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Channel: La Nostra Storia
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La condanna a morte in Garfagnana,la sua storia,i suoi riti e quell'efferato omicidio a Pieve Fosciana del 1784

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Pietro Leopoldo l'illuminato Granduca
che abolì la pena di morte
Ricorreva proprio pochi giorni fa la Festa della Toscana. Ma cosa festeggiavamo? Perchè proprio il 30 novembre? Come tutti sapranno era difatti un 30 novembre nell'anno di Grazia 1786 quando il Granduca Pietro Leopoldo dal palazzo reale di Pisa con un editto rendeva la Toscana il primo Paese al mondo ad abolire la tortura e la pena di morte.Nel Granducato di Toscana però! La Garfagnana non faceva ancora parte dei sudditi di sua maestà il Granduca, la Garfagnana era ancora estense e le teste continuavano "a saltare", eccome!!! Oggi faremo un viaggio per capire meglio quello che in Garfagnana era l'esecuzione capitale, conosceremo la sua storia, i sui riti, parleremo di un efferato caso d'omicidio a Pieve Fosciana e finiremo per conoscere l'ultimo boia estense, autorizzato a eseguire pene capitali anche in Garfagnana. Ma cominciamo dall'inizio nel dire che trattare certi argomenti non è sempre facile, parlare di morte, di torture non è piacevole, comunque sia rientra sempre nella sfera della memoria e della storia che serve fra le altre cose a non ripetere certi errori costati poi molte vite umane. La pena di morte rientra a buon titolo in questa ottica. La pena capitale nella nostra valle viene resa legittima e accettata a partire dal 1200 circa, insieme ad essa anche la tortura viene resa pratica efficace per il mantenimento dell'ordine costituito. La tortura poi troverà proprio la sua massima espressione nei decenni a venire quando la Santa Inquisizione ne farà il suo maggior strumento di convinzione, ritenuta insostituibile per accertare la verità, solo chi sarebbe resistito al dolore poteva ritenersi (forse) innocente.Con il passare dei lustri, dei decenni e dei secoli a venire, la Garfagnana era diventata un ricettacolo di manigoldi, l'intento delle autorità pubbliche era quello di arginare il continuo dilagare della violenza privata (rapine e omicidi), di quella in gruppi (congiure rivoluzionarie contro il potere costituito) e quella della mala vita
organizzata (il brigantaggio), le autorità risposero senza se e senza ma con una violenza altrettanto feroce, violenza riconosciuta non solo dallo stato che la perpetrava ma bensì anche dalla chiesa. La condanna a morte che la chiesa riteneva "lecita"era tramite impiccagione perchè si credeva per antico retaggio culturale che l'anima rimanesse imprigionata nel corpo qualora non vi fosse stato nel reo spargimento di sangue o di fiato. La giustizia umana passava avanti così anche alla giustizia Divina che se ne lavava le mani e i piedi precludendo di fatto la possibilità di una redenzione eterna al condannato.Questo ulteriore oltraggio riservato all'anima era serbato a delle categorie specifiche come ai colpevoli di tradimento (il traditore per eccellenza infatti per la chiesa è Giuda che morì pure lui impiccato),alle persone più umili, quelli che praticamente non avevano un blasone da macchiare,ai nobili e ai potenti infatti il trattamento era diverso, a loro era riservata la decapitazione.Solo nel tardo 700 la Garfagnana ,o meglio gli Estensi equipararono il "modo mori" (in latino: il modo di morire), la Francia con la sua rivoluzione aveva fatto proseliti, venti di eguaglianza soffiavano nella valle, la ghigliottina ( o il taglio della testa con
Esecuzione a morte per ghigliottina
l'ascia) di fatto annullerà questa disparità di classe sociale. Pensate che uguaglianza! Adesso poveri ricchi, assassini, ladri e qualsivoglia furfante poteva morire nella solita maniera (che bella conquista sociale!!!) passando tutti quanti sotto la lama di questo nuovo strumento di morte. Non contenti i duca estensi (e non solo) vollero comunque anche qui fare differenza. Per chi si macchiava dei reati più gravi ed efferati si procedeva tramite una drammatica sceneggiata ben studiata; si partiva dal carcere su un carro trainato da cavalli dove il condannato rimaneva in piedi sul cassone, si passava poi da dei luoghi simbolo come il palazzo di giustizia e la casa di chi aveva subito le malefatte, il culmine di tutto veniva dopo che la testa del furfante era rotolata nel cesto,il corpo esanime veniva squartato e le membra venivano messe in mostra nei punti d'entrata del paese, come monito per i presenti. Pensate voi a quel Giovan Turriani di Pieve Fosciana se avesse saputo quello che sarebbe successo dopo che in una notte di gennaio avvelenò nell'ordine suocera, sorella e nipoti. I nipoti in qualche maniera si salvarono, mentre suocera e sorella morirono e per tale omicidio fu condannato all'impiccagione, che fu eseguita il 23 marzo 1784. Il condannato fu condotto all'esecuzione su un carro scoperto affinchè il pubblico lo potesse vedere. Giunto sul luogo dell'esecuzione venne fatto salire su una delle due scale della forca e dopo
Così morì Giovanni Turriani:il boia gli
 saliva sulle spalle e il "tirapiedi" lo tirava
per le gambe
avergli sistemato il cappio al collo, il boia tolse la scala sotto i piedi facendolo precipitare nel vuoto,per completare il lavoro "a regola d'arte" il boia salì sulle spalle del condannato, mentre il suo assistente meglio detto"il tirapiedi"lo tirava per le gambe, accelerando di fatto la morte per asfissia. L'operazione comprensiva di tragitto non durò che poco più di mezz'ora. Così ci viene raccontata quella condanna a morte, tant'è che venne certificata dal tribunale con queste parole:


"A di 23 marzo 1784 fu impiccato e squartato Giovan Turriani della Pieve Fosciana, sulla jara del fiume verso Santa Lucia, e la sua testa fu posta sopra una colonna fabbricata di nuovo fuori della porta di detta Pieve Fosciana sulla strada maestra per andare a Campori, ed il suo delitto fu d'aver dato il veleno alla sua suocera, e sua sorella e figli della medesima, per il che morì detta sua sorella e suocera, ed egli morì rassegnatissimo". 
La certificazione originale di morte di
Giovanni Turriani (da Bargarchivio)


Che tempi ! Che spargimenti di sangue! Su tutto questo la figura del boia la faceva da padrone, "maestro di morte" era la definizione esatta di questo mestiere nel 1800. Ci voleva un bel coraggio e un pelo sullo stomaco non indifferente fare il lavoro del boia e due fratelli furono gli ultimi boia ad operare con un permesso in Garfagnana. Questa professione non lo poteva fare chiunque ed esisteva il boia di stato che eseguiva condanne a morte in tutto il regno. Gli ultimi boia estensi furono appunto Pietro e Giuseppe Pantoni figli d'arte, dato che il padre Antonio fu boia nello Stato Pontificio.Per mano loro perirono anche alcuni organizzatori delle sommosse risorgimentali a Pieve Fosciana del 1831, su tutti Ciro Menotti (per quei fatti leggi:http://paolomarzi.blogspot.it/pieve-fosciana-la-rivolta-del.html). Divennero con il tempo famosi in tutta Italia,i loro servigi erano richiesti a pagamento in ogni dove.Un fratello (Pietro) si trasferì ben presto a Torino dove prese impiego in pianta stabile presso la corte piemontese, mentre Giuseppe rimase a Reggio Emilia e una volta fu chiamato occasionalmente perfino a Lucca in sostituzione del boia titolare Tommaso Jona (andato in pensione) per eseguire la condanna a morte per decapitazione di cinque delinquenti.I fratelli Pantoni divennero talmente noti che il loro nome era entrato nel parlare comune, specialmente quando qualcuno commetteva qualche colpevole
Il boia
sciocchezza o anche qualcosa di grave si diceva: "Questa è roba per Pantoni!" o sennò "Questo è un bell'affare per Pantoni!". Era un "arte" ben remunerata, il boia a metà ottocento guadagnava quasi duemila lire l'anno, uno stipendio doppio di quello di un professore universitario, figuriamoci quindi i lauti guadagni di 
Giuseppe Pantoni, la sua fu una carriera lunghissima quella dell'ultimo boia "garfagnino", che culminò con la sua ultima spettacolare esecuzione (come allora fu definita) per strangolamento in pubblica piazza di due noti banditi della montagna modenese. Si calcolano circa 150 pene di morte eseguite, ma gli anni passavano  e arrivò anche per Pantoni il momento di fare i conti con la sua coscienza e così scriveva:

"Ora sono a riposo, la mia ultima esecuzione risale al 1864 ed in tutto il regno d'Italia si parla ormai di abolire la pena di morte, tutto sommato una gran cosa, ma agli occhi di tutti io ormai son segnato come portatore di sventura e morte, boia e carnefice, ma io sono solo Ministro di Giustizia. In nome di Dio e del Re!"

L'antica cucina garfagnina. Viaggio nella tradizione e nelle usanze dei "mangiari" di una volta

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La storia non è fatta solo da guerre, da personaggi o da avvenimenti vari, la storia è fatta anche da quello che si mangia, un vecchio adagio diceva:"Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei", niente di questo fu più vero.Da quello che ci nutriamo possiamo capire molte cose, come le nostre abitudini, i prodotti che coltiviamo, gli animali che alleviamo.Uno storico competente dalle consuetudini alimentari di un popolo può trarne una vera e propria radiografia sociale. Umilmente anch'io nel mio piccolo proverò a tracciare un modesto ritratto culinario della Garfagnana e di conseguenza della sua gente.I prodotti che abbiamo e i manicaretti che sfornano le nostre cucine sono molteplici, sarebbe un mondo vastissimo da esplorare, ma io direi di parlare di una delle fonti dei nostri piatti prelibati e cioè dell'animale per eccellenza della cultura contadina:il maiale. Ci avvaloreremo in questo articolo delle note del professor Alcide Rossi che fu un divulgatore impareggiabile del "modus vivendi" dei garfagnini e anche faremo tesoro dei ricordi del "Taton" raffinato cultore nostrale. Raccontiamo quindi quello che succedeva nelle nostre campagne quando proprio in questo periodo si uccideva il maiale. Erano gli anni che in qualsivoglia luogo della Garfagnana, sia in montagna che collina non vi era famiglia di contadini, piccoli possidenti o operai
Una famiglia intorno al suo maiale
industriosi che non allevasse almeno un maiale per proprio conto. Del suino non si scartava niente e si poteva mantenere e nutrire con due soldi.I resti della cucina,così come il siero ricavato dal formaggio, oppure la frutta andata a male, per non parlare delle buccie di patate o anche della farina di castagne era tutta roba questa che finiva puntualmente nel trogolo del porcile, solitamente situato ai margini della stalla, non esistevano per di più mangimi o coadiuvanti vari, qui era tutto rigorosamente BIO (come si dice oggi...)e infatti venivano fuori certe "bestie" che raggiungevano e spesso superavano i due quintali,tanto è vero che di questo animale si apprezzavano anche le parti grasse e come sottolineava scherzosamente (mica tanto però) il professor Rossi quando osservava che queste prelibate parti sono andate in disuso per far posto a cibi meno calorici che consentono di "mantenere la linea",considerava poi che i lavori pesanti di una volta sono 
tramontati,mestieri questi che richiedevano un 
Preparazione di salami
grande sforzo fisico e un dispendio di energie notevole, compensabile solamente con cibi sostanziosi e nutrienti.

Arrivava poi anche il sospirato giorno dell'uccisione del maiale, una vera festa, un lieto evento con i suoi riti e le sue cadenzate procedure, tant'è che sempre Rossi nel suo articolo cita stigmatizzando con leggiadra ironia un detto di un tempo lontano, assai diffuso che diceva così:
"Tre erano i giorni migliori della vita:quando ci si sposa,quando si ammazza il porco,e quando muore la moglie"(le signore lettrici sono libere di fare tutti gli scongiuri del caso...).
Così ricorda Pietro Campoli alias il "Taton" quei giorni quando veniva il "solenne" momento di sacrificare l'animale...STOOOP!!!
Un momento però, prima di continuare nel racconto tengo a specificare due cose: la prima è che adesso andrò a narrare piuttosto dettagliatamente dell'uccisione del maiale, non vorrei che qualcuno facilmente impressionabile si turbasse (non si sa mai), in secondo luogo mi dispiacerebbe che l'animalista di turno mi tacciasse come istigatore e nemico sanguinario degli animali (come già mi è successo in un simile articolo).Da fedele cronista riporto i fatti e in questo caso antiche usanze, niente più.
Dopo i dovuti avvertimenti torniamo alle parole di Pietro Campoli:
"Il maiale veniva ucciso dall'urcino (n.d.r:vocabolo garfagnino, storpiatura di norcino)con un punteruolo di ferro che veniva strofinato (strusciato)sopra la sua punta con uno spicchio di aglio. Quattro o cinque uomini dotati di una certa forza
immobilizzavano il povero maiale a pancia in su, poi l'urcino piantava il punteruolo all'altezza del cuore, se era abile l'animale moriva senza emettere un solo grido, ma se non lo era moriva con urla strazianti (quando ci penso mi sembra di sentirlo). Una volta morto veniva posto sopra una scala a pioli e quindi pelato con acqua bollente,poi scoperti i tendini delle zampe di dietro,vi si passava il "braccagnolo",un arnese in legno di
Vecchia foto. Quando si uccideva il maiale
quercia che aveva il compito di tenere divaricate le zampe, dopodiché mediante una fune veniva issato ed attaccato ad un gancio del soffitto.Quando era appeso mettevamo un recipiente molto capiente sotto la testa del maiale, questi veniva sgolato dall'urcino che poi toglieva dalla carcassa l'osso del petto che sarebbe servito per la cena della sera,accompagnato in tavola con foglie di rapa e polenta di granturco. Una volta aperta la pancia dell'animale, venivano tolte tutte le interiora e recate in fiume dove erano lavate nell'acqua gelida..."

Il "Taton" continua nel suo racconto e poi conclude:"...Ho fatto un grosso sforzo mentale per ricordarmi tutte queste cose, era molto che non ci pensavo. Ora basta andare al supermercato e trovi tutto quello che serve. Però i sapori di una volta non si gustano più".
A proposito di sapori, era abitudine la sera, una volta immolato il "generoso" animale invitare gli amici più intimi per la "biroldata". Prima di procedere con la grande scorpacciata, tutto era già stato sistemato, lo zampone era già insaccato, la lingua era già salata,la pancetta arrotolata e dalle travi della cucina penzolavano messi ad asciugare,salami ,cotechini e salsicce.Così il professor Rossi descriveva tale spettacolo "...pendevano in lunghi festoni, con rocchi
legati ad uguale distanza, sembravano voluttuose collane di corallo".
Sul fuoco attaccata ad una nera catena che pendeva dal camino, gorgogliava una capace caldaia, spesso il camino era talmente grande da permettere alle persone di sedervisi all'interno in apposite sedie e li mettersi a parlare del più e del meno in attesa della cottura dei biroldi che di solito uscivano pronti verso la mezzanotte. L'articolista parla degli ingredienti di questa prelibatezza e dice che erano:
" Ciccioli non troppo strizzati,sangue e carne di maiale, la maggior parte tratta dalla testa ed il tutto tritato finemente, a questo sostanzioso pastone dovevano essere mischiate alcune droghe come pepe, noce moscata,cannella,punte di garofano ed erbe odorifere, dopo di che si procedeva ad insaccare il composto entro budella abbastanza ampie ed il tutto veniva fatto cuocere per tre ore"
Biroldo

Da vero amante della cucina e delle tradizioni garfagnine il Rossi con una appassionata prosa descrive il sapore che emanano i biroldi appena cotti:
"Quando finalmente si estrae la fumante pietanza, per l'ampia cucina si spande un profumo che all'olfatto è una sintesi di odori, ed al palato fin dai primi bocconi è una gamma di sapori che invitano, insieme al fresco e saporito pane casalingo di puro grano, a prepotentemente assaporare e gustare ed a riempirsene più volte il piatto" continua poi: "come bisognasse aver partecipato a questi notturni banchetti, talvolta intramezzati da arguti rispetti nei quali venivano coniate le parole più strane, purchè facessero rima con maiale,porco, suino,porcello, per serbarne un folcloristico e grato ricordo per tutta la vita" e infine raccomanda una serie di preziosi consigli ed indicazioni:

"Si tratta all'evidenza di un cibo che non è indicato per colitici, per chi soffre di ulcera o di gastrite e neppure per gli astemi dato che, per sua natura, reclama abbondanti libagioni di robusto vino (meglio se rosso) e dunque sconsigliato per quanti abbiamo il "vizio di non bere"...Salute a tutti...

I "Natalecci" di Gorfigliano, una tradizione nata cent' anni prima di Cristo...

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Gorfigliano
Non credo sinceramente che ci sia una tradizione più antica di questa in tutta la Garfagnana e sinceramente penso che sia fra le più vetuste di tutta Italia, le sue origini potrebbero risalire addirittura 100 anni prima(circa) della nascita di Cristo, ed è così che con questo probabile record che nella notte del 24 dicembre a Gorfigliano torneranno ad incendiarsi i famosi "Natalecci",le imponenti torri di ginepro alte oltre 15 metri costruite secondo un particolare rituale. Da appassionato di storia non ho che potuto studiare questa usanza che affonda le sue radici nella notte dei tempi. 
Il Nataleccio prima e dopo

Da tempo immemorabile i contadini di ogni parte d'Europa hanno usato accendere falò in particolari giorni dell'anno, il perchè di tutto questo si deve ricercare in riti pagani sviluppati nella nostra valle prevedibilmente dai Liguri Apuani, molto prima dello sviluppo del Cristianesimo.Questi riti del fuoco avevano due particolari funzioni: la prima serviva da purificazione, bisognava distruggere tutte le influenze negative personali,come streghe,mostri e demoni e anche quelle impersonali, come malattie,fatture e infezioni e quindi attraverso il fuoco, elemento purificatore per eccellenza si distruggevano simbolicamente tutti i dolori e i dispiaceri accumulati durante l'anno e si guardava con rinnovata fiducia al nuovo ciclo delle stagioni che stava per iniziare. La seconda funzione era quella di fare festa al sole,queste cerimonie avevano luogo nel
Nataleccio in fiamme
solstizio d'inverno (come oggi a Gorfigliano) quando le giornate piano piano si incominciavano a fare un po'più lunghe, ci si voleva così propiziare attraverso questi fuochi rituali la benevolenza del Dio Sole per assicurarsi la luce del giorno e il suo calore. Molti erano i segnali divinatori che il Dio pagano offriva ai suoi fedeli attraverso il fuoco: dall'intensità dei bagliori delle scintille,dalla direzione del fumo,dal crepitio della pianta di ginepro, si traevano presagi sui raccolti, sulle epidemie e sulle carestie,mentre i tizzoni raccolti il giorno dopo venivano conservati come preziosi amuleti.Da rito pagano a rito simil-cristiano il passo fu breve.Con l'affermazione del Cristianesimo da prima la chiesa cercò di scoraggiare e di proibire questa tradizione del fuoco, non solo in Garfagnana, ma in tutti quei luoghi dove perdurava questa
Papa Leone I
"il Papa anti Natalecci"
usanza e fu così che Papa Leone I nel sermone tenuto nel Natale del 460 così diceva:

"E' così tanto stimata questa religione del sole e del fuoco che alcuni cristiani prima di entrare nella Basilica di San Pietro in Vaticano, dopo aver salito la scalinata, si volgono verso il sole e piegando la testa si inchinano in onore dell'astro incandescente. Siamo angosciati e ci addoloriamo per questo fatto che viene ripetuto per mentalità pagana. I cristiani devono astenersi da ogni appartenenza di ossequio a questo culto degli dei".
Ma sappiamo come vanno le cose e come dice un vecchio e saggio proverbio: "Non c'è nemico oggi, che non possa diventare amico domani" e così la chiesa cristiana cominciò ad associare il sole all'immagine di Gesù, si sottolinearono le frasi del vangelo dove Cristo era paragonato al sole, come ad esempio:"Il suo volto somigliava al sole quando splende con tutta la sua forza" (Apocalisse di Giovanni), si adotterà il monogramma IHS inglobato in un sole fiammante, gli ostensori prenderanno la forma di un disco solare e così ancora si potrebbero fare molti e molti altri esempi.
L'ostensorio e il monogramma IHS
inglobati nel sole

A testimonianza di tutto questo ecco allora entrare in scena Gorfigliano con i suoi Natalecci. Se si domanda oggi a qualche abitante del posto (anche fra i più anziani) quando ha avuto inizio questa tradizione risponderà che non lo sa, perchè probabilmente il tutto ha origine da questi fatti lontanissimi che vi ho appena narrato.Questa cerimonia magicamente vive ancora li e con il passare dei secoli il significato che è stato assegnato a questo rito è stato cambiato per diventare poi quello di riscaldare Gesù Bambino per la sua venuta al mondo. Ma in cosa consistono i Natalecci? Il Nataleccio è una costruzione di forma cilindrica ottenuta conficcando in terra un tronco di legno che nel dialetto locale prende il nome di "tempia" e che può essere di castagno, faggio o cerro, attorno al quale viene "tessuta" una gran quantità di rami di ginepro.Prima di intraprendere la
Nataleccio in costruzione
costruzione però viene individuato un posto in alto rispetto al paese da essere ben visibile a tutti e dopodichè comincia il grande lavoro, dove giovani e meno giovani saranno impegnati assiduamente per mesi, sudando e soffrendo.Va raccolto il materiale e costruito il cilindro che di norma può superare anche i quindici metri di altezza per un diametro di tre-quattro metri. L'abilità sta nel rendere il più stabile possibile questa struttura affinché non cada e altrettanta bravura sta nella "tessitura" del ginepro che garantisce una fiamma duratura poichè la fiamma deve durare oltre venti minuti,alta,ben visibile e senza fumo. Questi erano i criteri secondo i quali veniva giudicato il falò vincitore.Si, perchè questa in passato era una competizione fra quartieri (al tempo erano sette),adesso
Nel cerchio blu è raffigurata
la differenza
fra uomo e Nataleccio
sono tre quelli che tengono ancora viva l'usanza: Bagno, Culiceto e Fanalo. Arriva finalmente così la sera del 24 dicembre e al suono dell'Ave Maria si ha l'accensione dei Natalecci, sempre salutata da scroscianti applausi,urla di gioia e grida beneauguranti che inneggiano al fuoco. Cessate poi le fiamme tutti corrono in piazza dove si commenta l'esito, anche fra vivaci polemiche e anche qualcosa di più...Suggestioni, sensazioni ed emozioni che solo la notte di Natale e la Garfagnana possono dare.

Natale di guerra...nei ricordi di una bambina

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Ci sono delle storie che per tutta la vita rimarranno impresse nella nostra memoria. Sono avvenimenti lontani settant'anni quelle che vi andrò a raccontare e durante questo periodo di festività natalizie mi tornano puntualmente nella testa. Sono racconti a me cari perchè ascoltati in prima persona,sono i ricordi che ogni tanto la mia mamma riviveva,ricordi che riguardano un lontano Natale di guerra, fatto di cose semplici,di valori,di fratellanza, sembra proprio una storia uscita dalle pagine di qualche romanzo di Charles Dickens, invece è una storia vera e la mamma iniziava la narrazione sempre nella solita maniera:

"Questo è un fatto che accadde veramente tanto tempo fa, in un periodo in cui gli uomini stavano con le armi in mano e si battevano tutti ferocemente..."

La mamma volutamente non usava la parola guerra, aveva quasi una specie di repulsione per quella parola, lei l'aveva vissuta sulla propria pelle e al tempo dei fatti in quel tragico 1944 era una bambina di otto anni che decenni dopo raccontava al suo bambino di quell'anomalo Natale. Io la guardavo con aria perplessa, quasi incredula, raccontava di soldati neri,di freddo, di polenta e pensare che ancora mi sembra di sentire la sua voce:

"Ricordo che aveva nevicato di fresco ed ero tutta contenta perchè l'indomani non avrei dovuto andare a scuola, dato che era la
vigilia di Natale. Era un inverno rigido quello, come poche altre volte. Il vento gelido tagliava tutta la strada e la notte stava per calare ma la felicità superava i brividi del gelo e pensavo al presepio che avrei fatto con mia sorella, alle buone cose che avrebbe preparato la mamma e cercavo di individuare cosa ci avrebbe portato in dono il Bambino Gesù e mentre la mia testa era pervasa da mille pensieri mi ritrovai davanti casa. La casa dove abitavo era confinante con un'altra casa che l'esercito tedesco prima, e quello americano dopo usava da rimessa e da garage e proprio mentre m'infilavo nella porta di casa vidi che sul cancello della "casa rimessa" c'erano due soldati di guardia intirizziti, ed un terzo era appoggiato al muro caldo del forno a legna che era nell'aia dove qualche ora prima le donne del vicinato avevano cotto il pane e preparato qualche dolce per il Santo Natale.Il soldato mi guardò mentre entravo in casa e lo vidi sospirare, una volta entrata lo spiai dalla finestra per pura curiosità, erano le prime volte che vedevo dei soldati e questi per il mio stupore erano per giunta anche di colore e io un uomo di colore fino a quei giorni non sapevo neanche come era fatto,ce li avevano descritti sui manifesti come dei selvaggi,come uomini pericolosi,da diffidare sempre e comunque,da tenere lontani insomma(leggi:http://paolomarzi.blogspot.it92a-divisione-buffalo), ma io di tutto questo non vedevo niente,
Manifesto razziale fascista sui
soldati neri americani

vedevo che mangiavano,parlavano e sorridevano come tutti quelli che conoscevo, ma quel giorno in quell'uomo vidi di più, constatai una figura stanca e smunta e intanto che lo osservavo venne colpito da una tosse convulsa e mentre si copriva la bocca con la mano che reggeva il fucile, notai brillare la sua fede d'oro.Smisi così di guardarlo ed entrai in cucina, fui subito assalita da mia sorella anche lei tutta euforica, mi raccontava del presepe e sopratutto del dolce del Natale che la mamma aveva preparato con "farina vera". Dimenticai l'americano visto e mi dedicai la sera stessa e il giorno successivo alle mille cose della Vigilia. Finchè la sera del 24, tutti allegri, ci mettemmo a tavola. Non vedevo l'ora di mangiare, la cena era costituita da piatti speciali:polenta e baccalà, cavolo nero e fagioli bianchi. Dopo cena era il momento più bello quando il babbo tirava fuori i dolci e dava un goccino di vino dolce a tutti,compresi i bimbi, una volta servito tutti faceva così il consueto brindisi:
-In una notte come questa nacque il Redentore. Alleluja!-
ed alzò il suo bicchiere e mentre lo alzava l'anello che aveva al dito brillò. Questo mi fece ricordare il soldato americano nero che tossiva vicino al forno, allora mi domandai: come mai aveva un anello uguale a quello del mio babbo? Ma certo !!! Che sciocca!Lo aveva perchè tutti gli uomini sposati ce l'hanno...e tutti gli uomini sposati hanno dei bimbi. Chissà dove aveva i suoi bambini l'americano...e quanto soffriva a non essere loro vicino. Allora mi accorsi che solo io non avevo bevuto in onore al Natale e che
tutti mi guardavano perplessi. Dissi loro ciò che avevo pensato e quello che avevo visto un giorno prima. Il babbo mi guardò un po' serio, non è che fu molto affascinato dalle mie parole e poi con quello che si diceva...ma la carità cristiana prevalse su tutto, in fondo quei soldati non ci avevano mai fatto niente di male e allora il babbo disse
- Vai a chiamarlo se c'è ancora !-
C'era ancora ma non volle salire. Rimase ancora vicino al forno a scaldarsi e a fare il suo dovere di guardia, poi sicuramente non capiva l'italiano e non comprendeva come mai lo volessi far salire in casa. Tornai in cucina molto delusa, ma mio padre aveva già immaginato tutto e mi porse un piatto con il dolce della mamma ed un bicchiere di vino. Con queste cose mi presentai al soldato dicendogli:
Soldati neri in Garfagnana
- Buon Natale!- mi guardò sorpreso, poi sorrise e mi disse qualcosa nella sua lingua e mentre prendeva i doni mi fece una carezza proprio come il mio babbo. Si allontanò e vidi che divideva i dolci con i suoi commilitoni. Ripresi poi il piatto e il bicchiere vuoto e tornai su a raccontare com'era andata. Il babbo stette a sentire e mentre attizzava il fuoco borbottò emozionato:
- Bene,bene questo è proprio un buon Natale-"

I fatti sopra citati si svolsero a Gallicano.I giorni che seguiranno a questi accadimenti saranno ancora più tristi e drammatici. Di li a poche ore comincerà in Garfagnana la famosa Battaglia di Natale (per saperne di più: http://paolomarzi.blogspot.it//il-piu-tragico-natale-). Gallicano (come molti altri paesi) fu colpito da una serie di bombardamenti alleati devastanti. Quei giorni
di festa del 1944 verranno ricordati come il peggior Natale di cui la Garfagnana abbia memoria.

Da parte mia un sincero augurio di Buone Feste a tutti i miei lettori, nella speranza che questi ricordi rimangano per sempre solo e semplici ricordi, da non dimenticare e di cui fare tesoro.

La Pania racconta.La leggenda della sua croce e dell'orrido Canale dell'Inferno e... una storia di cronaca vera

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Alpi Apuane in una vecchia cartolina
Lassù la montagna è silenziosa e deserta,fra poche ore il nuovo anno si porterà via il vecchio e con esso tutte le delusioni e le amarezze trascorse.Laggiù nella valle nuove speranze e nuovi propositi si faranno vivi nei nostri cuori e per dare il benvenuto alle nostre attese i botti,gli schiamazzi e le feste la faranno da padrona per quella notte, ma loro là in alto ci guarderanno indifferenti e questi veglioni non scalfiranno minimamente la solennità delle Panie, in effetti cos'è per loro un anno? Loro sono li da milioni d'anni, hanno visto passare glaciazioni,terremoti e guerre,miliardi di persone sono passate sotto le loro cime, per loro un solo e semplice anno è come per noi un solo e semplice secondo. Il silenzio della Pania e delle sue sorelle è quasi inquietante in questo clima di
Sullo sfondo il Pizzo
 delle Saette
dove il diavolo viveva
festa, il severo volto del gigante addormentato ci invita a ricordare le antiche leggende che si raccontano dalla notte dei tempi:diavoli, streghe, mostri, strani esseri che a loro volta si intrecciano con il sacro e il profano,senza dimenticarsi poi qualche fatto vero che gli anni hanno trasformato in fiaba. Ecco allora ricordarmi del diavolo che da millenni viveva sulla cima del Pizzo delle Saette, viveva lì arroccato su quei massi,da quella posizione poteva vedere bene quale anima si trovasse sulla cima dell'attuale Pania della Croce, per poi così farla sua preda.Stava sempre avvolto in un mantello nero che usava per volare da una cima all'altra. Un bel giorno il prete dell' Alpe di Sant'Antonio salì sulla vetta della Pania per le rogazioni (n.d.r:preghiere,penitenze e processioni propiziatorie per la buone riuscita dei raccolti) e da lassù cominciò a benedire tutte le cime circostanti, piantò poi sulla vetta stessa una croce per ingraziarsi il buon Dio e allontanare il male. Il diavolo a tale visione si arrabbiò, si agitò, andò fuori di sé così tanto che gettò il suo mantello molto lontano. Andò a cadere sotto la Pania creando di fatto un grande solco dove nessuna erba, fiore o albero vi cresce ancora. Quel luogo oggi si chiama "Canale dell'Inferno" e sempre da quel giorno sulla vetta della Pania non mancò mai più una croce, tanto prendervi poi il nome.Ma leggenda, tradizione vuole che non finisse qui.La corsa del diavolo per scappare alla visione della croce prosegui per le impervie "sassaraie" di Borra Canala, la sua
Il canale dell'inferno
fuga a rotta di collo era talmente precipitosa che inciampò e picchiò una tremenda "culata" sul
le rocce, tanto da lasciarvi l'impronta del culo stesso con accanto tre fori, che corrispondevano alle punte del forcone del maligno, quel luogo inaccessibile prende il nome di "culata del diavolo".Quel posto è legato a doppio filo alla "paura",si dice che gli animali (dotati come ben si sa di sensibilità superiore) non vogliono passarvi. Sempre in quei dintorni successe un fatto di triste cronaca e come spesso succede la cronaca popolare trasforma in leggenda qualsiasi cosa a cui non sappia trovare una spiegazione logica.Al tempo la notizia fece molto scalpore, precisamente non si sa il giorno della tragedia (ad oggi documentazioni certe non ne ho trovate), fatto sta comunque che i primi quotidiani locali riportarono la notizia, quindi credo che grazie a questo dato la potremo collocare intorno al 1880, quando gli uomini salivano nelle notti estive in Pania nella cosiddetta "Buca della Neve",posta proprio sul cammino del Canale dell'Inferno,li in quel crepaccio la neve era perenne e siccome al tempo i frigoriferi non esistevano gli uomini la portavano via avvolta nella paglia per conservarvi quello che credevano più
Antica foto.La Buca delle nave.
 Gli "uomini della
neve" la stanno raccogliendo
opportuno.La notte era il momento migliore per questa operazione,di giorno il sole picchia forte e la neve si sarebbe sicuramente sciolta, ma l'oscurità porta difficoltà e in una di quelle notti una terribile bufera estiva colse un pover'uomo.Acqua e vento lo fecero cadere in un burrone. Il ragazzo era figlio unico di madre vedova e per la donna era la sua unica ragione di vita, gli amici salirono subito il giorno dopo in Pania per cercare il povero corpo ma non vi fu maniera di trovarlo, per giorni le spedizioni continuarono senza esito. La disperazione della madre era tanta, l'idea di non rivedere più vivo il suo ragazzo l'aveva fatta, ma perlomeno sperava di ritrovare il corpo per poterlo piangere dopo degna sepoltura.A quel punto oramai non rimaneva che una soluzione,partire personalmente nella ricerca, sicuramente con l'istinto e il cuore di madre sarebbe riuscita a trovarlo e s'incamminò con il lanternino per il monte.Vagò un  giorno e una notte e la mattina dopo fu ritrovata morta abbracciata ad una roccia. La notizia destò sbigottimento ed emozione nella valle, tanto da trasformare questa storia in mito. Si dice che quando si sta per avvicinare una
La Pania della Croce
burrasca in Pania ancora si riesce a vedere un lumino: -...è la donna con la lanterna che cerca suo figlio...- si mormora nelle case. Così ogni volta che i nuvoloni si fanno minacciosi la lanterna si riaccende, e si vede vagare per canaloni e crepacci, allora tutti si rinchiudono in casa, segno che quella sarà una terribile notte di vento e di pioggia.



Anche questa è una delle tante storie delle Alpi Apuane che da milioni d'anni ci guardano attenti ...

Il canto della Befana: memorie lontane. Dai precristiani, passando dal Rinascimento, fino ai giorni nostri

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"...Vi ringrazia la Befana che l'avete favorita, Dio vi lasci lunga
Incisione di Bartolomeo Pinelli
"La Befana"1821
vita, buone gente state sana ..."

Così si conclude il tradizionale canto della Befana, quando i cosiddetti questuanti ringraziano del dono ricevuto.
Il canto della Befana è una delle tradizioni più diffuse e radicate in tutta la Garfagnana, non c'è paese o paesino dove la sera del 5 gennaio sulla porta di casa non vengano cantate queste folcloristiche strofe.Le origini di questi canti si perdono nella storia più antica, fanno parte di quel bagaglio ancestrale di riti pagani e che i secoli(e qualche Papa furbone...)trasformeranno in religiosi. Ma partiamo dall'inizio e tutto è da ricondurre a quelle feste che prima del Cristianesimo indicavano le scadenze di un periodo agricolo (una infatti cadeva proprio in questi giorni), tutto era legato indissolubilmente al buon andamento del raccolto e alla sopravvivenza della comunità che per favorirsi nuovi e floridi raccolti procedeva liturgicamente con dei canti propiziatori e lo scambio di doni che significavano l'abbondanza, segno inequivocabile di ricchezza nella quantità di frutti che la terra avrebbe (forse) generato in quell'anno. Le cose cambiarono e nel II secolo dopo Cristo, fu istituita la festa dell'Epifania e la gente imparò a tenere il piede in due staffe (un po' come si fa oggi...) da una parte si festeggiava il suo significato religioso,ma dall'altra continuava il suo rito pagano benaugurante. Arriviamo così nel periodo rinascimentale e vediamo ancora che questi canti della Befana sono più che mai presenti nella Valle, si parla in certi
Canti della Befana (foto di Keane
 tratta da "Il giornale di Barga")
documenti che addirittura dopo i canti di questua vengono donate carni di maiale, infatti erano i giorni riconducibili all'uccisione dell'animale e alla conseguente abbondanza di carni che venivano poi redistribuite meticolosamente alle persone più povere.Eccoci così arrivare ai giorni nostri (per "giorni nostri" intendo dire da un paio di secoli ad oggi...)e guardiamo come si svolgevano e si svolgono adesso le befanate .La vigilia dell'Epifania verso il tramonto giovani e meno giovani si riuniscono nella piazza principale del paese per partire per il giro di questua,naturalmente dopo che uno di loro aveva indossato i vestiti da Befana e si era cosparso il viso di cenere per non farsi riconoscere. Ma vi siete mai domandati perchè poi la Befana nella stragrande maggioranza dei casi è sempre interpretata da un uomo? Qui si cade nel maschilismo e nel proibizionismo dei secoli cosiddetti "oscuri", quando alle donne era vietato assolutamente sia recitare che mascherarsi. Ma torniamo però allo svolgimento di questo rito. Almeno uno dei partecipanti doveva avere con se almeno uno strumento musicale, indispensabile  per accompagnare il canto, nella maggior parte dei casi una fisarmonica o un violino, fondamentale era anche la presenza dell'asinello che nelle grandi ceste che portava avrebbe conservato i doni ricevuti nella serata. Aveva così inizio il giro del paese e anche questo non si svolgeva a caso ma aveva un preciso itinerario , prima si cominciava dalle autorità locali e dal prete. Il tutto era guidato da un suonatore che precedeva di pochi passi la Befana e il somaro e dietro stava tutta la compagnia dei befanotti, ci si fermava così di porta in porta e si attaccava con il canto, al termine del quale il padrone porgeva omaggi appositamente preparati per l'occasione: costante era la presenza di noci,nocciole,mandarini e arance. L'ultima parte del rituale prevedeva il canto di una o più strofe di augurio o ringraziamento.Il cerimoniale era, ed è abbastanza consolidato ma poteva (e può) variare per alcuni situazioni particolari. Nel caso che la casa visitata fosse abitata da ragazze in età da marito, i cantori venivano fatti entrare e generalmente si improvvisava qualche giro di danza con le giovani.Anche se si capitava nelle
Le befanate (foto di
Feliciano Ravera,
Fotocine Garfagnana)
osterie e nei bar la situazione era soggetta a piccole variazioni, il proprietario faceva accomodare il gruppo e dopo aver fatto i doni offriva da bere a tutti.Il caso era totalmente diverso se la famiglia da visitare era stata colpita da un lutto. Giorni prima ci si informava se il padrone di casa avrebbe gradito la visita dei cantori, se la risposta era positiva il canto si limitava a poche strofe e se il responso fosse stato negativo la compagnia di befanotti si asteneva dal canto, transitando nelle vicine vie mantenendo il più rigoroso silenzio, anche se poi generalmente il padrone di casa colpito da lutto in qualche maniera faceva giungere il suo dono. Prendiamo poi in considerazione se in paese vi fosse stata una famiglia talmente povera che anche il più semplice dono sarebbe costato loro un enorme sacrificio, il canto propiziatorio si sarebbe svolto comunque. Perchè mai privare una famiglia di questo momento di aggregazione? Anzi i ruoli si sovvertivano completamente poichè i befanotti, buona parte di quanto regalato fino al momento, lo donavano in parte e con generosità alla misera famiglia. Molto raramente succedeva che qualcuno non aprisse la porta all'allegra brigata,perchè sennò effettivamente erano dolori. Un rifiuto era come non voler partecipare alla vita comunitaria, rompere un consolidato codice di comportamento, era punito con insulti e lanci di pietre. Figuriamoci un po', proprio per queste eccezioni ci fu un periodo che le befanate di questua furono proibite, ad esempio a Barga nel 1414, così si legge nel "Liber Maleficiorum" (l'attuale codice penale)

"...per ciascuna persona che ardisca, la notte della Befana, di andare alla casa di qualsiasi persona di Barga a dire quelle disoneste parole,le quali sono state dette per l'adietro,sotto pena di soldi dieci, a ribadire per ciascuna persona e per ciascuna volta che la vigilia dell'Epifania canterà quelle brutte cose che si usano da lungo tempo"
Particolare invece è la befanata di Sassi e di Eglio (comune di Molazzana). Solitamente il canto della Befana negli altri paesi garfagnini non varia di molto ed è quasi sempre uguale, mentre qui già dai giorni precedenti si preparano strofe specifiche per ogni componente della famiglia del paese. Si tratta di un modo di mettere in piazza tutti i peccati,ironizzare sui difetti di ciascuno, raccontare le disavventure occorse durante l'anno, ma la notte della Befana era tutto permesso, i padroni di casa facevano finta di gradire ingoiando amaro, comunque non si rifiutavano mai di donare. Ecco come Alcide Rossi (studioso locale) nel 1966 ricordava questi fatti:
"...al mio paese per il modo i cui venivano fatti i "rispetti"(n.d.r:le strofe dedicate), per
Giovanni Pascoli "La Befana"
quello spirito di spontaneità in cui nascevano tra il goliardico,lo scanzonato ed il rusticano, teneva in fervore tutti i canterini trenta giorni prima del 6 gennaio. Si diventava così tutti poeti...Dovevano essere rivolte affettuose,elogiative per chi donava molti "befanini"(n.d.r.:doni), invece mordaci, caustici, talvolta anche un po'
troppo sfacciati contro coloro a cui l'avara porta non si apriva".

Ma le strofe più belle rimangono quelle di Giovanni Pascoli nel 1897 che da Castelvecchio volle ricordare così la Befana, con il suo più celebre canto:

"Viene,viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda,
Com'è stanca!La circonda
neve,gelo e tramontana"

Lezione di dialetto garfagnino: da un quaderno del 1973 del Gian Mirola

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"Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà", così scriveva Pier Paolo Pasolini. Pasolini vedeva nel dialetto l'ultima sopravvivenza di ciò che è ancora puro e incontaminato e come tale doveva essere protetto. Il dialetto garfagnino, come ho già affrontato tempo fa è un crogiolo di lingue che differisce da paese a paese e per questo va ancor di più tutelato,(leggi http://paolomarzi.blogspot.it/le-origini-del-dialetto.html) figuriamoci poi oggi, dove internet regna sovrano, dove le parole viaggiano nell'aria. Sms e whatsapp, hanno cambiato il nostro modo di comunicare, d'accordo è il progresso che avanza ma ci tolgono il piacere di comunicare guardandoci negli occhi, figurarsi poi parlare il dialetto.Si pensa che il dialetto sia ormai un qualcosa di vecchio,lo accusano di non essere al passo con i tempi, parlato solo dagli anziani o da gente di poca cultura, si considera perciò un qualcosa di non nobile e gretto, invece è la lingua delle nostre origini ed ha una funzione primaria: fa emergere i ricordi.Il dialetto è l'espressione di un popolo è come un abito fatto su misura è come una spugna che assorbe fatti, episodi e luoghi è quella lingua che ci fa capire che apparteniamo ad un certo posto è la nostra carta d'identità e veramente questa volta non potevo esimermi dal fare un articolo sul dialetto garfagnino.L'ispirazione a questo scritto mi viene per due motivi: la prima (pochi forse lo sanno) è che il 17 gennaio ricorre "La Giornata per salvare il dialetto", organizzata dalle Pro Loco d'Italia (UNPLI),pensate nel mondo ogni 14 giorni scompare una lingua locale,portando dietro di sè tradizioni,storia e cultura.La seconda motivazione è che giusto,giusto mi è capitato fra le mani un quadernetto con una simpatica ed ironica lezione di dialetto
Almiro Giannotti, il Gian Mirola
garfagnino del Gian Mirola(n.d,r:noto scrittore e studioso di Eglio, scomparso nel 2001)che non mi potevo tenere solo per me, tale opera andava 
assolutamente diffusa(anche se in parte).Questa infatti che andrò ad illustrare è proprio una lezione come quelle che si fanno a scuola,non manca la grammatica,tanto meno i verbi (a me in parte sconosciuti) e parole quasi ormai scomparse anche dalla bocca dei nostri anziani, il tutto rigorosamente in dialetto. Ecco qua dunque un piccolo sunto.

AVVERBI DI LUOGO

LICCUSI': lì,luogo determinato
LALLADILI':là, luogo indeterminato
DIREGGIO: laggiù, luogo non determinato
DIRESSU': lassù, luogo non determinato
DIRELLA': là, ma inteso per lontano (es: direllà per le Meriche)

MODI DI ESSERE

GRONCHIO: intirizzito, ma anche lento,maldestro
ANNIGHITO: arso dalla febbre, assetato
RINCUJONITO: rincitrullito
LUPPICOSO: cisposo
MACOLOTTATO O PIEN DI MACOLOTTI: tutto lividi

SEI VERBI

SCAGANCIA': sciupare
RUMBICA': ruminare
SPRILLOTTORA':(da prillo) girare intorno facendo perno su se stessi
SPIPINA':andare per il sottile
STINCURI': intirizzirsi
RIGUMBITA': vomitare

FENOMENI ATMOSFERICI

BRUSCIGNA':piovigginare
ROSCIO: rovescio d'acqua,acquazzone
BALFOIA: nevischio portato dal vento
ALBICA': albeggiare
SINIBBIO: vento

CAMPIONARIO PER RAGAZZE DA MARITO

MERENDON: uomo da poco, un sempliciotto
LOFFARO: svogliato
BRENDOLON: che veste male,disordinato sciatto
SCIABIGOTTO: sciocco o meglio un condensato di qualità negative
BISCARO: semplicemente uno sciocco
TESTACCHION o CHIOCCORON : duro di comprendonio

PARTI DEL CORPO UMANO

STOMBICO: stomaco
CUTRION: schiena
GOMBITO: gomito
GIRELLA : rotula
PINELLA: incisivo
UGNA: unghia

e potrei continuare ancora con questo quadernetto, un vero condensato di meraviglia e di parole,modi di dire,analisi fra il serio e il semi serio e quant'altro che solo il genio del Gian Mirola poteva elaborare e a proposito, solo un'altro genio come il castelnuovese Giovanni Giorgi che nel 1892 da il periodico "La Garfagnana" buttò giù d'impeto un'
ironica (è dir poco..) poesia, sottolineando la moda di quel tempo che esortava anche i più ignoranti ad esprimersi nella lingua ufficiale:l'italiano. Il modo di parlare è come il vestito, serviva a distinguere il montanaro dal cittadino:

"Quel che fa la città"

"Se tu vai per el mondo un po' a girare
nun torni,pijo giuramento, pijo:
che montagna è montagna, Baldassare,
e noi si puzza da lontano un mijo.

Ma va in città; s'impara anco a parlà:
chi è tonto nun pensà, diventa spijo.
Guarda le serve! Vanno via somare
e quando tornin su,san dar consijo.

La mi fiola? Nun seppe mai gnente
finchè stiede fra noi; ma nun pensà
fu un colpo solo andà e uno venì dalla città e artornò sapiente.

E adesso quando parla io sto a'scoltà,
se capiscio mi piji un accidente!
So che parla alla moda e un vo' a indagà"


Il dialetto è il collante che ci unisce alle nostre radici, il tenue filo che ci tiene legati alla cultura popolare e alla Nostra Storia. Difendiamolo!!!

Una First Lady degli Stati Uniti d'America sepolta nella Valle del Serchio.La sua tormenta storia e il suo amore lesbo

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La cartolina ufficiale di
Rose Cleveland
First Lady d'America
"Le vie del Signore sono ampie ed infinite",a conferma di questo come si può spiegare che una First Lady degli Stati Uniti d'America sia sepolta proprio nella Valle del Serchio? Ebbene è proprio così, è una storia quasi sconosciuta e come tale è giusto riportare a galla i fatti e ricollocare tutto al suo posto. Lei è Rose Elizabeth Cleveland più semplicemente conosciuta come miss "Libby", nata a Fayetterville,New York, il 14 giugno 1846 e morta il 22 novembre 1918 a Bagni di Lucca e lì sepolta. La sua è una storia controversa,irriverente,era una donna al passo con i tempi e forse anche di più,una donna letterata,sapiente e che probabilmente raggiunse la Valle del Serchio per vivere in pace il suo amore lesbo. Ma andiamo per ordine e incominciamo a raccontare la sua vita nel dire come assunse il ruolo di First Lady. Rose era la sorella di Grover Cleveland il 22°e il 24° presidente degli Stati Uniti d'America(unico nella storia U.S.A ad essere eletto per due mandati non consecutivi). Il democratico Cleveland fu eletto per la prima volta nel 1885 e sedette nella stanza ovale da uomo celibe e da protocollo l'incarico di prima donna spettò alla sorella Rose.Il tutto cominciò però molti anni prima nel 1853 quando la famiglia Cleveland si trasferì in Olanda dove il padre Richard faceva il pastore della chiesa presbiteriana. Sfortuna volle che lo stesso anno morì. Dopo pochi anni i due fratelli Grover e Rose decisero di ritornare negli Stati Uniti lasciando la madre in Olanda. Grover abbandonò gli studi e andò ad insegnare comunque in una scuola per ciechi, mentre la piccola Rose fu indirizzata alla Houghton School di Clinton (New York),dove poi divenne anche insegnante.La ragazzina crebbe in mezzo alla cultura,girovagò molte scuole americane come professoressa, dapprima in un collegio a Lafayette (Indiana), poi a Muncy in Pennsylvania in una scuola femminile, era ricordata da tutti come una donna
Il presidente USA
Grover Cleveland
anticonformista, dalla forte personalità e indipendenza.Ma nel 1880 ci fu la prima 
(di una lunga serie) grande svolta della sua vita.La madre in Olanda non stava bene,così Libby dovette nuovamente raggiungere i Paesi Bassi per prendersi cura di mamma Ann e cominciò di fatto una nuova vita insegnando letteratura in una scuola domenicana.Nel 1882 morì anche la madre, ma ormai la sua esistenza era li, in Europa, la culla della civiltà e della cultura.Scorreva le sue giornate nella lettura di autori greci e latini in una fattoria di proprietà, dimenticata dal resto mondo fino a quando il 4 marzo del 1885 Grover Cleveland fu eletto presidente della nazione più potente del mondo. Rose fu richiamata immediatamente negli States per assumere ufficialmente il ruolo di First Lady,dato che il fratello non era sposato. Un incarico questo è bene capire oggi come allora tutt'altro che di facciata, un incarico non ufficiale ma rilevante, "la padrona di casa" della White House è infatti responsabile di tutti gli eventi sociali presidenziali, ha sempre assunto un effetto dirompente sulla popolarità del presidente,assumendo difatti un ruolo di primo piano nell'opinione pubblica divenendo così una delle donne più importanti del mondo. Ma Libby come si sarebbe trovata in questo ruolo? Si sarebbe subito fatta notare al secondo ricevimento ufficiale alla Casa Bianca. Il New York Times all'epoca riportava:
"...la signorina Cleveland indossava un abito di raso nero,tutto contornato di pizzo spagnolo,il corpetto di raso nero aveva le maniche corte, il pizzo trasparente rivelava le spalle".
Rose Cleveland in un abito
non troppo consono per l'epoca

Insomma fu un grande scandalo nei rigidi schemi di un età vittoriana. Rose non si sentiva a suo agio nella mondanità di Washington, si diceva appunto che:
"Rose Cleveland è un intellettuale più interessata a perseguire gli sforzi accademici rispetto che all'intrattenere mogli di politici o dignitari stranieri".
Esisteva anche il rovescio della medaglia ed è giusto dire che non furono pochi i vantaggi che Rose potè fare suoi, pubblicò così due libri che le fruttarono molti soldi e dette sfogo alla sua passione per il teatro,non mancando mai a nessuna prima.Ma c'era poco da fare la sua vita non era quella,l'amore per suo fratello era molto, tanto da sopportare comunque i rigidi protocolli puritani del tempo.L'amore di Grover però non era soltanto per lei,quando dopo solo quattordici mesi di presidenza il 2 giugno 1886 decise di convolare a giuste nozze con Frances Folsom, quella che anche oggi è considerata la First Lady più giovane di sempre, aveva solo 21 anni.Per Libby fu la fine di una specie di tortura, sarebbe tornata a vivere come a lei piaceva, stavolta non si sarebbe fermata davanti a niente e a nessuno e così fu. La vita dunque continuava e Rose si
Frances Folsom, moglie
 del presidente Cleveland
la più giovane First Lady
di sempre: 21 anni
trasferì a Chicago dove teneva conferenze e dove cominciò a lavorare come redattore in una rivista letteraria,lo stipendio non era un granchè ma i ricavi dei suoi libri gli permettevano di vivere agiatamente,tanto da comprarsi una villetta nella soleggiata Florida e fu li che cominciò a 43 anni la sua storia d'amore.Fuori ormai da ogni pressione della stampa (così credeva) si sentiva libera e iniziò la sua relazione lesbica con Evangeline Simpson una ventiseienne già vedova di un ricchissimo industriale. Naturalmente non poteva che essere una storia tormentata,è difficile vivere la propria omosessualità oggi,figuriamoci alla fine del 1800.Ci furono vari tentativi di fare vita insieme, la loro relazione era osteggiata in ogni dove e andava avanti fra alti e bassi,tanto che ci fu la clamorosa decisione di Evangeline di risposarsi e sposò il settantaquattrenne Henry Whipple vescovo episcopale del Minnessota, nella speranza di mettere a tacere ogni voce e maldicenza, ma il rapporto epistolare fra le due donne continuava più appassionato che mai, cosi scriveva Rose:

"Oh Eva tremo al pensiero di te...Dolce,dolce,non oso pensare quando un giorno ritornerò fra le tue braccia..."
e il momento di ritornare fra le sue braccia ci fu nel 1901,quando il vescovo Whipple (marito di Eva) passò a miglior vita. A quel punto le due amanti erano decise più che mai,volevano vivere in pieno il loro amore, ma non negli Stati Uniti dove sarebbero stati sulla bocca di tutti. Ed è così, a questo punto che entra in scena la Valle del Serchio e Bagni di Lucca. Bagni di Lucca nel XIX secolo era chiamata "Terra di principi e poeti", presso le sue terme(che erano fra le più importanti in Europa)si curavano personalità del calibro di Da Montagne,Byron,Shelley,Heine, Lamartine, quindi quale miglior luogo dove vivere? Un posto ideale nella lontana Italia, una località nascosta fra le montagne,nonostante questo considerata fra quelle più alla moda di quel tempo,frequentata da personalità e gente di cultura, per di più di lingua inglese e fu così che nel 1910 a bordo di una nave della Cunard Line arrivarono in Italia.Dapprima le due donne si stabilirono al Hotel Continentale di Bagni di Lucca e poi
Le due innamorate: Rose Cleveland a sinistra
ed Eva Simpson Whipple a destra
acquistarono una villa in paese. Furono anni bellissimi e raggianti quelli vissuti nella nostra valle da Rose e da Eva, poterono vivere insieme senza problemi, ed anzi si prodigarono molto per la comunità, nel primo conflitto mondiale dopo la disfatta di Caporetto a Bagni di Lucca fu inviato un ingente numero di profughi, le due donne a sue spese misero su un collegio che accolse più di cento ragazzi,inoltre non mancava mai l'aiuto per tutte quelle famiglie che avevano i propri cari al fronte.Ma tutte le belle storie sono destinate a finire e così un triste 22 novembre 1918 Eva, dalle pagine del quotidiano "La Nazione" così annunciava:

"Evangeline Whipple, coll'animo straziato dal dolore annunzia la morte della Miss Rosa.E.Cleveland, sorella dell'ex presidente degli S.U.A (n.d.r:al tempo si usava l'acronimo italiano S.U.A,Stati Uniti d'America e non l'anglofono U.S.A), avvenuta dopo breve e violento morbo il 22 corr.a ore 22. L'adorata salma sarà tumulata nel cimitero anglicano di Bagni di Lucca".
Libby morì a 72 anni di febbre spagnola,l'epidemia che costò sei milioni di morti in tutta Europa.Eva continuò la sua vita a Bagni di Lucca a cui dedicò anche un libro: "A famous corner of Tuscany"(Un
Le tombe gemelle di Rose ed Eva
nel cimitero anglicano
 di Bagni di Lucca
famoso angolo di Toscana),ma i suoi pensieri e i suoi ricordi erano sempre rivolti alla sua amata Rose e alla loro storia d'amore. Eva si unì per sempre a Rose nel 1930 e trovò posto accanto alla sua amata come previsto dal testamento. Oggi le tombe gemelle di Rose ed Eva dominano la collinetta del cimitero inglese della cittadina termale.

Nonostante lo stato di First Lady d'America di Rose, nessuno, né parenti,né conoscenti richiese mai la sua salma di quella che per molti fu una donna scomoda, ma che riuscì nella nostra valle a vivere in pieno la sua libertà.                              
         



Dal diario di Leo Kienwald, ebreo polacco internato a Castelnuovo Garfagnana...

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Erano i primi giorni di febbraio dell'anno passato,erano trascorsi pochi giorni dalla pubblicazione di un mio articolo sugli ebrei internati a Castelnuovo Garfagnana (leggi:http://paolomarzi.blogspot.it/2015/01/27-.html) ed è mia abitudine la sera dopo cena di mettermi comodamente sul divano a controllare tutte le e mail arrivate durante la giornata e fra le varie pubblicità e altrettante futilità nello scorrere con le dita il mio tablet scorgo un cognome familiare alle mie ricerche: Kienwald...Il dottor Eli Kienwald dopo aver letto il mio pezzo mi contattava da Londra. Eli era un discendente della famiglia ebrea omonima di origine polacca fuggita da Castelnuovo nel momento del rastrellamento, evitando così di finire ad Auschwitz. Non vi immaginate la mia meraviglia e il mio stupore.Il dottor Kienwald innanzitutto si complimentava con me per l'articolo, preciso nella narrazione storica dei fatti e stilisticamente ben fatto,inoltre ricercava ulteriori notizie sul soggiorno forzato della sua famiglia a Castelnuovo (notizie che con piacere gli fornì documentandolo anche con varie foto che furono poi pubblicate sulla rivista ebraica Hamaor)).Nel susseguirsi dei giorni a venire la nostra corrispondenza telematica si infittì e si instaurò anche un certo rapporto di fiducia,tale fiducia mi fu ripagata un bel giorno quando con mia grande soddisfazione e onore mi inviò un pezzo di storia veramente unico e toccante: il memoriale di suo padre Leo Kienwald scritto nel 1996, pochi anni prima della sua scomparsa. Il dottor Kienwald mi fece partecipe di questo suo intimo ricordo del padre,
Castelnuovo Garfagnana
fine anni 30
(foto archivio Fioravanti)
un diario bellissimo e particolareggiato nonostante fossero passati cinquantatre anni da quei giorni in Garfagnana. Raccontava di momenti tremendi, di giorni scampati alla morte e donati alla vita. Proprio oggi è "Il giorno della memoria", dove si ricorda l'immane tragedia dell'olocausto e questa è la mia testimonianza o meglio la testimonianza di Leonard Kienwald, attraverso un brano del suo diario dove racconta il girovagare suo e della sua famiglia attraverso le nostre montagne,il rapporto avuto con i garfagnini che lo tenevano nascosto e dove narra dei mille escamotage fatti per sfuggire dalle grinfie naziste.Ma prima un po' di antefatto è d'obbligo per inquadrare bene la situazione.

Tutto ebbe inizio quel disgraziato 4 dicembre 1943 quando arrivò l'ordine dall'Oberkommando der Wehrmatch (comando generale tedesco) dove si ordinava a tutti gli ebrei in domicilio coatto a Castelnuovo Garfagnana di presentarsi il mattino seguente presso la caserma dei carabinieri reali,il motivo non era spiegato. Molto probabilmente il giorno dopo tutte le famiglie ebree della zona si sarebbe presentate se non fosse stato per un maresciallo dei carabinieri che il giorno stesso confidò al dottor Meier (medico ebreo) l'imminente trasferimento della comunità ebraica presso il campo di concentramento di Bagni Lucca.Il maresciallo si raccomandò di avvertire tutti e di darsi alla fuga il prima possibile. In questa soffiata pochi vi credettero, fra questi pochi la famiglia Meier e la famiglia Kienwald che cominciò la sua fuga sulle montagne.

Dalle memorie di Leo Kienwald

"Eravamo arrivati a Castelnuovo in confino libero il 4 novembre 1941 da un campo internamento forzato in provincia di Cosenza. Personalmente vi rimasi solo un paio di mesi perchè nel frattempo ricevetti il permesso di recarmi a Padova per terminare gli studi. Ritornai a Castelnuovo dopo l'otto settembre '43 quando i tedeschi entrarono in Padova. A Castelnuovo vivevamo abbastanza tranquilli fino a quel maledetto 5 dicembre 1943
Il girovagare in Italia
da un campo d'internamento
all'altro della fam Kienwald
Il cielo era grigio,quasi un segno della tragedia incombente. Perchè gli altri sono tutti finiti ad Auschwitz.E sono morti.  Noi,padre,madre e due ragazzi,camminavamo su una strada sterrata,nella Valle Turrite,nella direzione opposta a quella della caserma dei carabinieri.Il giorno prima era stato impartito un ordine:presentarsi quella mattina alle otto.Un'ora prima ebbi ancora un fuggevole incontro con Elizabeth,tentai di convincerla a seguirmi,non poteva abbandonare la madre. Qualche anno fa la ritrovai nel "Libro della Memoria",ebbi così la conferma del tragico destino suo e degli altri internati a Castelnuovo Garfagnana. Che sarebbe stato il mio,il nostro.
Eravamo in fuga. In assoluto silenzio camminavamo su quella strada e non ci voltavamo,fuggivamo senza saperlo,dall'orrore, incontro all'ignoto,sapevo solo che dovevamo arrivare ad un certo punto dove si doveva attraversare il torrente. Ci arrivammo dopo circa quattro ore di cammino,attraversammo il torrente e cominciammo a salire nel bosco,al calar della notte arrivammo ad una capanna. Pioveva e ci sistemammo su paglia e foglie di castagno,il tetto tratteneva in parte la pioggia,bagnarsi non importava. C'era un solo pensiero salvarsi. Il mattino dopo ci rimettemmo in cammino salendo per la montagna senza precisa meta,raggiungemmo infine alcuni casolari. Era Colle Panestra. Ci presentammo come sfollati da una città bombardata in cerca di un rifugio,non avevamo nè documenti,nè soldi,solo le ultime carte annonarie di Castelnuovo. Trasformai il cognome Kienwald scritto a mano in "Rinaldo",un nome straniero poteva destare sospetti. Fummo infine accolti da una famiglia nei pressi di Fontana Grande a Piritano di Sotto,allora sapevo solo che ci trovavamo sull'Alpe di S.Antonio. Mio padre e mia padre dormivano in una camera messa a loro disposizione,a noi ragazzi diedero una capanna nel bosco dove si raccoglievano le foglie secche di castagno,ricevemmo una lampada ad acetilene e due coperte,scavammo un giaciglio nel cumulo delle foglie e ci avvolgemmo nella coperta. Il vento fischiava attraverso i tronchi della capanna,era dicembre, ma come era caldo quel letto naturale. Ricordo con commozione la bontà di quelle persone,ma non potevamo approfittare a lungo dell'ospitalità. Ci mettemmo quindi in cerca di un casolare abitato e lo trovammo a Pasquigliora non lontano da Colle Panestra. Era il casolare di un pastore, che prima della guerra portava su le pecore dalla Versilia. Il casolare era attrezzato giusto per quattro persone,ma non mancavano materassi,coperte e cuscini.Il custode del
Pasquigliora oggi, in inverno,
dove i Kienwald si stabilirono
(foto Emanuele Lotti)
rifugio Rossi, sotto la Pania della Croce abitava a Pirano di Sotto e si offrì di salire al rifugio con noi ragazzi per prelevare quanto occorreva per soggiornare. Fu un escursione memorabile, non avevamo le scarpe adatte. Lassù la neve era ghiacciata e non fui in grado di arrivare al rifugio,i cristalli di neve mi facevano girare la testa. Attesi il ritorno del custode e di mio fratello che portavano il materiale sulle spalle,presi anch'io una parte del carico ed iniziammo la discesa come meglio potevamo ed era inevitabile che scivolassi con il carico e solo per miracolo evitai di precipitare fermandomi all'ultimo secondo con i piedi contro le rocce,i pantaloni sul fondo schiena erano spariti. Potemmo così preparare i letti, ma non mi ricordo se abbiamo rimediato anche le lenzuola. La cucina sotto era grande e c'era un bel caminetto,c'erano paioli,scodelle e quant'altro serviva. Andammo nel bosco a procurare fascine di legna, imparammo a portare i carichi sul collo calzando sulla testa una specie di cuscino,occorreva tanta legna anche per scaldarci. Incominciammo a lavorare per i contadini che in compenso ci regalavano farina di castagne e qualche salsiccetta e addirittura fino all'esaurimento delle carte annonarie potevamo comprare un po' di pane,ma essenzialmente ci nutrivamo di castagne.

L'inverno incominciava ad essere veramente duro quando fuggimmo da Castelnuovo non portammo quasi nulla.Gli effetti personali erano rimasti in un baule lasciato nella casa e non si poteva superare l'inverno senza quegli indumenti, bisognava in qualche modo recuperarli.Un abitante di Castelnuovo con il quale mio padre si mise misteriosamente in contatto andò in quella casa, ruppe i sigilli applicati dai carabinieri,prese il baule,lo caricò su un mulo e ce lo portò su. Mio padre gli regalò parte del contenuto. Vivevamo dunque in quel casolare a circa 1000 metri di altezza,la principale preoccupazione era procurarsi da mangiare e la legna per scaldarsi era compito di noi ragazzi. Mio fratello era minore di
Castelnuovo Palazzo Littorio
attuale caserma dei carabinieri
(foto collezione Fioravanti)
quattro anni e aveva sempre fame,i contadini erano generosi e la farina di castagne non mancava mai,imparammo a fare la polenta nel paiolo, a versarla sul piatto di legno e a tagliarla con la cordicella. Non volevamo essere mendicanti,facevamo i lavori per loro,il più terribile era caricare sul collo il cesto di letame per andare a spanderlo nei campi,la sera bisognava sottoporsi ad un intenso lavaggio. Passarono i mesi,passò l'inverno,non sapevo nulla allora di Auschwitz,avevo però la sensazione di essere scampato insieme ai miei ad un terribile destino. Spesso mi chiedevo dov'era finita Elizabeth.Certo è difficile vivere come animali braccati, in condizioni estreme.Oggi posso dire che era bello. Ero libero,eravamo liberi, in mezzo alla natura. La dignità d'uomo non era persa, ne la propria identità,non sapevo però come sarebbe andata a finire. Si viveva per sopravvivere..."


Il memoriale continua ancora, arriveranno giorni bui e veramente difficili, ma fra mille peripezie e altrettante brutte avventure la storia avrà il suo lieto fine.A me comunque piaceva fra le altre parti del diario questo brano in modo particolare perchè denota la bontà d'animo del garfagnino, pronto ad aiutare chi ha bisogno, infatti una serie di personaggi rimarranno indimenticabili per la famiglia Kienwald: dal maresciallo dei carabinieri che fa la soffiata, ai contadini pronti a dividere il cibo con quelli che erano degli sconosciuti, per arrivare al custode del rifugio Rossi che rischia la vita insieme a loro per rimediare alcune coperte.

I Kienwald non fecero ritorno in Polonia,come ebbi a dire, ma proprio grazie alle notizie avute di prima mano dal dottor Eli, oggi posso finalmente chiarire la situazione. 
Una volta riusciti a consegnarsi agli alleati, la famiglia alloggiò in un campo di sopravvissuti a Lucca,poi a fine conflitto furono trasferiti a Roma. A quel punto l'intera famiglia pensò di andare in Israele e a questo scopo furono condotti in un campo di attesa(hachshara),dove molti ebrei aspettavano il loro turno per essere accettati nel nuovo Paese. Qui Leo incontrò quella che sarebbe diventata sua moglie (la signora Celeste De Segni) e si sposarono nel 1946, decidendo di fatto di rimanere a Roma, luogo di nascita del dottor Eli Kienwald e di sua sorella Tamara.
Nel 1966 Leonard Kienwald fu insignito dallo Stato Italiano della Croce al merito di guerra, ma il suo pensiero era sempre rivolto agli ebrei di Castelnuovo,tutti morti nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

"Gli uomini della neve": un antico mestiere sulle vette delle Apuane

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Cosa c'è di più semplice che aprire il proprio frigorifero nelle
Vecchissima foto.
I leggendari "uomini della neve"
 in azione nella Buca della Neve
ai piedi della Pania della Croce
giornate di calura estiva e bersi una bella e dissetante bibita ghiacciata? Cosa c'è di più naturale che aprire il proprio congelatore e scegliersi di farsi una bella e succulenta bistecca? Gesti,abitudini e consuetudini che oggi sono all'ordine del giorno,ma è stato sempre così? Direi proprio di no. Il problema di conservare il cibo è sempre stato un assillo per i nostri avi, già le cibarie non erano molte, figuriamoci poi se quel poco che c'era ci si poteva permettere di farlo andare in malora. Come fare allora? Premettiamo naturalmente con il dire che il frigorifero non esisteva e che i metodi di conservazione del cibo svariavano notevolmente. Un metodo assai usato in Garfagnana era la salatura,l'estrema salinità impediva la crescita di muffe e batteri, inoltre alcune spezie rallentavano la decomposizione delle carni (la preparazione dei salumi si basa su questo procedimento), un altro modo di conservazione era l'essiccatura,questo procedimento però veniva usato su alcuni alimenti come frutta o carne, infatti in assenza di acqua, muffe e batteri non crescevano. Un'altra opzione consisteva nell'affumicare gli alimenti,oltre che ad essiccarli più in fretta i residui di fumo ostacolavano ulteriormente il proliferarsi dei germi.Infine un ultima possibilità da attuare solo nelle zone di montagna come la Garfagnana era di seppellire il cibo nella neve, oppure raccogliere la stessa e riempire le cantine o delle piccole grotte naturali, realizzando di fatto una primitiva ghiacciaia, ed ecco così per questo motivo nascere nella nostra valle un antico e durissimo mestiere che vede le sue origini dai primordi dei tempi e la sua fine con l'avvento del frigorifero nel secondo dopoguerra. Le persone che intrapresero questo lavoro erano conosciute a tutti come "gli uomini della neve" e questa è la loro storia.

"Gli uomini della neve" erano persone adibite a raccogliere la neve per poi venderla a chiunque ne avesse bisogno per mantenere i propri viveri, non svolgevano la loro professione in inverno(come si
I resti di un vecchio "frigorifero"
di una volta,
qui si conservava la neve e il cibo
potrebbe credere), quando più o meno la neve era a disposizione di tutti i garfagnini e i viveri si mantenevano comunque, ma il loro impiego si svolgeva in estate...Ma la neve d'estate dov'era? In estate conservare il cibo era un problema,le alte temperature che anche nella buona stagione si fanno sentire in Garfagnana non aiutavano i nostri nonni a conservare le cibarie, non bastavano le fresche cantine areate, serviva la neve e quale miglior posto esisteva che la famosa Buca della Neve? Questa cavità è una dolina che si trova nelle Alpi Apuane a 1680 metri di altezza, ai piedi (più o meno) della Pania della Croce,la si può raggiungere inerpicandosi per il Canale dell'Inferno,la troviamo sul fianco sinistro del vallone stesso, lì la neve c'è tutto l'anno(o meglio c'era...), adesso gli inverni miti e piovosi e le estati calde hanno fatto si che sia quasi scomparsa,ma una volta ci rimaneva abbondante anche in estate 
a causa proprio della sua posizione riparata e proprio grazie a questo squarcio nelle Apuane  come detto nacquero "gli uomini della neve".Già li troviamo citati in documenti del 1678 ma questa attività è sempre esistita e specialmente era rivolta a rifornire gli abitanti della bassa Garfagnana.Maestri in questo mestiere erano gli abitanti di Fornovolasco che spesso entravano in "concorrenza" e in litigio con gli uomini della montagna versiliese per problemi di "sconfinamento territoriale".I garfagnini
La "Buca della Neve" oggi in estate
sostenevano che la buca era dalla parte garfagnina appunto, mentre i versiliesi sostenevano a loro volta che la montagna era di chi la frequentava e che poi la neve era talmente abbondante che c'era per tutti, l'accordo con buona pace di tutti fu raggiunto concedendo anche a quelli di Fornovolasco di poterla vendere in determinati luoghi della Versilia, descrive bene di questo Francis Vane un baronetto inglese fra i fondatori del movimento scout nazionale nel suo libro del 1908 "Walk and people in Tuscany" (n.d.r:"Passeggiate e popoli in Toscana"), a dimostrazione di questo ancora oggi a 1700 metri d'altitudine esiste il "Passo degli Uomini della Neve" che ricorda il passaggio di queste persone che andavano e venivano dalla Garfagnana al mare con i loro carichi di coltre bianca. Il lavoro era faticosissimo e si svolgeva in parte anche in inverno, non per vendere ma bensì si cercava il modo e la maniera che la buca potesse raccogliere quanta più neve possibile,allora succedeva che cessate le giornate con grandi nevicate a turno un manipolo di uomini si avventurasse su per la Pania fino a raggiungere la famigerata apertura, una volta arrivati sul posto si entrava nella dolina e si cercava di pressare la neve fresca saltandoci sopra o battendola in qualche maniera, in questo modo il manto bianco si compattava e faceva si che l'estate successiva la buca ne conservasse ancor più. Ma il lavoro vero veniva con la buona stagione,vecchie testimonianze ricordano queste figure di uomini curvi sotto misteriosi carichi coperti di iuta, armati di accettino, con questo accettino si incominciava a tagliare la neve e a farci dei pani che venivano messi dentro balle di iuta con foglie e paglia,in modo da fare una sorta di isolante. Appena pronti si ripartiva per il fondovalle (superando dislivelli anche di 1300 metri)per venderla a chi ne avesse fatto richiesta.La neve infatti andava ordinata, naturalmente non la si poteva vendere al banco del mercato, ma veniva portata
Il Passo degli Uomini della neve 
direttamente a casa del cliente. Tanto per rendere bene l'idea, per portare a valle e quindi al cliente 10 kg di neve ordinata(che sono già molti) bisognava partire dalla montagna con ben 40 Kg sulle spalle poichè lungo il tragitto si sapeva grosso modo quanta se ne sarebbe sciolta, il tutto per due spiccioli, ma in tempo di magra anche quei due spiccioli erano fondamentali per la sopravvivenza della famiglia, pensiamo poi a tutto il lavoro che c'era dietro e le tribolazioni.Le faticose camminate talvolta erano anche pericolose spesso fatte con scarponi di fortuna ridotti al lumicino, ma le vere conseguenze di questo mestiere per questi uomini si rivelarono con gli anni quando la maggior parte di essi venivano colpiti alle mani da un abnorme gonfiore in corrispondenza delle nocche. Non ci voleva molto a capire che quello era il frutto dell'azione combinata di fatica e artrosi deformante per mani che non conoscevano mai estate.

Il boom economico degli anni 50 sancì definitivamente la fine di un mestiere che durava sicuramente da tempi remoti ad eccezion fatta per alcuni gelatai della Versilia che ancora desideravano fare il loro gelato con la neve della Pania.Nel 1951 l'Italia produsse 18.500 frigoriferi, nel 1957 la cifra era di 370.000 mila e nel 1967 di ben 3.200.000 mila. L'Italia era diventata il primo produttore europeo di elettrodomestici e già tutti c'eravamo dimenticati di chi per millenni con la loro fatica ci aveva permesso di conservare i nostri cibi.

Una lunga storia d'amore (e odio), durata quattro secoli fra la Garfagnana e il Ducato di Modena

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Fu una bella storia d'amore,fatta di corteggiamenti, ammiccamenti,
Particolare carta geografica del 1644
 Ducato di Modena (proprietà Marzi Paolo)
un amore nato e voluto fortemente da ambedue le parti che non poteva sfociare che in un matrimonio che durò più di quattro secoli,molti parlarono però di un matrimonio di interesse per entrambi (forse a giusta ragione), naturalmente in questo intimo rapporto ci furono alti e bassi per l'amor di Dio non ne discuto, ma comunque ci fu sempre fedeltà, almeno in apparenza, ma come si sa tutte le belle e durature storie d'amore finiscono purtroppo con la morte di un coniuge e fu così anche in questo caso.Questa praticamente è la storia d'amore fra la Garfagnana e il ducato di Ferrara prima e di Modena dopo. Ci siamo mai domandati come abbiano fatto i destini di Modena ad incrociarsi con quelli della Garfagnana? Sarebbe stato più naturale Lucca (che sfidò più volte Modena con fortune alterne), Pisa, Firenze, al limite Genova, ma da Modena seppur confinanti eravamo separati dagli Appennini, che interesse poteva avere questo regno per questa selvaggia regione? Ma questa storia d'amore come è giusto che sia cominciamo a raccontarla dall'inizio. 

Dopo alterne vicende guerresche intorno all'anno mille che non stiamo oggi qui a raccontare fra Papi, imperatori longobardi,nobili casate, alleanze varie e territori prima unificati e poi separati, prese stabilmente potere la Repubblica Lucca intorno alla fine del 1300 che si annesse la Garfagnana per aumentare il proprio potere nei confronti di Pisa e Firenze, così la nostra valle fu terra di conquista del famoso condottiero ghibellino e lucchese Castruccio Castracani. I lucchesi come è giusto dire diedero stabilità politica e sociale a tutta la Garfagnana, fecero "abbassare la testa" ai signorotti locali che pretendevano potere, a loro volta invece pretesero salatissime tasse dalla povera gente, tutto questo fino al 1328 quando l'impavido e forte condottiero Castracani muore. Lucca perde il suo uomo di punta e i suoi nemici limitrofi rincominciano a riprendere coraggio, così i fiorentini prendono piede nel barghigiano, i Malaspina forti di antichi diritti e di un recente privilegio avuto da Arrigo VII imperatore del Sacro Romano Impero si estendono nei vicariati lucchesi di Camporgiano e Castiglione, mentre nello stesso momento ecco spuntare dalle cime degli Appennini provenienti dai confinanti territori del Frignano le truppe estensi, convinte più che mai ad invadere e conquistare la Garfagnana.
Particolare della Garfagnana estense del 1527
(carta geografica in copia prop.Marzi Paolo)
Ritenevano infatti la nostra valle fondamentale per gli sviluppi dei loro commerci perchè i lungimiranti regnanti prima ferraresi e poi modenesi consideravano fra le altre cose la Garfagnana una perfetta testa di ponte per arrivare al mar Tirreno e ai suoi mercati (riuscirono in questo intento però molto tempo dopo nel 1741), così entrarono nella nostra bella valle senza (o quasi) colpo ferire e nel 1429 i comuni garfagnini fecero atto di dedizione agli Estensi e al marchese di Ferrara Niccolò III d'Este solo dopo infinite trattative diplomatiche che portarono a vari accordi, primo fra tutti la minor spettanza di tasse e gabelle varie da pagare non con scadenza fissa ma sopratutto da elargire in base al ceto sociale. Questa nuova intesa fu accolta da tutta la popolazione con estremo entusiasmo e così senza indugio i garfagnini strinsero metaforicamente la mano alla esosa Repubblica di Lucca dicendogli "arrivederci e grazie", buttandosi così senza se e senza ma nelle braccia dei modenesi.Gli Estensi presero quindi il potere stabilendo a Castelnuovo Garfagnana la residenza del governatore.Ma però non fu altrettanto per tutti i comuni, per alcuni di questi l'amore non sbocciò e applicarono la forse saggia regola  di "chi lascia la strada vecchia per quella nuova sa cosa lascia ma non quello che trova",di questo motto si fecero forti i comuni di Minucciano e Castiglione che rimasero con Lucca, mentre Gallicano dapprima accolse con benevolenza i nuovi padroni e poi pentitosi della scelta, tempo dopo tornò al primo amore (Lucca).Da questo momento la Garfagnana si trovò divisa fra Lucca e gli Estensi con tutte le conseguenze che poterono derivare da queste terre di confine.Ma adesso per essere un po' più esaustivi facciamo una piccola parentesi e guardiamo velocemente un po' più da vicino chi erano questi Estensi che stabilirono il loro governo in Garfagnana per circa 430 anni. Gli Estensi, in passato detti Este o d'Este furono una famiglia che prese il nome da Este (comune in provincia di Padova) loro feudo fra il 1056 e il 1239, fu una famiglia molto scaltra perchè nonostante tutto seppe mantenere come si suol dire il piede in due staffe, da una parte non pestava i piedi all'imperatore, mentre dall'altra in certi casi riusciva anche ad accontentare il Papa di turno, tant'è che la sua prima capitale fu Ferrara, terra soggetta alla chiesa, mentre le sue altre due principali città Modena e Reggio erano influenzate al Sacro Romano Impero, ottenendo per questo titoli e favori sia da una parte che dall'altra. Ma arrivò anche il momento di restituire questi favori quando Papa Clemente VIII nel 1598 reclamò di rientrare in possesso del feudo di Ferrara, giustificando ciò con una questione di
Particolare cartina politica
 d'Italia del 1850
si può notare il Ducato di Modena
in verde chiaro (proprietà Marzi Paolo)
successione illegittima ed "impura" riguardante la famiglia d'Este. Ci furono un po' di diatribe sul caso, ma quando il Papa fece arrivare il suo potente esercito alle porte di Faenza,le truppe ducali si ritirano in buon ordine. Gli Estensi quindi rimasero titolari "solo" di Modena e Reggio e delle varie province(fra le quali la Garfagnana), l'imperatore Rodolfo II a differenza del Papa riconobbe legittima la successione in causa e così  Modena divenne la capitale del rinnovato stato.Finita questa parentesi torniamo ai fatti per dire che ormai passavano i secoli e fra illustri governatori (vedi Ludovico Ariosto e Fulvio Testi) e vicende più o meno belle, gli Este mantennero comunque saldo il loro potere fino al 1806 quando sull'Europa si abbatte come una furia il ciclone Napoleone e spezza la locale dominazione estense che durava ininterrotta ormai da 377 anni e il 30 marzo del medesimo anno con decreto imperiale i francesi ci inseriscono nel nuovo principato lucchese dei Baciocchi, sotto il diretto potere dell'illuminata sua sorella Elisa Bonaparte. Passano all'incirca otto anni e nel 1814 l'impero napoleonico si dissolve, le truppe britanniche comandate da lord William Bentinck si muovono alla volta di Lucca, provocando la fuga della sovrana e la fine del suo stato. Il congresso di Vienna instaurato per rimettere a posto tutti pezzi del puzzle nell'Europa sconvolta da Napoleone, riportò tutto ( o quasi) al suo posto e anche la Garfagnana potè tornare al suo originario amore(gli Estensi), ad esclusione ancora delle vicarie lucchesi di Castiglione, Minucciano e Gallicano che da amante fortemente indeciso e incerto tornerà però sotto il Ducato di Modena nel 1847 in base al Trattato di Vienna. Ma ormai i venti risorgimentali spiravano forte già da qualche anno.Il 1848 fu l'anno della svolta,in tutta la penisola cominciarono le rivolte contro i vecchi poteri,e le idee liberali di un Italia unita cominciarono a far breccia nelle teste dei garfagnini, rimasti fino a quel momento caparbiamente fedeli al Ducato di Modena. La scintilla della protesta scoccò definitivamente nell'aprile del 1859 quando il Piemonte savoiardo rinnovò la guerra all'Austria, all'unisono
 si rivoltarono le popolazioni di Massa Carrara e di Garfagnana. Il 26 aprile le truppe piemontesi invasero Massa ed esattamente un mese dopo (il 27 maggio) Vincenzo Giusti commissario straordinario del Re di Sardegna entrava in Gallicano e prendeva possesso in nome di Vittorio Emanuele del paese stesso e di tutta la Garfagnana. Francesco V ultimo duca estense si ritirò a Modena, ma l'undici giugno fu costretto ad abbandonare per sempre i suoi possedimenti. Fu così sancita la morte di un ducato che in Garfagnana durò per più di quattro secoli, più di qualsiasi altra dominazione, più della storia stessa della nostra Italia unita (solo 154 anni). Finì così per sempre questo amore fra il ducato e la nostra valle, ma è giusto e curioso dire che il flirt con Modena non terminò qui, ma continuò ancora con l'Italia quasi unita Spieghiamoci meglio però.
Una volta fatta l'unità bisognava ridisegnare amministrativamente le regioni, in previsione dell'annessione definitiva al regno di Sardegna.La Garfagnana con un decreto dittatoriale di Carlo Farini del 1859 fu incorporata proprio per tradizione e storia all'Emilia,
Quando la Garfagnana faceva parte dell'Emilia
carta geografica politica del 1863,
 si posso notare benissimo in rosa
 i confini emiliani
(proprietà Marzi Paolo)
suo capoluogo di provincia tornò ad essere Modena. La provincia di Modena si trovò così divisa in circondari (n.d.r: sotto province), uno di questi circondari faceva capo a Castelnuovo che sotto di se aveva altri tre mandamenti (n.d.r:comuni). Guardiamo come erano divisi:


Mandamento I di Camporgiano

Camporgiano,Careggine,San Romano,Vagli di Sotto 

Mandamento II di Castelnuovo Garfagnana

Castelnuovo,Castiglione,Fosciandora,Pieve Fosciana,Villa Collemandina

Mandamento III di Gallicano

Gallicano,Molazzana,Trassilico,Vergemoli

Mandamento IV di Minucciano

Minucciano,Giuncugnano,Piazza al Serchio,Sillano

Carta politica del 1920. La Garfagnana
 in Toscana ma in provincia di Massa
(proprietà Marzi Paolo)

Per farla breve si rimase emiliani e modenesi a tutti gli effetti per ben 11 anni, nel 1871 cessò per sempre il nostro rapporto con Modena e l'Emilia e finalmente questa revisione delle regioni fu compiuta e fummo così aggregati alla provincia di Massa (non ancora a Lucca,ci si arrivò solo nel 1923) e di conseguenza per la prima volta anche alla nostra bella e amata Toscana.

I tesori nascosti sulle Apuane. Così ci dice la leggenda...

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Diciamo la verità, chi adulto o bambino che sia in cuor suo non si è mai sentito il pirata Long Jhon Silver o un più attuale Indiana Jones? Una delle fantasie più grandi è andare alla ricerca di un tesoro perduto, libri e film ci hanno sempre aiutato a sognare in queste illusorie chimere di vivere in un  romanzo come quello di Luis Stevenson, "L'isola del tesoro", o essere protagonisti di un film come  "I predatori dell'arca perduta". Abbiamo visto in questi tesori lontani, scoperti in posti esotici l'apparente pacificazione dei nostri desideri più nascosti.Ma per partire alla ricerca di questi tesori ad esempio, bisogna andare per forza nelle Antille francesi? O magari in qualche recondito angolo dell'Africa nera? O forse nelle umide foreste equatoriali? Non c'è una soluzione più pratica per chi volesse far poca strada senza spendere tanto? In effetti qualcosa in tal senso per alcuni pigroni locali la Garfagnana e le nostre Apuane offrirebbero, non si tratta altro che di leggende per l'amor di Dio, ma come dico sempre io in ogni leggenda un fondo di verità c'è sempre, seppur minimo e infinitesimale ma c'è. Non per questo dico di partire zaino in spalla e via su per i monti, io dico sopratutto di leggere e apprezzare la bellezza, la poesia e la fantasia che hanno le nostre storie locali. Queste che vado a narrarvi sono tre leggende, quasi ormai perse (e per fortuna recuperate) dislocate in varie zone delle Alpi Apuane:la Tambura, la Pania e il Procinto e parlano tutte di ricchezze nascoste.

L'ORO DELLA TAMBURA
La vetta della Tambura

Lassù, in fondo a uno dei canali che fiancheggiano la Tambura si dice che vi sia un giacimento d'oro, ma c'è un altra suggestiva ipotesi che racconta di un consistente tesoro portato li dal mare, dai predoni che solcavano le coste versiliesi cinquecento anni fa. Ad avvalorare questa tesi c'è la storia di un cavatore di Vagli che un dì del 1915 a pochi giorni dallo scoppio della I guerra mondiale andò a refrigerarsi proprio in un pozzo in fondo a questi canali della Tambura e con grande meraviglia vide qualcosa che brillava alla luce del sole. Era una vera moneta d'oro,l'entusiasmo del cavatore andò alla stelle per quella moneta venuta da chissà dove e questo bastò per correre in paese e informare la famiglia dell'accaduto, ma come sapete nei piccoli paesi occhi e orecchie sono dappertutto e in meno che non si dica la voce del ritrovamento si era sparsa in ogni dove. La domenica successiva arrivarono uomini da ogni versante apuano per cercare il tesoro, le ricerche continuarono per giorni e giorni senza trovare nemmeno l'ombra di un centesimo bucato. I giorni passavano e il sogno del tesoro nascosto man mano si affievoliva, ma le credenze invece sono dure a morire e esiste ancora il mito di una buca nascosta e profonda nei pressi del Passo Tambura, all'entrata del quale è scolpita l'immagine di un diavolo che indica senza dubbio il punto preciso dove si trova il tesoro. Lascia perfino al fortunato avventuriero di impadronirsi della cospicua fortuna, ma a patto di fare in fretta poichè al primo udire di campane di qualsiasi paese nelle vicinanze, le rocce si richiuderebbero per non riaprirsi prima di sette lunghi anni. Qualcuno giura che invece la maniera per impossessarsi delle monete d'oro sia quella di contarle tutte, ma un'incantesimo rende impossibile la prova e così le monete sono ancora nel ventre della Tambura, ma profezia dice che un giorno qualcuno riuscirà a sciogliere l'incantesimo e sulle Apuane non ci sarà più nè fatica,nè povertà.

LE PATATE D'ORO
Costa Pulita (foto tratta dal blog Montagnatore)

Si è favoleggiato un tempo che dallo "sfasciume" di sassi che scende dalla Pania vi fosse qualche bagliore giallastro, chissà, monete d'oro o forse pepite.In effetti è la strana sensazione che ancora oggi colpisce il camminatore che passa per quelle aride "sassaraie", gli sembra di essere colpito da un lampo dorato. Eppure un fondo di verità ci deve essere se è vera quella leggenda che un tempo raccontava la gente di montagna di quel contadino di Fornovolasco che aveva un campo di patate poco sopra il paese, un posto quello dove in verità non ci passava nessuno perchè a quanto pare "ci si sentiva qualcosa".Una mattina di buon'ora il contadino andò a levare le patate per poterle andare a vendere in Versilia,dopo che le ebbe sistemate nelle ceste le caricò sul dorso del mulo e si incamminò. Per accorciare la strada prese in direzione della Costa Pulita passando per i prati di Valli, ma all'improvviso nell'inerpicarsi su per la montagna il mulo si fermò, non voleva saperne di avanzare neanche di un solo centimetro. Il contadino provò quindi a tornare indietro e la bestia si muoveva agilmente, ma come faceva per riprendere la salita si puntava inesorabilmente. Il pover'uomo si infuriò e cominciò a bastonare il malcapitato animale, ma si accorse però che il mulo a ogni piccolo passo, faceva un immane fatica, il contadino capì restando a bocca aperta che più l'animale saliva più il carico di patate aumentava. Intanto il pomeriggio diventava cocente e il sole cominciava a picchiava forte,l'uomo era esausto, il mulo ancor di più e la situazione era veramente difficile, il contadino allora si vide costretto a prendere l'amara decisione di vuotare le ceste, ma con grande meraviglia quelle che vide ruzzolare giù per il monte non erano patate, bensì delle grosse pepite d'oro.Invano l'uomo cercò di recuperarle ma ormai si erano tutte frantumate in polvere, non era possibile recuperarne neanche un pezzetto. Ecco perchè chi passa di li ha la sensazione di vedere i riflessi dell'oro è tutti ciò che rimane del tesoro del contadino.

IL TESORO NASCOSTO NELLA TORRE
Il Monte Procinto

C'è un solo giorno dell'anno, ad un'ora ben precisa che secondo leggenda il monte Procinto si trasforma in torre, dentro la quale è custodito un tesoro favoloso.Questa storia fu ascoltata una sera a veglia da un soldato che si trovava a casa in licenza e rimase sorpreso da quanto era successo a quel capitano che aveva sentito raccontare la medesima storia da un vecchio del paese e si era quindi voluto mettere alla ricerca del tesoro nascosto. A niente valsero però le raccomandazioni dei paesani che lo avvertivano di inquietanti presenze, figuriamoci se un soldato scampato a mille pericoli poteva avere paura di eventuali creature misteriose. Prese così la decisione di costruirsi una capanna di fronte al monte e stare accorto a ogni movimento. Passarono giorni senza nessuna sorpresa, ma una notte di luna piena i campanili nelle vicinanze rintoccarono l'ora più breve, all'improvviso il Procinto apparve ancor più svettante come una torre inespugnabile e da una porticina uscirono dei piccoli esseri vestiti da guerrieri che ripetevano:

Custodiamo il nostro oro
non cediamo il tesoro
a qualunque mortale
che non conosce il segnale

Il capitano corse verso la porticina, ma fu fermato dal sibilo di cento serpenti che erano avviluppati tutti intorno ad una statua che rappresentava un guerriero e gli chiesero così cosa volesse trovare:
- Il tesoro della torre- rispose il soldato 
e di tutta risposta i serpenti aggiunsero:
-E sai dare un segnale per entrare?-
- No!- ribattè il capitano -ma quando me lo direte lo saprò -
Un forte vento con furia inaudita lo sospinse fuori, ma il militare non si scoraggiò, aveva tutta la notte per risolvere l'arcano.
Intanto i folletti guerrieri si erano radunati in cerchio intorno ad un albero e allegramente ripetevano:

Custodiamo il nostro oro
non cediamo il tesoro
a qualunque mortale
che non sappia il segnale
Cento bastonate riceverà 
ed entrare non potrà

e fu proprio in quell'attimo che uno dei folletti si lasciò scappare una sibillina frase:
-Come farà mai a spezzare la lancia della statua del guerriero?-
e tutti i piccoli esseri cominciarono a ridere e a spassarsela al chiaro di luna. Svelto, svelto il capitano corse verso la porticina e cercò invano di spezzare la lancia della statua. Allora preso ormai dalla bramosia fece cadere la statua per terra che si frantumò in mille pezzi, rivelando clamorosamente al suo interno una chiave d'oro che l'uomo non riuscì a prendere perchè in men che mai i piccoli guerrieri gli saltarono addosso bastonandolo e malmenandolo di santa ragione.
Il povero militare si svegliò nella sua tenda davanti al Procinto, il sole era già alto, niente era rimasto della sera precedente, se non un brutto sogno e uno strana e dolorosa sensazione in tutto il corpo di ossa rotte...

Patrice De La Tour Du Pin, poeta francese così diceva:
"I paesi che non hanno leggende sono destinati a morire di freddo"...

Quando la scienza era di casa in Garfagnana. La vita di Antonio Vallisneri

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Tutti credono, o meglio hanno creduto i garfagnini gente gretta
Antonio Vallisneri
e mi si conceda la parola anche ignorante, questo stereotipo ha lo stesso valore che si attribuiva agli italiani emigrati anni fa, che erano considerati mafia, spaghetti e mandolino. Troppo facile generalizzare se pensiamo che la Garfagnana stessa ha dato all'umanità uno fra gli scienziati più significativi che il panorama italiano e mondiale abbia mai avuto. A questo avviso c'è da aggiungere un'altra cosa, che noi garfagnini abbiamo spesso la memoria corta e non ci ricordiamo di dar lustro a coloro che hanno portato in giro il buon nome della nostra valle, fra questi personaggi c'è senza dubbio Antonio Vallisneri. Pochi si ricorderanno di lui e alcuni nemmeno lo conosceranno, ma egli è uno di quelli che ci può far dire sicuramente che la Valle del Serchio non è solo la valle del bello e del buono come diceva Giovanni Pascoli, ma bensì è anche terra di scienza.La vita di Antonio Vallisneri è una di quelle vite che merita di essere raccontata per due motivi sopratutto:il primo sicuramente è quello come detto di riscoprire questo scienziato di fama internazionale, il secondo motivo ci dice che la sua fu una vita degna di un personaggio dei romanzi di Tolstoj,un esistenza la sua sempre in bilico fra gli studi e esigenze ereditarie.
Ma partiamo dall'inizio. Antonio nasce a Trassilico (oggi sotto il comune di Gallicano) al tempo facente parte del Ducato di Modena e importantissima sede di Vicaria. Era il 3 maggio del 1661 e il futuro medico (nonchè biologo e naturalista) vide la luce nella rocca del paese. Suo padre Lorenzo svolgeva la funzione di giudice(Capitano di Ragione) e la madre Lucrezia Davini di Camporgiano apparteneva a una delle migliori famiglie garfagnine. Passò la sua infanzia come tutti i bimbetti, correndo spensierato e felice per le carraie e le viuzze del paese giocando con gli amici, fu quello infatti uno dei rari periodi di pace che questa terra di confine attraversava. Ma tale leggiadria stava per finire, già all'orizzonte si cominciavano a profilare incombenti impegni di studio che l'onore di cotanta famiglia imponeva. Detto fatto Antonio dovette abbandonare madre,padre e i cinque fratelli e fu avviato agli studi in quel di Scandiano (provincia di Reggio Emilia)città natale della sua casata e successivamente proseguì le scuole a Modena presso i Gesuiti,dove intraprese gli studi di lettere e filosofia e successivamente a Reggio, ma nonostante tutto questo girovagare già si evidenziava una cosa su tutte: la sua era
Trassilico
un'intelligenza superiore alla media. Si arrivò così al fatidico 1679 e allo morte dello zio Giuseppe Vallisneri, vero mentore del futuro scienziato che lasciò al momento della dipartita al prediletto nipote una cospicua eredità, tale eredità però era subordinata a delle clausole capestro, il testamento obbligava Antonio a soddisfare gravosi obblighi e a sottostare a diverse condizioni. Immaginiamo quindi questo baldo giovanotto di diciotto anni nel pieno fulgore della gioventù che aveva il vincolo di laurearsi in legge o in medicina entro i trent'anni, di risiedere almeno tre mesi l'anno a Scandiano e li di farvi nascere i figli maschi, per non far perdere al primogenito il diritto di succedergli nell'eredità. Nel caso non avesse avuto discendenti maschi, la considerevole fortuna sarebbe passata ad un'altra famiglia.Cominciò di fatto la corsa all'eredità.Il povero Antonio si doveva dividere così fra i pressanti impegni universitari e la ricerca di quella gentil donzella che lo rendesse padre di almeno un figlio maschio e di conseguenza anche uomo ricco. Trovò tale fanciulla nell'emiliana Laura Mattacodi, convolarono così a giuste nozze il 27 aprile 1692 quando lei era appena quindicenne e lui stava ormai per compiere trentuno anni. Nel frattempo aveva continuato gli studi all'università di Bologna dove era diventato un seguace di Marcello Malpighi,illustre anatomista e nel 1684 a soli ventitré anni già si era laureato in medicina a Reggio Emilia(rientrando così in uno dei parametri dell'eredità voluti dallo zio defunto).Dopo alcuni anni di professione la sua fama di scienziato e dottore si stava spandendo
a macchia d'olio in tutta Italia, tanto da essere chiamato nella prestigiosissima università di Padova, dove ottenne la cattedra di medicina pratica, seguita da quella di teoretica. Le sue lezioni erano seguite dal fior fiore degli studenti della città e delle regioni limitrofe,le sue ricerche e i suoi esperimenti sulla natura ottennero risultati eclatanti, tra i quali la scoperta sull'origine dei fossili e quella delle sorgenti, nonchè del ciclo della
riproduzione degli insetti.Ma un grosso cruccio gravava pesantemente su questi successi, l'erede maschio tanto agognato ancora non si era visto.Per arrivare al desiderato bambino la moglie Laura però non si risparmiò e non esitò a partorire ben 18 pargoli. Alla fine solo quattro di questi diciotto figli sopravvissero ad Antonio Vallisneri e fra questi Dio volle ci fu il tanto sospirato maschio, Antonio junior che nacque nel 1700 intraprendendo anche lui la stessa carriera del padre. Con questo figlio decadeva così ogni vincolo sull'eredità e lo scienziato trassilichino si sentì ancor più libero e tranquillo di continuare i suoi studi. Naturalmente come tutti gli innovatori la sua fama fu contrastata dai seguaci dei vecchi metodi che cercarono in ogni modo di togliergli le cattedre più influenti. Ma oramai il nome di Antonio Vallisneri era sulla bocca di tutto il mondo scientifico,la sua notorietà raggiunse le maggiori capitali europee al punto di essere chiamato dall'imperatore Carlo V come suo medico personale di camera, ma non solo anche Papa Clemente XV e il re Vittorio Amedeo di Savoia gli conferirono grandi riconoscimenti e perfino da Londra venne l'autorevole nomina dalla Royal Society.Ma nonostante tutto questo successo forse l'esimio dottor Vallisneri si era dimenticato della sua amata Garfagnana? Assolutamente no. Nei brevi periodi di riposo non mancava mai di tornare a Trassilico, spaziando tra un monte e un altro, compiendo gite sulle Apuane e sugli Appennini, dedicandosi alla ricerca e allo studio della flora e della mineralogia come ricorda egli stesso nella sua opera "Viaggi in Garfagnana".Sempre in questo libro rammenta così la visita alla "Tana che urla"(per la sua storia vedi:http://paolomarzi.blogspot.it//una-singolare-grottala-tana-che-urla.html) celebre grotta nelle selve di Fornovolasco:
"Fra le caverne che visitai e dentro le quali scorrono perpetui
La Tana che Urla, Fornovolasco
rivi, i quali è fama che vengano dal mare...Si, è una poco sopra Forno Volastro, chiamata da que' popoli la Grotta che urla;perchè accostando l'orecchio alla bocca della medesima, s'ode sempre un certo oscuro strepito, o lontano rimbombo, a guisa d'omo che colà gridi, ed urli"
La "Tana che Urla" è una grotta di indiscusso fascino estetico e storico proprio grazie agli studi del Vallisneri sull'idrologia sotterranea.Da notare nei suoi trattati(vedi"L'opera fisico mediche","L'istoria delle generazioni dell'uomo e degli animali" e altri ancora...) l'uso della lingua italiana della quale fu un convinto assertore, al posto del latino che nel settecento era ancora la lingua ufficiale della comunità scientifica internazionale.
La Vallisneriana asiatica
Gli anni così passavano e Antonio ormai a fama consolidata trovò anche il tempo di metter su un giardino domestico di piante medicinali e compiva ancora con entusiasmo escursioni naturalistiche che gettarono le basi di quello che diverrà uno dei musei medico naturalistici più noti d'Italia, il "Museo di scienze archeologiche e d'arte" di Padova.
Morì a Padova (dove è sepolto nella chiesa degli Eremitani) a soli 69 anni il 18 gennaio 1730, dopo una breve e improvvisa malattia polmonare. Lasciò le sue collezioni e la sua biblioteca formata da circa oltre mille volumi all'università della città. In suo onore i colleghi scienziati chiamarono una pianta acquatica sommersa "Vallisneriana". Oggi di lui rimangono "solamente" vie, università e licei dedicati, all'illustre garfagnino dimenticato.

La prima (e quindi la più antica) strada garfagnina:la Via Clodia Nova, orgoglio di Roma

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Un vecchio detto così semplicemente rammenta: "tutte le strade
Una strada romana

portano a Roma", sembra un motto senza apparente significato ma storicamente parlando niente di questo è più vero. Il proverbio trae origine dall'efficiente sistema di strade dell'antica Roma, su cui buona parte di esse si basa l'attuale sistema viario italiano. Molte strade consolari partivano da Roma e quindi se prese in senso contrario riportavano proprio alla "Città Eterna".A sottolineare l'importanza delle strade per Roma ci pensa Plinio il Vecchio cronista dell'epoca che sottolineava il fatto che: "I romani posero cura in tre cose sopratutto, che furono dai greci poco considerate, cioè nell'aprire strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo cloache".Le funzioni principali di queste strade erano due: movimentare gli eserciti per tutti i territori conquistati e agevolare il trasporto di merci.Questa fu nella sua totalità un opera di ingegneria mostruosa che portò ad avere in tutto l'impero ben centomila chilometri di strade lastricate e ad oltre centocinquantamila chilometri di strade in terra battuta. Vuoi che fra tutte queste strade e stradine una non attraversasse tutta la Valle del Serchio? Certamente si, ed ha il primato di essere la prima strada(nel vero senso della parola) e di conseguenza anche la più antica mai costruita in tutta la Garfagnana e portava il glorioso nome di Via Clodia Nova o via Clodia Secunda, che si differenziava dalla già esistente Via Clodia che collegava Roma con i centri etruschi dell'antica Etruria(Toscana). La Via Clodia Nova poteva vantarsi del titolo di strada consolare(e non strada agraria) dato che una strada era considerata consolare quando era pubblica e di responsabilità militare e ricadeva di fatto sotto la giurisdizione di un console, perchè attraverso queste, le legioni si potevano spostare velocemente o i messaggeri portare notizie. Dai romani stessi fu considerata una notevole opera al pari della Via Aurelia o della Via Flaminia e ne curò la sua realizzazione l'importante console M.Claudio Marcello (da qui il nome della strada).Ma guardiamo però come si arrivò alla nascita di questa nuova e importante via. 
Oramai i Liguri Apuani erano stati sconfitti, ancora rimaneva qualche sacca di resistenza nei luoghi più impervi e montuosi della Garfagnana, ma a questo punto tutta la valle era assoggettata definitivamente alle legioni romane e di fatto cominciò quel
l'antico percorso della Via Clodia
(foto tratta da escursioni apuane.it)
processo che portò alla romanizzazione di tutto il territorio. Furono invitati i cittadini dell'impero romano ad occupare le nuove zone conquistate, promettendo a chi avesse abitato queste terre dei sostanziosi sgravi fiscali,questo favorì la fondazione e lo sviluppo di molti degli attuali paesi della Garfagnana, ma l'impulso decisivo all'occupazione delle nuove terre si ebbe nel 183 a.C quando terminò la costruzione di questa nuova via che partiva dalla città di Lucca e arrivava 
nello strategico porto di Luni(attuale provincia di La Spezia).Fu una costruzione molto difficile data la conformazione del territorio, ma si arrivò comunque al suo compimento.La strada divenne bella ed imponente, variava la sua larghezza dai quattro ai sei metri, così che si potessero incrociare agevolmente due carri e talvolta ai lati vi erano dei marciapiedi lastricati. Da un punto di vista squisitamente estetico si dice che fosse alquanto apprezzabile dal momento che ai suoi margini (dove possibile) si piantavano alberi che avevano doppia funzione di abbellire e di evitare che i suoi cigli franassero.Con il tempo lungo la sua carreggiata sorsero statue e piccoli tempietti votivi e a distanza di circa venti chilometri una dall'altra c'erano anche delle stazioni di posta (statium), dove si poteva cambiare e ristorare cavalli, muli o buoi e c'era perfino la possibilità di riparare i carri. Presso queste stazioni esisteva un organizzazione di tutto rispetto, erano presenti delle mappe (dette itineraria) in cui erano segnate strade,fiumi,boschi e monti e marcate le distanze da un luogo ad un altro e non mancavano in queste guide i centri di ristoro,osterie e locande, tutte quasi sempre pericolose, infestate da ladri di ogni risma. Ma guardiamo adesso nel dettaglio questa strada quali paesi o località toccava. Come detto partiva dalla porta nord di Lucca (ubicata probabilmente vicino a Via Cesare Battisti), correva lungo il fiume Serchio verso i paesi di Sesto di Moriano, Valdottavo e Diecimo, località che devono il loro nome alle pietre miliari poste lungo la Clodia Nova atte a segnalare la loro distanza (segnata in miglia romane) da
Di qui passava la Via Clodia:
chiesa di Santa Lucia Gallicano
Lucca (sextum,octavum e decimun lapidem), di qui si proseguiva per Borgo a Mozzano, si risaliva verso Pieve di Cerreto per arrivare di lì a Gioviano, proseguendo per il primo paese della Garfagnana che era Gallicano (la strada transitava proprio nei pressi della stupenda chiesina di Santa Lucia), di qui si raggiungeva Cascio, Monteperpoli e Castelnuovo, la consolare si dirigeva poi in modo piuttosto lineare fino a Piazza al Serchio, di li la via romana si sarebbe diretta verso Minucciano e il valico di Tea per aprirsi nel bacino del Magra e raggiungere definitivamente il porto di Luni, terminando così i suoi circa 150 chilometri di tracciato. Furono centocinquanta chilometri non facili,il territorio garfagnino oggi come allora non aiuta le vie di comunicazione e per attraversare fiumi torrenti e fiumiciattoli vari fu essenziale la costruzione di ponti, ne furono fatti a centinaia, di pietra, di legno, a più arcate o anche a più piani e ancora oggi qualcuno di essi è presente, naturalmente è stato ristrutturato più e più volte, ma ad esempio il bellissimo ponte a dorso d'asino di Pontecosi (Ponte della Madonna) è ancora lì. 

I ponti della Via Clodia Nova
Il ponte della Madonna Pontecosi
Con il passare dei secoli come ben si sa l'impero romano si dissolse, il porto di Luni perse la sua fondamentale importanza, pensare che dalle sue sponde erano partiti quei blocchi di marmo apuano che sarebbero serviti per costruire decine e decine di statue e migliaia di obelischi, di conseguenza perse notevolmente importanza anche tutta la Via Clodia Nova che fu lasciata al suo destino. Riprese fortunatamente vita e lustro quando nelle nostre zone si stanziarono i Longobardi,si ricominciò a commerciare il marmo e si ripristinò tutta la parte garfagnina della via che era quella più malmessa, ma non solo fu anche potenziata, costituendo di fatto nel periodo medievale l'asse dorsale per gli scambi commerciali fra la Garfagnana stessa, la costa versiliese e la Pianura Padana. Fu un periodo di scambi piuttosto fiorente per la Garfagnana,grazie proprio a questa strada ritrovata e al nuovo porto di Motrone (posto oggi nella zona che corrisponde a Marina di Pietrasanta).Questo nuovo porto permetteva di ricevere le merci provenienti da sud, mercanzie di ogni genere arrivavano, alcune addirittura mai viste dalle nostre parti: dalla lana,alla seta e a varie spezie e dalle nazioni di tutta Europa come l'Inghilterra, il Portogallo,la Spagna e la Francia, nonchè agrumi e frutta dalla Sicilia e di li passava anche il preziosissimo sale proveniente dalla Sardegna. In questa nuova vita della Clodia Nova, la Garfagnana veniva servita attraverso questa strada da mulattieri e carrettieri, in pratica i
corrieri di allora, che mettevano in mostra la loro bella merce nei mercati paesani, i più importanti dei quali già nel trecento si trovavano sulla direttrice della strada stessa (vedi Piazza al Serchio, Camporgiano, Castelnuovo, Cascio, Gallicano e Borgo a Mozzano). Naturalmente questi mulattieri quando ritornavano verso il mare per rifornirsi verso i porti, portavano con se i prodotti dell'entroterra come le castagne, il farro, i formaggi, ma altri
La Tabula Peutingeriana
l'unica carta stradale romana giunta
sino a noi sebbene in copia medievale.
Qui vi è segnata la Via Clodia Nova
prodotti come pelli di animale, carbone e il ferro lavorato nelle fabbriche garfagnine. Insomma con la Clodia Nova la Garfagnana si aprì per la prima volta al commercio. Una strada naturalmente che con il corso del tempo sparirà per sempre, ma che sarà ricordata come la strada che per la prima volta collegò la Garfagnana con il resto del mondo.

La guerra vista dagli occhi delle donne garfagnine

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Non limitiamoci ad un semplice mazzetto di mimose,la festa della
Anni 50, donne sul Ponte di Gallicano
donna è ben altro ed è caduta anch'essa (come ormai tutte le feste) nel vortice delle celebrazioni super commerciali. Ristoranti e gadgets vari la fanno da padrona, dimenticando il vero significato della ricorrenza. La Giornata Internazionale della Donna o più comunemente detta festa della donna ricorda ogni anno le conquiste sociali, politiche ed economiche della donne, sia le discriminazioni e le violenze cui sono state oggetto (e lo sono ancora) in tutte le parti del mondo. In America la ricorrenza veniva già celebrata nel 1909, in Italia solo nel 1922.Per questo oggi (anche se con un giorno di ritardo), con questo articolo voglio rendere omaggio alle donne, ricordando la vita tribolata delle nostre nonne in Garfagnana in uno dei periodi più neri per l'umanità: la seconda guerra mondiale. Già durante il ventennio fascista e per la retorica di quel tempo la donna garfagnina doveva dedicarsi al lavoro domestico e provvedere esclusivamente alla riproduzione e all'amministrazione della casa. La numerosa famiglia fascista era infatti al centro della propaganda del partito, il ruolo che spettava alla donna era quello esclusivo di moglie e madre, ma in una posizione subordinata all'uomo, il suo corpo praticamente era come se fosse "nazionalizzato", la maternità così si trasformava in un dovere nei confronti della Patria. La cosa cambiò drasticamente e in peggio il 10 giugno del 1940 quando dal balcone di Palazzo Venezia Benito Mussolini annunciò trionfalmente l'entrata in guerra dell'Italia, a quel punto le donne garfagnine continuarono la loro attività di "angeli custodi" del focolare domestico ma inoltre cominciarono a sostituire l'uomo (che partiva soldato) anche nei lavori più duri. Non bastava più assolvere i compiti relativi alle faccende domestiche, oltre a quello di crescere i figli e curare gli anziani che erano in casa,ma bisognava anche coltivare, arare e zappare la terra per provvedere al mantenimento della famiglia stessa, ma non solo, dovevano
Donne in fabbrica alla SMI di Fornaci
(foto tratta da Bargarchivio.it) 
occupare anche quei posti lasciati vuoti dall'uomo nelle fabbriche, ecco allora salire alle stelle l'occupazione femminile alla S.M.I di Fornaci di Barga e nello stabilimento di Gallicano della Cucirini .Le nostre nonne non si risparmiarono nemmeno quando ci fu da dare un contributo nella resistenza partigiana, dove svolgevano la mansione di
"staffetta", era un compito difficilissimo e molto pericoloso, consisteva nel portare ordini, vestiti,cibarie e munizioni da una località all'altra riuscendo a superare i posti di blocco tedeschi, queste missioni erano spesso affidate a ragazzine di 16-18 anni che si pensava potessero destare meno sospetti. Ma il peggio venne dopo l'otto settembre 1943,alla firma dell'armistizio fu il caos totale.
Queste sono due testimonianze viste con gli occhi di donne garfagnine durante quei tremendi giorni, tratte dal bel libro di Tommaso Teora "Racconti di guerra vissuta".

Così raccontano le sorelle Settimia,Lola e Marilù Del Cistia di Sassi(Molazzana)

A settembre del 1944 eravamo tutti a casa. Vedemmo passare un gruppo di persone e ci chiedemmo cosa facessero li. Andammo tutti al piano di sopra e dalla finestra vedemmo un ragazzetto che veniva picchiato e sbattuto contro un ciliegio. Sapemmo solo in seguito che il ragazzo era stato trovato con una radio mentre ascoltava "Radio Londra" e chi inveiva contro di lui erano le camicie nere di Castelnuovo. Verso i primi giorni di ottobre del '44 tutta la nostra famiglia era impegnata nella raccolta delle castagne nelle nostre
selve di Rosceto, località sotto il campanile di Sassi. Al ritorno,a fine giornata la Lola e la Settimia andavano a mungere la vacca che era nella capanna sotto la nostra abitazione. Una sera una cannonata picchiò molto vicino, tanto che il secchio del latte si riempì di terra. Sparavano da Calavorno ed era la prima cannonata che arrivava a Sassi.Il papà per sicurezza ci portò a dormire in un cijere (n.d.r:una cantina) del paese. Il giorno dopo andammo tutti in Focchia, località sotto la Foce di Eglio, dove avevamo un metato. Rimanemmo li per circa un mese, poi nostra madre disse che voleva morire a Sassi e tornammo tutti in paese a casa del Pieroni. La notte dormivamo in cantina. Il 15 novembre fu segnato dalla morte di tredici orfanelle e di una suora sotto il bombardamento americano. Dopo tre o quattro giorni arrivarono i tedeschi, si impadronirono della casa e portarono tantissime munizioni, tra cui mine anticarro che furono messe nel corridoio. Dormivamo con le bombe a pochi metri. La sera del 27 dicembre '44 nostro padre ci disse:
- Domani non state in casa c'è pericolo di bombardamenti -.
Purtroppo non lo ascoltammo e il giorno dopo, mentre in sei o sette donne eravamo intorno al fuoco, cominciò un bombardamento aereo che dalla paura ci fece scappare tutte senza meta e direzione. Ci trovammo con molte altre persone nel bosco, alla capanna dell'Italo Rossi. Poi, insieme ad altri parenti ritornammo al nostro metato di Rosceto. Siamo rimasti lì finchè non fu dato l'ordine di andare tutti sulla riva sinistra della Turrite (febbraio 1945). Ci rifugiammo nella capanna sopra "Calorino". Siamo rimasti li per un certo periodo poi ritornammo a Rosceto fino alla fine della guerra. Quando sentimmo suonare le campane cominciammo ad incamminarci per
tornare a casa. Nel via vai di gente incontrammo molti soldati neri, che ci davano le cioccolate, ma non capivamo il motivo della loro presenza. Un particolare del gennaio '45 quando eravamo ancora a Rosceto, arrivò Pietro Tognocchi chiedendo aiuto a nostra madre Anna, poichè la moglie Maria stava per partorire. Nostra madre che era già pratica di parti, andò da loro a far nascere Giuseppe.

Questa invece è la drammatica testimonianza  della signora Valentini Letizia nata a Gragliana (Fabbriche di Vallico) nel lontano 1917, all'epoca dei fatti abitava a Castelnuovo Garfagnana.

Quando bombardarono per la prima volta Castelnuovo era il 2 luglio del 1944, io ero alla messa in San Pietro con mia figlia Maria Rosa di due anni e mio nipote. Scappammo immediatamente salvandoci per un pelo. Nel settembre '44 i tedeschi e gli alpini dopo, vennero a stabilirsi a casa mia. A noi ci lasciarono solo una stanza in cui vivere. Ci sequestrarono tutto: vino, cinque vacche e un maiale. Passammo tutto l'inverno in quella maniera. Certi alpini erano brave persone, ci portavano da mangiare ed io e mio marito lavavamo i loro panni, che erano pieni di pidocchi. I militari italiani di solito mi trattavano bene e mi davano anche buoni consigli per come comportarmi con i tedeschi; uno di loro addirittura tornò a trovarmi un paio di anni dopo la fine della guerra. Durante l'inverno che quell'anno fu particolarmente rigido, i soldati intirizziti dal freddo,cominciarono a bruciare tutto il legno che avevamo in casa, compresa la mia camera di noce. Quella volta non riuscì a
trattenermi e mi arrabbiai tantissimo, ma questo provocò un caos.
Castelnuovo bombardata
Due militari mi presero e mi portarono via per fucilarmi verso Pieve Fosciana e così gli chiesi:

- Dove mi portate? E come faccio a camminare nella neve senza scarponi?-
Allora un alpino ebbe compassione e mi dette i suoi e così ci si incamminò. Ma cosa volevano da me? Ero incinta della Silvana, che poi è nata nel luglio del '45. Arrivati in località Merlacchia ci raggiunse un soldato italiano che ci disse di tornare subito indietro, perchè il comandante tedesco aveva saputo della mia gravidanza e aveva avuto un ripensamento. Quando finalmente tornai a casa, un soldato italiano medico mi dette alcuni consigli per come rispondere durante l'interrogatorio che mi avrebbero fatto. Fui portata dentro una stanza con tre militari e un comandante tedesco di cui non ricordo i gradi, che mi fece una lunga serie di domande con una cattiveria indescrivibile. L'avevo scampata perchè ero in stato interessante, ma se potessi ritrovare quel tedesco! Nonostante la mia età lo strangolerei! Era odioso. Tra i militari a casa mia c'era anche un ragazzetto di quattordici anni, con il padre e sparavano tranquillamente insieme. Nel marzo del '45 ci mandarono via di casa dicendo che era pericoloso stare là. Il primo trasferimento fu in un metato poco sopra, poi ci trasferimmo al casello ferroviario di Volcascio. In seguito andammo sotto Bargecchia, a Rondanecchio e da li molto spesso sono tornata a Volcascio a portare da mangiare alle famiglie rimaste. Avevamo portato con noi l'ultima vacca rimasta. Quando tornammo a casa dopo la guerra, trovammo la casa vuota e tanta sporcizia. Dovemmo rimboccarci le maniche e ricominciare tutto da capo.

Di li a poco l'Italia tornò ad essere un Paese libero.La guerra finì dopo
Gallicano. La guerra è finita. Donne
ragazze e bambine in posa
cinque lunghi anni di strazio e tormenti infiniti. La guerra era persa, ma da questa tragedia uscì un vincitore: la donna, che ebbe un ruolo fondamentale in questo maledetto conflitto. Eroina rimasta anonima che si sacrificò per il valore più alto:la famiglia.

Gulì, la meravigliosa storia del cane di Giovanni Pascoli

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La storia non la fanno solo gli uomini, tra i vari protagonisti
Gulì
delle varie civiltà ci sono anche gli animali. Alcuni ad esempio, come il cavallo Bucefalo di Alessandro Magno o Asturcone il cavallo di Giulio Cesare sono stati compagni inseparabili nelle battaglie di questi importanti condottieri, altri come il cane Argo di Ulisse sono sinonimo di fedeltà assoluta e sempre a proposito di cani mi viene in mente anche il pit-bull Stubby nominato sergente dall'esercito U.S.A durante la I guerra mondiale per aver salvato il suo reggimento dai gas asfissianti e sono sempre cani quelli che hanno fatto la storia aerospaziale mondiale come la piccola bastardina Laika che fu sacrificata nel lancio della navicella russa Sputnik II.Non parliamo poi della lupa capitolina che leggenda volle che allattando Romolo e Remo abbia dato il via a tutta la millenaria storia di Roma antica e questi non sono solo che alcuni esempi.In Garfagnana e nella Valle del Serchio non voliamo così in alto e rimaniamo un po' con i piedi per terra in questo campo, ma anche nella nostra terra c'è un animale a cui dare lustro e notorietà. Fu testimone di poesie fra le più belle di tutto il panorama italiano, questo animale si chiamava Gulì ed era il cane di Giovanni Pascoli e questa che racconterò oggi è la sua storia.

Per una volta quindi lasceremo perdere il protagonista principale di cui già si è tanto scritto e parlato e racconteremo del suo piccolo e fidato amico che il poeta considerava addirittura il suo alter ego a cui confidare le sue imprese e le sue sventure.
La tomba del merlo Merlino nel
giardino di casa Pascoli
Un doveroso preambolo però è dovuto, per capire bene fino in fondo l'amore che il poeta aveva per gli animali. Giovanni Pascoli può essere considerato senza dubbio un antesignano degli animalisti, in un'epoca in cui le bestie avevano un ruolo marginale nei sentimenti della gente, in lui trovavano amore e comprensione che veniva ricambiata con un sentimento disinteressato di chi niente vuole in cambio. Prima di arrivare a Gulì nel 1858 abbiamo il primo cane, il meticcio Joli, compagno di giochi del piccolo Giovannino, ma non troviamo solo cani nella vita del poeta, a Castelvecchio (e non solo)ci fu una costante presenza di uccelletti, la storia di questi piccoli amici comincia con una tortorina, compagna di camera nel liceo di Urbino, proseguiva con un piccione viaggiatore che sembrava provenisse dal Belgio, continuava poi con il passero Ciribibì immortalato in una delicata poesia:"dal canto si consola, se il sol ride alla stanza" e ancora il lucherino, la capinera e l'usignolo, per finire alla tomba di Merlino il merlo dall'ala rotta, sepolto in una nicchia chiusa e sormontata da un epitaffio ormai illeggibile, poco più oltre riposa anche la capretta la cui madre fornì il suo latte alla figlia primogenita della sorella Ida. Tutto però magicamente cambiò quel 4 giugno del 1894 (come racconta l'amico Pier Giuliano Cecchi in suo bell'articolo) quando Gulì fece il suo ingresso in casa Pascoli. Mariù (la sorella del poeta) ricordava con queste parole quegli attimi di felicità:
-...quel caro compagnino che non doveva separarsi più da noi se non con la morte...-
Il Pascoli che gioca con Gulì

Glielo portò infatti il padre di Antony De Witt (disegnatore delle poesie del Pascoli, vedi Myricae)e sempre Mariù nelle sue memorie così ne parla e lo descrive:
-... per collocarlo bene aveva pensato di farne dono a Giovannino. A dire il vero non poteva trovargli padrone migliore. Il cucciolo, che aveva appena cinque mesi, era un incrocio di due razze assai diverse essendo figlio di una canina levriera e di un bracco...Il pelame aveva raso, lucido e morbido come velluto; nero sul mantello e nella testa, ma bianchissimo nel petto, sul collo, in parte del muso e nei quattro piedi e nella punta della lunga coda. Era un gran bel balzanino, snello, elegante ed aristocratico.Ma quale nome poteva convenirgli?-
Proprio in quei giorni il Pascoli aveva ricevuto in dono un vassoio di dolciumi spedito da alcuni ex alunni con sopra stampigliato il curioso nome del pasticcere, tale Emanuele Gulì da Palermo e proprio nel mentre che pensa e ti ripensa tutti riflettevano sul nome da dare al nuovo amico a quattro zampe l'occhio del poeta cadde proprio su quel vassoio:
- Ecco trovato il nome! Gulì!- 
E subito le sorelle Mariù e Ida cominciarono a chiamarlo con quel nome. Da quel momento fu parte integrante della famiglia, era considerato la punta del triangolo familiare, praticamente quella bestiola divenne come un figlio. Molti schizzi e disegni fatti a penna dal Pascoli rimangono ancora oggi, dove viene ritratto Gulì che passeggia con il padrone, Gulì sul divano e altri ancora e a quanto sembra il piccolo cane era "laureato", su alcune cartoline conservate a Castelvecchio si ritrova la firma "dottor" Gulì, addirittura sapeva pure leggere e scrivere (anche se con qualche erroruccio) tanto è vero che il 26 giugno 1901 il Pascoli invia una scherzosa lettera all'amico Caselli di Lucca dove si
Un disegno del Pascoli che ritrae
Gulì e se stesso
immedesima nel cagnolino e nel suo presunto parlare:

-Spero presto rivederdi a manciare una piccola bistecca con losso e il ventilatore.Zio e mamma ti saltano e tabbracciano sono tuo Gulì Pascoli, dei piscottini menè toccati poini. Ne manciano molti zio e mamma e altri secatori.-
Visse felicemente con lo "zio" e la "mamma" per ben 18 lunghi anni e proprio sul finire del 1911 oscuri presagi si affacciavano all'orizzonte. In una lettera il Pascoli così chiudeva:- Non sto bene!-,  già il tremendo male si manifestava nel fisico del poeta e il fidato Gulì sembrava saperlo, cominciò anche lui a perdere le forze e il vigore che sempre lo avevano contraddistinto e nel gennaio del 1912 il Pascoli ancora annota:
- Gulì, il caro Gulì, Dottor Gulì, quello che non era un cane ma Gulì stava morendo-
Purtroppo a distrarre Giovanni dalle cure mediche e quindi a ritardare anche la sua partenza per Bologna dove sarebbe andato per cercare di guarire dalla malattia, c'era una più immediata preoccupazione il povero Gulì stava peggiorando
Augusto Vicinelli nel suo libro del 1961 "Lungo la vita di Giovanni Pascoli" così scriveva:
-Ho ascoltato molto dopo,nella sala da pranzo di Castelvecchio, su quel divano dove il vecchio morì, Maria parlare ancora commossa di lui e ripetere un profondo motto di Giovanni:"Se un cane potesse conoscere Dio come lo amerebbe" e ricordare quella fine e il seppellimento,compiuto lei assente per non farla soffrire troppo,nell'orto dove già erano Merlino e la caprina-
La tomba di Gulì
Gulì spirò la sera del 21 gennaio 1912 alle ore 21 e 45. Volle "egoisticamente"morire due mesi circa prima del suo amato padrone per non soffrire troppo del suo distacco.Fu questo così l'ultimo sacrificio di un grande amore del cane verso il suo padrone. Il dispiacere fu tanto per Giovanni e Mariù, fu tale da non ammettere neppure agli amici e ai conoscenti il triste evento,in quella chiusa sensibilità domestica furono inventate mille bugie perchè non si sapesse in giro che Gulì era morto. Fu seppellito nel giardino di Casa Pascoli"tra odorosi laurii, cullato dal dolce canto degli sgriccioli e delle capinere".Lo stesso poeta disegnò la stele funeraria di quello che come lui disse:"non era un cane ma... era Gulì".

"I Crocioni" di Castiglione. La Passione di Cristo in Garfagnana

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La Processione dei Crocioni negli anni 20
(proprietà Vittorio Pieroni)
Le uova di Pasqua, le pasimate, le gite fuori porta il giorno di pasquetta, sono solo amenità della Pasqua moderna che allietano i primi giorni di primavera. Le Pasque antiche erano ben altra cosa, si festeggiava si la Resurrezione del Signore ma tutto era avvolto in quell'aura di solennità religiosa che la ricorrenza imponeva. Non parliamo poi dei giorni precedenti la Santa Festività e in particolar modo nella cosiddetta Settimana Santa, ricorrenze varie portavano alla espiazione dei peccati nei modi più incredibili e cruenti possibili a cominciare proprio dalle Sacre Rappresentazioni e anche la Garfagnana non sfuggiva da queste considerazioni.Il Concilio di Trento (il concilio che riformò la Chiesa Cattolica e che durò ben 18 anni: 1545-1563) dette una bella regolata a questi svariati
Un momento della
processione dei Crocioni
riti, alcuni di questi infatti furono addirittura impediti come le manifestazioni troppo rumorose, disordinate e becere che si celebravano all'interno delle chiese. Fu consentita però la sopravvivenza di queste rappresentazioni sacre, prime fra tutte quelle che riproducevano la Passione di Cristo e la vita e il martirio dei santi. Questa tradizione si consolidò nella nostra valle nel periodo che va dal 1600 al 1700, era l'epoca dei grandi predicatori gesuiti (e non solo) che percorrevano tutta la penisola in lungo e largo a predicare il Vangelo e il pentimento divino. Era con questo spirito che venivano organizzate interminabili processioni in Garfagnana in un clima e in un pathos di fervore religioso altissimo ed era proprio attraverso queste rappresentazioni che la fantasia popolare veniva colpita e faceva in modo che la fede diventasse un qualcosa di morboso, poi bisognava anche dire che  questi predicatori utilizzavano con maestria e sapienza le arti del teatro e della spettacolarizzazione. La partecipazione era dunque altissima e alcuni di questi partecipanti erano coperti sulla testa da vere corone di spine, altri portavano il cilicio (cintura uncinata e nodosa da portare di solito intorno alla coscia per penitenza)e altri ancora si flagellavano il corpo, il tutto si svolgeva in un clima surreale, in un atmosfera creata ad hoc dalla tremolante luce delle fiaccole, l'apoteosi si raggiungeva però quando si arrivava faticosamente sulla cima dell'ipotetico Monte Calvario, qui il predicatore e i teatranti inscenavano i momenti della Passione e si esortava la gente alla devozione assoluta in
Il Cristo incappucciato
dei Crocioni
(foto Matteo Pieroni)

caso contrario sarebbe stata la dannazione eterna. Tanto per fare un esempio a Castelnuovo già nel 1451 esisteva una confraternita di flagellanti che era proprio dedita a questi riti, era la Compagnia della Croce che fra le varie opere di misericordia verso i poveri e gli infermi aveva anche l'obbligo della fustigazione volontaria in pubblico. Altro che pasquette varie e uova benedette, qui non si scherzava affatto e queste rappresentazioni sacre ancora oggi esistono in Garfagnana nel periodo pasquale(con le dovute differenze...ma poi neanche tante a dire il vero) in perfetta continuità con il passato e fra le più suggestive e misteriose rimane la rappresentazione sacra di Castiglione Garfagnana, la ormai famosa "Processioni dei Crocioni".
La particolare rappresentazione ripercorre l'ascesa di Gesù al Calvario, una volta si svolgeva il Venerdì Santo, ma ormai da tempo viene fatta nella notte del giovedì.Il rito ha origine antichissime,
quasi ormai indefinite, tanto d'aver perso la precisa datazione della sua nascita, anche se un dato sicuro rimane dal momento che dagli archivi parrocchiali si evidenzia che sono almeno due secoli che l'Arciconfraternita del SS.Sacramento e Croce del
il bacio di Giuda
(foto Matteo Pieroni)
Castello di Castiglione
accompagna questa tradizione.
La caratteristica fondamentale di questo rito è il significato profondo che viene attribuito al voto o alla penitenza dell'uomo che impersonerà il Cristo, in effetti quello sarà un percorso duro e fisicamente doloroso per colui che ha scelto di purificarsi l'anima attraverso questo rituale.Ma scendiamo nel particolare e guardiamo come si svolge.
Dopo la rievocazione dell'Ultima Cena, l'uomo che interpreta Cristo comincia a percorrere secondo un prestabilito tragitto le vie del paese. L'usanza vuole che il Cristo sia vestito con una cappa bianca e il suo viso sia nascosto da un cappuccio anch'esso bianco coronato da irte spine, così messo fa il suo arrivo nella chiesa di San Michele dopo che si è celebrata la messa.Il suo arrivo è annunciato dal sinistro rumore delle catene poste alle caviglie dei nudi piedi, a quel punto entrato in chiesa l'uomo riceve il bacio da Giuda e viene caricato del gravoso peso di una croce di legno ed è a quel punto che
comincia la processione; il Cristo con la sua pesante croce comincia così il suo cammino di penitenza a piedi nudi per le lastricate vie del borgo scortato da guardie romane.Il corteo religioso si snoda così per le vie del paese,anticipano il suo arrivo gli uomini della confraternita con le loro torce e ogni rullo di tamburo annuncia le tre cadute (come Via Crucis vuole) nei punti più suggestivi del paese(il sagrato di San Pietro,Torricella e Porta del Ponte Levatoio). Ma fin qui, seppur tutto coinvolgente ed emozionante sembrerebbe di trovarci di un fronte ad un qualcosa di classico nel suo genere, ma invece no.L'elemento che rende unica nel suo genere questa rappresentazione è data dal fatto che nessuno (tranne il Priore della confraternita) conosce l'identità di colui che impersona Cristo, per far si che l'anonimato sia garantito la persona prescelta per il difficile ruolo viene chiusa dallo stesso Priore in un armadio della sacrestia prima dell'inizio del rito, sarà così al riparo da occhi indiscreti.Una volta conclusa la rappresentazione e la processione nel frattempo è tornata al punto di partenza(nella chiesa di San
Michele), il penitente viene nuovamente preso in consegna del Priore stesso che lo riaccompagna  in sacrestia fra mille difficoltà dovute alla difficile camminata,alle varie cadute e sopratutto ai piedi sanguinanti, e lì verrà ancora rinchiuso nell'armadio, mentre fuori due membri della confraternita vestiti da soldati romani si mettono di guardia, perchè il tutto si svolga nella massima tranquillità e nel massimo riserbo. Solo a notte fonda quando ormai tutto il paese è deserto e la gente dorme, l'interprete del Cristo potrà abbandonare il suo rifugio, sicuro ormai di non esser visto da nessuno.
Castiglione Garfagnana
Tradizione, storia e religione un mix che ancora una volta è presente più che mai nella nostra Garfagnana, una delle ultime terre che fortunatamente è legata ancora a doppio filo con il suo passato
Buona Pasqua a tutti!!!

Alcoolismo, sporcizia e povertà. Così era la Garfagnana del 1911

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Quello che andrete a leggere fra poco sembra un resoconto socio
Gallicano, i primi
del secolo
scorso
economico di un fantomatico inviato delle Nazioni Unite mandato in un fantomatico paese del terzo mondo a relazionare su di esso.Non parleremo però in questo caso (con tutto il rispetto) di qualche paese africano o di uno stato dell'est Europa uscito dall'egemonia sovietica o magari di qualche altra nazione del sud est asiatico. Questo che mi è capitato fra le mani è un documento ufficiale del 1911 che il sottoprefetto di Castelnuovo Garfagnana invia al prefetto di Massa (n.d.r:la provincia di appartenenza al tempo) dove illustra la situazione sociale ed economica in Garfagnana Non è un bel quadro, si parla di pericolo di infiltrazioni socialiste, di gente dedita al bere, di povertà, sporcizia ed ignoranza e si fa riferimento (tanto per rimanere nell'attuale) di un eventuale ospedale unico. Sono passati "solo" 105 anni da questo bel quadretto, non tanti storicamente parlando e pensare che questa era la Garfagnana in cui vivevano i nostri nonni (per alcuni dei lettori anche bis nonni probabilmente), figuriamoci però che nel giro di pochi chilometri la situazione cambiava totalmente. C'era Bagni di Lucca, uno dei centri termali più rinomati di tutto il continente, definita"terra di principi e di poeti" frequentata dal fior fior della cultura internazionale, tanto per "snocciolare" qualche nome possiamo citare Puccini,Croce, Byron e Montale e chi più ne ha più ne metta. Bastava anche attraversare le Apuane per ritrovarsi in un mondo magico, i primi stabilimenti balneari attiravano già le teste coronate di mezza Europa,non dimentichiamoci poi di Lucca che da ex città ducale godeva ancora di signorilità e lustro e in mezzo a tutto questo po pò di bel mondo c'era la Garfagnana isolata da tutto e tutti dove regnava la miseria più assoluta. 
Bagni di Lucca.Le terme
stabilimento idroterapico

Faccio appello dunque al mio attento lettore perchè legga accuratamente questo documento, uno spaccato reale, incredibile e se si vuole anche curioso di quel tempo, di una terra vissuta nell'indigenza e che solo negli ultimi decenni è riuscita ad alzare la testa, grazie proprio all'instancabile lavoro e ai risparmi dei nostri nonni in quei tristi anni(e anche dopo),fatti con tanto sacrificio perchè la miseria che patirono loro non la provassero in futuro nè i loro figli nè i loro nipoti.Ma attenzione quei risparmi e quei nonni stanno per finire...

RELAZIONE DEL SOTTOPREFETTO DI CASTELNUOVO ROSSI AL SIGNOR PREFETTO DI MASSA 13 GENNAIO 1911

"Le condizioni dello spirito pubblico in questo Circondario sono abbastanza soddisfacenti data l'indole tranquilla e pacifica della popolazione, a cui le speciali condizioni topografiche e gli scarsi contatti con i centri più popolosi e progrediti hanno mantenuto quel carattere patriarcale e primitivo che le rende aliene dalle agitazioni e dai disordini. Se a ciò si aggiunge il frazionamento della proprietà, il carattere prevalentemente estensivo dell'agricoltura e la mancanza quasi assoluta di industrie se si eccettuino le poche fabbriche e officine del capoluogo (n.d.r: Castelnuovo Garfagnana) e la speciale estrazione dei marmi nei comuni di Minucciano e Vagli di Sotto si comprende come il partito socialista abbia avuto poco incremento in questa regione, e appena in Castelnuovo abbia una modesta rappresentanza, esplicandosi  nella forma più blanda e senza pericoli per l'ordine pubblico. Nemmeno la numerosa popolazione operaia che si accentra per i lavori della ferrovia ha potuto dare espansione  notevole alla propaganda socialista.
Costruzione ferrovia in Garfagnana

A questo che è il lato buono di queste popolazioni fa riscontro l'assenza assoluta di ogni iniziativa che sia di stimolo al progresso nell'ordine morale, intellettuale ed economico. Alla iniziativa feconda del lavoro si contrappone il criterio angusto dell'economia sterile e improduttiva. Scarsa è la cultura, mancano le scuole, ne si sente il bisogno di istituirne, ciò è causa della emigrazione degli elementi più intellettuali  e dell'abbassamento continuo del livello della cultura generale.L'edilizia e l'igiene personale degli abitanti è dovunque trascurata anche nello stesso capoluogo non esito a dire per esperienza avutane. Inoltre una metà dei fabbricati è a rigore d'igiene inabitabile. In molti dei comuni minori e specialmente nelle frazioni l'abitato non ha nulla da invidiare ai paesi delle più infelici regioni d'Italia.
Colla emigrazione abbonda nei comuni del Circondario ciò che ne è una delle conseguenze più frequenti, l'abuso dell'alcoolismo, essendo la bettola il ritrovo abituale dei contadini e operai che ritornano l'inverno a consumarvi nell'unico modo che per loro è possibile gli scarsi guadagni accumulati e non è infrequente che questi accumuli di denaro qualcuno non creda di farne cosa migliore che aprire un' altra osteria, che si va ad aggiungere alle tante altre già esistenti nei comuni. A ciò lo scrivente tentò di porre un freno col vietare (salvi casi eccezionali di interesse del pubblico per
Osterie in Garfagnana inizio 1900
speciali condizioni locali)l'apertura di nuovi esercizi nei comuni che più ne abbondano, se non in sostituzione di quelli che vengono a cessare. E pur conseguenza dell'emigrazione operaia è l'aumento continuo dell'onere di spedalità, che costituisce uno dei maggiori aggravi per le finanze comunali, reso ancor maggiore dalla mancanza di ospedali, poichè l'unico esistente nel capoluogo ha una capienza limitatissima e manca dei mezzi adeguati, nonchè ad aumentare il numero dei letti esistenti e provvedere convenientemente a quelli di cui può disporre. Vi fu, nè è ancora abbandonata a parole, l'idea di costituzione di un consorzio fra i Comuni della Garfagnana per provvedere ad un ospedale comune, ma come tutte le idee che richiedono iniziativa, non ha avuto seguito in concreti fatti (n.d.r:...mi sa di storia già sentita, qualcuno ci aveva pensato 105 anni fa, ne passeranno altri 105 e questo ospedale ancora non ci sarà...).

Allo stesso modo è pendente nel capoluogo (n.d.r: Castelnuovo) la questione delle scuole che sono sparse qua e là in locali inadatti e antigenici, dell'acqua potabile che è scarsa e di dubbia salubrità, della costruzione della strada d'Arni, che avrebbe capitale importanza per le comunicazioni. La viabilità è in genere scarsa e maltenuta. Vi sono comuni come Vergemoli, Trassilico, Fosciandora, Sillano che non hanno altra strada d'accesso che la mulattiera pressochè impraticabile, poche sono poi le frazioni che abbiano comodi mezzi di comunicazione col capoluogo e le poche strade esistenti sono malridotte, specialmente le stagioni invernali, per il transito dei carri che trasportano marmi dalle cave di Vagli e
Costruzione strada di Arni
Minucciano, non esclusa la strada nazionale da Castelnuovo a Ponte di Campia e Turritecava e le strade per Piazza al Serchio e San Romano che sono pressochè le uniche del Circondario.

Non esistono oltre i comuni enti morali di tale importanza da meritare un cenno speciale se non fosse a Castelnuovo la Società Operaia , scarsa di soci e di influenza e la Società di Assistenza Pubblica (Croce Verde) presieduta da sign. Silvio Fioravanti capo del partito socialista locale e la Confraternita della Misericordia con cui ha in parte scopi comuni.
I bisogni di questa comunità possono facilmente desumersi da quanto sopra si è accennato: attivare le industrie, sfruttare le risorse naturali, fondare una scuola secondaria (n.d.r:scuola media)che contribuisca ad elevare il livello intellettuale della zona, aprire un ospedale funzionale capace di provvedere ai bisogni delle popolazioni, il proseguimento della linea ferroviaria Lucca Aulla che darebbe senza dubbio un grande impulso all'industria marmifera è poi suprema aspirazione di tutta la Garfagnana, in parte unita ad una provincia povera di risorse e di mezzi qual'è quella di Massa, l'aggregazione alla provincia di Lucca, che diede luogo in passato ad agitazioni ora sopite che non mancheranno di risorgere in forma più legale finchè i desideri della popolazione non siano in qualche modo siano soddisfatti".
L'arrivo del primo treno a Castelnuovo
25 luglio 1911 (coll. Fioravanti)


Correva così l'anno 1911, molte cose sono cambiate in Garfagnana e molte come si può leggere sono ancora oggi di difficile soluzione: l'ospedale unico, la malmessa viabilità e il poco lavoro esistente sono fra i problemi più sentiti dalla gente, rimane il fatto che la nostra valle ne ha passate di cotte e di crude ma siamo ancora qua fieri della nostra terra e del lavoro dei nostri vecchi.

Il "De bello Apuano". Tredici anni di guerra fra gli Apuani e la potente Roma

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Un ringraziamento grosso come una casa la Garfagnana (e non solo) lo
Guerriero Ligure Apuano
deve obbligatoriamente dare ad un signore nato a Padova esattamente 2075 anni fa,è grazie sopratutto a lui che oggi sappiamo molto (ma non tutto)sui nostri discendenti più lontani, su quelli che probabilmente furono i primi a stanziarsi nella nostra valle e sui nostri monti, loro erano i Liguri Apuani e questo signore si chiamava Tito Livio, storico romano,senza lui forse non si saprebbe dare un identificazione precisa a quel fiero popolo che seppe dare filo da torcere alla potente Roma. Tito Livio si può considerare senza dubbio la principale e la più autorevole fonte sugli Apuani, scrisse un'opera intitolata 
"A Urbe condita libri" cioè "Libri dalla fondazione di Roma", questa era un'opera ciclopica che comprendeva ben 142 libri che partivano a narrare dalla fondazione di Roma e arrivavano al 9 a.C. A noi sono arrivati i primi dieci e i libri che vanno dal 21 al 45, in cui il buon Dio ha voluto che ci fossero proprio le guerre contro i Liguri. Infatti oggi parleremo proprio di questo, di questa sanguinosa e cruenta guerra fra gli Apuani e Roma.Fu una guerra vera e propria che si protrasse per ben 13 lunghi anni ed è conosciuta come il "De bello Apuano"(n.d.r: sulla guerra apuana), non sarà balzato agli onori e alle
Tito Livio
cronache come il più conosciuto "De bello Gallico", scritto da Giulio Cesare, ma Tito Livio seppe dare comunque e con dovizia di particolari l'idea di quello che successe in quei violenti anni.Innanzitutto per meglio capire la situazione cominciamo con il dire che i Liguri erano una popolazione divisa in svariate tribù o confederazioni, ad esempio c'erano i Friniati che occupavano le attuali province di Parma, Modena e Reggio Emilia, poi ancora
 i Tigulli insediati nella riviera ligure di levante o sennò gli Ingauni che presidiavano Albenga (provincia di Savona)fino ad 
arrivare ai nostri Apuani che si stabilirono nei territori dell'attuale Garfagnana, Lunigiana e Versilia.Nei fatti la guerra contro i Romani era già iniziata nel 238 a.C e i Liguri fieri della propria indipendenza e tenaci difensori delle loro terre rappresentavano il maggior ostacolo per l'espansione romana verso nord.Queste azioni militari però erano più che altro episodi di guerriglia che si svolgevano sui monti dove chiunque si avventurasse con intenzioni bellicose veniva sistematicamente sconfitto da un nemico come dice il buon Tito Livio "sciolto e veloce che (profondo conoscitore del territorio) piombava loro addosso inaspettato". In questa vecchia guerra gli Apuani (a differenza delle altre tribù liguri) se ne erano sempre tirati fuori, erano rimasti neutrali perchè in quel tempo terre impervie come le nostre valli poco interessavano a Roma, questo però fino al 193 a.C quando i fieri
Territorio Apuano
antenati scenderanno in campo assaltando i Romani. Comincia così il "De bello Apuano", un lungo periodo di sanguinose battaglie intentate per proteggere il territorio apuano dall'invasione romana.Tutto cominciò quando al termine della II guerra punica i Romani si attestarono su tutta la fascia costiera tirrenica fino ad arrivare al Porto di Luni (n.d.r:oggi in provincia di La Spezia). Il porto era attivissimo sia da un punto di vista commerciale (vedi le cave di marmo) che da un punto di vista militare ed era unito a Roma da una veloce strada (l'Aurelia Nova), erano sufficienti appena quattro giorni per portare notizie alla capitale.Tale luogo raggiunse in breve tempo un'importanza fondamentale e gli Apuani schivi e riluttanti si incominciarono a preoccupare da tutti questi movimenti.L'evento che fece precipitare i fatti fu quando il console Marco Porcio Catone stazionò con una flotta di 25 navi nel porto in attesa di truppe di terra destinate queste alla spedizione in Spagna. La grande confederazione degli Apuani si sentì  minacciata e la più potente fra le popolazioni

L'antico Porto di Luni
(oggi frazione di Ortonovo
prov di La Spezia)
liguri rimaste indipendenti(che si era ritirata sulla alte montagne) si rese conto di essere ormai circondata e si preparò inevitabilmente alla guerra. Nel 193 a.C partì così un attacco in grande stile,ventimila Apuani invasero tutta la pianura di Luni, ma non solo, l'attacco si sviluppò su più fronti, altri diecimila occuparono Piacenza e ben quarantamila si accamparono sotto Pisa. Naturalmente i Romani non rimasero con le mani in mano e in soccorso da Arezzo giunse il generale Quinto Minucio Termo che salvò Pisa da sicura distruzione,ma non salvò però il circondario che fu completamente distrutto, anzi c'è da aggiungere che miracolosamente l'ufficiale romano scampò ad un imboscata, salvato fortunosamente dalla sua cavalleria. Solo l'anno dopo Quinto Minucio riuscì ad affrontarli in campo aperto e riportò una schiacciante vittoria, al suolo rimasero novemila guerrieri Liguri. Sbaragliati i nemici i Romani entrarono così in territorio apuano. La sconfitta però non indebolì nell'animo i valorosi soldati nostrali, che tre anni dopo ripartirono al contrattacco e respinsero nuovamente gli odiati Romani oltre confine a costo però di notevoli perdite. Dopo tre anni di dure battaglie e un enormità di morti da una parte e dall'altra il generale Quinto Minucio Termo fu rispedito a Roma dove non ottenne il trionfo (n.d.r: il trionfo era il massimo onore nell'antica Roma, veniva tributato con una cerimonia solenne al generale che avesse conseguito grandi vittorie)segno che le sue campagne non furono riuscite a porre un freno all'aggressività degli Apuani. Ma c'era anche di più e di peggio, nonostante Pisa fosse scampata alla devastazione, le comunicazioni via terra con il fondamentale porto di Luni erano interrotte, poichè gli Apuani avevano occupato tutta la zona costiera dell'attuale Versilia
tagliando di fatto ogni via e in più a dar manforte alla causa apuana si allearono a loro perfino i Liguri Friniati provenienti dal modenese e dal reggiano.Arrivò allora il turno del console Marco
L'impervio territorio apuano oggi
Valerio Messalla, che provò anche lui ma senza successo a frenare le incursioni liguri. La cosa ormai per il Senato romano cominciò ad assumere priorità assoluta e per tutto dire nel 186 a.C fu organizzata un 
operazione in larga scala e due eserciti consolari quello di Caio Flaminio e quello di Marco Emilio furono mandati all'inseguimento dei Liguri.Il primo li rincorse lungo le valli appenniniche che scendevano verso l'Arno, prima intercettò i Friniati e poi gli Apuani che furono ambedue sconfitti, mentre il secondo risalì la Valle del Serchio saccheggiando tutte le terre abitate costringendo gli abitanti a rifugiarsi sulle montagne più alte. Pur sconfitti gli Apuani non deposero mai le armi ed è per questo che costrinsero un ulteriore console Quinto Marcio Filippo ad un'ennesima operazione militare.Il console partì al comando di tremila fanti e 150 cavalieri romani, assistiti da altri cinquemila fanti e duecento cavalieri "socii" (n.d.r: per socii si intende tutti quei popoli o quelle città legate a Roma da un trattato di alleanza),avanzò però imprudentemente negli impenetrabili boschi garfagnini e nelle scoscese gole dove vennero accerchiati e letteralmente massacrati, subendo di fatto la più grave sconfitta di tutte le guerre contro i Liguri, restarono sul campo più di quattromila morti romani, vennero perse tre insegne delle legioni e undici insegne degli alleati, mentre il resto dell'esercitò si ritirò in disordine. Il luogo dello scontro è passato alla storia con il nome di"Saltus Marcius", identificato forse in una località vicino a Castiglione Garfagnana conosciuta appunto come Marcione (per i dettagli della battaglia leggi: http://paolomarzi.blogspot.it/2014/05/meglio-dei-300-spartani). La clamorosa vittoria rimbalzò di villaggio in villaggio e baldanzosi gli Apuani ripresero le scorrerie sul litorale versiliese, mentre dall'altro lato anche gli Ingauni nella riviera ligure di ponente a tali notizie si sollevarono e nel 189 a.C trucidarono il pretore Quinto Bebio e la sua scorta che erano diretti in Spagna. Consoli e
generali romani con gli anni si susseguirono ad un ritmo vertiginoso e frenetico, nessuno nonostante le vittorie riportate piegò in maniera definitiva il valoroso popolo apuano.Ci fu però un fatto che cambiò le sorti della guerra, quando gli Ingauni (n.d.r : stanziati nei pressi di Albenga) furono definitivamente sconfitti e resi inabili alla guerra,con questa azione gli Apuani potevano essere stretti in una morsa a tenaglia da nord a sud e fu proprio così che nella Liguria orientale i Romani si preparavano ad una azione risolutiva, tanto da raccogliere quattro nuove legioni che raggiunsero lo spaventoso numero di 35.800 uomini, di rincalzo è bene specificare che ben tre eserciti gravitavano intorno al territorio apuano pronti casomai ad intervenire ce ne fosse stato bisogno. Nel 180 a.C  le quattro legioni agli ordini di Publio Cornelio Cetego e di Marco Bebio Panfilo si mossero inesorabilmente contro gli Apuani con l'intenzione di risolvere definitivamente il "problema apuano".I nostri antenati furono colti completamente di sorpresa perchè l'esercito romano era sceso in battaglia prima del consueto, cioè prima che (come usanza voleva) assumessero il comando i nuovi consoli e così quasi senza colpo ferire furono costretti alla resa dodicimila Apuani.A vittoria ottenuta i due capi militari consultarono il Senato romano sul da farsi e fu presa una clamorosa ed indegna decisione, quella di deportare nientedimeno che quarantamila capifamiglia con mogli e figli e confinarli nel lontano Sannio (n.d.r: regione nel sud italia compresa fra Abruzzo,Molise e Campania) per fare così in modo che questa razza fosse per
sempre estirpata da questi luoghi e non potesse così creare problemi futuri alle conquiste romane. Qui in questa regione (il Sannio) vivranno per secoli in un isolamento etnico umiliante con il nome di Ligures Baebiani e Corneliani, dal nome dei consoli che li sconfissero. Nel frattempo le legioni proseguirono nella loro pulizia etnica catturando ancora settemila capifamiglia che subirono la solita sorte. Sopravvissero ancora nella loro terra e in vallate isolate poche migliaia di imprendibili Apuani che dopo molti anni di pace si ribellarono nuovamente nel 155 a.C, ma vennero inevitabilmente spazzati via dai soldati del console Marco Claudio Marcello che chiuse in modo risolutivo la"questione apuana", tanto da ottenere quel trionfo tanto agognato e sperato dai suoi molteplici precedessori nella gloriosa Urbe ed una dedica di riconoscenza da parte degli abitanti di Luni.
Finiva per sempre così la gloriosa epopea dei Liguri Apuani, un popolo coraggioso, fiero ed indomabile che solo la deportazione e quasi quarantamila legionari romani cancellarono per sempre dalla faccia della Terra.

L'infelice storia del "Papa buono" e del soldato garfagnino

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La vita di un uomo è fatta anche di incontri con altre persone, sono
Papa Giovanni XXIII, il Papa buono
esistenze che si intrecciano, sono destini che certe volte fanno parte di un unica trama e che nella maggior parte dei casi la sorte le rende ineluttabili e quando una cosa è segnata nel fato state sicuri che prima o poi accadrà. Questa vicenda che andrò a raccontare è la conferma di tutto ciò e me l'ha riportata alla mente un caro amico alcuni giorni or sono ed è la storia del "Papa buono" e del soldato garfagnino. Non è una storia qualunque o un sentito dire, ma sono fatti che rimarranno indelebili nella mente di colui che quarantuno anni dopo quei tragici eventi che narrerò diverrà Papa con il nome di Giovanni XXIII,uno dei Papi più ben voluti di tutta la millenaria era della chiesa cattolica, conosciuto appunto con l'appellativo di "Papa buono". Gli avvenimenti a dire il vero si ridurrebbero a poca cosa, per scrivere questo articolo basterebbero ben poche righe, ma qui il cronista in questo racconto vuole riportare a galla i fatti per cercare ulteriori notizie su questa vicenda incredibile e toccante,infatti purtroppo nelle mie ricerche non sono riuscito a dare un seguito a questi accadimenti,ad esempio non sono riuscito a trovare i discendenti di questo povero soldato di cui parlerò e non sono riuscito a trovare nemmeno il luogo di sepoltura e chiunque fosse in grado di darmi notizie in tal senso sarei ben lieto di aggiornare questo racconto e dare completezza a questa vicenda che merita veramente di avere gli onori della cronaca.Ma partiamo dall'inizio e poniamoci questa domanda: cosa c'entra un futuro Papa con un soldato? In questo caso molto e diamo allora ordine ai fatti.


Angelo Giuseppe Roncalli (il futuro Papa Giovanni XXIII) nasce il 25 novembre del 1881 a Sotto il Monte in provincia di Bergamo da un umile famiglia contadina, a dieci anni vieni mandato in seminario dove si distingue per il rendimento agli studi ed è a vent'anni quando era ancora chierico che si avvicina per la prima volta al mondo militare, quando chiamato al servizio di leva viene mandato al 73° reggimento fanteria (Brigata Lombardia) a Bergamo destinato alla compagnia reggimentale di Sanità e lì conseguirà il grado di caporale.Venne poi congedato nel 1902 e nel 1904 Angelo divenne sacerdote. 
Angelo Roncalli soldato

Gli anni passavano e all'orizzonte venti di guerra cominciavano a spirare sull'Italia. La prima guerra mondiale cominciò così nel 1914 ma il nostro Paese ne era ancora fuori, ma ormai gli equilibri erano fragili. L'Italia come sempre è divisa su tutto e anche questa volta la scelta o meno di entrare in guerra fu condizionata dalle decisioni delle masse popolari, separate fra interventisti nella quali file si trovavano tutti coloro che vedevano in questa guerra un completamento del Risorgimento e dall'altra parte i neutralisti con a capo i liberali, i giolittiani e sopratutto i cattolici. Non basteranno quindi gli appelli alla pace di Papa Benedetto XV, l'Italia scenderà in guerra il 24 maggio 1915. A questa chiamata alle armi non scampa nemmeno don Angelo Roncalli che viene richiamato alle armi il 23 maggio 1915 nel Regio Corpo della Sanità Militare con il grado di sergente e così scrive nel suo diario quel giorno:
- Domani parto per i servizio militare in sanità. Dove mi manderanno? Forse sul fronte nemico? Tornerò a Bergamo, oppure il Signore mi ha preparato la mia ultima ora sul campo di guerra? Nulla so; questo solamente voglio, la volontà di Dio in tutto e sempre, e la sua gloria nel sacrificio completo del mio essere. Così e solo così penso di mantenermi all'altezza della mia vocazione e di mostrare a fatti il mio vero amore per la Patria e per le anime dei miei fratelli. Lo spirito è pronto e lieto. Signore Gesù mantenetemi sempre in queste disposizioni. Maria mia buona mamma aiutatemi ut in omnibus glorificetur Christus -
Affidando così l'anima alla gloria di Cristo, Angelo partiva per Milano dove fu dislocato all'Ospedale Militare Principale,
Corriere della Sera
successivamente fu trasferito a Bergamo al "Ricovero Nuovo" dove si trovò ad assistere sia spiritualmente ma sopratutto materialmente la marea di feriti che provenivano dal fronte trentino. Era un vero strazio questo continuo arrivare di questi poveri soldati mutilati, sfigurati e smembrati, sgombrati in fretta e furia sotto il fuoco nemico e trasportati fino alle retrovie lombarde per essere sottoposti ad interventi chirurgici, medicazioni e cure specifiche. La situazione cambiò drasticamente nel 1917 quando questo ospedale accolse centinaia di prigionieri italiani  rimpatriati dai Kriegfangenlager austriaci (n.d.r:campi di concentramento) , e qui se mi è permesso voglio aprire una parentesi più che doverosa, perchè abbiamo sempre sentito parlare degli spaventosi lager tedeschi solo a riguardo della II guerra mondiale, ma è bene e giusto sottolineare che molti di questi erano presenti anche nella "Grande Guerra", tanto per "snocciolare" qualche numero e rendersi bene conto delle proporzioni del massacro nei campi di concentramento austriaci (specialmente dopo la disfatta di Caporetto) i prigionieri italiani erano oltre seicentomila, ma ancora e più impressionante è la cifra dei morti che superava le centomila unità, molti dei nostri connazionali morivano per le
Soldati italiani rimpatriati
dai campi di prigionia austriaci
ferite riportate in battaglia, ma la maggior parte periva sopratutto per malattie varie: per tubercolosi, polmonite e per fame. Qualcosa però si mosse per salvare da sicura morte questi prigionieri e grazie all'iniziativa della Croce Rossa fu creata a Ginevra l'Agenzia di soccorso a favore dei prigionieri di guerra che d'accordo con le nazioni belligeranti faceva in modo che vi fosse uno scambio fra eserciti di tutti quei prigionieri malati o feriti. Ed è qui che molto probabilmente entra in scena il soldato garfagnino Diani Egidio, originario delle Verrucole (comune di San Romano).Plausibilmente Egidio proveniva da uno di questi campi di concentramento austriaci e rientrò in Italia attraverso la Svizzera proprio grazie alla Croce Rossa e a questo accordo per la salvaguardia dei prigionieri malati. Infatti il povero Egidio era stato colpito da polmonite e per questo trasferito all'ospedale di Bergamo "Banco Sete".Nel frattempo don Angelo Roncalli era stato promosso Sottotenente e nominato cappellano militare, coordinava di fatto le varie attività delle Case del Soldato e naturalmente non
Campo di concentramenti austriaco
mancava mai l'assistenza spirituale a tutti gli ammalati e ai feriti e fu proprio durante questo peregrinare da un ospedale all'altro per dare conforto e aiuto che don Angelo conobbe Egidio Diani. Quest'uomo garfagnino rimase talmente impresso nella memoria e nel cuore del futuro Papa che divenne con ogni probabilità amico e confidente, addirittura fino all'estremo momento della morte del soldato, tanto che Don Angelo su una fotografia che ritraeva Egidio vergò di suo pugno le seguenti parole:

"Diani Egidio di San Romano Garfagnana (Verrucole) distretto di Lucca, 3° artigl. da Montagna-classe 1898: morto di polmonite violenta e da me assistito all'Osped. Mil. "Banco Sete" in Bergamo, la notte del 19 aprile 1917. Anima eletta e pura, carattere schietto ed amabilissimo, era troppo degno di abitare con gli angeli prima che i contatti profani potessero contaminare il cristiano candore. Nelle ore estreme promise di ricordarsi di me in Paradiso"
Lapide commemorativa sui morti
della I guerra mondiale
 sul campanile delle Verrucole
compare anche il nome di Diani Egidio
L'episodio toccò l'anima di don Angelo che ricordò il fatto anche nel discorso del 1920 al VI Congresso Eucaristico Nazionale in cui egli fra l'altro ricordò anche: "...le lunghe notti vigilate fra i giacigli dei cari e valorosi soldati..." e rievocava quando: "...mi buttavo in ginocchio a piangere come un fanciullo  per le morti di quei poveri figli del nostro popolo, modesti lavoratori dei campi..." e nemmeno quando diventò Papa si dimenticò di quella circostanza, quando parlava di guerra ricordava sempre il garfagnino Egidio Diani a conferma di ciò si vada a leggere alcune delle sue biografie ("La storia di Papa Giovanni raccontata da chi gli è stato vicino" oppure "La vita del Papa buono nelle sue parole" e altre ancora) dove questo triste accadimento viene sempre citato. Il Papa conservò sempre fra le sue cose più care questa foto dei fatti sopracitati e oggi questo ritratto di Egidio è sempre fra noi ed è conservato nel museo dedicato a Giovanni XXIII a Sotto il Monte a sottolineare l'importanza morale che ebbe per il Santo Padre questa immagine.
Ricorrono fra pochi giorni i 99 anni della morte del soldato Egidio Diani di colui che il Papa definì-anima eletta- e sarebbe bello ricevere nuove notizie su questa vicenda.Dagli archivi del Ministero della Difesa sui caduti della Grande Guerra non risulta nemmeno il luogo di sepoltura anche se sul campanile della chiesa delle
Dall'Archivio dei morti della Grande Guerra
compare il nome di Diani Egidio
 ma...niente di più
Verrucole nella lapide commemorativa dei morti della prima guerra mondiale compare il suo nome. Beh, io sono qua in attesa di notizie per concludere degnamente la storia del Papa buono e del soldato garfagnino...
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