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Gli stemmi comunali della Garfagnana: ecco il loro curioso significato...

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Avete mai dato un'occhiata allo stemma del vostro comune? Ma cosa mai vorranno dire tutti quei simboli? Fiori, galli,torri,leoni e perfino una bomba. Buona parte di queste effigi campeggiano negli stemmi comunali di tutta la Garfagnana e tutto queste figure fanno parte di un mondo complicatissimo e veramente difficile da interpretare, qui si entra nel campo dell'araldica. L'araldica è quella materia di cui si interessano esimi professori, che studia il blasone,cioè gli stemmi. In altre parole è quel settore del sapere che ha lo scopo di individuare, riconoscere, descrivere e catalogare gli elementi grafici di uno stemma per identificare in modo certo una famiglia, un gruppo di persone o una istituzione. Ecco, un'istituzione, come ad esempio i nostri comuni.Oggi cercheremo di capire comune per comune il significato di questi emblemi.In questo viaggio fra gli stemmi della Garfagnana mi farò aiutare dal volume"Blasonario della Garfagnana" del professor Francesco Boni De Nobili, noto scrittore e araldista.Quindi se vi fa piacere entreremo nei meandri della simbologia di questi stemmi e andremo ad analizzare uno per uno tutti i 16 comuni (+ 3)  cercando di spiegare il loro significato sconosciuto a molti,ne verrà fuori un quadro sicuramente curioso ed interessante.Non mi dilungherei di più e andrei a cominciare dal blasone che rappresenta tutta la Garfagnana essendo fra l'altro l'emblema stesso dell'"Unione dei Comuni della Garfagnana".
Prima di cominciare però vorrei fare una premessa, questa analisi andrà a descrivere gli emblemi di oggi, poichè nei secoli passati o sono cambiati radicalmente o gli attuali sono stati modificati in qualche variante.Vorrei aggiungere che la ricerca dei significati e dei colori  di questi stemmi dei comuni garfagnini si fonda essenzialmente su tre ulteriori fonti:i timbri comunali risalenti più o meno al primo decennio successivo all'annessione al Regno d'Italia, il frontespizio del volume del Raffaelli "Descrizione geografica,storica, economica della Garfagnana"(1879) e il volume "Gli stemmi dei comuni della Toscana"(1860) realizzato da Angelo Ardinghi.Userò inoltre, come giusto che sia, per la descrizione degli stemmi le terminologie (comprensibili) che si usano in araldica.

"Unione dei Comuni della Garfagnana": D'azzurro, alla bomba nera,infiammata di rosso in alto e ai lati
Motto: LOCO ET TEMPORE
Stemma derivante dall'impresa vittoriosa di Alfonso I d'Este (regnante in Garfagnana dal 1505 al 1534) contro gli spagnoli e l'esercito pontificio. Stemma detto della "granata svampante" con il motto"Loco et Tempore" coniato da Ludovico Ariosto come monito ad agire nel momento giusto e nel luogo giusto, come la bomba che scoppiava appunto nel luogo e nel momento giusto
Camporgiano: D'azzurro, a una fortezza d'oro, terrazzata di verde,merlata di otto pezzi,murata di nero, sormontata in capo da due stelle di sei punte d'oro,inframezzate da una cometa con coda d'azzurro
La versione ottocentesca tratta dal libro comunale presenta alcune innovazioni. La fortezza ricorda il possente torrione del castello quattro-cinquecentesco, sede dei giudici. La bandiera sventolante sulla torre nel vecchio stemma si riferisce alla funzione di governo esercitata da Camporgiano sull'alta Garfagnana nel periodo che fu vicaria.Le stelle potrebbero indicare la giusta guida riferita allo stesso giudice.La versione attuale talvolta raffigura una cometa d'azzurro anzichè. una bandiera. La cometa dovrebbe trattarsi di un'arbitraria,errata interpretazione della bandiera.
Careggine:  D'azzurro all'aquila di nero, coronata d'oro, posata sull'asse di un carro (d'oro), sulla campagna di verde e sormontata dalle parole CAR-POP di nero.Già il frontespizio dell'opera del Raffaelli (1879) propone questo stemma con l'aquila e il carro.L'aquila può essere un riferimento all'esercito estense di cui era già simbolo, mentre il carro richiama il nome del comune.La scritta è una sintesi di CARECINI POPULOS
Castelnuovo Garfagnana: D'oro, al leone al naturale.
Il leone nero si evince dagli esemplari rinascimentali posti sul piedistallo dell'altare di San Giuseppe nel duomo di Castelnuovo. Il leone è posto a ricordo dell'antico nome della città "Castel del leone", ma probabilmente si riferisce anche alla funzione dominante tenuta sulla Garfagnana, per secoli, sede di commissari e governatori
Castiglione Garfagnana: Troncato di rosso d'argento,al leone attraversante d'oro,sormontato da un cartiglio d'argento,caricato della legenda"Fortis et Fidelis" in caratteri neri.
La campitura, sebbene con i colori alternati potrebbe essere un richiamo ai colori di Lucca, città alla quale Castiglione rimase sempre fedele, come pure a Lucca si riferisce il motto nel cartiglio
Fabbriche di Vallico: (oggi facente parte del comune di Fabbriche di Vergemoli) D'argento alla banda ondata d'azzurro,attraversata da un castello d'oro, aperto e finestrato del campo,murato di nero,sormontate da tre stelle di otto punte.
La banda ondata d'azzurro si riferisce al torrente Turrite. Il castello raffigurato richiama probabilmente la rocca di Trassilico, antica sede comunale.Le stelle in questo caso richiamavano forse l'aggregazione di più popolazioni in unico comune.
Fosciandora:  Di cielo, al fiore d'argento,gambuto e fogliato di verde,nodrito sulla cima di una montagna al naturale cima innevata.
Il fiore è localmente interpretato come un giglio in virtù del suo colore.Il monte coperto di verde e di bianco fa evidente riferimento alla natura montuosa e boscosa del territorio. In taluni esemplari la cima del monte è innevata, forse con riferimento alle condizioni climatiche invernali
Gallicano: D'argento al gallo bargigliato e crestato di rosso,ardito sulla campagna verde
Lo stemma fa diretto riferimento per assonanza al nome del comune, che tuttavia deriva con tutta probabilità dal nome di Gallicus (con il suffisso anus indicante l'appartenenza) che potrebbe riferirsi al fondatore del paese. Il gallo ardito è simbolo di vigilanza e attesa
Giuncugnano : Di cielo d'azzurro,alla pianta di giunco tre rami fioriti e posti a ventaglio,il tutto al naturale,nodrita sulla cima di una montagna al naturale
Lo stemma fa diretto riferimento per assonanza al nome della località che sebbene derivi molto probabilmente dal nome Lucundius con il suffisso anus indicante appartenenza) tuttavia richiama la pianta di giunco
Minucciano: D'argento alla torre di rosso merlata di sette pezzi, aperta del campo, murata di nero,fondata sulla campagna di verde,cimata di un braccio.
La torre fa riferimento al fortilizio di Minucciano, il cui carattere bellico e rafforzato dal braccio armato.La porta aperta richiama la posizione geografica strategica del comune, a cavallo del crinale che separa la Valle del Serchio dalla Valle dell'Aulella.
Molazzana:  D'azzurro alla cinta ubica aperta di pietra,torricellata di tre pezzi coperti,fondata sulla pianura di verde.
Le mura turrite ricordano il possente castello di Molazzana ,intorno al quale si sviluppò il paese.
Piazza al Serchio: Di cielo,alla piazza di paese,con lo sfondo di un edificio coperto di rosso,accostato da due file di palazzi in prospettiva, al capo di verde, a undici pali di rosso, caricato di una spada in banda attraversante su un pastorale in sbarra,sormontati da una mitra vescovile
Il nome attuale del comune risale al 1863.Precedentemente era denominato Pieve di Castelvecchio. Spada,pastorale e mitra richiamano gli arcivescovi di Lucca che dai tempi remoti godevano del titolo del titolo di conti di Piazza e Sala.L'attuale statuto del comune di Piazza al Serchio rinvia la descrizione dello stemma a una riproduzione in calce nello statuto stesso,che raffigura la sommità dello stemma con pali di verde e di rosso, certamente conseguenza di un'approssimata interpretazione del tratteggio verticale, che rappresenta quest'ultimo colore.
Pieve Fosciana: D'argento al cuore ardente di rosso,accompagnato in punta da un cartiglio dello stesso caricato della legenda"Unum sumus" di nero.
Il cuore infiammato ricorda i sentimenti patriottici risorgimentali, come pure il motto "io sono uno". Per tradizione infatti a Pieve Fosciana nel 1831 è stata esposta per la prima volta in Toscana la bandiera tricolore.Diversi abitanti parteciparono ai moto del 1848.
San Romano Garfagnana: D'azzurro,alla torre di rosso, merlata di cinque pezzi,murata di nero,aperta e finestrata del campo,fondata sulla pianura di verde;al capo di rosso,caricata da un ramo di palma di verde attraversato da una spada d'argento guarnita.
La torre ricorda la rocca tonda,una delle tre che formavano la fortezza delle Verrucole. Spada e palma ricordano San Romano soldato e martire che da nome al paese. La palma infatti è l'attributo tipico dei martiri,simboleggia la vittoria sulla morte.
Sillano:Troncato semipartito: nel 1°di cielo,a soldato romano rivolto,impugnante nella mano destra una spada posta in palo e sinistrato da un ramo di palma di verde,nodrito sulla partizione, nel 2° fasciato d'azzurro e d'argento di dieci pezzi, nel 3° palato d'oro e di rosso in dieci pezzi
La figura di un soldato romano richiama l'antica Roma tramite il nome di Silla. Un'antica epigrafe oggi scomparsa, faceva risalire la nascita di Sillano al 652 del calendario romano (102 a.C) quando il comandante Silla allora luogotenente di Mario si trovava in Liguria. Il ramo di palma fa probabilmente riferimento a San Bartolomeo apostolo martire patrono del paese. Come detto in precedenza la palma è il simbolo dei martiri.
Trassilico: D'azzurro alla rocca al naturale,merlata aperta e finestrata del campo, recante nella parte superiore due chiavi decussate e addossate,fondata su una montagna al naturale.
La torre richiama certamente l'antica rocca fortificata di Trassilico. Ardinghi raffigura la montagna al naturale"attraversata da una strada dello stesso,ondeggiante in palo e adducente alla porta".Il comune di Trassilico,con decreto 441 del 10 maggio 1947 è stato abolito.Oggi è sotto Gallicano
Vagli Sotto: D'azzurro alla rocca di rosso murata di nero,aperta, dal campo,merlata di quattro pezzi,fondata su una campagna di verde, cimata di una bandiera rivolta interzata in palo di rosso, accompagnata nel cantone destro del capo da una stella di sei punte d'oro.
Indagini effettuate nell'archivio comunale di Vagli circa lo stemma comunale,hanno dimostrato che  l'antico sigillo rappresentava una torre massiccia merlata alla guelfa sulla cui cima muoveva un guerriero,la torre accompagnata a sinistra da una stella.La rocca merlata fa riferimento ai fortilizi che difendevano Vagli di Sopra e probabilmente il dominio feudale dei signori di Careggine. Lo stemma è poi stato modificato. Dal vecchio al nuovo come in molti altri,ha avuto origine dal gusto, meglio del capriccio del disegnatore per la mania di qualcosa di nuovo e ha aggiunto una bandiera con i colori di Lucca a cui il paese appartenne.
Vergemoli: (oggi facente parte del comune di Fabbriche di Vergemoli) D'azzurro,al monte di tre colli all'italiana,,i laterali sostenenti ognuno una bandiera bifida,quella a destra in sbarra di verde e l'altra in banda di rossa,cimato da una croce d'oro, il tutto sormontato da tre stelle di sei punte,il monte sostenuto da una freccia scorciata d'oro,posta in fascia e accompagnata in punta da un compasso rovesciato,aperto e inframezzato da una luna crescente,il tutto d'oro.
I tre monti rappresenterebbero la natura montuoso del territorio con le Panie,le due bandiere gli stati confinanti,Lucca e Modena (ma andrebbero rivisti i colori), le tre stelle l'aggregazione di più popolazioni a formare il comune,la freccia posta in basso sarebbe un richiamo alle antiche miniere di ferro e fabbriche di armi,il compasso farebbe riferimento alla località posta fra le due valli,Vallis Gemina, e la luna crescente alla bellezza dei luoghi.
Villa Collemandina: D'azzurro al complesso architettonico della chiesa di San Sisto vista di fronte,di pietra murata di nero,coperta di rossa e cimata da una crocetta d'oro,sinistrata dal campanile addossato alla chiesa,pure di pietra,coperta di rosso e cimata da una crocetta d'oro. Il complesso architettonico è fondato su una campagna di verde,accostato da quattro cipressi al naturale,due a destra due a sinistra e sormontato dal punto del capo da una stella di sei punte.
L'edificio ricorda la chiesa parrocchiale di San Sisto con il campanile così ricostruita dopo il terremoto del 1920. Si tratta dunque di uno stemma recentissimo, approvato con D.P.R. del 9 marzo 1964.

Ecco qua, ognuno si può sbizzarrire a cercare il suo comune di appartenenza,ma come possiamo vedere le interpretazioni dei simboli sono sempre difficile da leggere, alcune ipotesi sono convincenti, altre un po' meno,altri simboli addirittura nei secoli sono stati mal copiati e trascritti in malo modo così da stravolgere il concetto originale, rimane comunque la bellezza di questi blasoni e a voi l'ardua sentenza:qual'è il più bello? e quale il più significativo?

Suoni, odori e rumori di un tempo lontano in Garfagnana

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La  banda di Gallicano 1891(foto tratta da
 "Gallicano in Garfagnana" di  Daniele Saisi 
I ricordi sono come la televisione, non hanno odori.Specialmente se poi questi ricordi vengono raccontati a terze persone,puoi raccontare bene quanto vuoi le tue reminiscenze ,ma i profumi,i rumori e gli odori di un tempo chi non li ha vissuti di prima mano non li potrà mai sentire e allora è bello quando si intervista una persona non farsi raccontare solamente degli accadimenti storici o farsi narrare storie di vita vissuta , ma è bello farsi rievocare gli odori e i rumori che noi oggi nel 2015 difficilmente risentiremo e allora adesso che siamo ancora in tempo dai nostri anziani facciamoci raccontare di questi odori e suoni di una volta, prima che spariscano per sempre nell'oblio del tempo, senza poi che nessuno un giorno ne abbia memoria. Raccontiamo per questo i suoni, i rumori e gli odori di un tempo in Garfagnana.


"I suoni di un tempo nei miei ricordi sono presenti.La banda gallicanese a quel tempo era al completo,dove pure mio padre suonava il basso,cioè il trombone, la banda era guidata dal maestro Cheli. Nei ritrovi familiari si sentiva suonare il suono della piccola fisarmonica.Qualcuno suonava pure l'organetto e alcuni il suffilo (n.d.r:lo zufolo) e si usava pure la chitarra, violini e cornette per fare le serenate sotto alle finestre alle ragazze.Si ballava al suono di un vecchio grammofono, ove le puntine già fruste stonavano la musica e allora si sostituiva la puntina che non lavorava più con qualche bollettina (n.d.r:chiodino). C'era pure chi soffiando in un gambo di zucca o nel corno di bue faceva strani suoni da far ridere la comitiva . Allora c'era il suono delle campane a festa, tirate dal campanaro per richiamare i fedeli. Si sentivano i suoni dei campanacci appesi al collo delle mucche e delle pecore. Si sentiva il suono delle sirene della Cucirini (n.d.r: fabbrica di filati in Gallicano) a mezzodì.Allora non si sentiva come ora il rumore dei motori dell'auto perchè ce n'erano poche, bensì il rumore delle ruote dei barocci trainati dai cavalli,rumore degli zoccoli dei muli che portavano la soma. Il rumore della trebbiatrice che sgranellava il grano, come pure il rumore della macchina che girando la ruota con un manico mandava le rappe del formentone (n.d.r: granturco) in pippoli, il rumore delle vassoie (n.d.r:vassoi di legno), mentre le massaie "vassoiavano" i cereali mandando via la pula, così facevano anche con le castagne fatte seccare nel canniccio dopo che gli uomini,poche alla volta mettevano in sacco e battevano sopra a un ceppo di legno facendo tanto rumore.Rumore del grembiule mentre "grembiulavano" la canapa appena
Calessino in viaggio verso la stazione
secca.
Rumore della macina e del torrente del vecchio mulino.Rumore del vecchio treno a vapore, della teleferica dei taglialegna, rumore dei carretti trainati dai contadini e dai buoi.Rumore dell'incudine quando il fabbro vi batteva sopra.Il rumore del telaio mentre menavano la spola per tessere la tela.Il rumore quando scardazzavano (n.d.r: pettinare e lisciare la lana con lo scardasso) la lana. C'era pure il rumore di una culla di legno che una mamma dondolava per addormentare il suo bimbo.Rumore di un calessino con il cavallo che portava la gente più benestante alla stazione.Rumore della fabbrica della metallurgica (n.d.r:la K.M.E di Fornaci di Barga). Poi più tardi, rumore di aerei di sirene d'allarme di bombe, di cannonate, di distruzioni perchè purtroppo allora c'era la guerra.Gli odori di un tempo!? Il pane appena sfornato, cibi cotti a legna, odore del latte appena munto, di ricotta, di formaggio fresco, odore di fieno appena tagliato o secco, odore di canapa, fiori di acacia, di timo, di menta,di colonia in erba, di frutta appena colta, odore di vinaccia nei giorni di svina.Odore di bucato fatto con la cenere, odore di ranno (n.d.r:miscuglio di cenere e acqua bollente usata un tempo per lavare i panni).Odore di ginepro bruciato nel grande caminetto per la vigilia di Natale e tante altre cose, come quando si cucinava il maiale, in casa c'era odore di salsicce fresche e di biroldi messi a cuocere nel grande laveggio (n.d.r:pentolone) al fuoco. Odore di siepi di biancospino.Odore di alloro, di muschio e felci recise. Gli odori sgradevoli  erano quando levavano il perugino (n.d.r:letame) dalle fogne per governare i campi.L'odore di concime di mucca e di cavallo che "seminavano" lungo la strada. Odore di sudore dei mietitori di grano mentre
facevano la siesta affaticati. Odore di terra quando cade la pioggia d'estate. Terra ancora incontaminata...Terra di Garfagnana"
Barga bombardata

Intervista fatta a Giulia Biagioni, che è stata l'ammirata regina di molti Maggi nel passato.
(Intervista tratta dal libro "Stasera venite a vejo Terè")


25 luglio 1911: per la prima volta il treno in Garfagnana.Una storia di lotte, sommosse popolari soppresse dall'esercito e ...di uomini veri

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25 luglio 1911 il treno raggiunge Castelnuovo per la prima volta
Il 25 luglio 1911 è una di quelle date che senza ombra di dubbio in Garfagnana si può dire storica non avendo paura di esagerare, anzi meglio ancora, oserei definirla data epocale, fondamentale e proprio per questo merita veramente di essere ricordata a pochi giorni dal suo ultracentenario anniversario. Infatti era un martedì mattina afoso di 104 anni fa, quando proprio quel 25 luglio per la prima volta il treno giunse a Castelnuovo Garfagnana fra il tripudio generale.Finalmente buona 
25 luglio 1911 per la prima
volta il treno a Castelnuovo (foto tratta
 dalla collezione di Silvio Fioravanti)
parte della Garfagnana aveva un collegamento diretto con il mondo, con nuovi commerci e con le grandi città, attraverso il mezzo più veloce che esisteva allora:il treno. Ma quante tribolazioni, quanti scontri, quanto penare per poter inaugurare quella benedetta tratta Fornoli-Castelnuovo.Tutto cominciò addirittura nel 1892.Ma andiamo per gradi e raccontiamo come si arrivò a questo agognato 25 luglio 1911.A onor del vero è giusto però dire che il primo treno alla nuovissima stazione di Castelnuovo Garfagnana giunse nella primavera del solito anno in un viaggio di prova.Comunque il viaggio inaugurale vero e proprio risale proprio come detto a quel 25 luglio.Era un martedì mattina e il treno giunse in stazione alle 10:40,lo sbuffo della locomotiva GR 290 e il suo sferragliare forte delle carrozze mandò in visibilio migliaia di cittadini che erano venuti ad assistere allo straordinario evento,la festa fu grande in ogni nuova stazione della valle.Particolare fu la sosta a Barga-Gallicano dove si stava tenendo anche una manifestazione per la costruenda strada del Piangrande, importante anche la fermata a Castelvecchio, dove purtroppo mancava un illustre partecipante,quel Giovanni Pascoli forse assente per polemiche e dissidi con l'amministrazione comunale di Barga. Castelnuovo era invece imbandierata a festa,da tutta la Garfagnana erano accorsi per vedere il treno,la festa prosegui al Teatro Alfieri dove si tenne un
25 luglio 1911 per la prima 
volta il treno a Castelnuovo (foto tratta
 dalla collezione di Silvio Fioravanti)

meraviglioso ballo in maschera.Ma prima di quel giorno il treno arrivava solamente fino a Fornoli,la ferrovia era già li nel 1898 e la Garfagnana in compenso era stata dimenticata da tutti, eravamo considerati una terra di nessuno,ma grazie all'amore,alla passione e alle dedizione delle persone, una valle intera giunse al suo scopo (esempio da prendere, ma oggi dimenticato direi...).Dopo l'unita d'Italia fummo annessi alla provincia di Massa e qui abbandonati,ogni promessa e ogni progetto cadeva come foglia morta e di conseguenza cominciò una triste e dolorosa emigrazione della gente verso nuove terre e prospettive di vita, ma per fortuna c'erano ancora persone che credevano in una rivalsa della valle, giornalisti come il Giber,il tipografo Rosa, il conte Carli,il capitano Coli e molti altri illustri personaggi della zona iniziarono una battaglia per la Garfagnana e il suo futuro.Nel 1892 all'ennesimo rifiuto dello stato per avere finanziamenti sulla ferrovia ci fu la prima protesta, il tipografo Agostino Rosa percorse le vie di Castelnuovo con un corteo dove capeggiava il motto "Abbasso il governo della lesina (n.d.r: spilorcio)" questo creò molti problemi a Rosa, ma la politica fatta al tempo da uomini veri non lo abbandonò e scese in piazza ancora insieme a lui in un dibattito pubblico al Teatro Alfieri, un dibattito feroce e polemico contro il governo centrale e venne così poi anche il 9 dicembre 1894,l'anno della svolta perchè Lucca accolse fra le sue braccia migliaia di garfagnini che sfilarono per le vie della città, fu un abbraccio politico e culturale dove la stessa Lucca appoggiò in tutto e per tutto la Garfagnana.Il nuovo secolo non portò a niente di buono,le lotte si fecero più aspre e dure, ma però si raggiunse un importante accordo: un'alleanza fra Barga e Castelnuovo, che ebbe il suo apice in un incontro pubblico nel capoluogo garfagnino il 9 settembre 1900. Giuseppe Salvi, Alfredo Caproni, Guilio Giuliani e Alfonso
L'ingegner Donati dell'omonima
ditta di costruzioni che segue i
lavori sulla tratta per Castelnuovo
 Stefani fra i barghigiani si confrontarono e fecero unione con i castelnuovesi Marco Pelliccioni, Giuseppe Bernardini (Giber) ed Edoardo Aloisi. Ma ancora il governo di Roma non sentiva storie e non faceva un bel niente.Nel 1904 per tutta risposta i sindaci della Valle del Serchio e della Lunigiana riuniti nella Rocca Ariostesca minacciarono in toto le dimissioni se qualcosa non si fosse mosso per la sospirata ferrovia e finalmente uno spiraglio si aprì, il ministero concedette alcune aperture, ma poi come è nella mala consuetudine della politica il parlamento si rimangiò ogni promessa e peggio ancora ventilò la sospensione definitiva di ogni lavoro. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, il pandemonio totale, giorni come questi pochi se ne ricordano nella valle,scoppiò la protesta con tutta la sua violenza.Centinaia e centinaia di cittadini scesero in piazza creando non pochi problemi e disagi.Le manifestazioni si fecero dure, i giornali dell'epoca riferivano di un forte aumento nelle tensioni tant'è che da Lucca fu inviato l'esercito: uno squadrone del XVI reggimento di cavalleria reale per sopprime le rivolte, presidiare la zona e dar man forte ai carabinieri. A Camporgiano una manifestazione non autorizzata fu dispersa con l'aiuto della cavalleria,decine furono gli arrestati,fra questi addirittura Leonardo Mordini, figlio dell'esimio garibaldino di Barga che fu rilasciato nell'imbarazzo generale. La situazione era arrivata a un momento che doveva trovare una soluzione sola, la Garfagnana e la Valle del Serchio tenevano troppo alla loro ferrovia e così anche a Roma capirono che era arrivato il momento di desistere,le
Lavori in galleria
sommosse popolari in Garfagnana arrivarono in sede parlamentare e furono così trovati magicamente i fondi per portare almeno fino a Castelnuovo Garfagnana la linea ferroviaria e così finalmente si arrivò al fatidico 25 luglio 1911 e uno speciale del giornale "La Garfagnana"così riportava in tutta la sua pomposa retorica post-unitaria:

“Fu lotta aspra lunga, titanica; tutti gli sforzi, anche quando ci dilaniarono i furori della fazione, furono diretti a questo unico intento: abbattere le barriere che fino a ieri ci tennero schiavi; incunearci, a bandiera spiegata, nelle grandi correnti della vita; ritrovare e sentire fratelli i fratelli d'Italia nella sapiente equità delle leggi eguagliatrici e materne. […] Una nobile opera di civiltà e di pacificazione sta, dunque, per compiersi. Questa è la significazione vera e profonda dell'odierna cerimonia inaugurale. Si pianta una pietra miliare che scava un abisso tra un frammento di vecchio mondo che muore e un piccolo nuovo mondo che sorge.”
L'allora nuovissima stazione
di Barga-Gallicano
Si assistette così in quegli anni alla costruzione del futuro di una terra che chiedeva attenzione per i propri figli.La Garfagnana non voleva essere emarginata e dimenticata e fu solo grazie ad una classe politica e intellettuale coraggiosa che si raggiunsero,seppur tra mille fatiche e patimenti,gli obiettivi prefissati.

PS: Ah! Dimenticavo.Solo nel 1940 si poté congiungere Castelnuovo con Piazza al Serchio e poi il 21 marzo del 1959 si unì anche la Garfagnana con la Lunigiana,tratto inaugurato dall'allora Presidente della Repubblica Gronchi.Questo per dire che per completare la linea Lucca-Aulla da quel 1911 ci vollero altri 48 anni...Ma questa è un'altra storia che vi racconterò un'altra volta...

Gli antichi garfagnini: gli Apuani,la loro lunga storia dal delta del Rodano,fino alla deportazione nel Sannio.

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Guerriero Apuano
Non sarà sicuramente questo articolo ad essere esaustivo per quanto riguarda questo soggetto che andrò a trattare, tengo subito a dirlo, lungi da me, ci mancherebbe altro.La materia è troppo ampia e questo vuol essere solo "un aperitivo" per chi vuole approfondire di più questo argomento.Fatta questa doverosa precisazione, oggi quindi conosceremo meglio un popolo fiero e indomito, piegato solo (e con fatica) dall'esercito romano, a quel tempo il più potente del mondo.Raccontiamo così degli antichi abitanti della Garfagnana: i Liguri -Apuani. Qui in questo blog abbiamo sempre trattato delle loro leggende,dei loro usi e costumi mentre questa volta andremo a conoscerli un po' più in profondità e andremo a scoprire l'origine dei nostri antenati.
La loro genesi è lontanissima si parla già che abitassero le nostre zone già dall'età del rame (tanto per capirsi 3000 anni prima di Cristo).Originari forse del delta del Rodano (nel sud est della Francia), furono spinti qui a sud dal sopraggiungere di altre popolazioni e si stanziarono fra Arno e Magra, ma soprattutto sulla fascia collinare e montana dell'entroterra.Bisogna subito però fare delle differenze per ben capire la loro struttura sociale.Essi facevano parte di un unica cosiddetta "nazione"chiamati appunto liguri che a sua volta si suddivideva in più di 30 tribù, fra le più importanti gli Statielli nella zona di Alessandria , i Tigulli nella riviera ligure di levante,gli Ingauni nella zona di Albenga, gli Intimilii nella zona di Ventimiglia, i Friniati fra Modena e Reggio ed i nostri Apuani. Gli Apuani stessi vengono considerati a giusto modo appartenenti al gruppo ligure orientale ricco di influenze celtiche, non potevano però correttamente definirsi un popolo, come le loro tribù "cugine" che disponevano di città e di vere e proprie capitali come Album Intemelium, Taurasia, Genua e avevano per di più  anche un'economia avanzata.I nostri avi è bene chiarirlo furono da subito un popolo bellicoso e con un senso del sacro non indifferente.Avevano un fortissimo senso magico-religioso della vita, convinti
Elmo Apuano
dell'esistenza di forze sovrumane e invisibili, forze che facevano parte di ogni cosa, che dovevano essere controllate dalle tribù attraverso una serie di rituali, sacrifici e simboli, indispensabili per vivere in armonia con le forze naturali del mondo e delle severe montagne circostanti. Erano

privi inoltre di qualsiasi organizzazione di tipo statale e vivevano in tribù, la loro struttura sociale era dovuta in particolar maniera dalla conformazione del terreno della nostra valle, basavano la loro economia prevalentemente sulla pastorizia transumante e quindi parzialmente nomade, ed inoltre incrementavano le loro attività con periodiche scorrerie a scopo di rapina ai danni delle popolazioni più avanzate. Gli Apuani non arrivarono mai, come detto ad avere una capitale o delle città vere, il territorio era diviso in "conciliabula", unità territoriali composte a loro volta da castellari, villaggi fortificati temporanei o permanenti posti su alture (n.d.r:oggi vediamo così messi molti paesi della Garfagnana) dove la popolazione si rifugiava in caso di attacco da parte dei nemici, intorno a questi castellari gravitavano un certo numero di vici (villaggi), dove veniva praticata un agricoltura rudimentale. Ma c'era poco da fare per"sbarcare il lunario" viste le grosse difficoltà per coltivare rimaneva un'unica soluzione per loro:fare guerra e razzie, essi vivevano infatti in una vera e propria società organizzata per una guerra permanente. Gli etruschi in queste zone nel periodo della loro massima espansione trovarono una guerriglia implacabile che ne arrestò l'avanzata, ma non solo, gli Apuani insieme ai loro amici Friniati decisero di attaccarli in casa loro, posizionandoli definitivamente sulla riva meridionale dell'Arno.Rari furono anche gli scambi commerciali fra queste due nazioni tanto
La zona dei liguri apuani
diverse.Ma nella leggenda e nella storia rimarranno sempre le guerre contro Roma.Le asprissime lotte furono descritte magnificamente da autori classici latini e greci,su tutti Tito Livio (n.d.r: storico romano) che rimase colpito dalle tempra e dalla tenacia degli Apuani e scrisse che in terra apuana i legionari avrebbero trovato"armi e solo armi ed un popolo che nelle armi aveva riposto ogni speranza".Virgilio parla dei robusti Apuani "avvezzi alla fatica" e ci narra anche di un guerriero di nome Cupavo, figlio del Re ligure Cigno, che delle penne di tale uccello aveva adornato l'elmo(per la leggenda bellissima leggi:http://paolomarzi.blogspot.it/2014/09/fra-leggenda-e-realtala-storia-di.html).Tornando alle guerre con Roma i primi scontri iniziarono nel 234 a.C per la conquista della zona di Lucca.In seguito ad un periodo di lotte ad esito incerto gli Apuani inflissero una clamorosa sconfitta ai romani.Nel 186 a.C il console Marcio con il suo esercito fu travolto,quattromila uomini uccisi, molti prigionieri,armi ed insegne gettate alla disperata tanto che, sempre Tito Livio scrisse l'ormai famosa frase:"...si stancarono prima i Liguri di inseguire che i Romani di fuggire..."(per la battaglia leggi:http://paolomarzi.blogspot.it/2014/05/meglio-dei-300-spartani-quando-gli.html).Alla fine di ogni battaglia,braccati dalle legioni romane gli Apuani tornavano a rifugiarsi fra i monti garfagnini, per poi ridiscendere nei momenti favorevoli per nuove spedizioni o razzie nel modenese, nel bolognese e nel pisano (Pisa stessa subì un lungo assedio apuano).Roma ne aveva però le tasche piene di questo barbaro popolo che teneva in scacco il più potente esercito del mondo e decise una volta per tutte di mettere la parola fine a questa storia decidendo per la più drastica delle soluzioni:la deportazione di massa.Nel 180 a.C i consoli Publio Cornelio Cetego e Marco Bebio Tanfilo presero prigionieri ben quarantamila apuani,fu una guerra totale, villaggi incendiati,bestiame ucciso e sempre nello stesso anno il nuovo console Flavio Flacco assaltò gli Apuani nei pressi del fiume Magra e ne catturò altri settemila.Si parlava di probabili tradimenti, di inganni e di atrocità perchè di solito Tito Livio sempre preciso e pignolo, non dice mai esplicitamente come i romani riuscirono a deportare una popolazione senza che mai avessero vinto una battaglia vera e propria.Cominciò comunque una lunga marcia di trasferimento nel Sannio (n.d.r:oggi la zona si estende su gran parte del Molise e sulle aree limitrofe dell'Abruzzo e della Campania)),così in breve tempo si poterono insediare i nuovi e fedeli coloni romani, incentivati economicamente da Roma stessa a occupare queste nuove terre.Ma come si suol dire non tutte le ciambelle riescono con il buco e così fu che alcune comunità di Apuani sopravvissero ancora nelle nostre montagne, nonostante tutto per un quarto di secolo, ancora ci furono ancora incursioni apuane tanto da rendere Luni in una situazione quanto mai precaria e difficile.Nel 155 a.C si
Rievocazione storica:
scontro fra romani e apuani
risolse una volta per tutte con la vittoria decisiva dei romani, il console Marcello,ebbe l'onore del trionfo e i nuovi coloni romani di Garfagnana ringraziarono il generale romano dedicandogli una colonna rituale.

Ancora oggi però nelle nostre vene di fieri garfagnini scorre il sangue di questi rozzi e fieri pastori-guerrieri, ancora qualcosa del loro carattere è nella nostra anima di coloro che non dissero mai di si a nessuno.

La storia del Gruppo Valanga. Battaglie, sacrifici e tradimenti

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Partigiani garfagnini in azione
Ci sono delle cose  che il tempo avvolge in un aura di leggenda, sempre, fin dalle scuole elementari ho sempre sentito parlare quando si studiava la II guerra mondiale in Garfagnana delle memorabili e sfortunate imprese del Gruppo Valanga, una delle formazioni partigiane più celebri in tutta la valle, attiva nella zona dell'Alpe di Sant'Antonio e in genere in tutta la bassa Garfagnana. Già il nome "Valanga" di per se nella fantasia di bambino contribuiva ad alimentare ancora di più la mia curiosità sulla storia di questa formazione di cui feci una ricerca scolastica ben 30 anni fa circa e che oggi ho deciso di riportare a galla corretta e riveduta, ricordo che a narrarci i fatti a scuola venne il maestro Silvano Valiensi (amico del mio babbo) che aveva fatto parte attivamente di questo gruppo partigiano. Basta quindi con i discorsi retorici e nostalgici e andiamo al nocciolo.
Tutto, come per tante altre formazioni partigiane, cominciò con l'8 settembre 1943, ormai tutti sappiamo i fatti di quel giorno che non starò qui a narrare, ma l'evidente situazione di sbando totale del Paese era evidente a tutti, molti soldati con l'inizio dell'anno 1944 disertarono piuttosto che aderire alla neo Repubblica Sociale di Mussolini, molti prigionieri alleati nella confusione generale di quel periodo fuggirono dai campi di prigionia nascondendosi nell'impervia Garfagnana.
I tedeschi si preoccuparono presto del problema ed emanarono bandi per cercare di ricatturarli, fin dal 14 settembre 1943 il comandante del presidio tedesco di Castelnuovo Garfagnana diffidava dall'aiutare i prigionieri fuggiti e i renitenti e prometteva di ricompensare con 5000 mila lire, viveri e tabacchi chi avesse aiutato a catturarli. Ma la nostra gente, per quell'innato senso di ospitalità e solidarietà umana accolse e aiutò tutti, in molti casi senza neppure pensare di commettere qualcosa di illecito e questo in pratica fu il primo vero atto di ribellione e di ostilità nei confronti dei tedeschi, infatti molti garfagnini che non si erano presentati alle armi per la Repubblica Sociale, rimanevano nascosti nelle capanne e nei metati,aiutati dai familiari, molti di questi decisero però di uscire da questo "impasse" e salirono sui monti e formarono di fatto le prime bande partigiane che, in origine, erano costituite quasi esclusivamente da persone che si nascondevano e basta e in questo quadro nacque così il Gruppo Valanga.
Siamo negli ultimi mesi del 1943 quando il ventiduenne Leandro Puccetti studente universitario di Gallicano iscritto alla facoltà di medicina e chirurgia decide di rompere ogni indugio, l'ardore
Leandro Puccetti
comandante del Valanga
patriottico e combattivo nel suo animo era superiore ad ogni cosa e il futuro comandante del Gruppo Valanga in quel tempo già svolgeva una certa attività che tendeva ad aggregare conoscenti per formare una banda partigiana,ma il bello doveva ancora venire. Arriviamo così al giugno '44, ormai il Valanga è una formazione partigiana a tutti gli effetti. I partigiani sono organizzati sempre meglio,sono sempre più armati grazie ai lanci americani e ai saccheggi dei magazzini della TODT. Nella bassa Garfagnana (Gallicano,Molazzana,Fabbriche di Vallico,Vergemoli) agisce proprio il Gruppo Valanga che il 6 giugno (secondo testimonianze dirette) riesce a recuperare (almeno in parte) un lancio di bidoni con armi e altro, effettuato da aerei americani nei pressi di Cerretoli, infatti da un simil-inventario della formazione partigiana 10 giorni dopo risultano: 30 uomini armati con due fucili mitragliatori tipo BREN, 20 STEN e altri vecchi fucili. Della formazione fanno parte fra gli altri, Mario De Maria vice-comandante, Silvano Valiensi, Aldo Sarti, Pasquale Cipriani (cognato di De Maria), Pietro Petrocchi e i tre fratelli Vangioni, Pietro, Luigi e Lorenzo, il loro accampamento si trova nel bellissimo prato di Pianiza sotto la Pania a due passi dall'Alpe di Sant'Antonio (comune di Molazzana). De Maria era un sottufficiale della Marina Militare Italiana nato nel sud Italia e sposato a Vergemoli, che dopo il famoso 8 settembre si era ripresentato alla costituzione della R.S.I militando addirittura nella Xa  MAS (n.d.r: unità speciale della Regia Marina Italiana),poi aveva disertato ed era entrato a far parte del
Pianiza oggi, dove era l'accampamento
del Gruppo Vlanga
Valanga, Pietro Petrocchi era invece appartenuto alla G.N.R (Guardia Nazionale Repubblicana) prima di salire nel maggio 1944 in montagna, Silvano Valiensi, pure lui si era presentato alla chiamata della R.S.I, ed aveva lavorato alle fortificazione della linea Gustav (n.d.r: linea militare che si estendeva dal fiume Garigliano,al confine fra Lazio e Campania, fino ad Ortona (Chieti) passando per Cassino),poi aveva disertato e si era aggregato al gruppo di Puccetti di cui era amico.Del gruppo facevano parte altri abitanti dei paraggi, però secondo alcuni non c'era da fidarsi, infatti nacquero dei contrasti, alla fine furono costretti ad abbandonare la formazione. Fra tutti questi c'era però la più amata dal gruppo, la famosa "Mamma Viola" ovvero Viola Bertoni Mori che accudì nella sua casa dell'Alpe gli uomini del Valanga avendone cura come propri figli, cucinando per loro, tant'è che alla fine della guerra fu insignita della medaglia d'oro al valore civile.Il tempo passa ma le prime azione repressive e i primi scontri non si faranno attendere.Il 13 luglio 1944 ci fu il primo significativo scontro contro i tedeschi nel magnifico scenario del Rifugio Rossi alla Pania, infatti i partigiani si erano ritirati da Pianiza e si erano trasferiti verso la Pania della Croce, accampandosi al Rifugio Rossi,qui vennero assaliti da una pattuglia di 15 soldati nazisti, fu una strage. La banda partigiana si era arricchita ancora di uomini provenienti da Gallicano, ormai il Valanga sfiorava la cinquantina di unità, ma ai primi colpi di mitraglia nemica molti si dileguarono, i rimasti tentarono di resistere alcuni cercarono riparo nei pressi del "naso" dell'Omo Morto, si racconta che Donati (partigiano del Valanga) colpito da una raffica di mitra alla testa,fosse caduto facendo esplodere una bomba a mano che stava lanciando uccidendo anche uno dei fratelli Vangioni (20 anni). Dopo una mezz'ora di fuoco i tedeschi si
Rifugio Rossi alla Pania.
Luogo di una tragica battaglia del Valanga
ritirarono non subendo alcuna perdita. Le tre salme dei partigiani uccisi furono sistemate velocemente nelle cuccette all'interno del Rifugio Rossi, ma purtroppo non era finita li, si venne a sapere che il solito giorno (probabilmente fu un azione combinata) un distaccamento del Valanga si trovava a Focchia, anche loro furono colti di sorpresa da un attacco tedesco e furono catturati prigionieri in cinque.La cattura con le armi in mano (per i tedeschi) comportava la pena di morte e così i cinque furono trasferiti a Bagni di Lucca e picchiati a sangue, furono poi riportati sul luogo dello scontro e fucilati. Liliano Paolinelli (uno dei catturati) fu fucilato a Fabbriche di Vallico davanti alla sua casa e davanti alla sua mamma. Fu un colpo psicologico durissimo per il Valanga, Puccetti (che non era presente allo scontro perchè in missione presso altre bande) riuscì a riorganizzarsi faticosamente radunando solo 13 uomini,intanto gli scontri continuavano senza tregua in tutto l'arco apuano ma a dar man forte al Gruppo Valanga vennero 36 partigiani emiliani appartenuti alla distrutta Repubblica Partigiana di Montefiorino (n.d.r: fu un territorio fra le province di Modena e Reggio Emilia che durante la resistenza si autoproclamò indipendente).Si trattava di uomini ben armati e con esperienza di combattimento, per cui furono sostanzialmente bene accolti, anche se delle divergenze politiche saltarono subito fuori. Il Valanga politicamente non era inquadrato in nessuna fazione e così voleva rimanere, mentre gli emiliani di"Stella Rossa", comunisti, ritenevano che dovesse prendere una connotazione precisa e poi di dover condurre un'attività di attacco continuo, mentre i partigiani garfagnini erano più attendisti e prudenti in attesa dell'avanzata alleata, comunque sia gli uomini del Valanga erano tornati ad essere una sessantina e gli emiliani avevano abbassato la testa su ogni loro richiesta, quest'ultimi accettarono che il comandante rimanesse il Puccetti e il vice comandante De Maria. Altri problemi però sopraggiunsero si vociferava che per i paesi garfagnini ci fosse un tale che depredava la povera gente a nome del Gruppo Valanga, terrorizzandola con ingiunzioni di pagamento, finalmente le ricerche sul colpevole dettero i suoi frutti e i partigiani riuscirono a catturare il colpevole, tale Ernesto di Nuzzo di 21 anni campano, studente universitario ex appartenente del Gruppo Valanga. I membri del Valanga per dissipare ogni dubbio sulla loro onestà presero la più grave delle decisioni: la condanna a morte per il malcapitato,la sentenza di morte fu decisa a maggioranza e fu inesorabilmente eseguita nonostante l'intervento di Don Bertozzi parroco del luogo. 

Arrivò poi il fatidico 29 agosto 1944,la battaglia del Monte Rovaio, una fra le più famose battaglie della II guerra mondiale in Garfagnana, se non la più famosa sicuramente la più controversa.Più versioni sono state dette e scritte su questa battaglia e vi rimando caldamente ad un mio vecchio articolo poichè tale battaglia non merita sicuramente due righe per cui se interessa cliccate qui http://paolomarzi.blogspot.it/2014/09/29-agosto-1944settantanni-fa-la.html . Intanto verso settembre il Gruppo Valanga si era ricomposto. De Maria dopo la battaglia del Rovaio e la tragica morte del comandante Puccetti aveva le redini del comando del gruppo partigiano. Oltre ad elementi del posto e agli emiliani,si precisa in una lettera  di De Maria ad Oldhman (n.d.r:comandante della
La cappella in ricordo
dei partigiani morti sul
Monte Rovaio
formazione partigiana Lunense) che la consistenza del gruppo è di 40 persone di cui 11 russi (disertori dall'esercito tedesco).Ormai il Gruppo Valanga si limita ad azioni di concerto con gli alleati e presiede molti punti strategici della valle, oltre a questo i partigiani forniscono agli americani notizie sui posizionamenti nemici. Ormai l'avanzata alleata si fa inesorabile gli uomini del Valanga vanno incontro ai brasiliani della F.E.B (n.d.r: Forza di Spedizione Brasiliana) a Valpromaro invitandoli ad avanzare, gli uomini del Valanga entrarono ormai tranquillamente nei paesi liberi della Garfagnana. Rimase però ancora l'ultima sacca di resistenza, i partigiani una volta giunti nella libera Trassilico furono accolti da sventagliate di mitragliatori tedeschi provenienti dal dirimpettaio paese di Calomini, un altro dei fratelli Vangioni fu colpito in pieno ed ucciso. 

Fu questo l'ultimo atto della storia del Valanga che il 6 ottobre del 1945 fu sciolto. De Maria lasciò liberi tutti quelli che lo desideravano.Il comandante prosegui la sua avventura con altri componenti dell'ormai disgiunto Gruppo Valanga che non vollero far ritorno a casa e si unirono di fatto agli alleati per combattere insieme.Per questi nuovi soldati gli americani costituirono una compagnia speciale la "Compagnia C". Questi uomini rimasero sul fronte fino alla fine del conflitto, ma alcuni seguirono l'avanzata degli alleati fino a Milano. 
Una vecchia foto di
Silvano Valiensi
Oggi di questi  giovanissimi uomini (gli appartenenti del Valanga avevano un'età media di 23 anni) a ricordare i loro sacrifici rimangono alcune vie e alcune piazze e anche scuole dedicate (una via di Lucca e l'ex scuola media di Gallicano e il piazzale antistante sono dedicati a Leandro Puccetti e al gruppo stesso) ma nella memoria dei loro attuali coetanei non rimane quasi niente, se non che un anonimo nome su una fredda lapide.
Per questo voglio ancora ricordarli con una strofa di una bellissima poesia intitolata "Il nemico" sui fatti del Monte Rovaio di Silvano Valiensi, maestro, poeta e partigiano del Gruppo Valanga:

Avete pagato voi soli,compagni,
caduti nel sole d'Agosto sul monte
Neppure una stilla di sangue
per voi fu versata,ragazzi inesperti,
pagaste,felici e coscienti, il tributo:
moriste voi soli per tutti                   

1891,un'invenzione tutta garfagnina: la prima auto elettrica italiana.La sua storia e del suo inventore:il Conte Giuseppe Carli

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La prima auto elettrica italiana
 inventata dal castelnuovese
Conte Giuseppe Carli
Sentiamo parlare sempre più spesso di auto elettriche, sentiamo dire che prima o poi il petrolio finirà e che quindi l'auto elettrica prenderà definitivamente il sopravvento, sentiamo parlare di un mondo sempre più inquinato da tutte queste emissioni di gas malefici che "sputano" il (quasi) miliardo di automobili che circolano nel mondo e sopratutto pensiamo che l'invenzione dell'auto elettrica sia una cosa recentissima, ma non è così. La prima auto elettrica italiana fu inventata nel 1891 e come molti non sapranno l'auto vide la luce in Garfagnana, ideata da un garfagnino D.O.C: il conte Giuseppe Carli di Castelnuovo. Sembrerà strano che nella dimenticata terra di Garfagnana, fatta di contadini,pastori e monti sia nata un'idea talmente innovativa e all'avanguardia anche per il nostro tempo,ma è proprio così. Già nel 1853 la provincia di Lucca (in questo caso proprio Lucca) con Barsanti e Matteucci aveva già dato il suo ottimo contributo all'industria automobilistica (e non solo) con l'invenzione del motore a scoppio, ma anche la Garfagnana volle dire la sua nella persona del Conte Carli che aveva già intuito in questa idea molte cose positive. 
Si è spesso portati a pensare che l'auto elettrica sia frutto delle preoccupazioni ecologiche dei giorni nostri, ma invece la storia del motore combustibile e di quello elettrico corrono di pari passo sin dagli albori. Infatti i motori delle prime auto erano rumorosi e di difficile funzionamento e il combustibile ricavato dal petrolio puzzava e imbrattava le strade a tal punto da spingere gli inventori a cercare qualcosa di meno inquinante, ed ecco così entrare in scena Giuseppe Carli nato a Castelnuovo Garfagnana il 27 febbraio del 1854, quarto figlio del conte Luigi ( n.d.r:il titolo nobiliare gli fu elevato dal duca Francesco IV di Modena nel 1815) e di Paolina Vittoni, unico maschio, conseguì gli studi classici e si laureò a Pisa in Giurisprudenza. Giuseppe si sposò poi con Elmira Bacci di Livorno appartenete ad una ricca famiglia ed ebbe tre figli. 
Prima di essere inventore fu un vero precursore nei vari campi della vita, fu uno dei fondatori del C.A.I (club alpino italiano) della Garfagnana, fu fra l'altro ancora co-fondatore del giornale "Il Corriere della Garfagnana", ma sopratutto il suo contributo fu
Il Conte Giuseppe Carli
fondamentale per lo sviluppo industriale della valle, fra le molte altre intuizioni (una teleferica lunga 5 km per trasportare legname in Versilia e l'elettrificazione della cittadina garfagnina) fu grazie al suo intervento e ai suoi capitali che fu creato in Castelnuovo la Fabbrica dei Tessuti (che con gli anni sarà poi conosciuta come "Manifattura Tessile Valserchio") e proprio in questi stabilimenti vide la luce la prima auto elettrica italiana se non anche una delle prime al mondo, in collaborazione con l'ingegner Boggio (direttore dello stabilimento tessile). Non si trattava proprio di un'auto ma bensì di un triciclo biposto,simile a quello dei bimbetti, solo che carico di batterie pesava ben 140 Kg e il suo motore sviluppava un cavallo di potenza. Il veicolo venne realizzato fra il 1890 e il 1891 coronando il sogno di un mezzo automatizzato da anteporre al vapore e al petrolio. Tale veicolo aveva la prerogativa di essere totalmente elettrico.Il conte Carli brevettò così questo prodotto con lo scopo di produrre in breve tempo la sua realizzazione in serie. Come detto era su tre ruote,fatto con tubi d'acciaio,piccolo,lunghezza 1,80 m e largo 1 metro e 20 centimetri, per 140 chili di peso,la sua batteria era custodita da dieci piccoli accumulatori per avere 10 ore di autonomia,un dispositivo di inversione della rotazione consentiva addirittura la marcia indietro. A scopo di promozione, tale meraviglia fu iscritta nientepopodimeno che alla prima vera gara automobilistica del mondo, la Parigi- Rouen del 22 luglio 1894,si iscrissero 102 partecipanti,tra di essi un solo italiano, un garfagnino, il conte Giuseppe, che credeva tanto nel suo progetto che volle presentare al mondo nel modo più eclatante possibile...ma il diavolo ci mise maledettamente le corna. L'auto fu fermata clamorosamente alla frontiera francese e a causa di una montagna di scartoffie varie da mettere insieme, la dogana bloccò la macchina...fino all'indomani dell'eliminatoria. Non ci fu niente da fare il garbuglio di cartacce doganali non si sciolse nemmeno quando Carli telegrafò ad amici influenti di Roma, né gli furono d'aiuto le autorità consolari. Doveva rodersi il fegato a vedere il suo cavallo elettrico impantanato nella palude della burocrazia.A guidarla sarebbe stato il conte Giuseppe in persona, che avrebbe avuto come tecnico il suo fido Francesco Boggio. I francesi ci sbeffeggiarono è bene dirlo senza mezzi termini e tale Gilbert Lecat in un articolo dell'epoca apparso su "Le distrebuteur automobile" accenna alle disavventure del nostro concittadino con'ironia e direi con un pizzico di
La Parigi Rouen del 1894

cattiveria:

"Carli fu salvato dalla nostra ineffabile amministrazione francese e infatti può ringraziare la Francia se sia il pilota (Carli) che la macchina hanno evitato sicuramente una pessima figura davanti a tutta Europa".

Eppure all'epoca il veicolo del conte garfagnino era stato accolto con entusiasmo, tanto che il giornale milanese "L'elettricità", nel 1895, esprimeva così la sua delusione per l'esclusione dalla gara del triciclo di Carli:

"Tutti coloro che hanno preso interesse al concorso di vetture automotrici promosso l'anno passato dal 'Le petit journal' e che si ripeterà anche in quest'anno, ricorderanno parimenti con qual disappunto si sia appreso che la sola vettura elettrica inscritta, quella costruita a Castelnuovo Garfagnana, fosse alla dogana proprio al momento in cui essa avrebbe dovuto percorrere le vie di Parigi. Il grido fu unanime... Come, l'elettricità non avrà in tal modo rappresentanti da opporre al petrolio e al vapore?".

Sulla stessa linea era anche la rivista inglese"Locomotion" che pubblicava in copertina il disegno "del veicolo Carli" così chiamato, definendolo "migliore dei veicoli a vapore e a petrolio".
Il "Corriere della Garfagnana" del 1891 fornisce una descrizione dettagliata del mezzo brevettato in quell'anno dal Ministero d'Agricoltura e Commercio dicendo che:

"...è un veicolo elettrico leggerissimo. Con questo mezzo di trazione si possono percorrere le strade con una velocità straordinaria per parecchie ore di marcia secondo lo stato di esse".

La velocità straordinaria a cui si fa riferimento sfiorava i 15 chilometri orari, una prestazione di tutto rispetto se si pensa che l'auto del vincitore della Parigi- Rouen del 1894 (n.d.r: il conte Jules de Dion) faceva al massimo 22 chilometri all'ora.
Dopo la brutta esperienza in terra di Francia la vita del Conte Carli prese una brutta piega.Si presentò dapprima alle elezioni politiche del 1892 alla Camera dei deputati dove venne eletto, ma ad un anno e sette mesi dalla elezione (1894) le votazioni furono dichiarate nulle per sospetto di brogli ed egli decaduto come deputato. Di lì cominciò una rovinosa discesa, dovuta si dice a quella funesta entrata in politica.L'istituto bancario di cui era proprietario (n.d.r:il Banco di Sconto, poi Banco Carli) fu coinvolto in una grave crisi, i cittadini che avevano depositato i risparmi dentro la banca, ritirarono i loro soldi. Subissato da creditori e da procedimenti giudiziari fu aperta una procedura fallimentare che si concluse con la bancarotta totale nell'11 febbraio 1895 con tutti i beni del Carli venduti all'asta. 
L'auto elettrica del Conte Carli realizzata
nel 2009 dall'IPSIA Simoni di Castelnuovo
funzionante in ogni suo aspetto

Finì così anche il sogno della macchina elettrica che sparì in un cassetto. Di tale veicolo rimase solamente una documentazione fotografica, il mezzo andò perduto per le varie vicissitudini del disgraziato Conte, ma il suo progetto è bene sottolinearlo è stato poi ripreso e realizzato nuovamente e fedelmente nel 2009 dagli studenti dell'Istituto I.P.S.I.A Simoni di Castelnuovo.
Tornando al conte Giuseppe Carli o meglio al "signor Conte" come era chiamato, morì a Livorno nel 1913. Aveva 59 anni e con tutto merito va ricordato fra i coloro che portarono in alto il nome della Garfagnana.

Il Moro del Sillico:le gesta di uno dei più spietati briganti che la Garfagnana ricordi

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Il Sillico
In estate di feste e sagre in Garfagnana ce ne sono molte, tutte feste coinvolgenti, simpatiche e originali, dove si mangia bene e in ottima compagnia. Ma c'è una festa fra tutte che riporta ad antiche lotte cinquecentesche fra il governatore della Garfagnana Ludovico Ariosto e i briganti locali, questa festa si svolge al Sillico ed è dedicata al leggendario bandito detto "Il Moro"diventato famoso in epoca recente proprio grazie a questa tradizionale festa estiva.Molti infatti in questo periodo proprio in concomitanza con i giorni di questo percorso enogastronomico ambientato nel 1500 mi chiedono lumi su questi briganti locali e infatti per soddisfare queste richieste mi sono dato da fare per cercare proprio notizie sul Moro del Sillico.Briganti questi che sono rimasti avvolti da un alone di leggenda e le loro gesta e malefatte hanno dato origine a storie e racconti rimasti a lungo nella memoria della gente.
Molte notizie su questo brigante che andrò a narrare sono tratte dalle lettere che (anche) l'Ariosto stesso inviava al duca, oltre che ad amici e conoscenti.
Il Moro del Sillico è indubbiamente il sillichino più famoso di tutti i tempi, sebbene la sua fama sia frutto di attività non sempre lecite...anzi, fu infatti uno dei banditi più temuti della zona e la sua origine sillichina gli valse la libertà più volte.Giuliano così si chiamava "il Moro" faceva parte come ben si sa della banda del Sillico, che da come si legge era così composta:

" I figli del Peregrin del Sillico, in primo luogo il Moro, poi Giugliano (che abita Ceserana in casa della moglie, che è sorella della moglie del Moro), Baldone".


La cosa perlopiù si svolgeva in famiglia.Il Peregrin era il babbo del Moro, mentre Baldone e Giugliano erano i due fratelli. Il Moro e il Giugliano avevano sposato due sorelle di Cigerana (Ceserana) ed essi soggiornavano spesso in quel luogo. Pare che entrambi ci vivessero quasi abitualmente, ma essi erano banditi ed era espressamente vietato per le comunità ospitare un bandito. Così l'Ariosto, quando accadde che il Moro e i suoi fratelli in combutta con altri manigoldi del luogo "assassinarono un prete pisano" proprio in quei luoghi, dovette infliggere al Comune di Cigerana una multa di 300 ducati. Ma se ne angustiava, perchè era consapevole che quel comune era vittima di quei ribaldi e non era certo in grado di arrestarli o di cacciarli perchè costoro" ...con li banditi loro seguaci, si son fatti tiranni e signori di quel luogo". D'altra
La casa natale del Moro del Sillico
parte, bene o male bisognava risarcire il prete assassinato per "l'onore di vostra eccellenzia", per cui non potendo catturare i colpevoli, si era penalizzato il povero comune di ben 300 ducati per aver tollerato la presenza del Moro, più altri 100 di risarcimento per il prete pisano

Per l'Ariosto quindi fu molto difficile dare del filo da torcere al Moro proprio perchè la banda godeva protezione dal duca in persona Alfonso I d'Este, tutto ciò perchè il Sillico e i suoi abitanti godevano di particolari attenzioni presso il duca in quanto prima comunità della Garfagnana a chiedere di passare nel ducato e sopratutto perchè oltre ad essere dei malfattori il Moro e compagnia bella erano mercenari al soldo di sua eccellenza il duca, e più di una volta senza problemi non esitarono a difendere le effigia ducali, come nel caso nella campagna che consentì alla morte di Papa di Adriano VI (n.d.r: 19 settemmbre 1523) di riappropriarsi della città di Reggio Emilia o perchè no, non ricordare quando i briganti difesero la Fortezza della Verrucole dagli attacchi delle truppe di Papa Leone X (n.d.r:1520) quando volle togliere la provincia della Garfagnana agli Estensi. Figurarsi il povero Ludovico Ariosto in questi casi come era felice, più questi delinquenti erano lontani dalla Garfagnana impegnati nelle battaglie e meno problemi creavano in giro per la valle alla povera gente e sperava infatti che il duca li tenesse il più a lungo possibile al di fuori dei confini, addirittura in una lettera del 20 novembre 1523 in cui si fa riferimento proprio al Moro e ai suoi fratelli, l'Ariosto in persona invita lo stesso duca ad assoldarli nel suo esercito e si scusa poi con lo stesso duca per il ritardo con cui l'ultima volta si sono presentati al cospetto di sua altezza, ma purtroppo (come si legge fra il serio e il faceto) sono poveri e non avevano i soldi per il viaggio e solo dopo aver raccolto le castagne sono stati in grado di farlo, comunque stia tranquillo"che avrà buon servizio, perchè credo che sieno valenti e fidelissimi a chi servono".
Alla fine della storia, che che se ne dica, L'Ariosto riuscì a catturare il Moro e nonostante che si pensi il contrario, il povero Ludovico non fece la fine di Willy il coyote che non riesce mai a catturare Beep-Beep, infatti nel 1523 il Moro è in carcere in attesa dell'estremo giudizio che non può essere altro che la pena di morte in pubblica piazza,ma già corre voce che gli amici del Moro abbiano chiesto la grazia al duca, ma lo stesso duca di fronte alle evidenze e come si suol dire "per non farla troppo sporca"difficilmente concederà la grazia, ma in qualche maniera la pelle al Moro bisognava salvarla, così notte tempo il figlio di Bastian Coiaio (n.d.r: signorotto, capofazione di Trassilico nonchè protettore politico della banda del Sillico) senza colpo ferire entra in
Briganti in azione
carcere con la scusa di visitare l'amico Moro lasciandogli però un coltello con il quale indisturbato potè scassinare l'uscio della cella e fuggire, in barba alle "distratte" guardie.Ludovico Ariosto appresa la notizia va su tutte le furie e in una lettera al duca del 29 agosto 1523 lo informa fra l'altro del contegno sprezzante di Bastian Coiaio il quale "con la sua solita insolentia ha detto parole assai altiere"
,dicendo che lui è perfettamente informato di ciò che l'Ariosto scrive al duca, cercando di intimorirlo affinchè la smetta di scrivere cose negative sul Moro e sui suoi fratelli.
Insomma erano tempi difficili per la Garfagnana, il Moro e la sua banda ( ma non solo loro) mettevano a ferro e fuoco la Garfagnana. Non si può dimenticare tanto per rendere bene l'idea di questi brutti momenti quando due figli di Ser Evangelista del Sillico (n.d.r: noto personaggio di rilievo e colluso con la banda del Moro) erano scesi a Castelnuovo tentando di violentare una donna, che fra l'altro era  l'amante di un altro importante personaggio tale Acconcio, che si salvò solamente per l'intervento del Capitano di Ragione di Castelnuovo, per tutta risposta uno zio dei due violentatori tale prete (sottolineo prete) Iob spaccò la testa alla madre della povera ragazza che denunciò al vescovo il prete, ma senza risultato. Si, perchè altra categoria di personaggi che turbavano e disturbavano con i loro discutibili comportamenti erano i preti, avevano comportamenti assolutamente delinquenziali è giusto dirlo, fino all'omicidio e allo stupro e in più erano fra i grossi protettori del Moro (e di altri briganti).Erano i preti stessi che nascondevano i furfanti all'interno dei campanili delle chiese, essi infatti approfittavano della legge che diceva che non potessero essere condannati dalle autorità civili, ma solo da quelle ecclesiastiche, ma il fatto grave (come poi succede oggi...) che i vescovi punivano i preti in maniera molto blanda o non li punivano
Il Duca Alfonso d' Este, un duca
dalla manica larga
affatto. L'Ariosto voleva (giustamente) che anche i preti cadessero sotto il rigore della legge come qualunque cittadino e aveva scritto ai vescovi perchè "li dessino autorità sopra li preti"... ci possiamo immaginare la risposta.

Fatto sta la fine che fece il Moro e la sua banda a me non è dato sapere, comunque resta il fatto che nel tempo la figura del Moro è stata variamente romanzata nei racconti popolari ed oggi è visto come una sorta di Robin Hood, un bandito più vicino alla povera gente di quanto non lo fossero le autorità, ma non era così,ed è giusto che la storia lo ricollochi al posto che merita: come uno dei più terribili e spietati briganti che la Garfagnana abbia mai conosciuto.

Prima del calcio in Garfagnana, uno sport tutto nostro: "il gioco della palla di lana". Era il 1800.

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"Il calcio oppio dei popoli", così almeno si dice di quanto questo sport sia tanto coinvolgente che riesce perfino a distrarre la gente comune dai problemi reali. Il calcio quindi anche in Garfagnana(come del resto in tutta Italia) è lo sport nazionale:fiorentini,juventini,milanisti, interisti e così via, tutte le domeniche (e non solo) i loro tifosi litigano, discutono, si arrabbiano sulle sorti della propria squadra del cuore.Ma prima di tutto questo, cosa c'era sportivamente parlando in Garfagnana di talmente avvincente e intrigante da paragonarsi al gioco del pallone? Il calcio fa la sua comparsa in Italia alla fine del 1800 e da quel momento in poi tutti i giochi tradizionalmente locali si vanno a far benedire, tutti giochi che fino a quell'attimo, diciamolo pure, in quanto a passione ed entusiasmo non erano meno che del calcio. Possiamo ricordare fra tutti il gioco della palla elastica a Barga, che si svolgeva sul Piazzale del Fosso, di cui oggi sono state fatte delle belle rievocazioni, ma però vorrei volgere la mia attenzione su un'altro gioco meno conosciuto del gioco di Barga, un gioco puramente garfagnino che si svolgeva a Castelnuovo e in altri paesi garfagnini, a patto che ci fosse uno spazio per lo svolgersi della gara.Il gioco in questione si chiamava "il gioco della palla di lana". Questo sport in piena regola si svolse figuriamoci un po' per tutto il 1800, aveva regole prettamente locali e abbiamo ancora memoria di questo gioco grazie a degli atti riportati e conservati nell'archivio di Castelnuovo Garfagnana.Le regole a dire il vero, da quello che si evince non sono chiarissime, (sopratutto perchè non esisteva un regolamento scritto) ma proviamo a fare un po' di luce. Si trattava di una sorta di gioco della palla con il tamburello:la palla, un gomitolo di lana strettamente avvolto per consentire il minor rimbalzo possibile, veniva lanciata grazie a un tamburello e in pratica si doveva segnare il punto in una specie di porta (n.d.r:naturalmente le porte erano molto più piccole di quelle che si usano oggi nel calcio).Questi tamburelli o "cembali" che dir si voglia,i vari atleti le facevano costruire (o li costruivano loro stessi)con materiali differenti a seconda sia della condizione sociale che dall'estro personale. Si andava dai tamburelli realizzati con pelle di bue conciata e tesa su un cerchio di legno per quei giocatori che avevano soldi per farli realizzare, per poi mano mano scendere di qualità e di prezzo per le persone un po' più poverelle, fino poi ad arrivare ad una tavoletta di legno raccolta per strada o addirittura, per quelli che non avevano l'ombra di una lira si dovevano accontentare di usare le mani al posto del tamburello stesso, anche se i regolamenti che tacitamente disciplinavano il gioco lo proibivano nella maniera più assoluta. Per capirsi era un po' come adesso per chi gioca a calcio, si va dalle scarpette da gioco più costose della Nike o dell'Adidas, tutte colorate e 
il tipico tamburello che si usava
per questo sport
fluorescenti, fino ad arrivare alla "misera" e classica scarpetta nera da "due soldi". L'entusiasmo dei garfagnini per questo gioco però era talmente tanto che l'importante era giocare, con tamburello o mani era lo stesso,questo sport veniva praticato a tutte le ore del giorno, senza distinzione di sesso o di età, è ampiamente testimoniato dalle notifiche che il Comune emetteva per vietarlo. Infatti succedeva proprio come quando eravamo bimbetti e giocavamo a pallone in piazza e il rompiscatole di turno si lamentava per gli schiamazzi, così accadeva in questi casi che qualche cittadino si lamentasse perchè pesantemente disturbato dalla confusione cui i partecipanti si abbandonavano, per non parlare poi dei danni subiti quando il palloncino veniva lanciato con forza contro vetrine e finestre delle vicine abitazioni. Le autorità locali arrivarono perfino a proibire il gioco per le frequenti lamentele, fu così deciso di vietare qualsiasi partita, sia amichevole che agonistica che si svolgessero sia all'interno che nella periferia di Castelnuovo, a conferma di questo c'è un decreto datato 14 giugno 1797 dove i municipalisti Azzi e Vittoni
"a nome della Repubblica Cisalpina non consentono di praticare il gioco del palloncino di lana in nessuna delle vie della Città, ma sopratutto nella contrada dell'Aiottola, al Forno, in Piazza e nella Barchetta". Ma come spesso succede in questi casi, da prima le persone si uniformarono a queste amare decisioni, non senza aver prima dimostrato con vari tipi di proteste (alcune clamorose) il loro disappunto, ma poi trascorso un po' di tempo le sorveglianze cominciavano ad allentarsi sopratutto da parte dei Reali Dragoni e di conseguenza la situazione ritornava quella precedente al regolamento imposto. In molti casi però fioccavano multe salatissime che raggiungevano certe volte la considerevole cifra di tre lire, raddoppiata poi per i recidivi ed eventualmente commutabile in tre giorni di prigione dura, altra cosa in confronto a quando si giocava da ragazzetti e la palla andava nell'orto del contadino, che puntualmente ce la sequestrava. Ma questo sport era talmente viscerale per i garfagnini che le proteste dei giocatori e dei tifosi che affollavano le partite non si fecero attendere.Ormai era una lotta senza confine fra i passionisti di questa disciplina e il comune. I tifosi giustificarono il loro comportamento ricordando ormai come il palloncino di lana rappresentasse una tradizione consolidata, un vero e proprio fenomeno di costume e come tale doveva essere legalizzato e non solo ma dotato anche di appositi spazi dove poterlo praticare senza suscitare l'ira di nessuno.
Finalmente per  risolvere ogni controversia nel 1827 tale Governatore Torello emanò una sorta di regolamento:
"E' proibito ovunque il gioco del pallone, rimane permesso quello nella Contrada dell' Aiottola, osservare però le discipline e condizioni aggiunte:
  • Il gioco della palla può tenersi nella contrada dell'Aiottola, tutti i dì dal mezzogiorno in avanti, eccettuato i tempi dei Divini Uffizi (n.d.r: la messa che si svolgeva nel vicino duomo)
  • Il gioco stesso si permette a chi userà soltanto il così detto tamburino o cimbalo
  • Non potrà stare in gioco più di una partita alla volta
  • A risanar i danni che possono venire causati da detto gioco saranno solidali tutti i componenti della partita
  • I contravventori oltre alla rifusione dei danni  come sopra,incorreranno anche nella multa di Lire 3 italiane                                                                                                                     è poi da lagnarsi che i giovani, i quali vorranno profittare della permessa concessione, si faranno dovere di procurare la quiete,contenendosi in modo da suscitare questioni a scanso ancora di quelle misure di forza che in caso diverso si prenderebbero contro di loro"      
La piazza dell'Aiottola fine 800 oggi Olinto Dini
dove si svolgeva il gioco della palla di lana
(Foto collezione Silvio Fioravanti)

Così  si ebbe un regolamento, che in seguito venne disatteso da ben più gravi infrazioni come scazzottate e risse violentissime e di conseguenza il gioco venne nuovamente vietato anche in quella parte di paese.
Con il tempo e la nascita del Football proveniente dall'Inghilterra, il grande attaccamento per i garfagnini a questo sport cadde nel dimenticatoio, oramai i nuovi eroi indossavano delle corte braghe e invece dei tamburelli usavano i piedi,una vera e propria rivoluzione nelle abitudini sportive dei garfagnini. Il calcio prese così definitivamente il sopravvento, dapprima se ne interessarono le classi sociali più ricche, che cominciarono a leggere di questo nuovo sport sui giornali, ma poi prese campo in tutte le persone ricche e povere, perchè per giocarlo bastava semplicemente una palla. Questo così fu il motivo di questo progressivo allontanamento da quello che era considerato "il gioco simbolo di questa Città". Oggi non rimane quasi niente nella memoria di questo passatempo se non documenti d'archivio che registrano quasi esclusivamente proteste e relativi provvedimenti delle autorità,tralasciando come è normale qualsiasi implicazione sociale o di costume.Chissà, sarebbe bello un giorno riproporlo...

Verità o leggenda? La storia di Teodora e Anselmo e "la leggenda del Lago di Vagli"

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1994 ecco come appariva il paese di Fabbriche
di Careggine dopo l'ultimo svuotamento
Nelle mie ricerche storiche garfagnine mi sono spesso trovato davanti a dei fatti riscontrati che da una parte risultavano vicende realmente accadute, mentre dall'altra i soliti accadimenti mi scaturivano addirittura in leggende. Questa anomalia spesso l'ho riscontrata nelle vicende che raccontavano in particolar modo della nostra gente, della nostra semplice gente e non riguardava affatto vicende strettamente storiche inerenti a regnanti, battaglie e guerre, quindi facilmente documentate e documentabili.Tutto questo perchè in Garfagnana c'erano brutte storie che come si suol dire "tornava male" raccontarle ai posteri, alle generazioni future, perchè storie scomode per la mentalità dei secoli passati, storie di brutali assassinii,di vicende amorose un po' scabrose, di ruberie varie commesse dai paesani stessi, quindi spesso e volentieri questi episodi si cercava di buttarli in leggenda con tanto di diavoli e fantasmi vari di contorno, quello che era importante era salvare
l'onorabilità del paese e dei parenti del colpevole dei misfatti a futura memoria e così spesso è stato.In tanti casi in Garfagnana episodi di cronaca nera ci sono stati passati nei decenni e nei secoli come leggenda (per esempio leggi:http://paolomarzi.blogspot.it/2014/11/il-caso-del-sandalo-rosso-storia-di-un.html), ma come ben si sa qualsiasi leggenda il suo fondo di verità l'ha sempre. Infatti mi è tornato alla mente in questi giorni che si sta parlando nuovamente di svuotare il lago di Vagli, di una storia proprio in tal senso, accaduta piuttosto di recente,proprio quando Fabbriche di Careggine (il futuro paese sommerso) fu evacuata per far posto alla mastodontica diga di Vagli e al suo invaso.Questi fatti che andrò a narrare sono meglio conosciuti come "la leggenda del Lago di Vagli", ma di leggenda qui ce n'è ben poca, credetemi, è una storia che farebbe invidia a qualsiasi trasmissione televisiva che si occupa di questi casi o a qualche scrittore di gialli, insomma una bella ma brutta storia che io racconterò come leggenda vuole, a voi poi discernere la verità dalla leggenda stessa.

L'antico paese di Fabbriche di Careggine oggi riposa in fondo al lago di Vagli (per la sua storia leggi http://paolomarzi.blogspot.it/2014/04/fabbriche-di-careggine-il-paese.html), poche case ricoperte di fango raggruppate intorno alla chiesa di San Teodoro e al suo campanile. Oggi i suoi abitanti sono i pesci, ma una volta era un borgo industrioso, divenuto negli anni uno dei maggiori fornitori di ferro dello stato estense, nonché considerato un punto strategico di passaggio per la famosa Via
Come appariva il paese quando era abitato
Vandelli che collegava la Garfagnana con il mare versiliese dove i messi postali riposavano sul suo caratteristico ponte di pietra prima di affrontare le faticose salite che si snodavano sulle pendici della Tambura. A quel tempo la voce del paese (come poi di molti altri) erano le campane del campanile della chiesa principale: annunciavano gioia, pericolo, il dovere, il dolore, la festa. Rendevano veramente un gran servizio, inimmaginabile ai nostri tempi, due belle campane bronzee annunciavano quello che era successo o che stava per accadere. Quando suonavano "a disperso" gli uomini uscivano dalle case con il "lume" e andavano a cercare chi si era perso nella bufera di neve o nel buio bosco, quando suonavano "a fuoco" uomini, donne e anziani uscivano di corsa per spegnere l'eventuale incendio, addirittura quando talvolta le nevicate erano abbondanti e la circolazione diventava difficile, le campane invitavano gli uomini con le loro pale a pulire le vie, o sennò le campane suonavano per le giornate obbligatorie, quando per tre giorni in un anno ogni uomo doveva lavorare gratis per la comunità rimettendo a posto i selciati, facendo manutenzione alla chiesa e alla cose pubbliche in genere. Tutto questo per narrare la vicenda di Teodora ed Anselmo che abitavano al margine del paese di Fabbriche di Careggine (oggi borgo sommerso).La donna era guardata con sospetto dai compaesani, era una donna strana, solitaria, aveva l'abitudine di rimanere fuori dopo il tramonto e la consuetudine di camminare da sola nelle selve, tant'è che veniva considerata una sorta di strega, molti quando la vedevano passare in paese si facevano il segno della croce. Arrivò così un 13 dicembre e Anselmo uscì a fare la legna nel bosco,la notte scese rapidamente cancellando ogni cosa,dalla Tambura e dal Sumbra scesero miriadi folletti spargendo ghiaccio in ogni dove. Anselmo quando vide ciò si affrettò verso casa con il suo carico di legna ma disgraziatamente scivolò lungo il sentiero e non riuscì a rialzarsi. Nessuno lo soccorse e naturalmente morì di freddo. Teodora non si preoccupò minimamente del ritardo del marito e non avvertì nemmeno il campanaro, il campanile era rimasto silenzioso in quella gelida
1947 il campanile sommerso
notte. La moglie approfittò dell'assenza del marito intorno alle sue losche faccende. Il mattino seguente verso mezzodì Teodora si decise di dare l'allarme dicendo che il marito era partito la stessa mattina di buon ora per andare a fare legna e che non aveva fatto ancora ritorno, si finse preoccupata e disperata e si raccomandò che qualcuno andasse a cercarlo.Le campane suonarono "a disperso" e gli uomini partirono alla ricerca e dopo poco trovarono il povero Anselmo ai margini del bosco con una gamba rotta. Gli uomini capirono subito che era morto già da parecchie ore e sospettarono che la moglie intenzionalmente non avesse dato l'allarme. Nessuno potè incolparla, ma piano piano con il tempo gli abitanti del borgo la emarginarono ancora di più. La donna viveva ormai nel "ciglieri" (n.d.r:la cantina), dal quale non usciva mai e passava il suo tempo dimenticata dalla gente. Nel 1941 la società Selt Valdarno (oggi Enel)decise di costruire un bacino idroelettrico.In paese stavano iniziando i lavori per chiudere la valle del torrente Edron e nei pressi del borgo, si sarebbe costruita una grande diga che, sbarrando le acque impetuose del torrente, avrebbe dato vita ad un nuovo lago artificiale. In paese c'era gran fermento, in poco tempo bisognava abbandonare le case e andare a vivere altrove. Incredulità e tristezza la facevano da padrone, le campane non suonavano più,la gente si preparava a smobilitare e alla meglio si arrangiava a trasportare mobili e quant'altro da parenti o in altre case. Anche Teodora fu informata che la sua casa sarebbe ben presto stata invasa dalla acque, ma lei non ci voleva credere e nessuno l'avrebbe costretta ad abbandonare casa. Ma un giorno del 1947 le acque arrivarono per davvero, Teodora cercò di fuggire dalla cantina ma rimase prigioniera del fango. Tutti dissero che era la sua giusta condanna. 


Il momento dell'evacuazione
del paese 1947

Anni dopo quando fu svuotato il lago per la prima volta nel 1958, a qualcuno tornò in mente la povera donna e alcuni provarono a ricercare il cadavere di Teodora. Non fu trovato niente, nemmeno un osso, qualcuno pensò che fosse riuscita fuggire. Il fatto rimane comunque un mistero. Eppure c'è qualcuno che giura che nelle notti del 13 di ogni mese sente le campane suonare, si dice che sia il fantasma di Teodora, costretta dal Diavolo a suonare fino all'alba per scontare i suoi peccati e in particolare per quello di non averle suonate la notte che il povero Anselmo si perse nel bosco...

Una storia di altri tempi che fonde verità e leggenda. Vicende che si perdono nelle tradizioni orali dei paesi più nascosti...

Un mestiere antico, misterioso e forse poco conosciuto: il saltaro.

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Ci sono di quei mestieri che anche il tempo cancella dalla nostra
memoria, poi come per magia riemergono fuori da libri antichi e allora cominci a documentarti, ad informarti, a fare ricerche finchè
I saltari
in questa foto provengono
dal Trentino
la tua curiosità non viene placata. Questo che vado a narrarvi non è un classico mestiere antico di cui abbiamo sempre sentito parlare in Garfagnana,niente a che vedere con i conciapelli, canestrai, calzolai o ombrellai, ma solamente il nome di colui che fa questo lavoro desterebbe il desiderio di conoscenza anche nel più indifferente dei lettori. Avete mai sentito parlare del saltaro? Io prima di qualche giorno fa, sinceramente no. In questo caso devo ringraziare la dottoressa Melania Spampinato che nel convegno di studi storici che si è tenuto in questi giorni nella Rocca di Castelnuovo, nel suo studio sull'antico statuto di Villa Collemandina ha riportato a galla la figura del Saltaro come custode di terreni agricoli.Il Saltaro non è una figura tipica garfagnina è bene chiarirlo subito, ma la possiamo trovare anche in Lombardia,in Trentino e in Sardegna, ma come detto ha operato anche da noi...eccome.Oggi questa figura la potremmo definire una"guardia campestre",all'epoca questo personaggio destava mistero, spaventava i bambini e affascinava i grandi.Giovani, celibi e onesti erano le prerogative che ognuno doveva avere per svolgere questo lavoro che in Garfagnana già si faceva intorno al 1300, ma che ebbe poi il suo apice nel secolo XVI sotto il dominio estense.Il suo compito era di contrastare i furti nei campi, specialmente nelle vigne,quindi il saltaro doveva essere robusto e deciso, e meglio se imponente perchè doveva incutere timore e mettere paura a tutti. Per spaventare i ladri doveva vestire in modo particolare, con pellicce di animali per esempio e portava sopratutto dei cappelli veramente inusuali e appariscenti da far invidia alla regina Elisabetta,inoltre era sempre armato di un lungo bastone nodoso, pronto a sbatterlo nella testa di chiunque si fosse azzardato a mettere piede nella proprietà,mettiamoci poi che questi erano dediti spesso anche a qualche "mezzino" di vino...Comunque sia era una figura importantissima nella Garfagnana rurale di quei tempi.Il saltaro non era solo a guardia dei campi,ma anche dei boschi, doveva sorvegliare che non fosse rubato alcun frutto che la natura donava sia coltivato che naturale, come funghi, mirtilli,castagne e quant'altro il buon Dio offriva.Fra gli antichi compiti competeva anche di vigilare sui pascoli,sulla custodia delle recinzioni, del fieno e dei corsi d'acqua che scorrevano nel podere.Ogni anno i saltari venivano eletti dal comune, pertanto era una guardia comunale in piena regola con compiti essenzialmente esecutivi e pratici, addirittura doveva prestare un giuramento, come si può leggere dagli statuti e dai regolamenti del paese di Gragnana (Piazza al Serchio) del 23 marzo 1539 custoditi presso l'Archivio di stato di Modena:



"Della elezione del saltaro. Cap. ij
Il castello e la chiesa diroccata
di Santa Margherita a Gragnana
(foto amalaspezia)

Item statuiamo che loffitiale o si Consulo di epso comune, che per li tempi sara sia tenuto et debbi dapoi che sara electo Consulo, ... octo giorni convocare li homini di detto comune et di quelli una.. conli soprastanti didetto comune debbi eleggere et trovare diditto comune, uno saltaro et guardiano di danni dati inditto comune et suo distretto con salario ordinato per li soprastanti diditto Comune. Et chi sara eletto, sia tenuo detto officio acceptare et jurare fare quello bene et diligentemente alla pena di B (bolognini) VI. Et si accettare et jurare non volesse paghi ditta pena et sia exempto daldetto officio da li anno proximo sequente. Et esso officio duri sei mesi, et piu et ..... facendo la vulunta de soprastanti. Et vaglino le accuse fatte per detto Saltaro con juramento et non sipossi excusare e per difetto diprove ne di testimoni. Alequale accuse con juramento sia creduto senza alchuna altra probatione."

di conseguenza poi veniva assunto dal contadino o dal signorotto locale,sopratutto nel periodo estivo-primaverile, da aprile fino anche ad ottobre (tempo di castagne), inoltre era responsabile di ogni danno che veniva commesso dentro la proprietà di sua competenza e per evitare tutto ciò aveva il suo punto di osservazione su una torre di legno detta "tezza", dove osservava tutto e tutti e quando qualcuno voleva attraversare il suo terreno per transitarci chiedeva, o forse meglio dire pretendeva, quella che oggi si chiamerebbe tangente, ovvero esigeva soldi in cambio del semplice passaggio,da aggiungere poi che non disdegnava il compenso che ogni singola famiglia di contadini gli donava,spesso e volentieri erano compensi in natura, insomma essere nominato saltaro era, come si diceva una volta "fare tredici al totocalcio", difatti il suo stipendio di pochi mesi si diceva che equivalesse quasi quanto avrebbe guadagnato un bracciante agricolo per tutto
l'anno.Sicuramente era un mestiere che aveva i suoi pro e i suoi contro, in realtà aveva regole stabilite, una di queste era che il saltaro non poteva dormire più di tre, quattro ore per notte, non poteva mai abbandonare il luogo di lavoro ed era perciò in servizio permanente.C'era anche la possibilità che all'interno di una proprietà vi fosse più di un saltaro dipendeva questo da quanto era grande il possedimento e la terra da vigilare,praticamente dove c'era un feudo esistevano più saltari che prendevano il nome dal bene sorvegliato: saltnerius feni, saltnerius pastorum, saltnerius vinerum (saltaro del fieno, del pascolo e delle vigne),questo
Pascoli a San Pellegrino in Alpe 1930
continuo contatto con la natura lo rendeva un estremo conoscitore di essa, da renderlo uno dei più specializzati intenditori nella conoscenza delle erbe aromatiche.Un personaggio praticamente quasi inavvicinabile, scontroso,a volte violento tanto che 500 anni fa era considerato per i bambini come l'attuale uomo nero, le mamme minacciavano così quando il piccolo faceva le bizze:

 -Guarda che se non obbedisci arriva il saltaro che ti porta insieme a lui nel bosco!- 
Personaggi questi quasi dimenticati, che come per magia ogni tanto qualche vecchio archivio polveroso restituisce...

Un garfagnino alla"corte" di Sandro Pertini. Sette anni vissuti gomito a gomito con il Presidente più amato dagli italiani

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Proprio quest'anno ricorrono i venticinque anni della morte di un grande uomo, un uomo che si spense alla veneranda età di 93 anni il 24 febbraio 1990. Questa persona era Sandro Pertini, il Presidente di tutti gli italiani, una figura dallo spessore morale altissimo, un vero garante dello stato, un personaggio veramente vicino ai bisogni della gente comune e per questo mai dimenticato, anche per la naturale simpatia che ispirava. Sembra ancora di vederlo sulla tribune del Santiago Bernabeu esultare per la vittoria dell'Italia ai campionati del mondo spagnoli del 1982 o camminare fra la gente comune come un cittadino qualunque. Mi piace e mi sembra doveroso
In primo piano Luciano Zanelli
con Pertini (foto tratta da "Il Tirreno)
ricordarlo attraverso le parole e le sensazioni di un garfagnino che lo conosceva bene e che lo ha accompagnò per tutto il settennato che lo vide Presidente della Repubblica. Questo garfagnino è Luciano Zanelli maresciallo dei carabinieri in pensione, egli faceva parte della scorta personale di Pertini. Luciano è nato a Castelletto, una borgata fatta di poche anime nel comune di Giuncugnano, oggi ha 77 anni,quando lasciò il paesello garfagnino ne aveva appena 17,decise di trasferirsi a Roma dove intraprese la carriera militare.Una carriera la sua che assunse una particolare strada, infatti fu contrassegnata dall'essere al fianco dei presidenti, prima di Pertini ebbe l'onore per due anni di fare la scorta anche al presidente Giovanni Leone. 

Castelletto (Giuncugnano)
Però Sandro Pertini era un'altra cosa e così i ricordi, le curiosità e gli aneddoti  vengono a galla in quei sette anni vissuti gomito a gomito con il Presidente.
Tanti sono i ricordi del periodo vissuto a tu per tu con la più alta carica dello Stato, che Zanelli definisce «un uomo buono, affabile che sapeva mettere a proprio agio tutti».
«Con noi della scorta – aggiunge - aveva un rapporto quasi familiare. Era camaleontico, perché sapeva stare con tutti e dovunque e sganciato da quello che era il cerimoniale».


Le vacanze in Val Gardena:
 «Ogni anno Pertini era solito passare le vacanze in Val Gardena. E con lui noi della scorta – spiega Zanelli -. Una volta quando arrivammo il presidente mi disse che voleva entrare in un negozio e mi pregò di chiamare gli altri agenti. Voleva comprare a tutti un maglione uguale al suo e che indossassimo insieme. La cosa ci imbarazzava perché nella maniera più assoluta non volevamo approfittare della sua generosità, così noi della scorta facemmo presente al titolare che ci saremmo pagati il proprio capo d'abbigliamento. Ed ancora conservo quel maglione. Sul fatto dei soldi non sentiva ragioni, voleva pagare sempre lui. Ovviamente quando si consumava un pasto nei ristoranti andavo io o un collega a pagare il conto. Appena tornavo al tavolo la frase era sempre la stessa “Giovanotto quanto ha speso?”. Prima di iniziare il pranzo o la cena domandava se i ragazzi (così chiamava il personale della scorta, ndr) avevano mangiato. Più che un presidente era stare insieme ad un amico».

La partita a carte:
«Dal centro carabinieri dove il presidente alloggiava in Val Gardena – ricorda ancora il maresciallo Zanelli - la mattina ci spostavamo con le campagnole per raggiungere qualche rifugio, ma gli ultimi tre chilometri Pertini li voleva fare a piedi. E se prima di pranzare c'era da aspettare un po' immancabile era la partita a carte con gli uomini della scorta. Io però una partita con lui non l'ho mai fatta dato che non ho mai tenuto in mano un mazzo di carte»

L'amore per i bambini:
 «Durante i vari spostamenti ci fermavano in autostrada al solito rifornitore di benzina. Pertini ne approfittava per prendere un caffè. E se c'erano dei bambini comprava loro delle cioccolate. Li adorava e adorava l'affetto della gente che incontrava sempre volentieri».


Vado in ufficio:
Così era solito dire Sandro Pertini quando la mattina presto si recava al Quirinale. La sera verso le 17.30-18 veniva riaccompagnato a casa, vicino alla fontana di Trevi.

Zanelli racconta un altro particolare legato al capo dello Stato:
«La sera Pertini sarebbe voluto uscire in incognito, non voleva creare disturbo agli uomini della scorta. Quando me lo diceva lo faceva quasi sottovoce. Ma la cosa non era possibile. Il sabato, invece, spesso andavamo al Caffè Greco».

La pipa spenta:
Svela un particolare Luciano Zanelli su un oggetto tanto caro a Pertini: la pipa. «Era quasi sempre spenta, il presidente non era un fumatore accanito. L'accendeva dopo pranzo giusto per fare un paio di tiri. Era un po' il suo giocattolo. Aveva una ricca collezione di pipe e una volta nella Marche una famosa ditta gliene realizzò una davanti a lui in soli 35 minuti».
 (Intervista del 2012 di Azelio Biagioni per il quotidiano "Il Tirreno")

Sono passati così trent'anni da quel 29 giugno 1985 ultimo giorno da
Zanelli oggi
(foto tratta da facebook)
Presidente della Repubblica di Sandro Pertini, ma già all'inizio del semestre bianco (n.d.r: l'espressione è usata per indicare il periodo di tempo, che si identifica con gli ultimi sei mesi del mandato, durante il quale il presidente della Repubblica non può sciogliere le camere) Luciano lasciò l'incarico e andò al comando generale dell'Arma, dove rimase per qualche anno per poi andare in pensione. Oggi Luciano vive ancora a Roma con la famiglia, attorniato piacevolmente da quattro nipoti, nella capitale è diventato un affermato pittore, ha esposto le sue opere nelle migliori gallerie capitoline e italiane
Uno dei dipinti di Zanelli
(foto tratta da Facebook)
riscuotendo successo di pubblico e critica e non solo, coltiva anche la passione per la scrittura,ma  non si è dimenticato però delle sue origini e quando può ritorna nella nostra valle a

Fornaci di Barga dove vivono i suoi fratelli.

Insomma ecco un altro garfagnino di cui andare fieri.

La storia de "Il pane a sette croste".1910,il viaggio per mare di un emigrante garfagnino

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Il piroscafo "Galileo"
Rileggendo documenti e testimonianze della Fondazione Cresci di Lucca per la storia dell'emigrazione italiana, sono rimasto sorpreso nel leggere dei carteggi riguardanti l'emigrazione garfagnina nei tempi passati e mi è sembrato perlopiù di leggere gli articoli di qualche quotidiano nazionale di oggi, riguardante l'orda di disperati migranti che fuggono dai loro paesi d'origine. Naturalmente ci sono differenze sostanziali, ci mancherebbe altro, ma quanto a tribolazioni, speranze e viaggi in condizioni disastrose, nonostante siano passati più di cento anni non è cambiato assolutamente niente e non è retorica o banalità dire che quello che oggi provano questi disperati, i nostri nonni l'hanno provato per primi sulla loro pelle.Per questo che oggi vi voglio raccontare la storia vera  de "Il pane a sette croste",il viaggio che affrontò un garfagnino nel 1910 per raggiungere il lontanissimo Brasile.
Cresci durante il suo certosino lavoro di raccolta di testimonianze sull'emigrazione in Garfagnana strinse amicizia con Camillo Angelo Abrami originario di Chiozza (Castiglione Garfagnana) ma residente a Vagli di Sotto, la sua fu una vita di emigrazione attraversando oceani per ben 23 volte: destinazione Brasile. Era quindi il prototipo dell'emigrante garfagnino per eccellenza e così Camillo sintetizzò in poche parole la sua testimonianza all'estero, ricordando subito l'inizio della sua avventura, quando il padre si opponeva alla sua partenza, ma una volta ottenuto il consenso gli disse queste parole:
Camillo Abrami
con la moglie

- Ricordati che il pane degli altri,come ti ho ripetuto altre volte, ha sette croste. Per guadagnarselo all'estero sarà sicuramente più duro del mio-.Il Pane a sette croste divenne poi il titolo di una pubblicazione e sta a significare appunto la durezza dell'esperienza dell'emigrazione.
Oggi invece se proviamo a domandare a qualche giovane studente: - Cosa sapete dell'emigrazione italiana?- Molto probabilmente chiuderanno gli occhi e allargheranno le braccia e pensare che in molte lettere dei nostri emigranti garfagnini, scrivevano quasi tutti la solita cosa: "Salutate tutti quelli che domandano di me". Non volevano essere dimenticati e questo articolo vuole essere appunto uno stimolo in più perchè tutto questo non vada perso. 
La Garfagnana dai dati della Commissione Parlamentare sulla disoccupazione del 1952 è la zona della Toscana che nel tempo dette il maggior contingente di emigrati. Le cause furono molteplici:la menomazione dell'economia montana, lo sfruttamento distruttivo della montagna, la povertà stessa della popolazione e le poche vie di comunicazione.La disoccupazione sfiorava il 70%, i garfagnini campavano sullo sfruttamento del bosco a seconda della stagione (legna, funghi, castagne, mirtilli) figurarsi quindi ai tempi di Angelo Abrami. Angelo parti da Vagli nel 1910 a sedici anni con"il corredo necessario per qualche anno", come era nelle sue intenzioni e giusto, giusto prima di partire i genitori con sacrificio fecero un po' di acquisti per lui, ecco qui la spesa di quel tempo:

  • 1 valigia di cartone £ 15
  • 1 sveglia da £ 5
  • 1 paio di scarpe da lavoro £ 10
  • 1 paio di scarpe fine £ 12
  • 1 vestito di cotone da £ 9
  • 1 vestito da lavoro da £ 6
  • 2 paia di pantaloni £ 8
  • 3 paia di calze di lana £ 3
  • 1 asciugamano £ 1,25
  • 2 asciugamano di cotone £ 2,50
  • 2 gravane(n.d.r:forse cravatte, ma non lo so!)£ 2
  • 1 ombrello £ 1,50
  • 3 cappelli da  £ 2, £ 1,20, 90 Cent
  • 4,10 per le spese
Totale £ 79,35

Così si affrontava il viaggio per le lontane Americhe, innanzitutto indebitandosi già in partenza perchè molti garfagnini si rivolgevano già nel lontano 1874 al Banco di Anticipazioni e di Sconto di
Emigranti italiani su un bastimento
inizio 900
Castelnuovo che tramite l'ipoteca sui beni terreni della famiglia, si rifaceva pure sui primi salari guadagnati in terra straniera per rientrare del prestito dato e tutto questo per un biglietto di terza classe sul Piroscafo Galileo, come racconta il nostro protagonista. 

"Il Galileo portava 1600 passeggeri di terza classe, fra i quali più di 400 bambini. All'imbarco a Genova passava ogni sorta di persona, operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti, passavano portando quasi tutti una sedia pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie di ogni forma alla mano o sul corpo, bracciate di materasse e di coperte e il biglietto con il numero della cuccetta stretto tra le labbra.Tutti i posti, ogni piccolo anfratto e minimo spazio veniva presto occupato.Le famiglie poi si separavano:gli uomini da una parte, le donne da un'altra e i ragazzi erano condotti nei loro dormitori.Entrando nei boccaporti infatti ridiscendevamo le scale entrando nelle camerate. Le cuccette erano su tre piani, una fila a destra e una a sinistra e nel mezzo un corridoio, mi facevano venire in mente la solita disposizione che davamo alle vacche a casa e la differenza poi non era così tanta. Ci venivano date materasse e salva vita di sughero (n.d.r:salvagenti) che ci doveva fare anche da cuscino. Al momento del mangiare si formavano squadre da 6 o 8 persone, ci davano un sacchetto di tela con piatti, gamelle (n.d.r:recipiente di latta), posate e bidone di legno per il vino".
Era piuttosto sulla modalità della distribuzione del cibo che venivano fuori dei parapiglia: i pasti (se così le vogliamo chiamare) venivano affidati ai "capirancio" che di solito erano i più anziani della camerata e questi di  solito facevano i furbetti facendo favoritismi o distinzioni al momento della distribuzione. Il cibo veniva poi consumato nelle cuccette o sul ponte in quanto non vi erano dei refettori. Non parliamo poi dell'igiene, nel 1900 la situazione era così descritta da un medico: 
“L’igiene e la pulizia sono costantemente in contrasto con la speculazione. Manca lo spazio, manca l’aria. Le cuccette degli emigranti vengono ricavate in due o tre corridoi e ricevono aria per lo più attraverso i boccaporti. L’altezza minima dei corridoi va da un metro e sessanta centimetri per il primo, partendo dall'alto,a un metro e novanta per il secondo. Nei dormitori così allestiti, è frequente l’insorgenza di malattie, specialmente bronchiali e dell’apparato respiratorio e nonchè virus intestinali. Per sottolineare la mancanza delle più elementari norme igieniche si può fare riferimento al problema della conservazione e distribuzione dell’acqua potabile che viene tenuta in casse di ferro rivestite di cemento. A causa del rollio della nave il cemento tende a sgretolarsi intorbidando l’acqua che,venuta a contatto con il ferro ossidato, assume un colore rosso e viene consumata cosi dagli emigranti non essendo previsti dei distillatori a bordo."
Manifesto delle partenze
per le Americhe pubblicato
su "Il Corriere
della Garfagnana del 1886

Ma la voglia di cambiar vita e la speranza di nuove prospettive per i garfagnini era superiore a qualsiasi patimento e bene o male nei 30 giorni (circa)di viaggio c'era da passare il tempo in qualche maniera e per i viaggiatori di terza classe come ricorda Abrami i divertimenti erano pochi. Si giocava spesso a tombola e quando i banchi di pesce a volte affiancavano la nave davano sorpresa e allegria, specialmente quando i delfini per lunghi tratti accompagnavano il piroscafo. L'occupazione principale sopra la nave era andare a prendere il cibo,pane e vino mattina e sera e molti addirittura passavano ore a osservare inebetiti lo spartiacque alla prua di bordo. Per fortuna che c'era la musica suonata con l'organetto o con la fisarmonica,ed è li che il nostro Camillo Abrami sentì per la prima la conosciutissima "Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar". Finalmente poi si arrivava nelle Americhe e qui i poveri garfagnini erano alla mercè dei manigoldi:rapine, raggiri e truffe erano all'ordine del giorno per i nostri emigranti, vissuti sempre nella pur povera ma onesta Garfagnana.La buonafede, la mancanza di malizia e l'ingenuità era motivo di approfitto anche da parte degli stessi italiani che si erano già insediati da qualche anno e che imbrogliavano senza vergogna chi era appena sbarcato, anche perchè c'era una totale mancanza di assistenza da parte del governo italiano, in aiuto perlomeno c'erano alcune società caritatevoli cattoliche per inserire questa povera gente e l'inserimento sociale non era per niente facile e uno degli scogli più grandi era la lingua. Ecco un simpatico vocabolario di un emigrante di Cerretoli che si era annotato alcune frasi:

Inglese:Ianmen, ai nide bai santin ciu it, iu uil scio mi becher sciop
Italiano:Giovinotto, io abbisogno di comprare qualche cosa da mangiare, voi volete mostrarmi il negozio del panettiere.

Inglese:Oraite tenchiu veri macci 
Italiano:Va bene vi ringrazio tanto.

Inglese:Boos pliis ghimmi tuu loff brede, tuu sardine chen, tuenti sensi bolon, ten sensi ciis, uan borla uaine 
Italiano:Padrone favoritemi due pani, due scatole di sardine,venti centesimi di salame, dieci centesimi di formaggio, una bottiglia vino.

Torniamo così da Camillo Angelo Abrami che finalmente raggiunse in Brasile il fratello Amos, già lì da alcuni anni e impiegato come factotum nel ristorante albergo dello zio Angelo Guazzelli fratello della madre. Così infatti andava, era una continua catena, parente chiamava parente e la Garfagnana di fatto si svuotava, ne è la prova questa bellissima lettera sgrammaticata con un italiano misto a dialetto a volte
Donne emigranti in coperta

deformato dalle lingue di adozione e che a sua volta Camillo inviò al nipote Samuele per chiamarlo anche lui nello sconfinato Brasile:
- Caro nepote Samuele sono a farti asapere lottimo stato di mia salute ed il simile volio sperare di te e tua familia. Sono a dirti che seacaso volesti vienire in America del Brasile, come tù miavevi detto nella mia partenza, che mi dicevi, che quando, avevo posto per me, efatto posizione, che ti avessi mandati aprendere. Dunque settù voi vienire ora è il tempo, il quale settù voi vienire, neò un grande bisogno nel mio ottello, di più ti dico che sevoi vienire io ti terrò sotto la mia cura, commé noglialtri, e ti potrai fare un piano discreto.- 
19 Settembre 1910, 
Angelo Camillo Abrami

Continuava e continua ancora oggi la storia de "Il pane a sette croste".

Pieve Fosciana: la rivolta del tricolore.La prima bandiera italiana a sventolare in Toscana,era il 1831

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Il tricolore che sventolò a Pieve Fosciana
Ogni tanto penso a quanta fatica e con quanti morti siamo arrivati ad avere un Italia unita, poi un attimo dopo la mia mente va all'Italia di oggi e penso a quei poveretti di Pieve Fosciana nel 1831...vedessero adesso... e mi è impossibile non ricordare quella lontana domenica del 6 marzo di 184 anni fa. Sono passati molti anni dal quel giorno, da quella che gli storici hanno definito come"la prima rivolta del tricolore" in Toscana.Per gli onori della cronaca la Pieve ha il privilegio (come già tutti ben sappiamo) di essere il primo luogo in Toscana in cui è sventolata la nostra bandiera nazionale. Raccontiamo però come andarono i fatti. Tutto nacque ancor prima di quella notte tra il 5 e il 6 marzo. Pieve Fosciana faceva parte del Ducato di Modena, sotto il duca Francesco IV d'Este, quando i carbonari Ciro Menotti e il suo braccio destro Antonio Angelini di Pieve Fosciana iniziarono a organizzare la rivolta di Modena e del suo regno.Fra i due fu amicizia fin da subito,condivisero l’idea di un’Italia unita e libera e in questo anelito di libertà la macchina della rivoluzione si mise in moto anche alla Pieve. Gli artigiani cominciarono a cucire le coccarde tricolori da mettere al petto, mentre sette ragazzi di buona famiglia si mossero per far partecipare tutto il paese. Questi baldi giovanotti fautori della rivoluzione pievarina si chiamavano: Jacopo Pierotti, Nicola Amicotti (già inquisito per i moti del 
Il Terrazzo con lapide
da cui sventolò
1821), Pietro Pierotti, Pietro Mariani, il dottor Porta Catucci e il professor  Giovan Battista Tognarelli Arriviamo così alla fatidica notte del 5 marzo 1831,la notte a cui si fa riferimento.La rivoluzione contro il Duca doveva partire da Modena ed estendersi a tutto il Ducato, per un disguido e per le informazioni che “correvano” con le carrozze o a piedi(internet e gli smartphone ancora non c'erano), a Pieve Fosciana nessuno fu avvertito che questa era stata rimandata di un mese.Tutto però aveva preso il via,alla Pieve sventolò per alcuni giorni il Tricolore. I giovani tolsero dalla casa comunale l’aquila di pietra simbolo di Francesco IV e il Tognarelli issò il tricolore dal terrazzino della casa comunale. Fu un vero tripudio cominciarono le feste,si brindò e si cantò.Furono già elette le nuove magistrature dichiarando di fatto decadute le autorità ducali, fu nominato addirittura un commissario governativo provvisorio Felice Spezzani che partecipò ad un lauto banchetto a base di tordi preparato dalle donne del paese .La rivoluzione però durò tre soli giorni e nel martedì pomeriggio, quando rientrò il Duca nei suoi territorio fu imposto a tutte le 
Francesco IV duca di
Modena
chiese di suonare le campane per richiamare la popolazione all'ordine, al Sillico questo non fu possibile perchè i tre fratelli Bonaldi avevano tagliato le corde della campane e inchiodato il portone del campanile, per questo furono arrestati e processati.Alle forze armate estensi fu dato immediato ordine di riportare tutto
alla normalità.La sollevazione di Pieve Fosciana in quattro e quattr'otto fu subito sottomessa  e fu pagata anche a caro prezzo. Ciro Menotti di li a poco tempo fu impiccato, al resto dei "pievarini" andò meglio perchè fuggirono "all'estero", cioè a Barga facente parte del Granducato di Toscana e a Gallicano sotto il ducato di Lucca e per venti lunghi anni non rividero le loro case, anche il paese stesso fu punito: per sei anni venne privato dallo stesso Duca della sua sede comunale. Si dovette aspettare così il 1859 quando i plebisciti unirono tutta la Toscana al Piemonte...in tutta questa confusione però una furtiva e benedetta mano riuscì a trafugare quella bandiera italiana che per tre giorni sventolò orgogliosamente in paese. Questa era la benedetta mano di Jacopo Pierotti che conservò gelosamente questa"reliquia" e quando sua figlia sposò l'avvocato Giulio Pesetti, poi sindaco di Castelnuovo,la bandiera passò alla famiglia del marito che l'ha portata fino ai giorni nostri, e come ebbe a dire il carbonaro
pievarino Antonio Angelini "Quel 10 marzo era già tutto finito",con questa frase mise fine ai sogni di gloria ma inconsapevolmente aprì una gloriosa pagina per la nostra valle.

Come leggenda volle:la nascita del castagno in Garfagnana. Storia antica e rara.

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Non c'è memoria che ci possa dire da quanto tempo le castagne
sfamano la Garfagnana e non sta certo a me ricordare che nei tanti momenti di carestia che la nostra valle ha attraversato quante vite garfagnine ha salvato dallo stento e dalla fame.Trovo quindi sempre giusto ricordare in tempo di castagne questo prezioso frutto della nostra terra che a mio avviso posso definire senza ombra di dubbio il frutto garfagnino più pregiato. "L'albero del pane", così lo definì Giovanni Pascoli nella sua opera Castanea. Tanto importante per noi, che gli usi, i costumi e le tradizioni, i regolamenti comunali, le tecniche agronomiche, tutto è legato a questo albero.Un proverbio a questo avviso dice:

Garfagnin della Garfagna
Se tu non avessi la castagna
Moriresti dalla famma.

Naturalmente con il tempo sono cambiate le cose e di quei 18.000 ettari di castagneto da frutto all'inizio del XX° secolo, oggi ne sono rimasti "solamente" 3000 ancora in produzione.Una vera fortuna dunque che in Garfagnana ci sia quest'albero, ma come ci è arrivato nelle nostre terre? Qualche volta è giusto lasciar perdere la storia vera e propria ed è bello immergersi nella poesia delle leggende,
lasciarsi trasportare in questo mondo fantastico e perchè no magari anche crederci. Questa che vado a narrare tratta la mistica nascita del castagno in Garfagnana,una leggenda molto antica e rara, forse conosciuta da pochi. Si ha qualcosa di scritto su questa storia a partire dal 1720 da parte di Pellegrino Paolucci (n.d.r: storico garfagnino), ma la sua diffusione, come nelle migliori tradizioni delle leggende è orale,racconti narrati magari raccolti in seno alla famiglia, alla luce del focolare domestico, con una padella di scoppiettanti mondine sul fuoco e in compagnia di un buon bicchiere di vino rosso  e cominciare a raccontare così l'origine di tutto:

"Sui monti della Garfagnana viveva da tempo immemore un vecchio e saggio boscaiolo, aveva sempre vissuto sui quei monti e tutti lo vedevano da sempre. Un giorno spaccava la legna all'ombra di un grande albero verdeggiante, e ringraziava Dio della forza che gli dava e dell'ombra che gli concedeva.Si fermò un istante per asciugarsi il sudore e sentì che alcuni montanari garfagnini, poco discosti da lui, si lagnavano delle loro condizioni.
-Disgraziati noi,- diceva una voce di giovane 
- Perché restiamo quassù e non scendiamo al piano? Avete visto come era giallo il grano della valle? Chissà quanto pane saporito avrà il contadino della pianura!-
-E avete visto, -


seguitava la voce di una donna:
-quel verde chiaro sulle colline verso il mare? Sono gli olivi. Chissà quanto olio dolce e nutriente torchieranno i contadini della collina!-
La voce di un vecchio seguitò ancora:
-E le viti verso il piano di Lucca che già diventano rosse,le avete viste? Chissà quanto vino generoso avrà il vignaiolo!-
Il vecchio saggio ascoltava col cuore sospeso. Temeva che i suoi montanari peccassero di ingratitudine verso Dio e bestemmiassero.Le voci seguitavano:
- E noi che cosa abbiamo? - diceva il giovane - Un po' di pascolo, di latte e di formaggio.-
- E quando piove e poi vien fuori il sole, - diceva la donna,-qualche fungo-
- E quando fa freddo un po' di legna da ardere- continuava il vecchio.
-Vita misera, stenta e dura -dicevano insieme.
Al saggio si strinse il cuore.Commosso da quei lagni, si mise in ginocchio sopra una pietra e pregò: 
-Dio mio, che hai dato la lana agli agnelli, il latte alle pecore , dà la maniera di svernare anche a coloro che abitano le tue alte montagne. Da' un pane anche ai montanari di questa valle, un pane dolce, nutriente e caldo, che sia il loro nutrimento nel lungo e rigido inverno!-
Metato garfagnino

Sentì sopra di sé frusciare le fronde del grande albero e fu come se Dio avesse fatto cenno di assenso.Il vecchio si alzò e si diresse verso le voci che risuonavano ancora nel bosco.Trovò i montanari seduti sul muschio. Avevano tutti il volto triste e la testa appoggiata alla mano.
-Non siate così tristi, - disse il vecchio saggio ai suoi montanari.
 -Non vi lagnate così. Iddio penserà anche a noi se gli saremo fedeli.-
Le voci si spensero, poi ripresero:
- Viviamo fra gli stenti. Non abbiamo un frutto che ci nutra e dia un raccolto abbondante.-
-E’ vero,ma non vi scoraggiate. Iddio.... - 
Alzò la testa e scorse tra le foglie verdi dell'albero un riccio tondo e spinoso che non aveva mai veduto. Lo staccò cautamente e lo mostrò ai montanari stupiti.
- Guardate, ecco il frutto per voi!-
I montanari s'alzarono per osservare meglio quel riccio. Lo toccarono, lo soppesarono,poi si ributtarono in terra scontenti.
- Bel frutto! Non ha che spine pungenti. Ci ferirà la bocca. L'uva, l'oliva e il grano hanno un'altra apparenza!-
 Il saggio sorrise:
- Gente poco accorta, - disse. 
- Se di fuori questo frutto è così armato, vuol dire che dentro ha un tesoro da difendere dagli scoiattoli e dai ghiri. Prima di lamentarvi guardate che cosa contiene.-
Tracciò il segno della croce sul riccio, il quale si aprì in quattro e fece uscire tre belle castagne gonfie e lucide.I montanari garfagnini si erano fatti anch'essi il segno della croce, e ammiravano il prodigio delle tre castagne.

 - Queste, - disse il vecchio - son come tre sacchetti di dolce farina. Non patirete la fame, negli inverni più lunghi. Siete contenti?-
I tre montanari mormoravano:
- Iddio ci vuole bene, Iddio è stato generoso anche con noi.-
- E anche voi siate generosi, - ribatté il saggio - E ascoltate-.
I tre si avvicinarono a lui:
-Quante castagne contiene il riccio? - chiese il vecchio saggio.
 - Tre...Dunque il frutto è diviso in tre parti. Questa prima castagna, - disse -  è per il padrone del castagneto. Quest'altra - aggiunse prendendo la seconda castagna, - è per chi lavorerà nel castagneto.-
Rimase una castagna nel riccio.
- E quella? Di chi sarà questa terza castagna?- 
chiesero i tre e il vecchio rispose:
- Avete visto come ho fatto ad aprire il riccio? Col segno della croce.E il segno della croce chi ricorda? Gesù! Il riccio si è aperto per Lui. E noi lo ringrazieremo nelle nostre preghiere. Questa terza castagna è dunque per Lui, cioè per i poveri-.
Il saggio si allontanò e ripeté:
- Una al padrone, una al contadino, ed una al povero...-.
Raccolse di terra l'accetta, e tornò a spaccar legna nel bosco."

Una bella leggenda che affonda le sue radici nella fede contadina di secoli fa, dove Dio e terra erano legato in maniera
indissolubilmente e allo stesso tempo rende la castagna un frutto divino, nato per volontà di Gesù per sfamare la povera Garfagnana di quel tempo. Una leggenda questa ormai persa e da poco recuperata che rende onore alla castagna garfagnina e allo stesso tempo fa si che questa bella storia non vada persa nell'oblio dei tempi.

La storia vera di Ursolina la Rossa...la strega

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Era conosciuto come il "Malleus Maleficarum", ovverosia il
"Martello delle streghe", il manuale più consultato per la caccia alla streghe, un testo latino pubblicato nel 1487 dai frati domenicani Jacob Sprenger ed Heirich Kramer redatto allo scopo di reprimere la stregoneria, tale manuale non fu mai riconosciuto dalla chiesa cattolica ma neanche inserito nell'indice dei libri proibiti.Riscosse consensi in tutti gli inquisitori e in autorevoli ecclesiastici, tanto che ne vennero pubblicate 34 edizioni e stampate oltre trentacinquemila copie, anche in edizione tascabile. Il primo impatto fu che negli anni immediatamente successivi alla sua pubblicazione in Europa furono bruciate vive in quindici anni 16.376 streghe ed eretici e condannate a penitenza oltre 17 mila persone, dopo esser passate da atroci torture per confessare il terribile peccato di fronte a Dio. Sotto questa scure non mancò neanche la Garfagnana e questa triste storia ne è testimone.
Lei era una povera donna conosciuta come "Ursolina vulgariter ditta La Rossa"al secolo Ursolina La Rossa di Sasso Rosso. Ma come era potuto succedere che una semplice (seppur stramba) donna di paese fosse finita nelle rete della Santa Inquisizione? I padri inquisitori le dissero così che aveva la fama di essere strega e che perdipiù persone fidate l'avevano additata come tale, ma naturalmente la verità era un'altra, in paese qualche nemico c'era e poi dal momento che da poco era morto il marito la sua posizione si faceva ancora più debole e poi quei capelli rossi certo non aiutavano e non aiutava per niente quella sua passione di trafficare con le erbe, conosceva qualche metodo per curare alcune semplici malattie, un po' come fanno adesso le nostre nonne e tali pratiche le aveva imparate dalle altre compaesane e non credeva certo che fossero pratiche peccaminose, ma questo bastava per venire condotta davanti al tribunale del Sant'Uffizio competente di Modena, insieme a sua figlia, anche lei considerata come la madre.Era nell'anno 1539. Dagli atti del processo si ricavava che già dai primi interrogatori la donna "ammise" subito le sue colpe,la paura di essere torturata era molta, disse che era già molti anni che
partecipava a dei sabba, cominciò a favoleggiare su questi riti, ma all'inquisitore questo non bastava, ci doveva essere di più oltre che il sabba e fu portata di conseguenza nella sala delle torture dove doveva confessare tutta la verità in ogni minimo particolare,fu così legata e sollevata per un braccio da terra, il dolore fu indicibile: "...deponiteme che io dirò la verità...". Alle domande incalzanti rispose di si a tutto, rinnegava la Madonna, la fede e chiamava tre volte il diavolo che compariva sotto forma di un montone, lei gli saliva a cavallo e volavano nel cielo, confessò di averci avuto rapporti sessuali, tanto che diceva di questa bestia di essere dotato di un pene biforcuto. Nei giorni a seguire gli interrogatori continueranno ma "la sete di verità" degli inquisitori non fu placata vista"la obstinazione et pertinacia della donna" e pertanto fu chiesta autorizzazione a sua Eccellenza Joà di Saviati vescovo di Ferrara per procedere al tormento con il fuoco, l'autorizzazione fu concessa.A Ursolina furono poste le braci ardenti sotto i piedi e gridò "Toliti via il foco che volgio dire la verità" .I padri la ammonirono nuovamente di dire la verità e Ursolina fu un fiume in piena:"Io rinnego Cristo,la Vergine Maria ed i suoi santi e non voglio che Dio e la Vergine abbiano parte in me..", riferì di unguenti miracolosi fatti con grasso di "cristiano", poi pensò ad un'altra ammissione, la peggiore, la più nefanda, confessò di aver ucciso, ucciso bambini, dissanguandoli, scese in particolari raccapriccianti tanto da sorprendere gli stessi inquisitori, ma lei oramai dopo le terribili torture molto probabilmente non vedeva l'ora di
morire...Ma così non fu. Il Sant'Uffizio gli lasciò la possibilità di fare abiura (in caso contrario sarebbe finita sul rogo), di rinunciare al diavolo e alle sue tentazioni e di promettersi a Dio per il resto della sua vita, non prima di aver scontato penitenze pubbliche. Ursolina accettò,  probabilmente salvando così anche la figlia:
"Mi Ursolina da Saso Rosso de la Diocesi di Modena...in presentia del reverendo Padre fra Thomas de Morbegno, vicario generale et reverendo padre inquisitore...essendomi posti li sacri Evangelji avantj e tocandolj corporalmente abiuro,revoco,detesto,abnego ogni heresia".
Dopo aver pronunciato abiura fu condotta all'ingresso del duomo di Modena dove fu posta in ginocchio con una corda al collo, molti si fermavano a schernirla, a maledirla e a minacciarla e così pure il giorno dopo avrebbe dovuto umiliarsi alla solita maniera davanti ad un'altra chiesa della città e poi così ancora per altre due
domeniche come specificava l'editto di penitenza, solo dopo questo avrebbe potuto riprendere la strada per Sasso Rosso, ma la sua vita non sarebbe più stata la stessa una volta giunta in paese, le regole ferree del tribunale sarebbero continuate. Ursolina doveva chiudersi in casa, uscire solo per andare a messa e confessarsi,per un intero anno poi avrebbe dovuto portare una tunica di penitenza con bene in vista una croce rossa e per tutto il tempo che le rimaneva da vivere avrebbe dovuto recitare un rosario al giorno alla Madonna. In fondo a questa storia Ursolina era felice,le cose più preziose gli erano rimaste:la figlia e la vita, gli inquisitori erano stati clementi o forse non avevano creduto a tutto quello che era uscito dalla sua bocca e avevano compreso che era soltanto una povera donna di campagna...
Una storia vera,che deve far riflettere ogni lettore.
La storia è documentata ancor meglio dal professor Guidi nel suo libro "Ursolina la Rossa e altre storie".

92a Divisione Buffalo: i 15000 uomini di colore che liberarono la Garfagnana.1944

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Non è come Hollywood ce la vuol sempre raccontare, anzi spesso e
Il loro simbolo
volentieri il cinema americano ci lancia degli stereotipi che ci portiamo appresso tutta la vita. Ad esempio nella II guerra mondiale coloro che ci liberarono dall'oppressione nazi fascista furono gli americani (ma non solo) e ce le immaginiamo arrivare nella nostra Garfagnana da liberatori trionfanti sulle jeep a ritmo di swing, distribuendo cioccolate e sigarette a destra e a manca fra ali di gente festante e ci ritornano alla mente quei soliti soldati americani visti nei film di guerra,un po' spacconi ma buoni come John Wayne ne "Il giorno più lungo"o Lee Marvin "In quella sporca dozzina", ma non fu così, almeno in Garfagnana.Gli americani che pensiamo nel nostro immaginifico non arrivarono mai, o meglio arrivarono quando la situazione nella valle era ormai pacificata. Oggi rendiamo merito e onore ai veri eroi, gli uomini della 92a Divisione Buffalo appartenenti alla Va armata americana.Una divisione composta da solo uomini neri, ben quindicimila, pochi conoscono i risvolti del doloroso ed eroico ingaggio di questi soldati che diedero le loro vite nel 1944 per la libertà della Garfagnana e per la loro stessa emancipazione dal razzismo.Questi erano i Buffalo Soldiers, i "soldati bufalo".

"Deeds not words", "fatti non parole" era il motto di questa divisione particolare
Una delle prime divisioni
della Buffalo
dell'esercito americano.Il soprannome "Buffalo" fu affibbiato a loro dai Cheyenne (tribù di Nativi Americani) nel 1867, in parte per il colore della pelle e per i capelli ricci di questi soldati che ricordava il mantello di un bisonte, ma sopratutto perchè questo nome per gli indiani significava rispetto, poichè come i bisonti, i soldati della Buffalo combattevano fino alla fine. Dopo la guerra civile americana (1865) Frederick Douglas (politico e abolizionista americano) ebbe a dire:

"I neri di America sono stati cittadini statunitensi tre volte nel 1766,nel 1812 e nel 1865. Nei periodi complicati i neri erano cittadini,nei momenti di pace erano degli alieni"
e la storia si ripete così nel 1941 a II guerra mondiale iniziata, il presidente Roosevelt firmò l'atto 8802 che riammetteva così i neri d'America nell'esercito. Seguirono poi leggi non scritte dove i neri dovevano restare in unità separate dai bianchi e in cui sempre i neri non potevano comandare i bianchi.L'altezzoso generale (bianco) Ned Almond, loro comandante così li accolse:
"Noi non vi abbiamo chiamato. I vostri giornali e politici neri assieme ai vostri amici bianchi hanno insistito per vedervi combattere e io mi impegnerò perchè voi combattiate e offriate la vostra parte di vittime".
Il comandante della V armata Mark Wayne
Clark passa in rassegna "La Buffalo"

Questo era il "buongiorno" con cui partirono per l'Italia.
Sbarcarono a Napoli nel 1944, poi di nuovo imbarcati per Civitavecchia e da li su convogli militari giunsero in Toscana. Avevano il compito di attraversare l'Arno e sfondare niente meno che la linea Gotica.La Garfagnana accolse così questi giovani, tutti desiderosi di far parte di un operazione militare vittoriosa. Molti di questi soldati si erano arruolati volontariamente per ottenere quell'integrazione civile e umana sancita a parole dalla Costituzione Americana, altri perchè senza lavoro,la maggioranza di loro erano contadini analfabeti, ma c'erano anche medici e professionisti. L'impatto con la nostra valle fu sconcertante da un punto di vista prettamente militare, per mesi e mesi i loro addestramenti si svolsero nelle lande semi desertiche del Texas che non avevano niente a che vedere con le montagne garfagnine, ma ormai non c'era più niente da fare, la loro missione doveva andare avanti.Dopo aver ridefinito le strategie cominciò l'avanzata verso la Garfagnana, iniziarono la loro risalita coadiuvati dai partigiani locali, infatti la loro più grande paura non essendo come detto abituati alla morfologia del territorio era di perdersi  per i
Una storica immagine:Lucca è liberata
dai soldati della Buffalo.
Foto ricordo con i civili
sentieri della valle e la collaborazione degli "amici paesani" (come i soldati della Buffalo chiamavano partigiani) in tal senso fu fondamentale. Giunsero così nel Morianese il 15 settembre 1944, gli scontri furono da subito duri con i tedeschi, questi scontri violenti durarono per quattro giorni, quando finalmente gli alleati riuscirono a sfondare ed entrare di fatto nella Valle del Serchio. Importantissimo fu anche per la Garfagnana l'apporto dell'esercito brasiliano,la F.E.B (Forza di Spedizione Brasiliana) che in quel momento si occupava della zona ovest, la zona che dava verso la Versilia, l'offensiva di entrambi gli eserciti continuava inesorabile tanto da giungere il 30 settembre del solito anno a Borgo a Mozzano stabilendoci il comando generale.Il 1° ottobre la 92a Buffalo liberò anche Bagni di Lucca, la loro marcia insieme ai brasiliani si protrasse ancora per 20 km liberando Barga, Fornaci, Gallicano, Sommocolonia, Ghivizzano e Pian di Coreglia e qui in questa linea si attestò il fronte.Rimane di quei giorni il ricordo singolare di un signore di Gallicano che all'epoca era un bambino di 9 anni :

Manifesto di propaganda fascista
contro i soldati negri
"Io non avevo mai visto un uomo nero se non nei manifesti della propaganda fascista che li dipingeva come degli scimmioni. Da principio fui titubante, ma poi mi feci conquistare dalla cioccolata che spesso mi offrivano".
Furono quelli sette mesi di guerra di trincea che in una maniera o nell'altra andava superata, l'inverno fu rigidissimo e solamente incursioni aeree su Castelnuovo e qualche episodio di guerriglia smossero in qualche modo la situazione.Vennero poi i giorni tragici e decisivi del dicembre 1944, i giorni dell'operazione "Wintergewitter",in italiano "Tempesta d'inverno", meglio conosciuta ai più come la "Battaglia di Natale". Le forze naziste il 26 dicembre a mezzanotte con un colpo d'ala riuscirono a sfondare le linee difensive statunitensi, cogliendo di sorpresa i soldati della Buffalo, in pochi giorni gli americani furono ricacciati indietro di 20 km, fu una disfatta.Nella memoria di tutti rimarrà l'estremo sacrificio del tenente di colore John Fox a Sommocolonia, paese nel quale vi furono fra i combattimenti più
Il tenente John Fox

feroci. John Fox era un uomo cresciuto fra i campi di cotone, finito a combattere su una collina incastrata fra i monti della valle del Serchio per l'esercito di un paese che ancora lo chiamava "negro", è solo, asserragliato nella rocca medievale del paese, cerca riscatto, forse gloria, ordina ai suoi di scendere a valle prima che i colpi di cannone e le mitragliere della Kesserling raggiungano anche loro.Lo spettacolo è straziante case sventrate, campi intrisi di sangue, commilitoni morti e la paura della povera gente chiusa nelle cantine.Ormai Fox è accerchiato, ma  ha fatto la sua scelta,non fuggire ma rimanere, cercare in qualche modo di frenare l'operazione"Tempesta d'inverno", Fox capisce come. Nell'ultimo messaggio inviato ai suoi soldati ordina di colpire con il mortaio, le coordinate però corrispondono a quelle della sua posizione, il soldato che riceve il messaggio è stordito, perchè portare il fuoco proprio sul tenente? Avrebbe significato sicuramente la sua morte. Ma l'ordine di John Fox è perentorio, le sue ultime parole sono "Fuoco lo stesso"quindi ucciderlo perchè non si continui ad uccidere, infatti così fu. Il corpo del tenente Fox una volta riconquistato il paese dai soldati della Buffalo, insieme ai soldati nepalesi, il 2 gennaio 1945 fu ritrovato insieme a quello di un centinaio di tedeschi. Insieme a lui nella battaglia morirono circa 80 Buffalo Soldiers. Le cose non volgevano al meglio anche nel settore versiliese, la
92a Buffalo in azione in Garfagnana
Buffallo subì pesanti perdite per errori di strategia, come nel fallito attraversamento del torrente Cinquale, dove il già discusso (e già citato) generale Almond mandò i carri armati a bonificare il terreno, uno dietro l'altro con il risultato della loro facile distruzione da parte dei tedeschi, lasciando così senza supporto di corazzati una parte della 92a divisione, anche qui fu una strage.Cominciarono a piovere così pesanti ed ingiuste critiche verso questi uomini, le truppe della 92a Buffalo furono spostate in zone di guerra per così dire più tranquille e le accuse si fecero ancor più pesanti, si parlava di mancanza di coraggio e della riluttanza delle truppe afroamericane di combattere.L'azione dei neri della 92a fu messa in dubbio pure dalla gente comune con commenti del tipo:" I bianchi sono pronti a morire per la patria, i neri no".

Film,fumetti,documentari e canzoni.
Il giusto merito
Mestamente la storia dei Buffalo Soldiers finì al ritorno in Patria nel novembre 1945, la divisone fu immediatamente disattivata alla fine dello stesso mese.
Per molti anni ancora questi uomini torneranno ad essere cittadini di serie B, dovranno andare in scuole separate, salire negli ultimi posti degli autobus e il Ku Klux Klan darà per molti anni la caccia al negro, nessuno si ricorderà del loro sacrificio, non bastarono più di mille morti e 3500 tra feriti e dispersi nella sola Toscana per essere ricordati non come soldati ma come uomini.
Ma il tempo come si sa (ogni tanto...) è galantuomo e uno dei primi in assoluto a riconoscere il valore dei soldati della Buffalo fu il professor Umberto Sereni (ex sindaco di Barga) che negli anni 80 cominciò la sua lotta per avviare un processo di riconoscimento dei sacrifici fatti, fu elogiata la loro azione sostenendo che il gruppo tattico dei Buffalo meritasse di passare alla storia per il comportamento in battaglia e per aver aperto la strada al resto
della Va armata. Furono così gli anni della giusta rivalutazione, film,canzoni libri, documentari portarono alla conoscenza di tutti questi valorosi soldati. Bob Marley nel 1983 dedicò a loro una canzone famosissima intitolata appunto "Buffalo Soldier"Marley, identificò i Buffalo
13 gennaio 1997 il 
Presidente Clinton consegna la
Medal of Honor a Vernon Baker
Soldiers
 come esempio di uomini neri illustri che agirono con coraggio, onore e distinzione in un campo dominato dai bianchi. Sergio Bonelli disegnò un numero del famoso fumetto "Tex", il film di Spike Lee "Miracolo a Sant'Anna" ne esaltò le loro doti, per non parlare poi del memorabile docu-film Buffalo Inside di Fred Kowomu. Ma il cerchio si chiuse veramente quel 13 gennaio 1997 quando il presidente degli Stati Uniti d'America Bill Clinton insignì il tenente John Fox (il tenente morto a Sommocolonia) e Vernon Baker sottufficiale della 92a Buffalo 
(all'epoca in vita)con il più grande riconoscimento militare americano: la "Medal of Honor"

L'apocalittico uragano che colpì la Garfagnana. Era il 1829...

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"Dio ce ne scampi e liberi"... Quando si parla di certe cose è bene subito affidarsi all'Onnipotente... perchè dai pericoli dell'uomo bene o male ci si può difendere, ma quando la natura si scatena niente e nessuno può farci niente. Questa doverosa premessa intende annunciare un argomento che per la stagione è più che mai attinente. Sono stati giorni piovosi quelli passati e quelli che ancora ci aspettano lo saranno, ma fino a che piove in maniera diciamo così "normale" niente da dire, il problema viene quando comincia a piovere a dirotto, in modo devastante, quasi apocalittico, insomma quando ci colpiscono quelle che oggi vengono modernamente chiamate "le bombe d'acqua" e allora ecco straripamenti,frane, danni a cose e anche a persone e diamo giustamente colpa all'incuria dei fossi,dei fiumi, delle selve, alla selvaggia cementificazione e all'inquinamento atmosferico che ha accelerato di fatto i mutamenti climatici, in (buona) parte tutto vero, dall'altra un po' meno se è vero come è vero che anche in epoca lontana tali fenomeni accadevano. Lo sta a dimostrare un fatto risalente ormai a 186 anni fa e che viene considerato senza dubbio il disastro naturale più sconvolgente che colpì la valle dopo il terremoto di Villa Collemandina del 1920. Era il lontano 1829 quando
La Turrite di Gallicano in piena
(foto Daniele Saisi)
un devastante uragano colpì la Garfagnana.Pochi, quasi nessuno a sentito parlare di questo disastro, ormai i quasi due secoli di distanza da quei giorni hanno cancellato qualsiasi memoria, ma grazie a Dio esistono gli Archivi Storici ed ecco tutto tornare a galla. All'epoca l'effetto serra neanche si immaginava cosa fosse, i fiumi e i fossi erano stra puliti eppure la natura si accanì comunque sulla già povera Garfagnana. 
Riferiscono di questa tempesta alcuni documenti presenti nell'archivio storico del comune di Castelnuovo Garfagnana, che nella notte fra il 7 e l'8 ottobre 1829 venne giù il finimondo: "col diluvio d'acqua e furia di vento". Grandi disastri si ebbero in nove comuni della Garfagnana. I danni subiti furono vari, ce li possiamo immaginare dal momento che ultimamente anche da noi sono avvenuti fenomeni simili: tetti scoperchiati,paesi interamente allagati, frane, strade interrotte e una grande quantità di fango, ma ci fu di peggio, di molto peggio, le selve di castagno furono colpite senza pietà, castagni secolari e castagni giovani senza distinzione furono divelti, troncati e sradicati come fuscelli e come ben si sa questa pianta e il suo frutto erano il sostegno di moltissime famiglie garfagnine, immaginiamoci quindi quale fu la disperazione. Un vero flagello che spinse nei giorni a seguire gli amministratori dei comuni colpiti a chiedere immediato aiuto al governatore della 
Castagni distrutti
Garfagnana: il conte Salinguerra Torello. Il governatore vista l'entità dei danni e la gravità della cosa indirizzò "le suppliche" garfagnine a sua maestà "il Munifico"Francesco IV di Modena. Il Duca non è che si "sbracò" poi tanto, dal momento che nell'immediato concesse solo una leggera riduzione della tassa prediale (n.d.r: un'imposta sui terreni e i fabbricati, praticamente una I.M.U ante litteram...), nonchè un'autorizzazione ai sindaci di liberalizzare la vendemmia, che al tempo era rigidamente regolamentata in base alla maturazione dell'uva:
"Attesa la stravaganza della stagione si rilascia in libertà i proprietari e i coloni di vendemmiare le uve già compromesse, a loro beneplacito".
Naturalmente tali provvedimenti non risolsero un bel niente e la situazione peggiorava di giorno in giorno, di mese in mese. Francesco IV a onor del vero almeno si adoperò in solerte maniera per ripristinare quanto prima i pubblici disagi, furono riaperte e risistemate le strade, si intervenne sulle frane  e le pubbliche vie furono ripulite dal fango.Ma i castagneti dei privati
L'Altezza Reale
Francesco IV
cittadini non rientravano in questi interventi governativi. Il governatore Torello proclamò lo stato di calamità e si rimise nuovamente al buon cuore del duca per tutti quei poveri proprietari di selve di castagno (e non solo) e in questo caso Sua Altezza Reale non fu così zelante come avrebbe dovuto essere.
Passarono quasi ben tre anni prima che l'illustrissimo duca prendesse una decisione e che tutte le pratiche burocratiche del caso fossero andate a buon fine e così come documenti riportano il 19 maggio 1832 il Governatore Torello potè annunciare alle "comunità supplicati" il clemente provvedimento di Francesco IV:

"Ultimate le verificazioni, che occorreranno, potrà finalmente aver luogo il riparto di Italiane lire 3000 che S.A.R. l’Augusto nostro Sovrano si è degnato di accordare a titolo di sussidio ai più danneggiati nei castagneti in questa Provincia dall’uragano del 7 all’8 ottobre 1829. Il riparto è fatto in ragione della quantità delle piante atterrate nei nove comuni della Provincia".

Purtroppo non ci è dato sapere da tali documenti nè quali fossero i comuni colpiti, nè quale fosse l'entità pluviometrica che provocò cotanta distruzione, comunque per rendersi conto più o meno di ciò, ci possiamo immaginare che furono colpiti tutti quei comuni intorno alla comunità di Castelnuovo, ma per rendere bene l'idea di quello che successe quella maledetta notte, dato ancor più rimarchevole, sono la cifra dei castagni abbattuti: ben 22.334 unità, non contando poi altri alberi da frutto, gli orti e le coltivazioni portate via dal fango e dall'acqua. Un danno economico che mise veramente alla fame la Garfagnana, tutto questo dovuto anche ai risarcimenti irrisori del governo di Modena.Per il comune di Castelnuovo ad esempio la cifra risarcitoria fu di 494 lire(circa), essendo stato fissato il valore di ogni pianta abbattuta in 0,13 lire e qualcosina, un modestissimo risarcimento se si pensa che tale cifra servì solamente per ripulire le selve dalla devastazione dell'uragano e come se non bastasse, oltre al danno la beffa se si conta che negli anni successivi la farina di castagne andò a prezzi vertiginosi.


Vecchie famiglie contadine
Insomma anche questa è la classica storiella all'italiana, come si vede i tempi passano ma le cattive"usanze" dei governanti rimangono inalterate nei secoli.Sembra di aprire un quotidiano dei giorni nostri e leggere delle alluvioni e dei disastri attuali: governo lento, burocrazia ancor più lenta, risarcimenti inesistenti o insignificanti...Inutile quindi affidarci a quello che oggi si dice "il buon governo", ma affidiamoci pure al buon Dio...

Il bosco del Fatonero: l'origine di tutte le leggende garfagnine

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Ci sono dei luoghi in Garfagnana che sembrano usciti dalla saga
Il bosco del Fatonero
epica fantasy de "Il Signore degli Anelli" di Tolkien, posti meravigliosi dalla vegetazione fitta e verdissima, ma sopratutto luoghi magici, popolati da essere misteriosi, da folletti e da fate, insomma, leggendo le pagine del celebre romanzo sembra che Tolkien paradossalmente si sia ispirato niente meno che  al bosco del Fatonero. Vi invito dunque a leggere queste righe e ditemi voi se non pare di essere nella mitica Contea di Mezzo o a Gran Burrone, invece no, siamo nel comune di Vagli di Sotto. Il Fatonero è un bosco abbarbicato al Monte Fiocca(nelle Alpi Apuane) pieno di fascino e di mistero che si percorre con piacere per dirigersi da Arni al Passo Fiocca ed oltre, ed eccolo là stagliarsi in lontananza la sua macchia verde scuro, che cambia colore con le stagioni.Questa meravigliosa e magica faggeta si trova a 1400 metri di quota.Un posto che si può considerare senza dubbio "l'epicentro" delle leggende apuane, da sempre queste montagne hanno generato molte storie fantastiche e già il nome di per se è tutto un programma, si parla infatti che l'origine di tale denominazione sia da ricercarsi da "Fatto nero" per un possibile omicidio accaduto in quel bosco di cui nessuno ricorda più niente, per altri invece deriva da "faggio nero", si dice che gli alberi vi crescessero così fitti e robusti che a malapena vi penetrava la luce del sole.Ma è qui che nasce tutto, qui è la genesi dei vari miti garfagnini (il buffardello, l'omo selvatico,le fate...) che ci sono giunte a noi oggi, qui in
l'interno del bosco del Fatonero
(foto di Davide Caramaschi)
questo luogo sopravvivono millenarie leggende che testimoniano la presenza dell'antico popolo dei Liguri-Apuani, con il loro culto degli alberi e degli spiriti tutelari della foresta. Si crede che in questo bosco vivono ancora oggi spiriti e folletti che di notte vagano danzando in cerchio laddove la luna riesce a far filtrare la propria luce attraverso la fitta boscaglia, creando magicamente dei giochi di luce. Chi ha attraversato questo bosco di notte dice che sia riuscito a sentire suoni inspiegabili e mai sentiti da orecchio umano, sospiri, lamenti e premonizioni sul futuro e fortunato quel 
passante che sempre fra le tenebre attraversando il bosco non viene disturbato dai folletti, poichè possono guidarlo sui sentieri che solo loro conoscono, oppure gli possono creare l'impressione di avere le fiamme d'intorno, solo le campane dei paesi vicini che suonano il mattutino fanno svanire l'incantesimo e i folletti che si trovano ancora all'aperto si pietrificano, però anche in pieno giorno la sensazione che si ha attraversando il Fatonero è quella di essere osservati, si ha quasi la certezza che ogni  passo sia controllato,tanto è vero che con l'arrivo della luce del sole i folletti (protettori di questo bosco) sono prigionieri dentro il tronco degli alberi e la voce del vento che passa attraverso questi alberi a chi la sappia capire, intende rivelare dove si trovi un meraviglioso tesoro nascosto, in quel bosco da tempo immemorabile. Tale tesoro sembra scaturito da una vecchia storia lontana che racconta che un pastore in questa fittissima faggeta vide una bellissima fata vestita di bianco con una corona di foglie in testa, il giovane pastorello la invitò a ballare e mentre lui suonava lo zufolo vide che la
l'interno del bosco (foto tratta
dal sito giornirubati.it)
fanciulla ballava talmente leggera da essere sospesa nell'aria,il pastore in segno di amicizia le donò dei fiori freschi che si trasformarono in tante monete d'oro appena la fata li ebbe toccati, da quel giorno tale tesoro è sempre nascosto nel bosco e non è stato 
ancora trovato, che non sia per caso nelle grosse buche che si aprono tutt'intorno a questa boscaglia e fra le radici degli alberi stessi? Questi pertugi portano alle abitazioni di strane creature sotterranee, che siano loro i nuovi padroni delle monete d'oro? Molte di queste buche a onor del vero sono state provocate dalle grande quantità di fulmini che li si abbattono, si pensa che vengano attirati dalla quantità notevole di ferro presente nella roccia, ma antiche tradizioni parlano di un luogo dannato a causa degli antichi riti pagani che si celebravano e sul quale si scarica l'ira divina. Questa dannazione è confermata dalla presenza degli streghi, qui si radunano e vanno a ballare nel canale dell'Acquarola,vagano nel bosco come sciami di insetti luminosi e si posano sugli alberi emettendo suoni simili a dei pianti di neonato, non è difficile nemmeno vederli come lenti ragni che si arrampicano sulla corteccia dell'albero, o osservarli svolazzare da farfalle impazzite,possono inoltre fare delle malie e chi attraversa il bosco è bene che si fornisca di rosario e impari anche questa formuletta:
"Gesù, Giuseppe e Maria tenete gli streghi lontano dalla via".
Non sono mancate nemmeno storie di cronaca vera, quando un fulmine in pieno giorno uccise il figlio del pastore del luogo che era stato invitato da un altro pastore a mangiare polenta nel suo rifugio. Non arrivò mai a mangiare quella polenta, il suo corpo fu trovato morto appena fuori dal bosco colpito da una saetta.

Un luogo così, cari lettori può esistere solo in Garfagnana: fate, streghi, folletti, esseri sotterranei, maledizioni e tesori. Nemmeno la più fervida fantasia ne di Tolkien e ne di qualsiasi altro scrittore avrebbe pensato tali cose, ma le nostre storie e le nostre leggende partono da molto lontano, dai riti e dalle tradizioni degli antichi Liguri Apuani che meravigliosamente attraverso i millenni sono giunte fino a noi e a noi oggi sta l'arduo compito di non farle dimenticare.

Il Robin Hood dei briganti garfagnini: Filippo Pacchione, il brigante gentiluomo

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Ci siamo mai domandati come mai il garfagnino dal carattere
Briganti
mite e socievole, cinquecento anni fa era considerato un brigante per eccellenza? Era così in quel tempo in Garfagnana, chi non faceva il contadino faceva il brigante. Ma quali furono le cause che portarono il mansueto garfagnino ad imbracciare lo schioppo e a depredare e ad uccidere la malcapitata vittima di turno? I briganti furono certamente dei fuorilegge, ladri e spesso e volentieri anche assassini e quindi ingiustificabili, ma nel XVI secolo rappresentarono anche l'unico veicolo di riscatto per chi annegava nell'emarginazione. Una lettura facile e superficiale di relazioni sul brigantaggio di funzionari estensi tende ad attribuire tale fenomeno all'indole dei garfagnini stessi (ma per favore!...). Al contrario dico io, una lettura attenta di quei documenti porta a ben altre considerazioni sulle cause del brigantaggio locale. Al tempo la pressione fiscale era altissima,ed oltre che altissima era anche cieca e tendeva a colpire le persone veramente più povere, non parliamo poi della giustizia che era amministrata con i dovuti "riguardi" da persona a persona, che diventava timorosa con i potenti per sfogarsi sui più deboli; anche il pregiudizio la faceva da padrone, dove il cittadino non vedeva di buon occhio il montanaro, che dire inoltre dell'ambiente ? La montagna diventava rifugio di quelli che venivano allontanati o fuggivano a vario titolo dalle città estensi e che di conseguenza andavano ad ingrossare le file dei manigoldi. Ma alla fine di tutto questo bel discorso, il brigante garfagnino era un criminale o un Robin Hood ? Senza ombra di dubbio era entrambe le cose
Le Apuane rifugio dei briganti
e nonostante fosse un malfattore, la natura buona del garfagnino comunque veniva fuori, tanto è vero che il maltolto delle loro vittime talvolta veniva ripartito anche fra la gente comune che a sua volta così garantiva una certa protezione ai fuorilegge.Andiamo a vedere allora chi era da considerarsi il più Robin Hood di tutti fra i briganti nostrani. Lui era Filippo Pacchione capobanda di San Pellegrino, che in più casi seppe distinguersi per la sua onorabilità, gentilezza e cavalleria, lo potrebbe testimoniare se fosse ancora oggi in vita Ludovico Ariosto stesso,commissario estense venuto in queste terre per combattere queste risme di delinquenti e proprio quando saliva il passo verso Modena (luogo privilegiato per questi assalti) insieme alla sua scorta fu assalito in un agguato e derubato dei suoi averi. All'improvviso uno della banda Pacchione pronunciò il nome Ariosto ed il bandito svelto domandò:

- Dov'è ? Dov'è Messer Ariosto?-
- Sono io- rispose il poeta
- Compagni udite- disse Filippo Pacchione- che non sia torto un capello al grande Ariosto!-
Tutta la merce fu restituita ed il brigante aggiunse:
-Messere, anche i banditi della Garfagnana, che sferzate nelle vostre satire, vi apprezzano e vi rispettano-
e si inchinò ossequioso per sparire nel folto dei boschi.

L'altra storia riguarda la nobildonna veneziana Bianca
La nobildonna
Bianca Cappello
Cappello colei che diventerà prima amante e poi attraverso intrighi poco chiari anche la moglie del Granduca di Toscana Francesco I de Medici. Bianca era una donna bellissima e come si direbbe oggi un'arrampicatrice sociale e cercava per se il più ricco marito che le potesse capitare e si "innamorò" (prima di Francesco de Medici) del fiorentino Pietro Bonaventura, impiegato a quel tempo al Banco Salviati di Venezia, ma i progetti dei genitori per lei erano diversi: la madre la voleva far suora e il padre la voleva dare in sposa ad un vecchio. Non rimaneva che fuggire a Firenze a casa del promesso sposo ed andare a celebrare il matrimonio. Arrivarono a Ferrara e li il segretario di Alfonso II  duca di Modena li fece sposare in fretta e furia (lei aveva 15 anni!!!) per proseguire poi di gran carriera verso Modena e di li a piedi con il freddo e la neve giunsero a San Pellegrino. In quell'inverno del 1573 era custode dell' eremo di San Pellegrino tale Pierone da Frassinoro che prima li accolse con diffidenza e poi saputo chi li mandava gli spalancò le porte del convento. La mattina di buon ora partirono verso Castelnuovo Garfagnana guidati da Pierone, giunti a Campori incontrarono lungo la loro strada proprio Filippo Pacchione che con fine sarcasmo e ironia così li accolse (vi riporto fedelmente le parole del brigante raccolte da Raffaello Raffaelli nel suo "Descrizione geografica storica della Garfagnana"):

-Madonna; ben conviene che importanti affari vi abbiano consigliata ad un viaggio che pochissimi si attentano in questa stagione di fare, e potete chiamarvi fortunata di non esser caduta nelle mani degli assassini che infestano questa strada.-
Pierone riconobbe il brigante e ormai anche se aveva passato gli 80 anni incuteva ancora timore. Ai novelli sposi come "regalia di nozze" Pacchione offrì la sua protezione attraverso le terre di Garfagnana e una volta rimandato a casa Pierone una scorta di briganti li accompagnò nei giorni
San Pellegrino in Alpe
a seguire attraverso Castelnuovo, Monte Perpoli, Gallicano e Borgo a Mozzano e li furono lasciati a rimuginare sullo scampato pericolo avendo sempre in mente le parole del brigante:
-Una gentil donna deve saper quant'è periglioso affrontar l'Appennino, onde fieri e spietati briganti non permettono a nessuno di passare indenni quelle strade...-

Così questa è la storia di Pacchione l'unico brigante che una volta morto venne reso l'onore delle armi dalle guardie estensi, gli venne riconosciuto "ossequio cavalleresco, lealtà e valore". 

Storie di un garfagnino di altri tempi...

Il Ponte della Villetta storia tormentata di un simbolo garfagnino

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Il Ponte della Villetta (foto di Aldo Innocenti)
Ci sono dei monumenti al mondo che appena li vediamo ci vengono immediatamente in mente le loro città di appartenenza, sono praticamente dei biglietti da visita,dei veri e propri simboli a memoria perpetua, che dire, vedi il Colosseo e pensi a Roma, la Statua della Libertà è un emblema di New York, così come la Torre Eiffel per Parigi... e per la Garfagnana? A voi cosa viene in mente ? Molti risponderanno il Ponte del Diavolo che tanti considerano la porta della Garfagnana, d'accordo è vero, ma geograficamente parlando non è un monumento "purosangue", altri penseranno allora alla Rocca Ariostesca di Castelnuovo,bella si, ma più che altro direi che è il simbolo della cittadina stessa. In compenso c'è un'opera che a mio avviso racchiude tutti gli aspetti che fanno di questo monumento l'icona della Garfagnana, questo è: il Ponte della Villetta. Il Ponte della Villetta ha tutto:bellezza, storia,imponenza, per non parlare poi della
L'inizio della sua
costruzione
difficoltà avute nel realizzarlo e come se non bastasse inoltre è incastonato in un magnifico paesaggio. Ecco, oggi vi parlerò di questa infrastruttura. Un semplice ponte della ferrovia mi direte voi!? No! Io direi un vero e proprio monumento, per di più anche visitabile, dato che sul lato sinistro del ponte c'è anche un camminamento per attraversarlo a piedi (occhio ai treni naturalmente !!!). 
Incominciamo quindi 
a raccontare la sua storia. Tutto ebbe inizio 15 anni prima di intraprendere la sua costruzione. Siamo al 25 luglio 1911 e il treno dopo mille peripezie e agognate speranze arrivò a Castelnuovo Garfagnana 
(leggi http://paolomarzi.blogspot.it/2015/07/25-luglio-1911) e li subito si fermò, era ancora lunga la storia e la strada che doveva percorrere questa ferrovia, dovevano passare ancora molti anni prima di arrivare al capolinea opposto di Aulla, molti furono gli intoppi, vuoi la solita burocrazia, vuoi l'inizio della I guerra mondiale e infine il tremendo terremoto del 1920 misero a dura prova la realizzazione del sogno garfagnino.Ma ormai tutto era deciso "questo matrimonio si doveva fare", la ferrovia andava completata e così fu fatto (anche se a "pezzi e bocconi").Si arrivò così al 1926, finalmente si era raggiunta una
Gli archi in costruzione
certa pace e tranquillità sotto tutti i punti di vista e si ricominciò a pensare alla strada ferrata garfagnina. Le difficoltà furono immediate e sorsero sulla conformazione del nostro territorio che nel tempo impegnò particolarmente ingegneri e costruttori, ma questi ostacoli non fermarono la loro volontà dando vita a spettacolari strutture proprio come "Il Ponte della Villetta", realizzato per ovviare alla profonda valle creata dal fiume Serchio tra le stazioni di Villetta-San Romano e quella del Poggio.Vide da subito impegnate centinaia di maestranza in un opera ciclopica per quei tempi lontani. Il ponte venne costruito in
In costruzione
tre anni (1926-1929), e costerà alle casse dello Stato poco più di cinque milioni di lire ( per l'esattezza 5.100.000 mila lire ) ma si dovranno attendere ancora altri undici anni per assistere alla sua messa in opera, dato che il 21 agosto 1940 con grande solennità e pomposità fascista fu inaugurato il tronco Castelnuovo- Piazza al Serchio (anche se bisogna dire che il tratto era già in funzione da qualche anno... ma era stato dato in concessione alla Società Nord Carrara per il trasporto del
Le impalcature in legno
marmo). I suoi numeri ancora oggi sono strabilianti: 410 metri di lunghezza, per oltre 50 metri di altezza si staglia nella Valle del Serchio esibendo di fatto le sue 13 arcate a tutto sesto da 25 metri più una da 12 metri, ponendosi come importanza nel suo genere come il ponte in muratura più alto d'Europa. Oggi molti potranno pensare che nulla di tutto ciò sia così grandioso paragonato alle costruzioni moderne, ma se si riflette sulle tecniche costruttive di quel tempo dove le armature e le impalcature erano interamente in legno si capisce la complessità dei lavori. In origine il ponte nelle arcate centrali contava altri tre archi di rinforzo che il destino amaro nella successiva ricostruzione ebbero a sparire. Infatti la storia di questo
Cerchiate in rosso le tre arcate basse non
ricostruite dopo i bombardamenti
monumento non finisce qui, arriveranno pagine buie e le mine della II guerra mondiale non risparmieranno come fu per altri ben più famosi monumenti una tragica sorte a questa opera. Prima ci provarono gli americani, nel pomeriggio del 18 maggio 1944 una piccola formazione di aerei inglesi ed americani presero di mira il ponte effettuando ripetuti bombardamenti e mitragliamenti, per fortuna non ci furono vittime nel piccolo borgo della Sambuca e nemmeno il ponte subì grossi danni, ma questo non fu che solo il primo bombardamento, da novembre ogni giorno solitamente verso le otto di mattina la
Il ponte dopo la distruzione
 dalle mine tedesche
solita formazione di aerei sganciava la dose quotidiana di bombe sul ponte, ma il Dio dell'arte e del bello proteggeva la sua creatura e la struttura non fu mai centrata dai bombardieri alleati, l'unica volta che una bomba andò a segno non esplose rimbalzando per diversi metri sui binari causando solo il crollo dei muretti laterali.Ma niente e nessuno poté fare niente quando nella metà dell'aprile 1945 le truppe tedesche per proteggersi la ritirata sul fronte della Linea Gotica decisero
Il ponte durante la seconda ricostruzione:1947
inesorabilmente di minarlo e di farlo saltare in aria. Alle 22:30 una raffica di mitra avvertì le popolazioni vicine di tenersi alla larga dalla zona, pochi secondi dopo un grosso boato rimbombò per tutta la valle e una grossa nube di polvere nei cieli di Garfagnana annunciò la distruzione del

ponte.Le tre arcate centrali crollarono e a causa dell'indebolimento strutturale ne caddero altre due. Ancora oggi se diamo un'occhiata al letto del fiume sottostante si possono ancora vedere i resti del ponte caduto in quel maledetto 1945. Ma niente fu perduto, la vita ricominciava e subito nel 1946 a guerra finita prese il via la ricostruzione delle
Oggi è ancora li bello più che mai.

molte opere danneggiate, fra le priorità ci fu proprio il Ponte della Villetta, i lavori per la sua riapertura cominciarono nel dicembre 1947.
Oggi è ancora li, bello più che mai, simbolo di una Garfagnana sempre pronta a rinascere.
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