fu in seguito recapitata a Lucca al comando militare alleato della V armata con l'aiuto di Annamaria Cheli e di altre staffette che portavano nascosti dentro la canna della bicicletta i preziosi documenti. Ma
Ricostruzione della mappa di Silvano
Minucci (Archivio Isrec Lucca)
di prezioso non c'erano solamente queste mappe, altra preda ambita 
dai partigiani locali erano i magazzini TODT, difatti questi magazzini erano ricchi di ogni ben di Dio, dalle cibarie, agli attrezzi da lavoro e perfino armi e questo è quello che a proposito successe a Franco Bravi che in quel 1944 aveva appena diciassette anni e che già aveva lavorato nella TODT sia all'Isola Santa (comune di Careggine) che a Borgo a Mozzano e proprio in quei giorni era fuggito dal campo di concentramento di Anchiano per paura della deportazione in Germania, unendosi di fatto ad una piccola formazione di partigiani: 

”Il mattino dopo decisi di partire: Presi quattro o cinque fette di polenta di neccio e seguii la strada che mi aveva indicato (un conoscente di nome Amedeo Dini), e cioè: la Formica, via Nova, la Gatta. Quando arrivai era quasi mezzogiorno e fino ad allora non avevo visto nessuno. Mi sedetti sopra un sasso per riposarmi, perché ero assai stanco e mi misi a mangiare la polenta. Dopo pochi minuti sentii dei passi, mi girai e vidi un uomo con un fucile in mano che mi disse: -Cosa ci fai da queste parti?-. Allora io risposi: -Mi
Tunnel nella montagna,
linea gotica Borgo a Mozzano
(foto Paolo Marzi)
manda il Volpe- e allora lui mi domandò come mai il Volpe mi mandasse da loro. Gli raccontai la storia e mi disse di andare con lui. Dopo circa cento o duecento metri c’era una capanna coperta a piastre e una coperta a paglia, e dentro c’erano una decina di uomini. Mi presentò a uno che disse di essere il capo. Mi chiese il nome e quanti anni avevo. Gli dissi che mi chiamavo Bravi Franco e avevo diciassette anni e mezzo. Volle sapere dove avevo lavorato con i tedeschi e gli raccontai che prima lavoravo a Isola Santa, poi mi trasferirono a Borgo a Mozzano da dove ero scappato. Mi disse che per il momento non aveva armi da darmi, ma che nel giro di qualche giorno sperava di poterle avere, infatti dopo due giorni mi chiamò e mi consegnò un moschetto che disse di aver avuto dai carabinieri di Vagli. Mi insegnò come si caricava e mi disse di conservare bene le cartucce perché erano preziose perché poche.
 Verso sera mi chiamò di nuovo e mi domandò, sapendo che avevo lavorato a Isola Santa, se sapevo di preciso dove era il magazzino viveri della TODT e se era in un posto dove fosse facile attaccarlo per procurarsi dei viveri e se mi sentivo il coraggio di farlo. Gli dissi di sì e così il giorno dopo, verso le tre, si partì in sette compreso il capo che disse di chiamarsi “Lupo” (naturalmente come nome di battaglia). Gli altri rimasero lì a fare la guardia. Si arrivò sopra Isola Santa passando dal passo di Scala
Tunnel nella montagna,
linea gotica Borgo a Mozzano
(foto Paolo Marzi)
e da lì con il binocolo si osservavano gli operai che finivano il turno di lavoro. Appena venne buio si scese in paese, ma ci fermammo dietro un muro, perché si sentivano dei passi. Si vide un uomo che io riconobbi subito: era uno che lavorava con me prima che andassi a lavorare a Borgo a Mozzano. Lo chiamai per nome, si chiamava Bertoni, si fermò ed ebbe un po’ di paura vedendoci tutti armati. Gli dissi le nostre intenzioni e se sapeva quanti tedeschi c’erano. Mi rispose che erano solo due, i soliti che passavano tutti i giorni a controllare gli operai sul lavoro.

-Allora sono anziani- gli dissi -e uno parla abbastanza bene l’italiano-.
-Si, è proprio lui- mi rispose -ho saputo che è austriaco, non sparate perché ce ne sono altri alle baracche del cantiere. Speriamo che non se la prendano con noi paesani-
Ci si avvicinò al magazzino e si rimase alcuni minuti ad osservare cosa facevano. Finalmente uno venne fuori e accese una sigaretta. Allora il capo ed altri due partigiani, che erano i più vicini, gli intimarono di alzare le mani, lui le alzò subito e l’altro, nel sentire le voci, venne sulla porta e nel vedere tutti gli uomini armati, le alzò subito anche lui.
Bracciale per lavoratore TODT
(Foto Paolo Marzi)
Si entrò dentro, ma di viveri c’era poca roba. Si presero subito i fucili e una decina di pani e un centinaio di scatolette di carne. Quello che parlava italiano si raccomandò di non prendere le armi, altrimenti li avrebbero fucilati. Però noi per essere più sicuri, si presero i fucili e uno di loro, quello che parlava italiano, lo portammo fin sopra il paese. Gli rendemmo i fucili dopo aver tolto le cartucce e gli si disse di aspettare una mezz'oretta prima di tornare al magazzino.
Si seppe poi che il giorno dopo i tedeschi presero in ostaggio alcuni uomini del paese, ma visto che erano tutti uomini che lavoravano con loro e che non c’era stata violenza da parte dei partigiani, furono rilasciati lo stesso giorno “.

Negli ultimi anni di guerra quando la sorte della Germania nazista
Tessera per lavoratore
TODT
era ormai segnata, molti gruppi della TODT furono richiamati a rafforzare le divisioni decimate da anni di combattimento. Ma il loro intervento, mentre tutto il mondo nazista stava crollando non servì in alcun modo a ritardare la fine del Terzo Reich.





Bibliografia:


  • "L'organizzazione TODT e le sue attività in Italia durante la seconda guerra mondiale" di Carlo Alfredo Clerici  "Uniformi e Armi"1995
  • "Mediavalle e Garfagnana tra antifascismo guerra e resistenza" di Feliciano Bechelli, Pezzini Editore 2016
  • "Racconti di guerra vissuta" di Tommaso Teora, Banca dell'identità e della memoria 2014

Garfagnana milionaria: quando la Dea bendata si fermò a Sassi

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Giornali dell'epoca
(foto tratta da "La Pania" n 111)
Era proprio durante questo periodo di festività natalizie che le speranze di una vita fantastica, fra agi, lussi e benessere si rinvigoriva in tutti gli italiani. Era il periodo in cui tutti (o quasi) acquistavano almeno un biglietto della lotteria Italia che veniva estratto puntualmente il giorno della befana nella trasmissione di punta della R.A.I del sabato sera. Tutti lì, davanti al televisore, nella trepidante attesa che venissero estratti i nostri numeri incantati, come al solito la speranza veniva delusa ma rimaneva un briciolo di fiducia per il giorno dopo, quando sul giornale venivano pubblicati i numeri di serie vincitori dei cosiddetti "premi minori", chissà, magari la macchina nuova ci scappava e forse ci scappava pure la cucina tanto desiderata dalla moglie. Ora ci hanno tolto anche questa magia...e il nostro Paese è stato aggredito dai giochi moderni, dove tutto è all'insegna della velocità e dell'immediatezza: gratta e vinci di ogni tipo e foggia, superenalotto e scommesse sportive la fanno da padrona e hanno dato il "de profundis" a tutte quelle lotterie nazionali che cadenzavano il tempo e le speranze di esistenze migliori. Pensate che negli anni d'oro delle lotterie, la lotteria Italia arrivò a staccare nel 1988 ben 37 milioni e mezzo di biglietti, oggi grazie agli ultimi "nostalgici"fra tutte è l'unica sopravvissuta e non arriva nemmeno ad otto milioni di tagliandi venduti. Addio quindi all'estrazione legata alla Regata di Venezia, alla "nostrale" lotteria del Carnevale di Viareggio e alla storica lotteria del Gran Premio di Merano.
A proposito di Merano, la lotteria di questa ridente cittadina trentina rimarrà per sempre nella memoria di tutti i garfagnini. La Garfagnana è stata sempre terra di gente con pochi fronzoli nella testa, gente contadina che contava sulle proprie braccia e sulle proprie forze per emergere da una vita grama, ma quel giorno in quel
Il biglietto della lotteria
di Merano del settembre 1964
lontano settembre 1964 la Dea bendata si fermò a Sassi, nel comune di Molazzana.

Prima di raccontare queste incredibili vicende degne della miglior commedia all'italiana conosciamo un po' più da vicino la storia di questa lotteria, per capire di conseguenza la portata di quello che successe più di cinquant'anni fa in questo piccolo paese garfagnino che oggi non conta nemmeno duecento anime. 
La lotteria del Gran Premio ippico di Merano fu istituita in piena era fascista da un quasi capriccio del gerarca fascista Achille Starace, segretario nazionale del partito. Starace infatti vantava di essere un provetto cavallerizzo e un buon intenditore di cavalli e invidiava moltissimo il colonnello Pollio che a capo della S.I.C
Benito Mussolini e Achille Starace
(società incremento corse) organizzava a destra e a manca corse ad ostacoli. Capitò così l'occasione che la società che gestiva l'ippodromo di Maia a Merano (in provincia di Bolzano) fallisse, lasciando di fatto terra fertile all'ambizioso gerarca che convinse Mussolini a far "resuscitare" il tutto, portando motivazioni che allo stesso duce fecero gola. In questa maniera e a questo evento fu così associata una lotteria nazionale che con i proventi dei biglietti venduti si potevano accumulare denari per la realizzazione del futuristico quartiere EUR di Roma e perdipiù si poteva investire negli anni futuri anche in altri grandiosi progetti che Mussolini aveva in mente per "la città eterna". Fu così che il 30 agosto 1935 in pompa magna venne inaugurato il redivivo ippodromo alla presenza del duce in persona e al fautore di questo progetto Achille Starace (che nel frattempo era diventato presidente della S.I.C...). Il 20 ottobre del solito anno, di fronte ad un pubblico enorme convogliato a Merano con treni speciali (mentre gli altri ippodromi d'Italia quella domenica erano chiusi) si svolse il primo Gran Premio e la prima estrazione della lotteria, che prima dell'avvento della famosa
Una vecchia foto dell'ippodromo di Merano
lotteria Italia vantava la maggior dotazione: il suo primo premio nel 1935 ammontava nientepopodimeno che a un milione di lire.

Arriviamo così dopo questo necessario preambolo a Sassi, dove tutto cominciò il 28 settembre 1964. Un lunedì all'apparenza come gli altri, il giorno prima c'era stata la seconda giornata di campionato di serie A, si parlava che di li a pochi giorni si sarebbe inaugurata l'autostrada del Sole ed inoltre in quella domenica appena trascorsa si era corso il Gran Premio ippico di Merano e di conseguenza si era tenuta anche l'estrazione della seconda lotteria nazionale più importante, evento questo che cambiò letteralmente i destini di questo paese. La lieta notizia arrivò con il "postale" del mattino(n.d.r: l'autobus di linea che oltre ai passeggeri portava la posta e i giornali) che recava con se i quotidiani da vendere. All'apertura del giornale gli abitanti trasecolarono, il biglietto con il primo premio era stato venduto in paese, "L'Unità" del tempo così citava:"il biglietto vincitore del primo premio del Gran Premio di Merano potrebbe appartenere ad uno dei cento abitanti dl Sassi, frazione di Nolazzana, nell'alta
L'Articolo de "L'Unità", in rosso
il pezzo in questione
Garfagnana, in tale località, infatti, è stato venduto il tagliando vincente. Non è stato ancora possibile, tuttavia, aver'una conferma: Sassi non ha telefono e non è collegata da alcuna strada carrozzabile"
. I
 150 milioni di lire di premio erano clamorosamente arrivati in questa frazione del comune di "Nolazzana" (come menzionava erroneamente "L'Unità"), in tasca a qualche fortunato locale. Tanto per rendersi conto della vincita è bene fare subito una comparazione, che secondo un programma di attualizzazione monetaria il montepremi incassato nel 1964 corrisponderebbe ad oggi a un milione e seicentomila euro, figuratevi allora lo stupore e la curiosità che si insinuò nel paese per scoprire il vincitore. In men che non si dica il bar Pucci che all'epoca faceva da posto pubblico ed era anche l'unico telefono presente in paese, fu aggredito dalle telefonate dei giornalisti di tutta Italia, la signora Giulia che gestiva il
Sassi inizio '900
(foto Banca Identità e Memoria)
bar ormai era esasperata dalle chiamate che giungevano da ogni dove e all'ennesima domanda di chi fosse il vincitore si lasciò andare nella stizzita affermazione che il fortunato era "il pievan di Gallicano", ma tale espressione era un modo di dire, che nel parlare locale alludeva ad una persona conosciuta ma senza un riferimento specifico, purtroppo la Giulia non aveva fatto conto che questa frase era prettamente garfagnina se non addirittura strettamente circoscritta al posto, cosa che naturalmente non sapevano i giornalisti giunti da tutta Italia che prendendo alla lettera queste parole andarono di corsa all'attacco del pievano di Gallicano Don Lino Togneri per intervistarlo, il parroco andò su tutte le furie oltre a non aver vinto un bel niente dovette dare giustificazione ai parrocchiani e al vescovo che chiedevano lumi, minacciò addirittura di querela la povera Giulia, ma compresa la buona fede della donna rinunciò al proposito, in tal modo il mistero continuava ancora. La questione si faceva più ingarbugliata e 
fra depistaggi e tentativi di speculazione i fatti assumevano i contorni di una spy story, ci fu chi contattò i giornalisti pronto a rivelare il nome del vincitore in cambio del pagamento di centomila lire. L'attenzione al contempo si spostò allora sull'ufficio postale e sulla persona del Pè della Posta(n.d.r:al secolo Giuseppe Pieroni titolare dell'ufficio postale all'epoca, fra l'altro amico e collega del mio babbo), posto in cui si era venduto il tagliando vincente SERIE I NUMERO 73991, abbinato al cavallo Luopinot. Sotto interrogatorio il Pè della posta rivelò di aver avuto dall'amministrazione P.T un blocchetto di soli cinque biglietti, rammentando di averli venduti all'Ugo, al
Giornali dell'epoca
(foto tratta da "La Pania" n 111)
Pierluigi e all'Ottavio(n.d.r:abitanti di Sassi), il quarto lo aveva comprato egli stesso e il quinto proprio non se lo ricordava a chi lo aveva ceduto, dato che era stato venduto mesi addietro. Intanto in paese circolava insistente una voce che voleva in Ermete Rossi il fortunello di turno. Ermete Rossi, era un ragazzotto del paese, emigrato da qualche tempo in Svizzera. I giornalisti in quell'occasione sciamarono da lui e dai suoi familiari, ormai da tutti era indicato come il vincitore della lotteria. Arrivò perfino la televisione a intervistare gli abitanti per sapere secondo loro chi fosse il misterioso sorteggiato e tutti indicavano sempre e solo l'Ermete. Le circostanze e i fatti confermarono la notizia e gli eventi dimostrarono sopratutto il buon senso del ragazzo che colpito da cotanta ricchezza non si lasciò trasportare da una pericolosa euforia che porta spesso altri vincitori nel giro di pochi anni a scialacquarsi tutto il patrimonio, anzi, non si lasciò andare a spese azzardate o a folli imprese economiche ma si affidò ai saggi consigli di Don Natale, tornando di fatto in Svizzera a lavorare con meno assili e una diversa tranquillità, naturalmente non si dimenticò della famiglia e nemmeno delle buone indicazioni ricevute da Don Natale a cui regalò per riconoscenza una fiammante FIAT 850. Nemmeno oggi Ermete ha
(foto tratta da "La Pania"n 111)
perso la buona abitudine di venire a visitare tutti gli anni i suoi cari. Per i paesani non rimase altro che quel quarto d'ora di notorietà a cui spesso si riferiva il profeta della pop art Andy Warhol, ai giornalisti della carta stampata e della televisione riferirono di non essere diventati milionari...per onestà e correttezza, rifacendosi al fatto che il Pè della Posta aveva loro offerto di acquistare i biglietti della lotteria a credito, ma siccome non era per loro buona creanza comprare a credito, lo avevano pregato di dar loro tempo per andare a prendere i soldi a casa per il sospirato tagliando, che nel frattempo era stato acquistato da Ermete. Peccato poi che l'ultimo biglietto disponibile fu comprato dallo stesso Pè della Posta, per evitare una brutta figura con l'amministrazione P.T di dover riconsegnare un blocchetto non completamente venduto, significato questo che da parte dei paesani non c'era proprio questa corsa al biglietto.

Così si concluse questa storia, in breve tempo tornò tutto alla
Sassi oggi
normalità in paese, ognuno riprese le sue abitudini e i suoi lavori, in fondo tutti felici e contenti, perchè la fortuna in qualche modo si era ricordata di questo piccolo paese ai piedi delle Apuane che in tempo di guerra era stato devastato dalle bombe,in molti videro in questi accadimenti il destino che finalmente aveva saldato i suoi debiti.




Bibliografia:

  • "Sassi milionaria" di Aldo Bertozzi da "La Pania" n°111 settembre 2016
  • Daniele Saisi blog "Attualizzatore excell, traduttore valori monetari"
  • "A Lucca i 150 milioni della lotteria" su "L'Unità" 28 settembre 1964
  • Archivio storico lotterie nazionali

Vecchie storie di paura in Garfagnana

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E' proprio durante il lungo e rigido inverno garfagnino che
le persone si riunivano "a veglio", questa parola aveva la capacità di riscaldare, divertire e distrarre le persone che nelle fredde sere invernali si riunivano (quando a casa di uno, quando a casa di un altro) davanti al focolare, qui si discuteva dei più svariati problemi,della dura giornata di lavoro nei campi e si raccontavano pure le vicende più incredibili e racconti meravigliosi. Il momento saliente della serata era infatti quando poteva capitare di raccontare storie di paura, in quel momento anche i ragazzi e i bambini che fino a quel momento erano distratti o appisolati in qualche "cantone" della casa si risvegliavano prontamente e aguzzavano le orecchie. La luce tremolante delle fiamme nel camino, la penombra della casa e l'abilità di raccontare dell'anziano oratore di turno creavano un'atmosfera tutta particolare, ad aggiungere gusto alla narrazione c'erano le "mondine" quasi pronte sul fuoco e l'aspro vinello nostrale era il coronamento della veglia. La tradizione orale di questi racconti così è andata avanti per secoli fino ad arrivare a noi, grazie sopratutto al recupero e alla trascrizione di questi racconti da parte di associazioni culturali come il"Gruppo vegliatori di Gallicano" o "La Giubba" di Piazza al Serchio. Le storie che andrò a narrare oggi sono tratte in buone parte dall'egregio lavoro fatto da Umberto Bertolini e Ilaria Giannotti e quelle che ho scelto sono racconti di paura al di fuori dell'ordinario, non legate alla pura tradizione garfagnina dei buffardelli o degli streghi (di cui già ampiamente ho scritto) ma bensì riguardano vicende verosimilmente accadute (così almeno giuravano i protagonisti...), di spiriti e fantasmi. Solitamente prima di cominciare con un racconto il cantastorie faceva delle raccomandazioni, tanto per creare un po' di pathos negli ascoltatori e rammentava alle donne presenti se avevano raccolto i panni lavati dei
loro figli messi ad asciugare all'aria aperta, tale faccenda doveva essere fatta prima che le campane avessero suonato l'Ave Maria della sera, perchè c'era la convinzione che dopo quell'ora per le vie dei paesi garfagnini si aggirassero esseri maligni e se malauguratamente avessero solamente sfiorato i panni stesi, questi potevano procurare brutte malattie  ai bambini  che le avessero indossati. In caso di dimenticanza bisognava "raccattare" questi vestiti il mattino seguente all'ennesimo suono delle campane. Ci si raccomandava anche di non bere alle fontane dopo l'or di notte (n.d.r: l'ordinotte era un'ora dopo l'Ave Maria, cioè quell'ora che segnava la fine del giorno e l'inizio della notte) poichè si"poteva pigliare lo spirito maligno", però si ci si poteva dissetare solo dopo aver detto "Acqua corrente, ci beve il serpente, ci beve Dio e ci bevo pure io". Dopo questi buoni consigli di rito si cominciavano a raccontare le storie di paura; una fra le più famose narrava le vicende di MATT'MATTEO. Questo racconto è probabile che abbia un fondo di verità e riferisce dei fatti accaduti ad un pastore di Vagli
All'inizio della Valle Arnetola, lungo il corso della via Vandelli si aprono numerose grotte, in quei luoghi si ha come l'impressione che le Apuane ti si stringano tutto intorno, alcune di queste grotte
Le buche della Valle Arnetola
sono profondissime  e le loro acque interne come per magia affiorano proprio nel territorio di Vagli. Una di queste buche, la buca del Pompa, effettivamente faceva sbucare le proprie acque cristalline nei pressi di un lavatoio. Nelle vicinanze di questa buca portava a pascolare le pecore Matt'Matteo, un pastore molto giovane, esuberante e vivace, sempre allegro e con il suo zufolo in bocca. Un brutto giorno il pastorello volle affacciarsi alla buca, gli era parso di sentire delle voci, ad un tratto il suo caprone gli rifilò una forte testata che lo fece precipitare negli abissi. Matt' Matteo morì. La notizia rattristò tutto il paese e quel che era peggio la povera madre non aveva neanche il corpo su cui piangere. La mamma venuta a conoscenza che le acque della maledetta buca si raccoglievano nei pressi della fonte del lavatoio volle andare lì ad aspettare il corpo del figlio, difatti alcuni giorno dopo le acque restituirono il berretto e lo zufolo, ciò rafforzò ancor di più la convinzione che prima o poi il cadavere del figlio sarebbe ricomparso. Fu tutto vano, i giorni passavano e la madre non si muoveva più dal lavatoio e chiamava in continuazione il figlio, i paesani portavano alla povera donna cibo ed acqua per sostenerla ma la morte dopo un mese circa giunse anche per lei, il dolore fu troppo forte da sopportare. Dopo i fattacci chi passava nelle vicinanze del lavatoio, specialmente dopo le uggiose giornate di pioggia c'è chi vedeva fra la nebbia la povera mamma seduta sul bordo della vasca che guardava nell'acqua ed emetteva un gemito di disperazione da far gelare il sangue nelle vene. 

L'altra storia se si vuole è abbastanza recente ed è figlia dell'immigrazione e il protagonista è esistito per davvero. I fatti raccontano di tale LEONZIO (nome volutamente creato ad arte per celare la vera identità). Leonzio era emigrato in Inghilterra ed era tornato in Garfagnana  come si suol dire con le tasche piene, con tutti i soldi guadagnati si era comprato una dimora di tutto
rispetto che per la sua grandezza e magnificenza era soprannominata "il castello". Ma come si sa i denari non insegnano nè la buona educazione, nè le buone maniere, per di più non andava mai in chiesa e non sopportava i poveri. Comunque sia decise per il suo ritorno di offrire ai paesani più ricchi un succulento banchetto presso il castello. Di ritorno dall'aver ordinato le provviste per la grande cena passò davanti al cimitero del paese, vedendo un teschio lo calciò in modo sprezzante così dicendo:- Stasera faccio un grande banchetto e giacchè ti ho trovato ti invito, così mi dirai come si sta nell'aldilà-. Arrivò così la sera e la cena ebbe inizio, i più prelibati piatti erano presenti in quella casa, l'orchestra non smetteva mai di suonare e tutti i commensali gridavano:- Viva Leonzio !!!- e quando la festa era proprio all'apice si sentì bussare alla porta, tanto forte che il castello tremò. Leonzio dette il permesso ai suoi servi di andare ad aprire con il preciso ordine di far entrare chiunque fosse stato ricco o di prenderlo a calci se era un povero. Il servo andò ad aprire e si spaventò tantissimo, così tanto da mettersi seduto per la paura, aveva visto un'orribile ombra, quest'ombra chiedeva di vedere il padrone dal momento che era stata invitata. Riferite le parole dell'essere a Leonzio, prontamente cancellò l'invito, aveva capito che quella"cosa"era l'anima di quel teschio che aveva calciato in giornata. Immediatamente fece chiudere tutti i portoni e le finestre con chiavistelli a doppia mandata ma l'ombra non si fermò, con una tremenda spallata abbatté il grosso portone d'ingresso, gli invitati furono presi dal panico generale, chi scappava a destra, chi a manca ma la creatura rassicurò tutti, voleva solo ed unicamente Leonzio, che fu così avvolto fra le spire dell'ombra che lo immobilizzò dicendogli queste parole:- Nipote mio ascoltami, ti do una brutta notizia, oggi tu morirai, credevi di regnare invece da ora in poi penerai con me per tutta l'eternità all'inferno-. Quel giorno stesso Leonzio morì e nessuno ebbe più il coraggio di entrare in quel palazzo che ben presto fu invaso dai topi che per prima cosa mangiarono il suo ritratto.La prossima novella mescola storia e paura e anche queste vicende fanno riferimento a fatti reali. L'episodio avvenne verso la metà del 1700, quando la nuovissima ma impervia Via Vandelli diventò un'arteria importantissima per i commerci con il mare (leggi la sua storia http://paolomarzi.blogspot.it le-strade-garfagnine-di-una-volta-.html). La strada era trafficata sopratutto dai mercanti di sale e quello che successe in quel terribile inverno di tre secoli fa, fece prendere il nome a quel tratto di via FOSSA DEI MORTI. Qui alcuni mercanti estensi
La Via Vandelli
in un rigido inverno si recavano a Massa per approvvigionarsi di sale, furono colti da una tempesta di neve senza precedenti. I cavalli e i mercanti erano assiderati dal gran freddo, il vento e la neve battevano pungenti nei loro volti e praticamente non riuscivano ad andare avanti, si rifugiarono in un avvallamento del terreno che diventò ben presto la loro tomba, con ogni probabilità furono colti da una slavina. Da allora i cavatori di marmo e i passanti quando nevica odono ancora in quel luogo i lamenti dei morti e lo scalpitare dei cavalli.


Così si concludeva una sera"a veglio"di un tempo lontano, ognuno riprendeva le proprie cose, le madri si caricavano in braccio il bimbetto impaurito e infreddolito e si andava a casa propria a riposare per il giorno dopo, non rimaneva però che un'operazione da fare, l'ultima persona che lasciava la stanza aveva il compito di battere il ceppo ardente con le molle del camino, le scintille che uscivano dalla cappa camino andavano a portare prosperità nei campi. 

La "Bernadette" della Garfagnana: Anna Morelli. Quando la Madonna apparve a Gramolazzo

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Non è facile credere a ciò che non si vede, questa regola vale ancor
Gramolazzo,anni 30 al Canale della Gattaia
(collezione Silvio Fioravanti)
di più in campo religioso ed è da sempre stato tema di scontro fra scienza e credenti. La scienza dal canto suo dice che i miracoli e le apparizioni mistiche sono frutto di visioni riconducibili eventualmente anche a delle patologie e chiude il tutto in un ottica esclusivamente razionalistica, essi obbiettano che non sussiste alcun fondamento scientifico che dimostri l'esistenza di questi fenomeni soprannaturali e che comunque sia, ancor prima bisognerebbe dimostrare l'esistenza di colui che si presume ne sia all'origine, cioè Dio stesso. Queste affermazioni fanno rivoltare nella tomba tutti i Papi sepolti nelle Grotte Vaticane e la Chiesa inorridisce e afferma che la Fede è sopra ogni cosa e che non tutto quello che non si vede, non esiste. L'amore non si vede, la speranza, la gioia, non si vedono ma esistono, ma se non credi in Dio, nei suoi miracoli e nelle apparizioni perchè non può vederli con i tuoi occhi, allora non dovresti credere all'amore e ai sentimenti che governano il mondo. Così si riassume in maniera molto semplicistica l'infinita lotta fra scienza e Chiesa. Tutto questo bel discorso fa da introduzione ad un fatto molto controverso e (forse volutamente) poco conosciuto avvenuto esattamente 70 anni fa in Garfagnana, quando a Gramolazzo apparve la Madonna, ma prima di iniziare nel racconto dei fatti mi è necessario dire che ognuno dei miei cari lettori è libero di trarre le proprie conclusioni su questi lontani accadimenti in maniera libera e spassionata, da parte mia visto il delicato argomento mi rifarò puntualmente ai fatti di cronaca e al materiale in mio possesso.

La protagonista di questa vicenda era Anna Morelli una ragazza di Gramolazzo (frazione del comune di Minucciano)malata dal 1941, la
Anna Morelli "la miracolata"
(foto collezione Paolo Marzi)
povera donna non riusciva più ad inghiottire cibo e quel poco che deglutiva non riusciva assolutamente a digerirlo e lo vomitava puntualmente, gli era stato diagnosticato un male terribile che minava seriamente la vita stessa. Medici di ogni sorta e da ogni dove l'avevano visitata ma le speranze date da questi luminari erano sempre ridotte al lumicino. Il 1947 fu l'anno che la malattia degenerò, ma fu anche l'anno della svolta, quando da un possibile prodigio miracoloso la Madonna apparve alla ragazza nella sua camera da letto dove giaceva ormai inerme. La Santa Vergine stando al racconto dell'ammalata non pronunciò parola ma toccò la fanciulla sullo stomaco, la parte malata, e miracolosamente dove la Madonna pose la sua mano apparve sulla pelle una croce vermiglia e oltretutto l'oscuro male sparì. Immaginatevi voi, giornalisti, fotografi, autorità civili ed ecclesiastiche accorsero nel remoto paesino garfagnino per conoscere quella che al tempo fu definita "la miracolata". Tutti volevano raccogliere testimonianze e intervistando gli abitanti del borgo confermavano le tesi conosciute:- Creda pure a me che l'ho vista, quella aveva il diavolo in corpo!- così all'epoca affermava un giovane del posto. La ragazza da parte sua mostrava a tutti la sua rossa croce a testimonianza della sua guarigione e così di parola in parola accorrevano per vederla da ogni parte della Valle del Serchio (e non solo). Gramolazzo era diventato il paese della "miracolata", divenuto meta ove l'umanità stanca e sfiduciata da anni di guerra andava a ritemprare la propria Fede, "andando- come dicevano le cronache del tempo- a toccare con mano profana il segno tangibile di una volontà sconosciuta". La cosa assunse, come spesso accade in questi casi i contorni del fanatismo, i pellegrini entusiasti assediavano la casa di Anna notte e giorno e i
La camera da letto di Anna,
dove ebbe la sua prima visione
(foto collezione Paolo Marzi)
giornalisti ripetevano come pappagalli le solite domande sull'ormai famigerata apparizione, domande a cui la ragazza aveva ormai risposto un migliaio di volte. Nel frattempo, sappiamo come sono fatti i cronisti, andarono a scavare nel privato della giovane e venne fuori che proprio la giovanotta aveva velleità da pin up e che proprio l'anno prima era stata eletta "Stella di Garfagnana" in un concorso di bellezza a carattere regionale. I tagliandi per decretare la vincitrice provenivano a bizzeffe alla redazione del giornale promotore, i maligni dicevano che ella stessa avesse finanziato la sua elezione, ma i maligni, si sa, non mancano mai

La storia non finì qui,anzi tutt'altro, la Madonna apparve più volte ad Anna Morelli, ed ecco dunque di seguito quello che un giornalista scrisse quando anche lui fu presente ad una di queste apparizioni.

"La fede muove le montagne, io mi sono mosso per molto meno, un volgarissimo telegramma. E sono stato fortunato: ho visto Anna
La folla assedia la casa di Anna Morelli
(foto collezione Paolo Marzi)
mentre vedeva la Madonna. Il miracolo è atteso per le quindici, aveva richiamato a Gramolazzo increduli fedeli da tutti i paesi vicini. Ho chiesto alla ragazza dove sarebbe avvenuto il miracolo. Mi ha risposto con un sorriso:- Non lo so; dove mi sentirò di andare in quel momento- E intanto con grazia femminile accendeva una profumata sigaretta. Non crediate che con questo Anna sia un po' civetta. Tutt'altro. Ha smesso di tingersi le labbra e le unghie, parla con una certa disinvoltura, ma con una serietà assoluta. Posa compiacente davanti all'obbiettivo, cita senza riluttanza libri che ha letto e films che ha visto. Chiedo cosa ne pensa di Bernadette, il film della miracolata di Lourdes. L'ha visto ma non esprime giudizi. Alla quattordici e dieci Anna mi dice:- Scusi non posso più rimanere devo scendere in strada-. Tento di trattenerla ma la ragazza è in preda ad un evidente nervosismo. Scende, la seguo. Ad un certo punto si getta in ginocchio e, pallidissima in volto, congiungendo le mani e sbarrando gli occhi mormora:- Eccola !-. La folla si inginocchia, piange sommessamente. Anna, la "miracolata" con lo sguardo fisso in avanti, sorride e mormora parole incomprensibili. E' in estati. Riesco a percepire alcuni monosillabi privi di senso:- Si...No...-. Per accertarmi del suo stato di sensibilità la pungo per due volte inaspettatamente, con uno spillo. Due goccioline di sangue, la ragazza non sente e non fa un movimento. Gli occhi sbarrati, fissi nel vuoto vedono...Sviene. La portano di peso in casa. Dopo un attimo riprende i sensi. Grosse lacrime le scorrono sulle guance fra i singhiozzi che la fanno scuotere tutta, racconta della visione avuta:- Anna il segno che ti ho impresso ti resterà in eterno, Dillo e fallo vedere a tutti. Il cuore di Gesù sanguina per i peccati degli uomini.. Farai costruire un santuario-. Giù nella strada la folla inginocchiata prega."


Le apparizioni successivamente continueranno ed usciranno dai nostrali confini per giungere in quel di Marina di Pisa e
Grotta di Villa Santa
a Marina di Pisa ieri
precisamente alla grotta di Villa Santa. Siamo nel 1948 e già questo luogo era stato precedentemente visitato da celesti apparizioni, stavolta per mezzo di una piccola di quattro anni Paola Luperini, fattostà che anche Anna Morelli fu richiamata insieme ad altri veggenti in questo posto, ancora oggi considerato sacro. La testimone Lola Roncucci, signora pisana, oggi abitante a Livorno apre il suo scrigno dei ricordi e rammenta nitidamente di quella ragazza garfagnina e proprio di un episodio che vale la pena di raccontare, quando ad Anna in una precedente visione le fu detto dalla Vergine di invitare alla grotta gli infermi e gli ammalati in un dato giorno. La notizia fu ripresa da tutti i quotidiani e arrivò all'orecchio di una ragazzina di 14 anni Ilva Borghini di Rio Marina (Isola d'Elba). La bambina elbana aveva una brutta storia alle spalle, il padre la gettò dalla finestra per delle futili divergenze e nella caduta la piccola rimase paralizzata irrimediabilmente. Comunque Ilva quel giorno raggiunse Marina di Pisa, arrivò in barella. Come lei erano presenti molti altri malati provenienti da tutta Italia e tutti erano in preghiera, quando ad un certo punto della veglia, Anna attorniata dai sacerdoti presenti ebbe la visione. La folla presente, come racconta la testimone Lola Roncucci, rimase sbalordita quando dal cielo sopra la testa della veggente garfagnina cominciarono a scendere petali di rosa bianchi, Anna li raccolse e questi si tramutarono in ostie, una di queste era grande e rotonda, le altre due erano attaccate insieme. Terminata l'apparizione Anna le divise a pezzetti che distribuì ai presenti, l'ostia più grande rimase al prete. Uno di questi pezzettini toccò proprio ad Ilva Borghini, una volta ingerito udì una voce che le diceva:- Ilva, alzati e cammina-, prima con titubanza e poi in maniera più decisa la bambina scese dalla barella, cominciò a camminare superando anche diversi ostacoli, salendo scalini, schivando tronchi di albero e poi tornò improvvisamente indietro raggiungendo la barella da dove era venuta e tornò sorprendentemente paralizzata. La ragazzina spiegò che quando camminava la Madonna continuava a parlarle dicendole così:-Vedi Ilva ti ho dimostrato di poterti guarire per concessione di mio Figlio, ma lascio a te la decisione e la scelta. Vuoi essere guarita o rinunci alla guarigione per la conversione dei peccatori? Domani torna qui, mi vedrai e solo
Grotta di Villa Santa a Marina di Pisa oggi
allora mi dirai quale è stata la tua decisione-
. Figuratevi voi, la decisione per la madre e la giovane quattordicenne era a dir poco combattuta. Tale combattimento cessò il giorno dopo, quando la Madonna riapparve alla piccola che decise di rimanere inferma per la conversione dei peccatori. Negli anni a venire per Ilva fu un continuo calvario, fu seguita da un padre spirituale, in seguito a

questi avvenimenti si fece poi suora. 
Nel 1951 ci fu una delle ultimi apparizioni per Anna Morelli, ma quanto le disse la Madonna quel giorno di sessantasei anni or sono fa ancora rabbrividire il sangue nelle vene: - Grandi calamità vi attendono. Malattie cattive ed epidemie infesteranno il mondo: molti moriranno. Piogge fortissime arriveranno e devasteranno, allagando e sotterrando ogni cosa; fulmini scenderanno dal cielo distruggendo case e raccolti, tutta la terra sarà in movimento e neppure il mare vi risparmierà. Vi saranno fame, disordini e ribellioni, sangue innocente che correrà per la strada; il fratello ucciderà il proprio fratello e prestissimo ci sarà anche la guerra; microbi nuovi e terribili presto infesteranno la terra...-

Ben presto la Chiesa cercò di stendere una cortina di fumo su questi fatti. La ragazza fu fatta refertare da una commissione medica che la giudicò "soggetto isterico ed epilettico", e la croce sullo stomaco? "Tracce ecchimotiche" e la brutta malattia? "All'esame radiologico appaiono tracce di ulcera cicatrizzata". Insomma la Chiesa Cattolica Romana credette di non autorizzare il culto, per quali motivi non lo so e tutt'oggi rimangono (almeno a me) misteriosi, bisognerebbe ricercare negli archivi vaticani della "Congregazione per la dottrina della Fede", ma il vostro umile cronista a così tanto non arriva. Entrando un po' di più nel particolare posso solo dire che la Chiesa Cattolica giudica questi avvenimenti in base a tre fasce: le accetta e ne diffonde il culto, non le condanna e nemmeno le approva, o le condanna attraverso scomuniche e diffide. I fatti di Anna in Garfagnana rimangono nel limbo, cioè non sono stati condannati ma nemmeno approvati. Tengo a sottolineare un fatto, che le apparizioni mariane "autorizzate" dal inizio della storia della Chiesa Cattolica sono circa quindici e che le apparizioni della Madonna a Medjugorje a tutt'oggi non sono accettate dalla Chiesa, anzi...
Per Anna "la miracolata" così come rapidamente arrivò la notorietà e la fama altrettanto rapidamente arrivò l'oblio, voluto e preteso da Santa Romana Chiesa...



Bibliografia:

  • Domenica del Corriere 21 dicembre 1947, anno 49,n°51
  • Profezie di fine millennio di Anna Maria Turi, edizioni Mediterranee 1996
  • "Lumen Gentium" Vaticano II paragrafo 12
  • "Il Tirreno" , 1 settembre 1997 "Parlano i testimoni delle apparizioni a Villa Santa"

Una millenaria storia: il contrabbando di sale in Garfagnana e le famigerate "vie del sale"

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Cosa c'è di più banale, insignificante e tremendamente normale di un
Contrabbandieri pronti per partire
pugno di sale? Si, avete capito bene del semplice sale... Oggi lo troviamo da tutte le parti: dal grande centro commerciale, fino ad arrivare nella più modesta bottega sotto casa. Ma una volta non era così. Per lunghi secoli fu chiamato l'oro bianco e questo prodotto di Madre Natura segnava la fortuna di tutti gli stati che riuscivano a controllarne la produzione e il commercio. Naturalmente gli stati imponevano su questo primario bene tasse da capogiro, favorendo di fatto un imponente contrabbando. La Garfagnana fu tra le principali protagoniste di questo illecito traffico, nato in tempi medievali e terminato solamente con la fine della seconda guerra mondiale. Tutto si svolgeva lontano dalle strade principali e la circolazione avveniva sui molti percorsi montani che furono
 denominati "le vie del sale", battuti questi dai più coraggiosi contrabbandieri. Prima di approfondire l'argomento guardiamo perchè il sale era considerato un bene tanto prezioso.
In primis il sale era quell'elemento che rendeva appetibili tutti
Venditore di sale
quei cibi "arrangiati" di una cucina poverissima, ma sopratutto il sale era l'unico conservante disponibile, all'epoca naturalmente non esistevano frigoriferi o altri tipi di conservanti e grazie proprio al sale si potevano salvaguardare e immagazzinare scorte di cibo per lungo tempo, ad esempio ciò rese possibile alle navi di affrontare lunghi viaggi rendendo possibili floridi scambi commerciali. Da non tralasciare il fatto che poi nei lunghi inverni garfagnini dove il brutto tempo non permetteva le coltivazioni, le riserve di cibo sotto sale salvavano da sicura carestia e inoltre in un economia rurale e di pastorizia come quella garfagnina era l'elemento fondamentale per la lavorazione e la trasformazione del latte in formaggi. Questo minerale aveva poi virtù anche in medicina: era usato come disinfettante per ferite o addirittura come purgante. Insomma, per ben capirsi chi amministrava questo commercio aveva un potere immenso, poichè teneva in pugno la sopravvivenza di un popolo intero. Proprio per questi motivi che il sale diventò una delle merci più contrabbandate, pensiamo ai suoi enormi ricarichi dato che la sua filiera commerciale era infinita, bisognava pagare il
Una grida di Francesco IV duca
di Modena sulla diminuzione
del prezzo del sale
produttore, il sensale, i facchini, il trasporto (già quest'ultima voce faceva triplicare il prezzo)e "dulcis in fundo" le carissime tasse statali, ecco allora nascere le famigerate "vie del sale", bazzicate come detto dai più famosi contrabbandieri della valle. Queste vie partivano dal mare versiliese o ligure, valicavano le Apuane, giungevano in Garfagnana e continuavano su per gli Appennini fino ad arrivare ai margini della Pianura Padana. In Garfagnana con la definizione "vie del sale" non si indicava una strada precisa e ben definita (sarebbe stato fin troppo facile per le gendarmerie locali individuarle) ma bensì di una fitta rete di stradine e mulattiere più o meno nascoste che salivano e scendevano per le nostre montagne. Dove spesso i garfagnini e i versiliesi si incontravano per vendere e comprare sale era proprio in quegli insospettabili hospitali che servivano anche per rifocillare i pellegrini di passaggio, ma avevano pure la funzione di proteggere questo contrabbando, diventarono quindi un punto nevralgico di spaccio, a conferma di questo una delle principali "vie del sale" passava proprio per L'Isola Santa, ed era proprio li nel hospitale di San Jacopo che avveniva fuori dagli sguardi indiscreti il pagamento o lo scambio di merci fra contrabbandieri. Di lì, il contrabbandiere garfagnino proseguiva attraverso i sentieri e verso i paesi di Torrite, Careggine, Castelnuovo e Camporgiano.
Isola Santa centro di spaccio del sale
Un'altra strada alternativa partiva sempre da Torrite e raggiungeva i paesi di Sassi, Molazzana e Gallicano, importante era anche quella via che passava dalla Foce di Petrosciana e di li scendeva verso Fornovolasco e i paesi limitrofi, luogo di scambio e smistamento era l'hospitale di Santa Maria Maddalena, oggi volgarmente conosciuto come "la chiesaccia". La più famosa rimane però la Via Vandelli che aveva il compito di servire la zona dell'Alta Garfagnana, qui si registrò infatti un'efferato omicidio a causa proprio del sale (per il caso leggere http://paolomarzi.blogspot.it/il-caso-del-sandalo-rosso-html) e anche di qui poi si diramavano altre mulattiere che servivano i borghi vicini, fra le più percorse c'era la Piazza al Serchio -Gramolazzo che risaliva il torrente Acqua Bianca, arrivava a Nicciano, Castagnola ed Agliano, quest'ultimi affacciati proprio sul bellissimo lago di Gramolazzo. Trasportarlo poi non era affatto semplice, il sale è pesante e sui sentieri scoscesi delle montagne lo si spostava in sacchi piuttosto leggeri per non appesantire troppo i muli, i viaggi erano faticosi e in caso di pioggia bisognava immediatamente proteggere il carico. La dura vita del contrabbandiere non finiva qui, il Ducato di Modena in Garfagnana e in tutto il suo regno in genere incentivava a denunciare questi fuorilegge, anche in maniera segreta. Ma è appunto in quel preciso momento storico che la figura del contrabbandiere raggiunse un immagine leggendaria in tutta la valle, quest'uomo era colui che
la Via Vandelli percorso di
contrabbandieri di sale
sfidava le leggi dello Stato oppressore per favorire gli interessi della gente comune. Il contrabbando di sale era visto con grande favore dalla popolazione che non solo non denunciava i loro eroi ma li difendeva in tutte le maniere dagli "sbirri". Fu un vero problema questo per il Ducato, in Garfagnana ci fu una vera sollevazione a favore dei contrabbandieri, perdipiù i gendarmi non favorivano i buoni rapporti e spesso nei confronti della povera gente che difendeva i fuorilegge si lasciavano andare a non poche crudeltà. A dimostrazione di questa avversione per i tutori della legge ci sono dei documenti comprovanti che all'avvicinarsi degli "sbirri", in paese veniva suonata la campana a martello. In poco tempo i contadini che erano nei campi si radunavano nella piazza del borgo, armati di "bastoni, falci e forcon", difendendo i contrabbandieri o i paesani ricercati perchè in possesso di piccole quantità di sale. Quasi sempre accadeva che i gendarmi fuggissero a gambe levate, lasciando di fatto libero l'arrestato. Ci fu un caso ben documentato che racconta la non felice "visita" dei gendarmi. Ciò accadde nei pressi di Castelnuovo: 

“Arrivarono li soldati per esercitar il loro carico in virtu delli
"Gli sbirri" estensi
ordini, et mandati dai Provveditori al sale, capitasse in casa del suddetto Marco inquisito, al quale havendo trovato certa quantità di sale di contrabando volessero levarla, al che opponendosi Giovanni suddetto, tolse una stanga da carro con quella mortalmente percotendo uno di essi ministri, et li suddetti Pietro et Giacomo, dandosi l’uno, all’altro aiuto et favore cooperativo insieme con molti altri, che per hora si tacciono, ferissero anco li due altri uno pur mortalmente, et l’altro di percossa grave, et importante, ne contenti di questo Antonio suddetto instigato da Battista dasse campana a martello convocando molta gente e gridando dall'alto, ammazza,ammazza...". 

Tale ormai era diventata la sicurezza dei contrabbandieri che lo smercio di sale avveniva alla luce del sole. Nei paesi durante questa pubblica vendita accadeva quasi sempre che si formassero lunghissime file e nell'attesa del proprio turno capitavano addirittura delle memorabili risse. Tuttavia tutta questa convinzione d'impunità si manifestò in tutta la sua prepotenza il 20 maggio del 1720, quando Giacomo Giacomelli contrabbandiere d'eccellenza si presentò con i suoi muli carichi al mercato di Castelnuovo Garfagnana, vendendo pubblicamente sale"con aperto scandalo universale", la gente nonostante la meraviglia accorse in fretta e furia e in men che non si dica il sale finì e il Giacomelli se ne andò tranquillamente come era venuto. Naturalmente il malvivente non la passò liscia, l'onta subita dal governo locale proprio sotto le finestre di"casa" fu troppo grossa e fu così che subì una condanna in contumacia al bando perpetuo, in alternativa dieci anni di galera.Il Giacomelli non cascò mai nella rete della giustizia era un pesce troppo grosso, i contrabbandieri di lungo corso sfuggivano alla cattura perchè spesso erano armati e
Commissione per la tasse
 su sale e tabacco 1851
organizzati in bande, eccezion fatta per Pietro detto il Broccolo (o Bossolo) che andava pure lui impunemente a vender sale con il suo cavallo, fu catturato e condannato a remare per diciotto mesi. Rimaneva però il fatto che quando "gli sbirri" stavano per molto tempo senza catturare nessun presunto manigoldo si rifacevano allora sui miserabili, su coloro che facevano questi traffici per sbarcare il lunario, capitava però qualche volta che il giudice comprendesse la situazione. Fu il caso di Francesco da Pieve Fosciana che aveva in casa circa venti chili di sale, questa quantità fu ritenuta adatta all'uso personale e familiare, fu "mandato liberatamente assolto". 

Lo spaccio di sale in tutta la Garfagnana durò fra alti e bassi quasi mille anni, fu un fenomeno veramente esteso che si ripresentò e terminò una volta per tutte con la fine della seconda guerra mondiale. Testimonianze del 1944 ancora oggi ci parlano di contrabbando di sale in maniera diversa di quello che fu per tanti secoli addietro. Anche durante la guerra la carenza di sale in tutta la valle si fece sentire e allora ci pensavano le donne della Versilia a favorire questo commercio a prezzo di un lungo e faticoso
Donne nella produzione di sale in Versilia,
 (foto Sentieri della memoria.comune di Massa)
lavoro. Carrette spinte a mano si recavano sulla spiaggia e riempivano di acqua marina ogni tipo di contenitore, preferibilmente damigiane per il vino o fusti rivestititi di zinco. La produzione si realizzava in luoghi appartati, in stalle dismesse, in posti comunque non visibili ai tedeschi o ai fascisti. La legna veniva recuperata nelle pinete, si accendevano così grandi fuochi e dentro questi recipienti l'acqua veniva messa al fuoco, una volta portata ad ebollizione e alla conseguente vaporizzazione non rimaneva altro che sale. Per rendere un po' l'idea della cosa si può dire che da ogni damigiana d'acqua si poteva ricavare ben due chili di sale. Una volta imballato invece, erano sopratutto gli uomini che si preoccupavano di salire in montagna per venderlo, usando ancora i vecchi e ultra secolari sentieri di una volta, dirigendosi così
(foto Sentieri della memoria comune di Massa)
verso la Garfagnana e dato che soldi ne circolavano pochi, talora il sale veniva scambiato con farina, patate e castagne. I viaggi su e giù per le montagne in quel periodo non si fermarono mai, si facevano sia d'estate che d'inverno, con la neve e il gelo e con ai piedi solamente zoccoli di legno.

E allora pensandoci bene, quanta storia c'è dietro un semplice:
 -Scusa, mi potresti passare il sale?-



Bibliografia:

  • Archivio di Stato di Modena
  • "Il cammino del Volto Santo. Dalla Lunigiana, attraverso la Garfagnana, fino a Lucca", "Sentieri e vie di contrabbando:il sale" di Normanna Albertini
  • "I sentieri della memoria", La Via del Sale

Per chi suona la campana? Il "linguaggio" delle campane in Garfagnana

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Barga, il duomo e le Apuane
"Al mio cantuccio dove non sento se non le reste brusir del grano
il suon dell'ore vien col vento
dal mio non veduto borgo montano
suono che uguale, che blando cade
come una voce che persuade".

Così si apre una delle poesie più belle di Giovanni Pascoli: "L'ora di Barga". In lontananza le campane del duomo di Barga sorprendono il poeta nel suo "cantuccio" di Castelvecchio. Quel suono gli pare una voce soave che scende dal cielo e ciò gli rammenta l'inesorabile trascorrere del tempo e meditando ragiona sul fatto che il tempo è passato e continuerà a passare fino ad arrivare alla morte...
Proprio così, le campane oltre che segnare lo scorrere del tempo scandivano la vita dei paesi garfagnini. Si, perchè è bene essere chiari da subito, le campane "parlano". Da sempre nelle nostre comunità ritmavano il passare del tempo e avvolgevano nel vero senso della parola la vita di un paese. Ogni borgo garfagnino, dal più grande al più piccolo aveva (e ha) il suo campanile e di conseguenza la sua campana che fornisce (o meglio forniva)un vero linguaggio di comunicazione a distanza capace di essere interpretato da tutti. Questa "lingua" aveva il potere di chiamare a raccolta un intero paese a qualsiasi ora e il diverso ritmo e suono annunciava gioie, dolori, morte e minacce imminenti, insomma, scandiva l'esistenza della gente. Adesso è proprio il caso di dire è tutt'altra musica, la modernità le ha portate ad essere vituperate e talvolta 
Campanile e chiesa di San Jacopo, Gallicano
(foto Daniele Saisi blog)
ingiustamente accusate di "inquinamento acustico" e nessuno riesce più ad ascoltarle soffocate dal frastuono delle auto. Ma adesso parafrasando un romanzo di Heminghway guardiamo"per chi suona la campana". La vita quotidiana in Garfagnana come poi del resto da tutte le altre parti veniva regolata dal levare del sole e dal calare delle tenebre. Con il sorgere del sole in montagna e in tutti i paesi della valle riprendevano i rumori, la gente si dirigeva nei campi o nelle stalle e le campane delle chiese cominciavano a "parlare". La prima che suonava era proprio sul fare del giorno e veniva chiamata "campana mattutina", era la campana che dava la sveglia e ricordava a tutti di recitare l'Angelus Domini, una preghiera 
nata nel lontano 1269 e rivolta a Maria, la solita preghiera doveva essere poi ripetuta allo scandire del mezzogiorno, quando si sospendevano i lavori per il pranzo o molto più semplicemente per un pasto frugale. Alla sera invece, alla fine della giornata lavorativa, anticamente le campane squillavano a lungo tre volte a distanza di ogni ora. La prima scampanata avveniva un'ora prima del tramonto ed era curiosamente chiamata "l'Ave Maria delle ventitre" e indicava di lasciare il lavoro e di mettersi in cammino verso casa poichè il sole cominciava a calare, il vecchissimo detto popolare che dice "Per l'Ave Maria delle ventitre o a casa o per la via" conferma questa arcaica tradizione, a questo
Il momento dell' Ave Maria
i lavori nei campi si sospendono e si prega
suono naturalmente era legata anche una preghiera da rivolgere ai malati e ai moribondi del paese. Il secondo suono era chiamato "Ave Maria delle ventiquattro"e indicava l'inizio dell'oscurità e consigliava a chi si trovava in cammino di affrettarsi verso casa. Il terzo e ultimo suono era conosciuto come "l'Ave Maria di un ora di notte" da tutti comunemente detto "ordinotte", segnalava che era passata già un ora della notte ed era veramente pericoloso trovarsi ancora in cammino: manigoldi, pochi di buono e spiriti maligni cominciavano ad uscire dai loro nascondigli, al suono di queste campane bisognava recitare il "Requiem Aeternam", per cui questa scampanata era paurosamente chiamata "l'Ave Maria dei morti". Logicamente le campane erano utilizzate per richiamare i fedeli alla messa, indicando di fatto quanto tempo mancava all'inizio della funzione. Un'ora prima venivano suonate due campane chiamate per questo motivo "il doppio", mezz'ora dopo si ripeteva ma ad una campana sola, mentre un quarto d'ora dall'inizio suonava il cosiddetto "cenno", ma non finiva qui, l'ultimo scampanio avveniva all'interno della chiesa con una campanella chiamata "l'ultimo" e i fedeli dovevano già trovarsi all'interno. Nel periodo pasquale era l'unico momento dell'anno che le campane non potevano essere suonate. Il giovedì santo in segno di lutto venivano letteralmente legate e per richiamare i fedeli alle messe veniva usato uno strano aggeggio chiamato "traccola". La "traccola" era uno strumento
la traccola
assordante che si azionava girando un manico che faceva girare una ruota dentata che emetteva come detto un rumore infernale. Questo marchingegno veniva inserito in una cassa che a sua volta veniva portata a spalla e messa in funzione per le vie del paese. Le campane rimanevano legate fino al sabato santo, la mattina di Pasqua avrebbero ricominciato a suonare a festa per l'avvenuta Resurrezione di Gesù, così poi era anche per le altre domeniche e nei momenti di festa e di gioia, le campane in questo modo suonavano a distesa una melodia solenne e armoniosa allo stesso tempo. Oltre alla felicità segnavano anche i momenti di dolore, in certi paesi garfagnini veniva suonata addirittura "l'agonia", che avvertiva se qualcuno stava per andarsene a vita nuovail diverso numero di rintocchi rivelava se era un uomo o una donna, cosicchè ogni paesano poteva immaginarsi un nome ed un volto dietro a quel mesto suono. In caso di morte le campane avrebbero suonato "a morto", una risonanza triste e solenne che dava il ritmo ai passi della processione che portava la salma al cimitero. 

Con tutto ciò le scampanate non si limitavano ad usi esclusivamente religiosi, suonavano anche per scopi "civili". Quando rintoccavano a "martello" c'era un pericolo incombente dovuto a calamità, incendio o crollo. Il cosiddetto suono a "martello"deriva dal fatto che la campana doveva emettere rintocchi rapidi, secchi e a brevi intervalli, queste battute richiamavano tutti gli uomini validi del paese a lasciare le case o il lavoro nei campi per raggiungere la piazza principale, di li si sarebbero adoperati per prestare i soccorsi, le campane avrebbero cessato di suonare a scampato pericolo. Un'altra scampanata particolare (oggi anche questa non più in uso) era detta la "malacqua". Si diceva che questa particolare cadenza avesse il potere di allontanare tempeste, fulmini e grandine che sicuramente avrebbero rovinato i raccolti. Come riferisce Pellegrino Paolucci(storico garfagnino del 1600) fra le più prodigiose in tal senso c'era la campana di Gragnana (comune di Piazza al Serchio) risalente al 1257: "il di lei suono è prodigioso nel rompere e nello scacciare le tempeste imminenti". Nelle vecchie campane in realtà non è difficile nemmeno trovare preghiere o formule latine incise contro le burrasche:"a fulgure et tempestate libera nos Domine" (liberaci Signore dalla folgore e
dalla tempesta), oppure "recedat spiritus procellarum"(lo spirito
l'incisione dice
"liberaci dalla tempesta e dai fulmini"
della tempesta si allontani), infine quest'ultima dicitura è molto significativa e in due parole spiega la funzione stessa della campana "Defunctos ploro-nimbos fugo- festaque honoro" (piango i defunti, fuggo i temporali ed onoro le feste). Curiosamente il suono della "malacqua" era motivo di contese piuttosto accese fra paesi vicini, perchè si riteneva che il suono di una campana di un paese posto più in alto o una campana più potente spostasse le nubi temporalesche sopra i paesi più bassi o in quelli dove la campana aveva un suono più debole. 

Ad ogni buon conto una menzione particolare fra tutte queste la
Rocca Ariostesca
merita  una campana "non religiosa": la campana della Rocca Ariostesca di Castelnuovo Garfagnana. Una campana pregna di storia che lo scorso anno fu messa in esposizione nella piazzetta antistante la rocca stessa. Fusa per volere del governatore Cristoforo Rangoni e realizzata il 31 luglio del 1577 fu realizzata per annunciare ai cittadini di Castelnuovo che nella Rocca si sarebbe tenuto il Consiglio Provinciale. I rintocchi di questa campana furono uditi dai castelnuovesi fino all'unità d' Italia, la sua incolumità fu però messa in serio pericolo nel 1859 quando la campana rischiò di essere "rifusa" per fare la terza campana della chiesa di San Pietro. Il pericolo svanì grazie all'intervento del comune stesso che preservò un cimelio storico che aveva annunciato per trecento anni le sedute del consiglio provinciale estense. Con l'avvento del Regno d'Italia come detto la campana rimase muta, fino al 1925 anno che fu riutilizzata per integrare la suoneria del nuovo orologio. 
La campana del consiglio
della Rocca
(foto pro loco Castelnuovo)

Oggi in Garfagnana l'uso delle campane è limitato ed è un dispiacere che un'usanza vecchia di secoli possa cadere così facilmente nell'oblio. E' così bello quando le campane dei nostri campanili suonano a distesa, il paese cambia aspetto, torna a vivere perchè il suono delle campane è vita, è un tutt'uno con la storia della comunità e i suoi abitanti.



Bibliografia:
  • Pellegrino Paolucci "La Garfagnana Illustrata  all'altezza serenissina Rinaldo I d' Este" anno 1720
  • "Il suono delle campane" di Vannetto Vannini
  • "Quel suono delle campane" Padre Enzo Bianchi
  • "La campana visibile nella piazzetta" il Tirreno 20 dicembre 2015 di Luca Dini
  • Documentazione varia in mio possesso e testimonianze a me riferite e trascritte

La stupefacente storia di un emigrante coreglino che (forse) partecipò alla congiura sull'assassinio di Lincoln

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Ci sono storie e storie. Non tutte le storie da raccontare
sono uguali specialmente se si parla come in questo caso di emigrazione. Ogni persona che intraprende questo viaggio verso una nuova terra avrà di per se da riferire una vicenda eccezionale fatta di tribolazioni e speranze, ma fra tutte queste storie ordinarie e straordinarie allo stesso tempo c'è nè sempre qualcuna che differisce da tutte le altre per atipicità, sorpresa e stupore, insomma, un fatto da narrare veramente speciale. Naturalmente da un punto di vista storico mi riferisco ad avvenimenti accaduti ai nostri emigranti nei secoli passati, che partivano dalla Valle del Serchio e dalla Garfagnana in cerca di miglior fortuna. Questo storia fuori dall'ordinario di cui parlerò mi è stata gentilmente passata e sottoposta ad attenzione e studio da un amico blogger: Andreotti Roberto e a portare alla ribalta tutta la vicenda è stato Doug Acree un discendente di Giuliano Luisi (colui che sarà il protagonista dei fatti), che attualmente vive negli Stati Uniti nello stato della Virginia, proprio li, dove si svolgerà tutta lo stupefacente racconto. Tutto nacque nella Coreglia di metà 1800, quando l'arte dei figurinai la faceva da padrona. Coreglia è la patria di questo umile mestiere che vide in paese fra i primi suoi fautori il barone Vanni che fondò una scuola dove si apprendeva a "gettare in stampo". Per i pochi che non lo sanno i figurinai erano artigiani itineranti che portandosi dietro solo pochi attrezzi di lavoro trasformavano il gesso in piccole e 
figurinaio coreglino
splendide statuette. Essi girovagavano di città in città, di porta in porta e la loro maestria in poco tempo portò questo mestiere a diventare una vera e propria arte. La sola bravura però non bastava per tirare avanti e così con l'andar del tempo
 molti uomini furono costretti ad abbandonare le proprie famiglie e cominciare nuove vite in altre nazioni. Il grosso di questi flussi migratori parti agli inizi del 1800 per tutta Europa e per le lontane Americhe. Una volta giunti nel paese d'accoglienza, spesso si formavano delle vere e proprie compagnie di figurinai, composte da un titolare, nonchè maestro d'arte e quattro o cinque apprendisti ai quali veniva insegnata l'arte e il mestiere di venditore. In questo contesto Giuliano Luisi sbarcò in America nel 1850, era nato a Coreglia il 30 agosto del 1830, alle spalle aveva un mestiere, faceva intonaci ornamentali, ma come tutti i coreglini aveva intrapreso sapientemente anche la carriere di figurinaio. Giuliano arrivò negli Stati Uniti appena ventenne, in precedenza suo fratello Salvatore era già emigrato negli States e aveva messo su famiglia in quel di Baltimora (Maryland), mentre Giuliano con l'altro fratello Giovanni cominciò ad intraprendere nuovi lavori, il mestiere di figurinaio gli stava stretto e non gli bastava. Giuliano era ambizioso, dinamico e operoso, tant'è che pochi anni dopo il suo arrivo (nel 1859) a Richmond in Virginia aprì una birreria sulla Franklin Street la "Alluis & Co." e nel 1860 anche una pasticceria. Fin qui se si vuole fu una dura vita da emigrante come tante altre, niente di più, ma sotto sotto Giuliano covava altro. La sua industriosità e il suo voler emergere oltre che nel campo lavorativo trovò spazio pure nel sociale. Il suo nome intanto si trasformò da Giuliano Luisi nel più yankee Julian Alluisi, c'era poco da fare voleva uscire a tutti i costi dall'umile stereotipo di emigrante italiano e ci riuscì in pieno. Guardiamo come. 
Giuliano Luisi
(foto di Doug Acree)

Venti di secessione e di guerra stavano infatti spirando su tutti gli Stati Uniti e quale miglior occasione ci poteva essere per emergere da una possibile vita anonima che arruolarsi nell'esercito? Così fu, Julian entrò a far parte dei "Richmond Grays"(n.d.r: I Grigi di Ridhmond) una milizia federale di soldati schiavisti, contrari a qualsiasi forma di integrazione da parte dei negri d'America. Con ogni probabilità il coreglino non fu mosso da ideali anti-schiavisti, cosa ne poteva sapere un emigrante italiano di tutto ciò? Anzi è bene considerare che in America per molto tempo fra gli ultimi scalini della scala sociale dopo le persone di colore veniva sicuramente l'emigrato italiano, questo conferma il fatto che la sua fu una scelta e un occasione per distinguersi da tutti gli altri. Fattostà che entrò a far parte di questa milizia che rimase famosa per uno degli episodi più famigerati della storia americana: la cattura e la conseguente morte di John Brown, a questa operazione partecipò anche Giuliano. John Brown molti se lo ricorderanno qui in Italia più che altro per la famosa canzoncina che dice così: "John Brown giace nella tomba la nel pian, dopo una lunga lotta contro l'oppressor, John Brown giace nella tomba la nel pian, la sua anima vive ancor" e il ritornello che fa: "Glory, glory alleluia,Glory, glory alleluia,Glory, glory alleluia". Ma John Brown non fu una semplice canzone popolare ma bensì un convinto abolizionista dello schiavismo e sostenitore della parità dei diritti tra bianchi e neri che quel 16 ottobre del 1859 decise d'attaccare l'arsenale federale di Harper's Ferry in Virginia, allo scopo di provocare una rivolta degli schiavi che sarebbero poi stati armati con il materiale prelevato dall'arsenale stesso. Il tentativo fallì miseramente, gli schiavi rimasero totalmente apatici, forse per paura di azioni repressive e così Giuliano con i "Richmond Grays" entrarono in azione, dopo un lungo conflitto morirono solamente due miliziani e degli uomini di Brown ben dieci. Lo stesso Brown fu catturato e condannato a morte per cospirazione, omicidio e insurrezione. Il 2 novembre fu impiccato, ma quel giorno la storia con la esse maiuscola venne incontro per sempre a Giuliano Luisi. Dopo l'impiccagione un gruppo dei "Richmond Grays" che era di guardia all'infausto evento decise per "festeggiare" di farsi fotografare, quella foto (che potete vedere qui sotto) rimarrà fra le più famose di tutta la storia americana, proprio perchè oltre che esservi raffigurato il coreglino Giuliano è presente uno degli assassini più famosi al 
La famosa foto. Nei cerchi rossi
 Giuliano Luisi e John Booth con
un pugnale in mano
mondo: John Wilkes Booth, colui che sei anni dopo quell'immagine uccise con un colpo di pistola alla testa Abramo Lincoln
(nello scatto lo possiamo vedere con un pugnale in mano). John e Julian con ogni probabilità si conoscevano e ciò porterà a vaghi sospetti anche sulla stessa vicenda Lincoln...Con la morte di John Brown comunque la secessione e la guerra divennero inevitabili. La Virginia nel maggio del 1861 insieme ad Arkansas, Carolina del Nord e Tennessee rinunciò all'appartenenza agli Stati Uniti d'America passando così alla Confederazione. Il nostro Julian Alluisi partì allora volontario nella guerra con l'esercito sudista e si unì di fatto al 1° reggimento fanteria Virginia, compagnia K, con il grado di tenente, sotto i diretti ordini dell'illustre generale George Edward Pickett. Partecipò a numerose e famose battaglie, fu ferito negli scontri di First Manassas e anche a Seven Pines e ringraziando la sua buona stella non partecipò alla tristemente celebre battaglia di Gettysburg che vide migliaia e migliaia di morti sia da una parte che dall'altra. Con questa battaglia la guerra si decise e poco tempo dopo finì e finalmente Giuliano decise di metter su famiglia, tornò a Coreglia e sposò Filomena Luisi, una sua prima cugina che nel 1866 portò in America. Ma la sua storia non finì qui...al suo ritorno negli Stati Uniti venne fuori per la prima volta la sua appartenenza alla loggia massonica "Francoise Lodge" di Richmond e questo portò a galla una serie di infinite illazioni mai provate sui coincidenti fatti che Giuliano conoscesse John Wilkes Booth (l'assassino di Lincoln), per capirsi bene anche questo presidenziale omicidio come quello di quasi un secolo dopo di John Kennedy portò all'ipotesi di un complotto, in questo caso sarebbero stati coinvolti massoni sudisti (fra cui Giuliano)e ben noti banchieri ebrei americani che volevano rientrare dei finanziamenti elargiti durante la guerra di secessione. Ad 
John Wilkes Booth
avvalorare la complicata tesi dei complottisti rimane il fatto che in un libro del 1937 "This one mad act" di 
Izola Forrester(nipote di Booth) scrisse che suo nonno apparteneva alla loggia massonica dei "Cavalieri del Circolo d'Oro" e che l'uccisione del suo familiare fu organizzata da Judah Benjamin (massone di alto grado e agente dei banchieri Rothschild) per tappargli definitivamente la bocca sui vari intrighi di cui lui era a conoscenza. La versione ufficiale ci dice che Booth fu catturato e ucciso in un fienile dove rifiutò di arrendersi, undici giorni dopo la morte di Lincoln , a quel punto i soldati dettero fuoco a tutto il circondario e il colonnello Gonger gli sparò ferendolo mortalmente al collo. A tutto questa intricata congiura si dice che fra i molteplici ideatori ci fosse anche l'ormai americano Julian Alluisi, nessuna prova o documento attesta questi fatti, ma solo ipotesi fatte su congetture. Giuliano morì il 15 ottobre 1889 ed è sepolto nel cimitero di Hollywood (Virginia) vicino alla tomba del suo generale Pickett. 
Rimane il fatto che Giuliano riuscì nel suo intento di emergere, se ancora oggi parliamo di lui...

Bibliografia:
La tomba di Julian Alluisi
  • "Storia di un emigrante coreglino. Da Coreglia a Richmond" a cura di Andreotti Roberto, Paola Tonarelli su documenti inviati da Doug Acree
  • "This one mad act" 1937 Izola Forrester
  • "Decapitating the union: Jefferson Davis, Judah Benjamin and the plot assassinate Lincoln" di John C. Fazio. Editore Mc Farland 2015

La pasimata: la sua storia, i suoi segreti e il significato del suo nome

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Non tutto si può comprare al supermercato. Ci sono qualità della
La pasimata
vita, come la pazienza e l'aver tempo per se stessi che non si trovano nel bancone dei surgelati. La pazienza può essere un pregio innato e l'aver tempo sicuramente non è una virtù che ci possiamo permettere in quest'epoca dove tutto corre veloce, ed è per questo che oggi viviamo in un mondo che si fonda sui sughi pronti, ricette di torte veloci e cene surgelate e proprio la cucina è un campo che richiede principalmente queste preziose qualità ed è in particolar modo una ricetta garfagnina su tutte, figlia di questo periodo che per la sua buona riuscita non può prescindere da questi due valori. Ecco allora a voi la storia della Pasimata. La pasimata per chi non lo sa e per chi legge questo articolo fuori dai confini garfagnini è un dolce tradizionale del periodo pasquale è una ricetta antichissima e naturalmente viene prima di uova e colombe varie, è un dolce fatto con ingredienti semplici, realizzato solo con farina, uova, lievito, zucchero, uvetta e tanto tempo, quello necessario per le cinque lievitazioni alle quali l'impasto è sottoposto. Parlare di pasimata richiama inevitabilmente ad un passo della Bibbia: "...e fu sera e fu mattina primo giorno...e fu sera e fu mattina secondo giorno...", questo brano della Genesi rievoca la lentezza dello scorrere del tempo, chi preparava questo dolce calcolava il tempo per iniziare l'impasto nel momento giusto per arrivare a sfornare tale bontà al sabato santo. Testimonianze di anziane massaie ancora oggi raccontano della laboriosa e antica preparazione, si narra di vere e proprie sfide con la pasimata stessa, perchè la riuscita di questa leccornia non è sempre scontata, anche per le mani più esperte una piccola variazione climatica ad esempio può compromettere la sua riuscita. Le massaie ricordano che nelle fasi più delicate della lavorazione tutti in casa dovevano stare attenti a non favorire correnti d'aria o ad abbassare troppo la temperatura dell'abitazione, lasciando
l'impasto della pasimata
porte e finestre aperte, addirittura si racconta che una volta nel giorno dell'ultima lievitazione i familiari di casa venivano "buttati giù" dal letto di buon ora e nei letti caldi appena lasciati venivano messe le pasimate per la fondamentale lievitazione prima di essere portate nel forno a legna. Nemmeno quando il dolce era nel forno le nostre nonne potevano tirare un sospiro di sollievo, poichè rimaneva la paura che la pasimata una volta uscita, dopo il conseguente raffreddamento non rimasse gonfia come doveva, se cedeva miseramente creando zone concave nel centro la delusione era grande e palpabile, in compenso il profumo che si sprigionava era unico, inebriante, un'odore avvolgente e ricco come oggi non si sentono più. Anticamente queste massaie preparavo questo dolce anche dietro compenso per le famiglie più ricche, e non era nemmeno difficile per queste donne scendere in competizione per chi faceva la pasimata più buona e morbida del paese, tale ricetta e varianti di essa si custodivano infatti segretamente nel grembo familiare, tanto da venire tramandati (questi piccoli accorgimenti) da madre in figlia. Riporto quindi qui di seguito la ricetta che Ivo Poli (esperto di tradizioni locali) conosce e che abitualmente si usa fare nei dintorni di Gallicano. Si noti comunque in maniera particolare la laboriosissima lavorazione...


Ingredienti:

  •  1 kg di farina bianca tipo 0
  • 6 uova
  • 400 gr di zucchero
  • 200 gr di burro
  • 250 gr di uvetta
  • un cubetto di lievito di birra (una volta si usava il lievito madre)
  • un pizzico di sale, un cucchiaio di semi di anice, un bicchierino di vin santo, acqua o latte quanto ne richiede l'impasto.
Mattino del primo giorno: preparare il lievito unendo 100 gr di farina e il cubetto del lievito di birra sciolto in acqua tiepida e tenerlo a temperatura ambiente 

Sera del primo giorno:aggiungere al lievito 170 gr di farina, un uovo, 30 gr di burro, 65 gr di zucchero, acqua o latte quanto basta, impastare e lasciare lievitare
Mattina del secondo giorno: aggiungere all'impasto 330 gr di farina, 2 uova, 70 gr di zucchero, 135 gr di zucchero, acqua o latte quanto basta, impastare e lasciare lievitare
Sera del secondo giorno: aggiungere all'impasto 500 gr di farina, 3 uova, 100 gr di burro, 200 gr di zucchero, acqua o latte quanto basta
Mattina del terzo giorno: aggiungere all'impasto 250 gr di uvetta fatta rinvenire nel vin santo la sera prima, il vin santo, il cucchiaio di semi di anice e una bustina di lievito per dolci. Mettere il composto in un contenitore di circa dieci centimetri e larga 25-26 e lasciarla lievitare al caldo. Nel pomeriggio quando la lievitazione supera il bordo del contenitore stesso , scaldare il forno fino a 180° circa, infornare e cuocere per 50-60 minuti.

Oggi come allora la pasimata viene consumata durante la Quaresima, fino ad arrivare alla sera sabato santo quando viene portata a benedire in chiesa. Nella sua versione originale a quanto pare sembra che fosse un normale pane, non dolce, che con il trascorrere del tempo è stato ingentilito dalla presenza dell'uvetta e dello zucchero. In termini religiosi questo dolce una volta aveva un particolare significato, infatti era considerato un cosiddetto "pane rituale", in tutte le parrocchie garfagnine la pasimata veniva benedetta e distribuita in chiesa, un pane da dividere fra tutti, ad ognuno la sua parte, nel significato di unione e fratellanza. Antiche testimonianze ci rimangono ancora oggi, che certificano la presenza di questa ghiottoneria nella nostra valle da (come minino) ben 400 anni. La ricetta originale a quanto pare risale al 1621, quando la Confraternita del Santissimo Sacramento di Castiglione Garfagnana ne stabilì la distribuzione a tutti i confratelli: 
" Archivio Arcivescovile di Lucca. Libro delle visite pastorali del Vescovo di Lucca vol 39. La compagnia ha di entrata staiuole 9 di
Castiglione Garfagnana
dove si dice abbia origine
la ricetta originale
grano, con obligo di distribuire 6 in tanto pane il Giovedi Santo, dandone uno per famiglia: et le altre 3 le consuma in dare pasimata et fare altro a loro beneplacito"

Sempre secondo Ivo Poli ci sarebbe un documento attestante la presenza della pasimata ancor prima di quello castiglionese e sarebbe presente nell'archivio parrocchiale di San Jacopo a Gallicano risalente al 1603 e riporta i vari pagamenti fatti dalla chiesa con grano ricavato dalle rendite dei suoi terreni:
"per i campanari, il maestro, il sacrestano, gli operai e per la pasimata ai poveri"
Rimane però ancora un grosso dubbio su questo dolce nostrale. Qual'è il significato del suo curioso nome? Guardiamo un po'. Intanto cominciamo con il dire che non in tutti i paesi garfagnini si chiama con il solito termine. Ad esempio in Alta Garfagnana viene chiamata "fogaccia pasquale", dalle parti di Piazza al Serchio invece è
vecchie cartoline pasquali
denominata "crescenta", nella zona di Barga"schiaccia" da probabili reminiscenze del periodo fiorentino, ma comunque sia se dici "pasimata" questo appellativo viene riconosciuto da tutti. Il nome ha un origine incerta e il suo significato non corrisponde nemmeno alle caratteristiche del suo impasto, difatti il "Dizionario etimologico" del 1907 ci dice che il vocabolo potrebbe derivare dal latino "passamatum" che troverebbe addirittura nel termine greco "paxiadi" un suo omologo che significherebbe "pane cotto sotto la cenere", alcuni esperti letterati attribuiscono invece il suo perchè alla parola bizantina "pasimet", vocabolo che significa "pane non lievitato", tutto ciò come detto non corrisponde però in ogni caso alle caratteristiche proprie della sua laboriosa lavorazione, il mistero dunque rimane, anche se permane un'ultima teoria sull'etimologia di questo bizzarro sostantivo, poichè si dice che dato che è una squisitezza tipicamente pasquale, la nascita del suo nome vada ricercata nel vocabolo "passio" derivante appunto dalla passione di Cristo.

pazienza e tempo per la lievitazione
Sapori e tradizioni di un tempo che fu...Bisognerebbe andare a chiedere ai nostri vecchi, staccarli dai loro acciacchi e domandare a loro: - Ma com'era la pasimata ai tuoi tempi? Che ricordi ti riporta alla mente?...-
C'è poco da fare...è un dolce per riflettere sul tempo...




Bibliografia
  • L'Aringo- il giornale di Gallicano n 1 anno 2015. "412 anni di pasimata" di Ivo Poli
  • "Dizionario etimologico" 1907
  • "Castiglionegarfa.it" Pasimata della Garfagnana

Le malattie e le cure di una volta in Garfagnana

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Facciamoci questa domanda. Qual'è la cosa più importante della vita?

"Sutura di una ferita minore presso un barbiere"
un quadro di Gerrit Ludens
Credo che la stragrande maggioranza di voi mi risponderà la salute e così infatti è. La vita senza salute diventa un inferno e solo quando questa viene a mancare ci si accorge del suo valore. Si può essere le persone più facoltose della Terra, si può avere un lavoro gratificante, si può essere al vertice delle più grandi industrie, si può essere capi di stato o di governo ma se non si è in buona salute si diventa deboli, fragili e bisognosi di tutto. Nei secoli però la medicina ha fatto passi da gigante, molto ancora c'è da fare ma pensiamo solo che fino a poco tempo fa si moriva anche solo per una futile febbre, mentre adesso si continua (naturalmente) ancora a morire ma di ben poche malattie. La Garfagnana nel corso dei secoli in fatto di salute  non è stata tanto fortunata, ricordiamo fra tutte le due catastrofiche pandemie che hanno colpito la nostra valle: la peste bubbonica del 1630 e più recentemente la febbre spagnola nel 1918, che portò un tasso di mortalità altissimo, in Italia fummo secondi in Europa solamente alla Russia. Oggi però quest'analisi scenderà più nel dettaglio e guarderà appunto di cosa ci si ammalava in Garfagnana in tempi lontani. Guarderemo quali erano le malattie più comuni, approfondiremo le cause di decesso consuete e "normali" e indagheremo anche sulle cure dell'epoca. Per studiare le malattie che anticamente colpivano una popolazione la fonte più comunemente usata sono i certificati medici redatti dai dottori stessi per finalità di diagnosi e cura e per esigenze amministrative della struttura che le prendeva in carico, spesso queste strutture erano le nostre care misericordie locali e qui in questi archivi possiamo in tal senso trovare dei veri e propri tesori. I medici di allora non avrebbero mai immaginato un utilizzo dei loro certificati come fonte di dati utili, pensiamo poi che in alcuni casi la medicina era ancora molto vicina alla stregoneria. Da dei certificati di malati garfagnini che vanno dal 1702 al 1818 salta subito all'occhio come in cento e più anni la scienza medica è rimasta ferma, impotente a risolvere qualsiasi malattia, si parla sempre di "aria corrotta", insidiata da fermenti putridi e corpi maligni, le patologie erano sempre le stesse, mentre l'elenco delle cure non finisce più di decantare le virtù delle sostanze vegetali, erano però rimedi dati senza sperimentazione e molto spesso si fa anche riferimento ai dettami di un famoso medico dell'epoca un certo Pietro Andrea Mattioli da Siena, dettami tratti dal suo libro "Alcuni rimedi del Gran Mattioli", si trattava appunto di
Alcuni rimedi del Gran Mattioli
preparazioni artigianali costituite in gran parte da erbe, cortecce e minerali vari, quali piombo,argento e mercurio che poi si sarebbero trasformati in unguenti, pozioni, sciroppi e clisteri. Le malattie che colpivano di più i nostri antenati erano quelle che riguardavano l'apparato respiratorio e la pelle. Ecco ad esempio una ricetta da me sommariamente "italianizzata"scritta nel 1705 per curare la pleurite:

"Per la pleurite dobbiamo prendere una manciata di ortica in polvere e bollirla in un bicchiere di vino rosso e otto once di olio d'oliva, aspettare quindi che tutto il vino si sia consumato, dopodichè bere il succo avanzato".
Fra le altre cause di cattiva salute non dimentichiamoci nemmeno delle fratture e delle molteplici ossa rotte dei contadini garfagnini, spesso queste fratture erano dovute a motivi di lavoro: chi cadeva da un tetto, chi veniva colpito dal mulo e qui si doveva passare sotto le cure dei chirurghi o dei "barbieri" aggiusta-ossa che molto spesso facevano dei disastri irrimediabili, lasciando il più delle volte persone storpie e menomate. Non parliamo poi delle malattie dovute alla sporcizia e al sudicio. Una buona parte della popolazione era colpita da scabbia, rogna, pustole e porcherie del genere. La sporcizia conviveva come un vestito di tutti i giorni ed è bene dire che questo lerciume non era un esclusiva della gente semplice e comune, non era difficile nemmeno trovare delle pulci sotto il vestito di una gran dama. Una conseguenza ancora di questa schifezza portava alle malattie dell'intestino, causate dallo sporco e dalla cattiva alimentazione. Naturalmente è bene sottolineare che al tempo i garfagnini e gli italiani in genere campavano poco, mediamente quarantacinque o cinquant'anni...A conferma di ciò l'uomo cinquantenne di oltre un secolo fa era effettivamente un vecchio e tale Pietrin da Corfino così scrive agli amministratori della Confraternita di Misericordia di Castelnuovo Garfagnana:
"Ho 53 anni di età, gravato da malattie frutto di fatiche, privazioni, miseria e dalla mia vecchiaia. Non potrei più malgrado tutti i miei sforzi, procurarmi quel pane che mi è costato sempre molto caro, mi vedrei ridotto alla più straziante situazione se non mi restasse una speranza nei soccorsi così generosamente elargiti dalla pubblica carità"
Con il tempo nella valle sorsero anche gli ospedali di Castelnuovo Garfagnana e Barga, andare in ospedale diventò un evento ritenuto necessario per ristabilire una condizione di salute o un miglioramento ed era sopratutto una possibilità concessa a tutti, ma prima di questi ospedali vi erano come strutture di sussistenza gli antichissimi hospitali disseminati in tutta la valle che formavano una catena di solidarietà, nati per assistere pellegrini e viandanti destinati nei luoghi santi. Questi ospizi gestiti dai frati accoglievano tutti, anche gli ammalati e i bisognosi e non era come oggi che i ricchi vanno nelle cliniche a farsi curare, chi aveva
Gli ospedali di una volta
soldi si curava in casa, dove aveva il suo letto per coricarsi e dove poteva chiamare a domicilio il medico ducale, godendo così del privilegio di guarire o morire in casa propria. Il povero e il ramingo come detto, poteva trovare conforto e ricovero presso questi hospitali, dove almeno a sostegno dell'anima l'estrema unzione gli sarebbe stata concessa...

A proposito di medici ducali. In Garfagnana nel XVI secolo agiva per la corte estense (e solo per la nobiltà e i notabili locali) il famosissimo Antonio Musa Brasavola che a quanto pare fu il primo ad eseguire una tracheotomia. In Garfagnana venne più volte per intervenire sui signori nostrali, portandosi sempre dietro i suoi ferri chirurgici artigianali. Oggi i ferri chirurgici sono chiamati "serie chirurgica", avvolti in trousse come se fossero collane di perle. In quei tempi, compreso Brasavola, la chirurgia aggiustava, riparava e come anestetico usava la "spugna sonnifera", ottenuta facendo
vecchi ferri chirurgici

bollire questa spugna in succhi di erbe particolari, tipo la mandragola (che la si poteva trovare sulla cima del Monte Procinto), oppio, cicuta,il tutto sapientemente manipolato dal farmacista- speziale. Fra gli interventi fatti da Brasavola in terra garfagnina rimangono agli atti una lussazione alla spalla di una donna con due grandi e profonde ferite al cranio ed inoltre si parla di un giovane guarito e curato in dieci giorni...da un tumore al piede. Chissà quali cure avranno somministrato a questo povero giovane per curarlo da un così brutto male!? Si, perchè in fatto di cure, queste erano al quanto originali. Difatti per problemi"evacuatori" si prendeva un gallo di cinque anni, di penne rosse, agile, non troppo grasso ne troppo gracile, si legava una zampa ad una cordicella, dopodichè si picchiava il pennuto  con un rametto in modo da farlo arrabbiare. Allo stremo delle sue forze il galletto veniva decapitato, spennato e lavato nel vino, sventrato e riempito di droghe, quindi lo si metteva a bollire, ne usciva un brodo- gelatina che garantiva un sicuro risultato. Per il mal di denti era indicatissimo introdurre dentro la carie un chicco di sale o di pepe, sciacquarsi poi la bocca con acqua salatissima e molto calda. Per le febbri intestinali la panacea del male era una polentina di farina di granoturco, condita con olio, da ripetere per tre volte al giorno. Quando capitava di contrarre il morbillo o la scarlattina la soluzione era di avvolgere l'ammalato in panni rossi di lana, far
vecchi rimedi medici
sudare e far "covare" bene.

I tempi cambiamo e per quanto riguarda il campo della medicina e delle cure questo è uno dei pochi casi in cui è impossibile dire "si stava meglio quando si stava peggio"...





Bibliografia:

  •  Archivio di Stato di Modena
  • Misericordie locali
  • "Stasera venite a vejo Terè" Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della mnemoria

Gli I.M.I, una tragedia poco conosciuta. Storia di un deportato garfagnino.

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Erano questi i giorni in cui finiva la seconda guerra mondiale.
Passarono sei lunghi anni da quel primo settembre 1939 quando la Germania invase la Polonia, sei lunghi anni pieni di orrori, morte e fame. Con il trascorrere del tempo e con la scoperta di tutte le nefandezze perpetrate questa guerra fu considerata fra le più cruente di tutta la storia dell'umanità. Ma finalmente arrivarono anche i giorni dell'aprile 1945 e con la fine di queste barbarie cominciava la speranza di una vita nuova. Era comunque difficile ripartire, la memoria delle persone era ancora invasa dalle brutte immagini e sensazioni di quegli anni e nel frattempo si veniva anche a conoscenza della tragica fine di sei milioni di ebrei, di Auschwitz, dei campi di sterminio e le prime raccapriccianti immagini di quell'inferno erano ormai negli occhi di tutti. L'annientamento degli ebrei da parte dei nazisti con gli anni oscurò altre vicende della guerra che meritavano di essere approfondite e che solamente negli ultimi tempi abbiamo cominciato timidamente a riscoprire, infatti non si può dimenticare la tragedia in Russia dell'8A armata italiana(meglio conosciuta come ARMIR), delle Foibe, degli esuli istriani e della fine di circa ottocentomila I.M.I, una sigla questa ai più sconosciuta ma dal significato inequivocabile: "Italienische-Militar-Internierten" ovverosia "internati militari italiani", fu il nome ufficiale dato dalle autorità tedesche ai soldati italiani catturati, rastrellati e deportati nei territori
del Terzo Reich nei giorni immediatamente successivi all'armistizio dell'8 settembre 1943. Dopo il disarmo, soldati e ufficiali italiani vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file della Repubblica Sociale e quindi a fianco dell'esercito tedesco o, in caso contrario, essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10% delle forze armate italiane accettò l'arruolamento, gli altri vennero considerati prigionieri di guerra. In seguito cambiarono "status" divenendo "internati militari" per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra, e infine nell'autunno del 1944 furono considerati "lavoratori civili" in modo da essere sottoposti a tutti i lavori pesanti senza godere delle tutele della Croce Rossa Internazionale. I numeri di questa immane tragedia sono spaventosi e purtroppo non sono a conoscenza di tutti. Si parla appunto di circa ottocentomila soldati italiani internati, di questa moltitudine si presume (senza nessun dato ufficiale alla mano) da recenti studi fatti che siano morti in un anno e mezzo tra i 37.000 e 50.000 uomini per svariate cause: malnutrizione, lavoro duro e continuo, esecuzioni capitali e bombardamenti alleati sulle installazioni dove gli internati lavoravano. Una volta liberati però le tribolazioni non finirono, anzi, il ritorno a casa si presentò a loro come una vera e propria odissea. La maggior parte di essi ritornò in patria tra l'estate del 1945 e il 1946. Furono le stazioni ferroviarie e i centri d'accoglienza del centro Italia a smistare la gran massa dei rientranti. Il rientro avvenne su treni merci sovraccarichi. Il 6 giugno fu riaperta la ferrovia del Brennero da cui cominciarono a defluire tremila italiani al giorno, numero che aumentò a 4500 a partire da agosto, fu un vero e proprio esodo biblico che continuò nei mesi successivi quando le autorità considerarono completo il rimpatrio di massa degli internati
Militari italiani rastrelati
italiani. Nel settembre 1945 l'80% degli I.M.I sopravvissuti erano rientrati in patria, ma per alcuni il dramma continuava. Migliaia di ex I.M.I finirono nelle mani dell'esercito russo e jugoslavo e, anziché essere liberati continuarono la prigionia per alcuni mesi dopo la fine della guerra. Le autorità sovietiche in particolare cominciarono a rilasciare i prigionieri solamente alla fine del 1945. In quel periodo ritornarono in Italia diecimila italiani, cui si aggiunsero altri 52.000 che partirono a inizio 1946. Anche la Garfagnana pagò il suo tributo, molti garfagnini furono deportati nei campi di concentramento in Germania, molti di loro morirono ma ci fu anche chi fece ritorno a casa e oggi ci può raccontare in prima persona quello che fu questa orribile esperienza che poco si discosta da quello che patirono gli ebrei nei campi di sterminio sparsi per tutta Europa. La testimonianza è di Lunardi Sestilio classe 1923 e tale testimonianza è stata trascritta dalla nipote Beatrice Lunardi e la si può trovare nel bellissimo libro di Tommaso Teora"Storie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945". Così si apre letteralmente la testimonianza di Sestilio:     - Capisco chi mette in dubbio che queste atrocità siano realmente accadute, perchè chi non le ha vissute non le può credere-

Il nostro protagonista al tempo abitava con la sua famiglia nel piccolo borgo di Valbona nel comune di Castiglione Garfagnana, fino a quel momento si era occupato solo delle sue pecore, di portarle al pascolo e di fare il formaggio. Arrivò però quel maledetto giorno di Befana, era il 6 gennaio 1943,  quando a vent'anni fu chiamato alle armi per andare prima a Cuneo e poi a Dronero per un addestramento militare da gennaio a luglio. Quando partì per il nord Italia Sestilio non sapeva a ciò che andava incontro, non si rendeva conto a quello che stava per partecipare e non immaginava certo la grandezza di questo conflitto mondiale, d'altronde non era mai uscito dal paese e la sua ingenuità gli metteva un velo davanti ai suoi occhi. Rimane il fatto che poi a luglio il suo battaglione fu trasferito a Bolzano per presidiare il confine, fino alla fatidica data dell'armistizio (8 settembre 1943), da quel giorno fu il caos più totale, non arrivava nessun ordine su come comportarsi e nessuna istruzione veniva data ai militari, le truppe italiane erano
praticamente allo sbando. Rimarrà sempre nella mente di Sestilio la vicenda di quel suo commilitone, quando nei monti sopra Bolzano fu morso da una vipera e fu portato d'urgenza in ospedale, quella che fino a quel momento era stata considerata una disdetta fu una vera e propria fortuna per quel militare, infatti di li a poco tre soli carri armati tedeschi circondarono la caserma trentina e fecero prigionieri 300 soldati italiani fra cui Sestilio. Una volta catturati ci fu l'umiliazione di essere portati in corteo per le vie di Bolzano, e qui in mezzo alla molta gente il pastore garfagnino riuscì a consegnare un biglietto ad una ragazza del posto che era in mezzo alla folla, in questo biglietto era riportato l'indirizzo di casa e l'uomo si raccomandò alla giovane di avvisare la sua famiglia del suo destino. Il gesto di solidarietà fu bellissimo, solo con il ritorno in Garfagnana si scoprì che questa giovane donna non se ne era fregata di uno sconosciuto soldato, ma bensì aveva scritto una lunga lettera in cui informava la famiglia sulla sorte del figlio. Dopo quattro giorni di detenzione ci fu la partenza per Innsbruck, successivamente le tradotte condussero i prigionieri in Germania a Mannheim, durante il viaggio alcuni fra i soldati più esperti riuscirono a fuggire, altri piangevano disperatamente immaginando cosa gli aspettava, altri come il militare garfagnino erano tranquilli convinti nella loro candida innocenza che da li a poco la guerra sarebbe terminata. Ma non era così. Una volta arrivati a Mannheim scesero dai treni e venero messi immediatamente in fila e divisi in due gruppi destinati a lavori
Trasferimento in Germania
 di soldati italiani
diversi, dopodichè furono fatti denudare e vestiti con un paio di zoccoli, un paio di pantaloni e una casacca con la scritta KGF:Kriegsgefangen (prigionieri di guerra). Sestilio fu diviso dai compagni che conosceva e fu adibito allo sgombero dalle macerie nelle strade. La sera, dopo i durissimi lavori tornava in un capannone dove dormiva insieme agli altri detenuti in un misero pagliericcio. Le razioni di cibo erano scarsissime, tant'è che i prigionieri riuscirono a scoprire in una vicina cantina delle botti con delle bucce di arancia immerse nell'alcool di cui ben presto si cibarono di nascosto. Nei successivi mesi il lavoro cambiò e il nostro protagonista fu mandato insieme ad altri venti compagni a lavorare in una fonderia di ferro per molte ore al giorno. All'interno del campo di lavoro i carcerati erano suddivisi per nazionalità: italiani, francesi, russi e altri. I francesi erano coloro a cui era concessa più libertà, perchè considerati diversi dagli italiani traditori. Non mancava però l'occasione di fare amicizia e Sestilio diventò amico di un russo, la lingua non era un problema, in queste esperienze il rapporto umano è quello che conta. Il russo non mancava di portare al garfagnino qualcosa da mangiare in un pentolino tutto arrugginito e di volta in volta entrambi si davano una mano nella fonderia per alleviare i carichi di lavoro. Certe volte la fame e il freddo prendevano il sopravvento e rischiando la vita più volte ci si andava a riscaldare in una cabina di una gru. Gli inverni tedeschi come si sa sono molto rigidi, i vestiti erano inadeguati,  ma la cosa più tremenda da sopportare era la fame. A ogni prigioniero erano dato in dotazione un cartellino che veniva bucato ad ogni pasto che consisteva in pezzo di pane secco da condividere con gli altri, in una zuppa di verdure cotte e in una indefinibile pappa acida. Un giorno a proposito di questo, un altro garfagnino detenuto che dormiva nella solita baracca di Sestilio di nome Pioli Silvio, preso da indicibili morsi della fame decise di avventurarsi presso la vicina rete che faceva da confine con il

settore francese nella speranza di rimediare alcune bucce di patate gettate nell'immondizia, destino volle che fu scoperto dalle guardie tedesche, fu picchiato barbaramente, poco dopo morì. Il cartellino che dava diritto ad una razione di cibo fu preso allora dal pastore garfagnino che rischiando anche qui la vita faceva due volte la fila per prendere la doppia porzione. Insomma, tutti i giorni il confine fra vita e morte era sottilissimo. A conferma di questo il testimone racconta delle baracche- dormitorio, composte da letti a castello, normalmente da otto persone, con al centro una grande stufa, in questa stufa venivano cotte le bucce di patate trovate per terra, inoltre quando non vi erano i turni di lavoro c'era il compito di mantenere pulita la baracca, in caso di ispezione negativa da parte dei nazisti gli otto componenti venivano puniti con delle frustate. Non tutti però i nazisti erano malvagi e in effetti Sestilio ricorda bene quando la fonderia fu bombardata dagli americani e i carcerati lui compreso furono trasferiti a gruppi da tre al ripristino delle linee telefoniche, sorvegliati da un soldato tedesco, a loro era stato assegnato un tale di nome Irrigh che nel corso di una di queste uscite catturò un'anatra che portò a casa sua, la cucinò e la divise con i prigionieri. Indimenticabile rimarrà anche quella volta che in un giorno di brutto tempo furono addetti anche alla pulizia della macelleria, dove riuscirono a sottrarre ben due salami. C'era poco da fare, la sopravvivenza era l'obiettivo principale in attesa che la guerra prima o poi finisse e detto fatto una mattina tutti i detenuti furono portati in fila indiana in una pineta, in lontananza già si sentivano le cannonate degli americani, di li a poco fu il fuggi fuggi generale, tedeschi e italiani scapparono in ogni dove. Il primo rifugio di Sestilio fu (insieme ad altri tre compagni) sotto un ponte dove rimasero per qualche giorno, trovarono poi aiuto presso una famiglia di contadini che offrì loro da mangiare. Nell'aprile 1945 finalmente gli alleati presero pieno possesso delle zone occupate e Sestilio si consegnò agli americani stessi che lo portarono in un campo-ospedale fino al luglio del medesimo anno, qui fu rimesso in sesto fisicamente e moralmente, c'erano altri commilitoni che (dice lui) erano arrivati a pesare 38 miseri chili. Una volta tornato in salute cominciò il lungo viaggio per tornare a casa, molti furono i chilometri fatti a piedi dalla Germania, infine con mezzi di fortuna e le tradotte messe a disposizione dalla Croce Rossa, Sestilio insieme ad un compaesano di nome Agostino riuscì a raggiungere Lucca, di li in autobus fino a Castelnuovo e da li a piedi fino al paese di Valbona. La famiglia aveva ormai perso le speranze di vederlo ritornare, ormai non aveva più notizie da moltissimo tempo, immaginatevi voi l'emozione e dopo le lacrime della madre e gli abbracci dei parenti tutti e i festeggiamenti di rito, la prima cosa che fece il nostro garfagnino fu quella di
Gli alleati entrano in una
Germania rasa al suolo
andarsi a mettere all'ombra del suo fico preferito dove rimase per ben tre giorni a riposare, cercando di non pensare alla brutta esperienza passata. Ma prima o poi bisogna fare i conti con la propria coscienza e solamente negli anni che seguirono Sestilio si volle informare completamente di ciò che era accaduto durante la guerra, egli non aveva idea, dato che la sua esperienza di guerra si era "limitata" al campo d prigionia e al lavoro in fonderia. Ignaro fino a quel momento delle atrocità che l'uomo aveva compiuto. 



Bibliografia:


  • Alessandro Natta "L'altra resistenza. I militari italiani internati in Germania" Einaudi 1996
  • Tommaso Teora "Storie di guerra vissuta. Garfagnana 1940-1945" Garfagnana editrice 2016. A sua volta il brano è tratto da una tesina di Beatrice Lunardi

Una grande scoperta. L'otturazione più antica ha 13.000 anni, ed è opera di un "garfagnino"

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Fra le mille paure riconosciute come patologie ce n'è una che è

Le cavità delle otturazioni dei denti
 del Riparo Fredian
(foto tratta da Live Science.
 Credit Stefano Benazzi)
chiamata odontofobia è non è altro che la semplice paura del dentista, riconosciuta come tale anche dall'organizzazione mondiale della sanità. L'appuntamento dal dentista infatti rappresenta per molti di noi uno spiacevole incontro e nonostante ciò, anche se con una sensazione di urtante disagio ci facciamo coraggio e ci rimettiamo a lui con la solita preghiera: - Per cortesia...non mi faccia male...-. Alla fine di tutto questo ci accorgiamo poi che il male maggiore lo subirà il nostro portafoglio. A proposito di dolore... Ma una volta i denti venivano curati? Ma per una volta non intendo cento o duecento anni fa...per una volta intendo ben tredicimila anni fa...Si avete capito bene, è notizia di pochi giorni fa (esattamente del 10 aprile) che in Garfagnana è stata ritrovata su dei denti umani risalenti all'era glaciale la più antica otturazione di sempre. Tutte le maggiori riviste scientifiche specializzate danno notizia del clamoroso ritrovamento e addirittura anche l'ANSA (l'agenzia nazionale stampa associata) riporta la notizia con enfasi. Allora il mal di denti e di conseguenza l'utilità del dentista erano già ben noti ai nostri antenati, e questa otturazione considerata la madre di tutte le riparazioni dentali esistenti non deve essere stata solamente la più
Gli incisivi ritrovati al Riparo Fredian
(foto tratta da Focus.it)
datata ma a mio avviso anche la più dolorosa. La scoperta riguarda due incisivi superiori, rinvenuti nel sito archeologico di Riparo Fredian, situato lungo la Turrite Secca non distante dall'antico borgo dell'Isola Santa. Prima di andare al nocciolo della questione il sito e la zona intorno al Riparo Fredian merita due righe, perchè oltre a questa scoperta questo luogo archeologicamente parlando è fra i più importanti della Toscana ed è frequentato da studiosi di tutto rispetto che attraverso approfondite ricerche hanno ricreato l'ipotetico ambiente, l'economia e le attività quotidiane di questi uomini preistorici che vivevano in quel luogo già dal Mesolitico (periodo che va dal 10.000 all'8000 a. C). Essi effettivamente si occupavano di caccia e raccolta. Ritrovamenti ossei di stambecco confermano la caccia esclusiva di questo animale non più presente nelle nostre zone che con i secoli fu sostituito dal cervo che

divenne così fonte principale d'alimentazione.Qui si praticò la caccia anche ai piccoli mammiferi come lepri, castori e conigli e in questi antichi uomini nel medesimo periodo si intensificò pure la raccolta di bacche e frutti spontanei, in particolare è ben testimoniata la raccolta delle nocciole, data l'abbondanza dei resti di gusci carbonizzati rinvenuti. Fra le varie scoperte fatte, sono stati ritrovati anche utensili in selce di svariate forme (trapezi,triangoli e semi-lune)che certificano che lo strumento di caccia prediletto era la lancia, queste piccole pietre si presume che fossero la punte di queste lance che potevano eventualmente essere usati come frecce e arpioni. Tutti i numerosi ritrovamenti avvenuti in questo sito garfagnino convalidano la tesi che questo posto è fra i più importanti dell'Italia centrale in fatto di preistoria, proprio perchè è ben documentato che qui vi fosse una popolazione stanziale che si spostava solamente nella montagna sovrastante in estate, mentre d'inverno quando in altura cominciava il freddo pungente faceva nuovamente ritorno a valle. Il Riparo Fredian fra le altre cose ha segnato la sua fortuna e il suo destino proprio nei denti, tanto è vero che tra gli svariati resti ossei che sono stati recuperati di animali estinti ci sono due premolari del mitico leone delle caverne, forse di per sè vorranno dire poco, ma quei denti appartengono all'ultimo leone finora documentato sul territorio italiano. Questo fantasmagorico felino è vissuto nelle Alpi Apuane
il leone delle caverne del paleolitico
circa undicimila anni fa, come misurato e calibrato con il carbonio 14. Ma dopo questo doveroso ed interessante preambolo veniamo alla mirabolante scoperta dei giorni nostri, quando antropologi dell'università di Bologna, in collaborazione con studiosi americani e irlandesi hanno scoperto denti umani attribuiti a sei individui di età differenti, ma quelli che hanno fatto sobbalzare dalla scrivania questi esimi studiosi sono questi due incisivi superiori appartenuti a "Fredian 5" (così sono stati ribattezzati dai ricercatori), questi denti da analisi fatte appartengono a un soggetto di non giovane età, inoltre non si conosce il sesso e le condizioni di salute, ma rimane il fatto che possiamo datare con una certa precisione questo eclatante ritrovamento che risale al Paleolitico e con più precisione a tredicimila anni fa, ciò ci può far dire che questa è senza ogni

ombra di dubbio la più antica otturazione al mondo, cosa ancor più sorprendente invece è che già al tempo ci fossero conoscenze rudimentali in materia odontoiatrica, a sostegno di questa tesi il professor Stefano Benazzi (docente presso il Dipartimento dei Beni Culturali dell'Università di Bologna)ci dice che attraverso l'analisi dei denti di questo uomo preistorico,(fatte con diverse tecniche di microscopia) sono stati individuati due fori centrali, trattati con piccole incisioni, per meglio capirsi queste cavità furono scavate e allargate presumibilmente per ripulire l'area dalla carie e con ogni probabilità questa operazione fu effettuata con schegge di pietra (l'equivalente del trapano attuale del dentista moderno):- Sulla parete dentale-ci dice ancora Benazzi- abbiamo trovato una serie di minuscoli segni orizzontali-. Ma il dettaglio sorprendente non risiede in queste incisioni, ma nella specificità del trattamento, infatti i ricercatori attraverso svariate metodologie di indagine che vanno dai microscopi elettronici a scansione per arrivare alla tomografia ai raggi X, hanno individuato all'interno dei denti tracce di bitume, associate a fibre vegetali e peli animali e se i frammenti vegetali e i peli potrebbero essere rimasti "intrappolati"accidentalmente nella cavità, la presenza di bitume al suo interno non può essere casuale, quindi questa è (così dicono gli esperti) una vera e propria cura con finalità terapeutica e questo mix di fibre vegetali, peli e bitume è da considerarsi una vera e propria pasta per otturare l'apertura, ridurre il dolore e impedire al cibo di andarsi a
Gli incisivi del Riparo Frediam
(foto tratta da macedonialine.eu)
depositare nella zona sensibile. Era una soluzione rozza e probabilmente anche fastidiosa, ma questo ci indica che questi uomini avevano una certa conoscenza delle piante officinali, l'archeologo Claudio Tuniz dell'università di Wollogong (Australia) ci suggerisce che il bitume in associazione con le fibre vegetali potrebbe essere stato usato come disinfettante, inoltre ci spiega che la necessità di questi interventi dentali sarebbe con il tempo diventata sempre più importante e in questo influi molto il variare della dieta dei primitivi, in particolar modo quando furono introdotti i cereali e i cibi zuccherini come il miele.

Rimane quindi per questi universitari un'immensa soddisfazione per le ricerche fatte, i dettagli di questo studio sono stati pubblicati nientedimeno che nella famosissima rivista scientifica "American Journal of Physical Anthropology"
Gli incisivi di "Fredian 5"sono quindi il più antico esempio di
La famosa rivista
questo tipo di intervento e l'indelebile traccia lasciata dal primo dentista della storia dell'umanità, che come abbiamo letto era sicuramente un "garfagnino".





Bibliografia:


  •  "American Journal of Physical Anthropology" pubblicazione del 27 marzo 2017
  • 6° Convegno di Archeozoologia. Università di Pisa

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