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Origine, significati e misteri dei "modi di dire" toscani e garfagnini

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Cos'è tecnicamente "un modo di dire"? "Un modo di dire"è
quell'espressione che si dice essere una frase idiomatica, ossia una frase che spesso non può essere tradotta in nessun'altra lingua. In pratica è un modo con cui personalizziamo la comunicazione fra noi. Per capire ancora meglio, tale locuzione è classificata come “linguaggio automatico”, è una speciale frase o espressione dotata di un significato figurativo distinto dal suo significato letterale. Per dirla in maniera più semplice e poetica "un modo di dire" non è altro che la quintessenza di un popolo. La Garfagnana e la Toscana in genere di questi "modi di dire" ne hanno a bizzeffe e proprio dalle nostre parti hanno resistito più che nelle città, dove piano piano vengono sostituiti dallo slang giovanile. Tuttavia "un modo di dire" merita protezione e attenzione proprio come un animale in via d'estinzione, perchè queste frasi fanno parte della nostra storia e identificano quale era il nostro modo di essere e poichè taluni di questi oggi rischiano di risultare incomprensibili, mi è sembrato opportuno buttarne giù alcuni fra i più simpatici e divertenti. Ne è venuto fuori un viaggio curioso, particolare e inconsueto e mostra che nemmeno queste singolari locuzioni nascono a caso, trovando infatti origine nella storia e nel nostro modo di vivere. Quante volte abbiamo sentito dire dalla nostra mamma "roba da chiodi!", "un modo di dire" che alluderebbe ad argomentazioni insostenibili,
inconcludenti; a ragionamenti che non hanno nè capo nè coda, ebbene questa frase troverebbe origine dai fabbri, dato che un tempo proprio per fabbricare i chiodi si usavano gli avanzi del ferro, quindi in senso traslato "roba da chiodi" si riferisce ad un comportamento non corretto, quasi spregevole come era la materia di scarto con cui erano fabbricati. Altra ipotesi dice che tali ragionamenti sono talmente senza senso che per stare in piedi devono idealmente essere rinforzati con i chiodi. E cosa s'intende quando si dice "alla Carlona"? Per significare che una cosa è fatta senza pretese? Alla buona insomma. Bhè, tale Carlona non era una paffuta signora  che faceva le cose così tanto per farle, anzi, questa parola si riferisce nientepopodimeno che a "re Carlone", ossia a Carlo Magno in persona, che anche dopo l'incoronazione a Sacro Romano Imperatore non rinunciò mai alle sue abitudini e ai suoi abiti un po' grossolani. Pensate un po' questo modo di dire è antichissimo, è attestato nella letteratura italiana sin dal 1400 da Pietro l'Aretino. Sempre a proposito di re, regine e alti dignitari il detto "andare a Canossa" ci riguarda da molto vicino, poichè "Nostra Signora" Matilde di Canossa,
Matilde di Canossa
Grancontessa e Vicaria Imperiale, nonchè "padrona di tutta la Garfagnana" rientra a buon titolo in questa espressione, dato che tale frase deriva da un noto fatto storico e significa "umiliarsi, piegarsi di fronte a un nemico, ritrattare, ammettere di avere sbagliato, fare atto di sottomissione". Essa trae infatti origine dall'avvenimento occorso a Canossa (proprio nel castello di Matildenel rigido inverno del 1077, allorquando l'imperatore Enrico IV attese per tre giorni e tre notti, scalzo e vestito solo di un saio, prima di essere ricevuto e perdonato da Papa Gregorio VII, con l'intercessione della stessa Matilde di Canossa. Altri modi di dire traggono invece il loro concetto principale dalla vita contadina e se ormai nella desueta frase "consolarsi con l'aglietto" (a
ccontentarsi di poco. Deriva da "aglietto", cioè aglio giovane, non ancora formato, senza spicchi. Quindi contentarsi di cosa di poco valore), molte altre di queste espressioni sono ancora assai presenti nel nostro modo di parlare come: "fare di tutta un erba un fascio", ovvero generalizzare eccessivamente, un po' come facevano le nostre nonne quando per pulire i campi raccoglievano tutte le specie di erbacce in un solo fascio, senza distinguerle. E che dire poi di una cosa (o talvolta una persona) "fatta con il pennato"? Quello che è sicuro che per cesellare e fare un lavoro di
fino su un pezzo di legno non serve il pennato, questo attrezzo è adatto per lavori grossolani: sbozzare, sgrossare, tagliare... Sempre riferito al mondo rurale esiste ancora un'altra fase: "Oggi in piazza c'era un tritello, un si passava...", tradotto: "Oggi in piazza c'era talmente tante gente che non si passava", o si può anche dire "
fare un tritello" ("fare un macello"). Ma cos'è il tritello?. Il tritello è il sottoprodotto dei cereali, quello che i contadini ottengono rimacinando questi prodotti. Quindi, in sostanza, di un tritello non si riconosce più niente, tutti i cereali vengono sminuzzati insieme a mo' farina in modo da non distinguerli più. Non dimentichiamoci, sempre in questo ambito
 l'espressione "è grasso che cola", ovvero, quando le cose ci sono in abbondanza, anche se più precisamente fa riferimento ad un'impresa dalla quale si ricavano utili superiori al lavoro eseguito. Comunque sia il grasso in questione è il grasso del
maiale, una vera e propria ricchezza nella civiltà contadina, dal momento che, come si suole dire, "del maiale non si butta via niente", tanto meno il grasso, che veniva usato per una miriade di utilizzi come l'illuminazione, per ungere i "barocci", per cucinare e altro ancora. Adesso guardiamo quei modi di dire riferiti alla persona e più precisamente vediamo cosa s'intende quando da giovanotti si andava "
a fare franella", cioè quando andavamo a baciarsi con la fidanzatina, a farsi effusioni... per farla breve... a pomiciare. Insomma la parola "franella"è una storpiatura della parola francese "flaner", cioè "bighellonare", ma bighellonare dove... Anticamente si diceva quando i lor signori andavano in giro per bordelli e per "testare" le signorine di turno si prodigavano in effusioni amorose, scegliendo quella che poi avrebbero preferito. E quando si dice che quei due sono "culo e camicia" che significa? Non significa altro che queste due persone sono in perfetta sintonia fra loro, come al tempo che fu erano il culo e la camicia. Il riferimento risale all'epoca in cui le mutande non erano un granchè usate e nemmanco di moda  e per riparare le parti intime si usavano camicie abbastanza lunghe che restavano a contatto diretto anche con il culo. Vediamo adesso locuzioni prettamente legate a parole dialettali e così dal noto vocabolo garfagnino "uscio" nasce anche questa ennesima espressione: "secco come un uscio", ossia "magro come una porta". Naturalmente, in questa sfera che riguarda la persona e il dialetto "stretto"è impossibile tralasciare uno dei nostri detti principe, ossia "non fare lo sciabigotto" (riferito ad una persona buona a nulla, un incapace). Anche questa espressione trae origini dalla storia "nobile",
purtroppo l'ipotesi 
non è provata nè documentata, ma la tradizione dice che nel corso di una visita di Napoleone a sua sorella in quel di Lucca, il condottiero ebbe l'idea di affacciarsi dalla finestra di Palazzo Ducale per salutare la folla plaudente, non tutti però erano plaudenti e festosi e una parte di questa folla cominciò a rumoreggiare in segno di protesta verso le imprese dell'imperatore francese, al che un po' sconcertato e arrabbiato si rivolse verso sua sorella Elisa e disse: "Cosa vogliono questi chien bigots?"("Cosa vogliono questi cani bigotti?"), da qui le autorità italiane li presenti e che erano intorno a Napoleone presero ad intendere la parola "sciabigotto", intesa però da loro in riferimento a persone "buone a nulla", come quelle che erano in piazza a protestare. Come vedete di "modi dire" ce ne sarebbero moltissimi e stravaganti che verrebbe voglia di scriverli tutti, ma prima di chiudere l'articolo non posso esimermi di tralasciare quelli riguardanti Pisa. Simpatico e bizzarro è quel "modo di dire" che da bimbetto quando mi appisolavano sul divano di casa la mamma mi avrà detto centinaia di volte:"Ecco, arrivano i pisani!" e io mi domandavo sempre - Ma questi pisani che vorranno da me !-. Da me
niente, ma a Lucca, ai tempi delle annose lotte fra le due città si ricordavano spesso quella notte che in un'incursione notturna le armate pisane attaccarono i territori limitrofi di Lucca, quando i lucchesi stavano dormendo; la sortita riuscì proprio perchè gli avversari dei pisani, non riuscirono a tener gli occhi aperti dal sonno: dunque i pisani arrivano quando ci si sta per addormentare. Sempre su Pisa ne esiste un altro di "modi di dire" che dice
"fare come i ladri Pisa" e i ladri di Pisa cosa hanno di diverso dagli altri ladri? La tradizione toscana vuole che i ladri di Pisa andassero a rubare insieme durante la notte e poi di giorno litigassero fra di loro per dividersi il bottino. Oggi tale frase è riferita a coloro che nonostante liti e diverbi continui sono sempre uniti. Mi accingo allora a concludere questo scritto sperando che sia piaciuto a tutti voi e che non sia  "un fiasco", un fallimento insomma, non vorrei fare proprio come quell'attore che narrava di quell'episodio 
 avvenuto in un teatro di Firenze, dove un famoso artista era solito esibirsi con particolari smorfie e facce divertenti nei confronti di alcuni oggetti. Una sera decise di portare sul palco un fiasco da vino. Invece di divertirsi, il pubblico si annoiò e cominciò a fischiarlo rumorosamente. Da allora il "modo di dire" viene utilizzato quando si va del tutto contro le aspettative. Quindi chiudo con una riverenza ai miei lettori che ringrazio e saluto, brindando con "il bicchiere
della staffa
", cioè l'ultimo bicchiere (di vino) della giornata prima di congedarsi da un luogo qualsiasi o ancor più precisamente da un osteria, dove gli avventori del 1800 usavano bere l'ultimo bicchiere quando già avevano un piede nella staffa del cavallo, pronti per salire in sella e tornare a casa... Alla salute allora !!!

Bibliografia 

  • "Dizionario Garfagnino, l'ho sintuto dì" di Aldo Bertozzi, edizioni L.I.R, anno 2017
  • Raccolta di Proverbi Toscani di Giuseppe Giusti e pubblicato da Gino Capponi, Le Monnier Firenze, anno 1871


La polenta, il "formenton", il mais. Storia di un alimento e di una coltura che salvò dalla fame la Garfagnana

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Giornale di bordo del 5 novembre 1492:"C’erano grandi campi coltivati
con radici, una specie di fava e una specie di grano chiamato mahiz".
Così Cristoforo Colombo annotava con piglio catalogatorio il paesaggio agricolo delle Indie. Da quel giorno la storia dell'alimentazione cambiò per sempre. Il mais arrivò così anche in Europa intorno al 1525 e quella piantina dallo straordinario ritmo di crescita, che da tremila anni era alla base dell'alimentazione delle civiltà amerinde, fu destinata a ridisegnare completamente i profili rurali (anche) di tutto il nord Italia, nonchè a stravolgerne le abitudini alimentari. Il mais prima di quella data (1525) era già coltivato in Spagna e Portogallo con un nuovo nome "grano turco". Ma perchè turco? Il linguaggio comune del
tempo chiamava "turco" tutto quello che era straniero, o meglio non europeo. Un'altra ipotesi invece dice che il mais fosse già giunto in Europa non dalle Americhe, ma bensì dal medio oriente, con già il nome "granturco" poichè i persiani che lo coltivavano e lo mangiavano vivevano sotto l'impero turco. Comunque sia il suo arrivo in Italia trovò terreno fertile soprattutto in Veneto e nel Friuli. Dapprima, fu la "Serenissima" Venezia ad introdurlo nei suoi territori, 
visto le sue importanti reti commerciali e la prima semina "italiana"(secondo lo studioso Giovanni Beggio)è datata 1554: "La mirabile et famosa semenza detta mahiz ne l'Indie occidentali, della quale si nutrisce metà del mondo, i Portoghesi la chiamano miglio zaburro, del qual n'è venuto già in Italia di colore bianco et rosso, et sopra il Polesene de Rhoigo et Villa Bona seminano i campi intieri". Ma per vedere l'ascesa e il vero successo di questa nuova coltivazione si dovrà aspettare ancora un paio di secoli, quando finalmente arrivò anche in Garfagnana. Fu infatti durante il settecento che arrivò prepotentemente sulla tavole garfagnine mutandone definitivamente le abitudini alimentari, non più solo castagne e polenta di neccio, ma una nuova polenta stava prendendo piede. Per di più in quegli anni una ciclica serie di carestie fece si che la polenta di granoturco diventasse uno dei piatti principali da mettere sulle tavole, per un semplice motivo: la fame. Fu talmente alto il suo consumo che si calcolò che in base alle coltivazioni il
consumo pro capite di farina di mais per garfagnino fosse intorno ai 50 chili l'anno (oggi siamo appena a tre chili). Insomma questa nuova coltura arrivò proprio come una manna dal cielo, però portò con se anche dei lati negativi. Se da una parte aveva salvato dalla fame molti garfagnini, dall'altra parte aveva visto l'insorgere di una brutta malattia dai sintomi terribili: desquamazione della pelle, diarrea e demenza, era la pellagra. La colpa non era dovuta allo stesso mais ma a una alimentazione squilibrata, basata sempre e comunque sul solito alimento consumato, questo abitudine portò alla carenza di una vitamina presente in altri alimenti indispensabile per il nostro organismo. La polenta d'altronde è un alimento che ha origini lontanissime, il nome deriva dalla parola latina "puls", infatti, già nell'antica Roma lo stesso Plinio la definì "il primo cibo dell'antico Lazio", quella che appunto era una "poltiglia" preparata cuocendo farina di farro con acqua e in realtà non facciamoci trarre in inganno dalla parola "polenta", difatti per polenta nella nostra valle s'intende esclusivamente quella di granturco o quella di
castagne, ma è da tempo immemore che una qualsiasi polenta fatta con svariati cereali (segale, orzo, miglio, sorgo, ecc...)rimaneva il piatto principale dell'alimentazione contadina da secoli e secoli, a confermare questo è un documento lucchese del 765 d.C, dove si parla di un "pulmentario" di fave e panico, cibo destinato a elemosina per i  poveri. Niente a che vedere con le nostre specie autoctone, il "formenton ottofile"è una varietà di mais tutta garfagnina. La sua coltivazione è abbastanza limitata sia per la scarsa estensione, sia per il clima spesso avverso, ma la sua qualità è rinomata e dal sapore
Formenton Ottofile
inconfondibile. La pannocchia è snella con chicchi disposti in otto file (da qui il nome) dai colori gialli e rossi. La sua produzione in annate particolarmente favorevoli può raggiungere 8/10 tonnellate. Viene raccolto manualmente intorno a settembre o al massimo ottobre, una volta essiccato e macinato da una farina pregiatissima. Rimane il fatto che con essa possono essere fatte succulente polente e ottime farinate (una via di mezzo fra una polenta e un minestrone). Un'altra varietà di mais "garfagnino"è il "Nano di Verni", la sua origine è sconosciuta, ma è da oltre un secolo che viene coltivato nelle zone di Verni e Trassilico. Pianta di piccola taglia (ecco l'origine del suo bizzarro nome), che proprio per questa sua caratteristica in tempo di guerra veniva coltivato lungo i fossi, in modo così da non essere visto. Il suo ciclo di vita è molto breve è resistente però alla siccità ed è di moderate
Il Nano di Verni
esigenze. Mostra anche un particolare adattamento alle zone montane, anche in terreni poveri e asciutti. Dalla sua farina nascono piatti prelibati, ottima difatti per fare i "mignecci" (focaccine di granoturco di circa 2-3 mm di spessore e dal diametro di venti centimetri),da accompagnare con la "Minestrella di Gallicano" (una minestra di erbe selvatiche), indicata pure per fare le celeberrime Crisciolette, (schiacciate tipiche del paese di Cascio preparate con impasto d'acqua, farina di grano e mais, ripiene di pancetta o lardo). Fra tutti questi prelibati manicaretti, sempre ed a proposito di polenta, non si può non menzionare la polenta con il "salacchin". Per quei pochi che forse non lo sanno il salacchino è un aringa affumicata e conservata sotto sale, era uno di quei "mangiari" antichi, purtroppo dimenticati grazie al benessere post bellico. Spesso "il salacchin" stava attaccato al soffitto e la polenta una volta rassodata, veniva "strusciata" sopra per fargli prendere un po' del suo sapore forte. Comunque sia com'era nelle buone abitudini contadine di un tempo, di ogni pianta si cercava di sfruttare ogni sua parte. Questa regola aveva valore anche per il granoturco che non era buono solo per mangiare, ma in Garfagnana le sue foglie venivano utilizzate nelle maniere più disparate. Infatti le foglie più esterne della pannocchia venivano date alle mucche, mentre le più interne, bianche e raffinate, servivano per riempire i materassi di casa, ma
non solo, gli steli più grossolani non utilizzati per l'alimentazione del bestiame servivano per il fuoco, più che altro per far bollire l'acqua per il bucato. Onore quindi al granturco e alla polenta che è, e rimarrà sempre il cibo povero dei poveri.

Bibliografia

  • Herbario Nuovo di Castore Durante (1585)
  • "Il Mais" di Azimonti Eugenio, Hoepli 1902
  • http://germoplasma.regione.toscana.it/

Una storia lunga secoli su quegli strani fenomeni garfagnini, che nessuno sa e sapeva spiegare...

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Se c'è una cosa sulla quale tutti possiamo concordare è che il mondo, così come lo conosciamo, è davvero un posto strano e originale. Nel corso dell'evoluzione, man mano che il nostro intelletto andava ad affinarsi, siamo riusciti a spiegare e a catalogare sempre più stranezze e abitudini alquanto bizzarre, rendendoci sempre più padroni e fautori della nostra consapevolezza di "uomo intelligente". Eppure, qualcosa resta ancora senza risposta (più o meno) e non si è mai smesso di fantasticare o di creare curiose leggende su alcuni dei casi più eclatanti. Infatti questi "eventi strani" rientrano a buon titolo nella categoria del "preternaturale". Ma cosa significa questa strana parola? Il "preternaturale"è ciò che appare al di fuori o accanto (dal latino praeter) alla struttura del naturale, in pratica è ciò che è sospeso tra il mondano e la magia, fra il vero e l'incredibile. La suddetta materia è un argomento per niente frivolo e superficiale, tale disciplina è trattata perfino in teologia e il termine viene usato per distinguere meraviglie, trucchi ed inganni, spesso attribuiti
alla stregoneria. Dall'altra parte gli scienziati trattavano questo argomento da un altro lato e la parola faceva riferimento ad anomalie e strani fenomeni di vario genere che si discostavano dalle norme della Natura. In Garfagnana come ben si sa, in tal senso non manca niente: esseri fantastici, fantasmi, luoghi della paura, streghi, buffardelli e chi più ne ha più ne metta, ma accanto a questo mondo puramente fantastico, esiste anche il mondo parallelo del "preternaturale", fenomeni a quanto pare (presunti) veri a cui ancora non si è data una convincente giustificazione razionale. Dalle nostre parti di questi fatti e fattarelli si ha notizia da tempo immemore, fino ad arrivare ai giorni nostri. Percorrendo i secoli le prime notizie scritte si hanno già dal XVII secolo. E' difatti il caso di quanto riportava Pellegrino Paolucci, Preposto in quel di Sillano nel 1720 nel suo libro "La Garfagnana Illustrata". Eravamo a Ceserana nell'anno di Grazia 1620 e alcuni operai stavano compiendo dei lavori di ristrutturazione su una scala: " Vi fu ritrovata una cassa di pietra, nella quale giaceva il cadavere d'un gigante, il quale aveva
i denti lunghi un dito d'uomo grande de' nostri tempi. E se è vero che "Ab ungue Leonem" (n.d.r: ossia il leone si riconosce dall'artiglio)può argomentarsi da' denti, che fosso un colosso di carne, come Golia, per non dirlo simile a quello di Rodi. E se quello, benchè franto, potè da Timante misurarsi dal dito pollice del piede; questo, benchè fatto scheletro, mostrò la sua grandezza a proporzione dei denti".
Insomma un gigante vero e proprio di cui non si sono più avute notizie, nonostante fossero indicati precisamente il luogo del ritrovamento e la data, tutto finito nell'oblio senza altra indicazione sulla fine dello scheletro del presunto gigante. Sempre ed a proposito di strane creature il Paolucci racconta sempre di strani uccelli visti sul paese di Sassi: "Sono molti anni che sul principio di Aprile fu veduto svolazzare una moltitudine d'uccelli grossi, d'ignota specie, a' quali non nuocevano l'archibugiate e in detto tempo pericolarono alcuni di quegli abitanti. Fecero voto però
di solenizzare uno di que giorni e cessò il pericolare, nè più si videro quei mostri volanti
". Queste vicende inspiegabili non riguardano solo strane creature, in questa ottica ci rientrano anche fatti paranormali chiamati in questo caso "segnali centenari". Per "segnale centenario" s'intende dare a un comune mortale delle indicazioni e delle tracce sovrannaturali  per trovare determinate ricchezze. Da questi segnali l'uomo può difatti ritrovare delle vere e proprie fortune nascoste da altri uomini non più vivi. Queste tracce vengono date obbligatoriamente ogni cento anni dall'anima del proprietario del tesoro nascosto, se trascorsi centotrenta secoli e se nessuno fosse riuscito ad impossessarsene il tesoro sarebbe rimasto nelle mani dell'anima defunta. Naturalmente  tale anima cercherà in ogni modo di sviare l'attenzione dell'uomo da questi segnali. Vediamo allora quello che da testimonianze accadde al Capitano Ponticelli nei primi anni del 1600:"Niccolò Ponticelli di Castelnuovo, valoroso capitano al servizio dell'esercito modenese e forse capostipite del marchesato omonimo, una notte per necessità del suo servizio percorreva il tratto di strada tra Marigliana e Monteperpoli, dicesi che, appunto s'imbattesse in uno di questi segnali centenari che testimonia l'esistenza di tesori nascosti. Un
gran fuoco acceso proprio sul ciglio della via gli si parò dinanzi improvviso. Il modo insolito con cui questo fuoco s'era acceso lo meravigliava. La notte era fredda, oscura e piovigginosa. Tale apparizione sembrava proprio che avesse qualcosa di sovraumano. Il capitano si avvicinò ma non potè arrivare presso il fuoco che questo si spense ad un tratto per poi brillare di nuovo più lontano, sempre sulla strada"
e così più e più volte fino a che ad un certo punto della storia ecco una voce che mormorò: "-Venturiero che cerchi ventura, perchè corri dappresso al mio fuoco? Esso non può scaldare le membra, il gelo dei secoli ne ha assiderato il calore - In quel momento gli sembrò che qualcosa di meno fluido e più consistente dell'oscurità si interponesse fra lui e il fuoco:- Chi sei?- gridò il capitano, l'ombra rispose lenta e senza eco:- Ero l'Augure che presiedeva ai sacrifici nel tempio della Gran Selva. Allor che la Dea Feronia fu destituita da altre divinità e il suo tempio distrutto dagli uomini, io raccolsi il tesoro sacro, lo costudì e tra esso e la loro rapacità posi l'impossibile, riconsacrando il tesoro all'occulto. Viandante va!- Il colloquio fra il capitano e l'oscura presenza continuò fino a che l'anima non convinse lo stesso Ponticelli a demordere dalla sua impresa d'inseguire il tesoro, l'oscura presenza in cambio di ciò gli lasciò un mucchietto di soldi d'oro ed inoltre trasformò l'impugnatura della sua spada in oro.
Parecchi anni dopo, il 6 agosto 1613, nella battaglia dell'assedio di Gallicano in un furioso corpo a corpo ebbe spezzata la sua spada. Gli rimase in mano la sola impugnatura d'oro:- Cattivo presagio- dicesi che mormorò il capitano- sventura a me!- Il giorno dopo un colpo d'archibugio delle soldatesche lucchesi lo colpì e lo stese morto. Questi irrazionali episodi non fanno parte solamente del tempo che fu, alcune storie arrivano anche ai giorni nostri e ritornano a parlare di strane creature come ad esempio il serpente di Bergiola. Bergiola è tutt'oggi un paesino abbandonato nel comune di Minucciano. Questo paese fu abbandonato definitivamente dopo il catastrofico terremoto del 1920 che colpì Garfagnana e Lunigiana. Fu in quel momento che in certi periodi dell'anno si parlava di strane presenze nel vecchio paese, c'era infatti la possibilità d'imbattersi in un mostruoso serpente nero, chiamato comunemente da quelli che giurano di averlo visto con i propri occhi "Devasto". Quando si muoveva fra i ruderi di Bergiola il
Bergiola oggi
 rumore terrificante del suo passaggio si sentiva dai paesi vicini. Le sue dimensioni erano veramente notevoli, due-tre metri di lunghezza per circa quindici centimetri di diametro, la sua testa non somigliava per niente a quella di un rettile ma piuttosto a quella di un furetto. Il luogo in cui si credeva e si crede che abbia stabilmente dimora e nella vecchia cisterna dell'acqua. La quasi totalità dei testimoni diceva che il serpente era maschio e riusciva riprodursi autonomamente, fecondandosi cioè da solo. Sempre sulla falsariga del rettile ecco la storia più recente e famosa e nessuno si può dimenticare quello che accadde sul Monte Palodina. 
Andiamo allora a raccontare uno degli strani eventi che nascono da questo monte. Il posto è stato, ed è sempre luogo di escursionisti, cercatori di funghi e cacciatori e proprio uno di questi cacciatori (esiste anche nome e cognome) verso la metà degli anni '80 divenne famoso in tutta Italia. Durante una battuta di caccia sulla Palodina stessa si apprestava a ricaricare il suo fucile quando alle sue spalle uno scricchiolio di rami e foglie distolse la sua attenzione: "sicuramente sarà la mia preda" pensò fra se e se, ma subito si trovò di fronte un grosso essere squamoso alto più di due metri e con la testa da rettile, il cacciatore preso dal panico fuggì a gambe levate distruggendo anche il fucile nella sua precipitosa
La Palodina
fuga. La notizia in breve tempo raggiunse radio e televisioni locali che riportarono dettagliatamente l'evento, tale notizia fu poi ripresa anche dai media nazionali. Rimane il fatto che tutte queste storie e vicende fanno comunque parte di un mondo folkloristico e che quindi sono tutte da verificare pertanto dobbiamo credere a quello che  solo  vediamo...


Bibliografia

  • "La Garfagnana Illustrata", Pellegrino Paolucci, anno 1720
  • "Usanze, credenze, feste, riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rossi, Banca dell'Identità e della Memoria, Cominità Montana della Garfagnana, anno 2004

A volte ritornano... Storie di bande e briganti. Garfagnana 1946...

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Corsi e ricorsi... Da ogni epoca oscura si passa ad una eroica e
luminosa, governata dalla ragione, alla quale purtroppo seguirà una nuova decadenza e una successiva rinascita, in un ciclo eterno di caduta e ripartenza. Così succede, è una regola a cui il mondo ci ha ormai abituati e nemmeno la nostra Garfagnana è sfuggita a questa norma. Infatti dalle nostre parti esisteva un'epoca, ormai da tutti conosciuta e studiata, in cui nella valle regnava incontrastato il brigantaggio. Era quel preciso periodo storico in cui a Firenze stava per nascere quel movimento culturale e sociale che si proponeva la rinascita della grandezza del mondo classico: il Rinascimento, e mentre a Firenze cominciavano a circolare personaggi come Leonardo Da Vinci, Niccolò Machiavelli e Michelangelo, in Garfagnana vigeva ancora la legge in cui lo schioppo soverchiava qualsiasi altro pensiero e questo ben lo sapevano il Moro del Sillico, Pierino Magnano e Filippo Pacchione: briganti di prim'ordine. Da quel momento in poi però di briganti e bande di delinquenti in Garfagnana non se ne senti più parlare per cinque
secoli, fino al momento in cui, nell'imminente fine e nell'immediato dopoguerra del secondo conflitto mondiale questo fenomeno tornò prepotentemente a galla. Naturalmente il contesto storico e sociale, le motivazioni e la durata dei misfatti fu ben diversa e va contestualizzata e collocata nel tempo dove successero tali accadimenti. Rimane comunque il fatto che morte, ruberie e angherie varie tornarono di gran moda nella valle. Giaime Pintor (giornalista e scrittore) di quel nefasto periodo (fra il 1944 e il 1946) ebbe a dire: "Dappertutto la guerra ha diffuso una facile crudeltà, una crudeltà inconsapevole e piatta che è la peggiore linfa dell'uomo. L'orribile senso del gratuito, dell'omicidio non necessario. Tolti i ritegni diviene consuetudine uccidere e punire è diventato un esercizio". Sì, perchè questa nuova ondata di violenza non fu un fenomeno tipicamente garfagnino, ma la geografia italiana degli
omicidi mutò radicalmente a partire dal 1943. L’aumento del tasso di criminalità crebbe in tutta la penisola, ma in modo particolare nelle regioni centrosettentrionali. Esso raggiunse il valore più alto nel 1944 in Toscana, seguita dal Piemonte e dall’Emilia-Romagna. 
Ma anche fra queste stesse regioni vi furono significative differenze. La Toscana fra tutte ebbe un ruolo di preminenza, il tasso di omicidio, crebbe straordinariamente nel 1944, mantenendosi su alti livelli anche negli anni successivi. Quello che difatti rimane curioso e a dir poco interessante è l'analisi particolare di questi fatti e se andiamo a vedere gli anni precedenti a questi delitti (1939-1945) vediamo che in Italia ci fu un notevole calo di tutti gli atti delinquenziali, perfino le contravvenzioni subirono un forte calo. La forte caduta delle contravvenzioni fu riconducibile a due fattori, assai diversi fra loro, ma entrambi inerenti allo stato di guerra. In primo luogo, alla riduzione del traffico stradale, in secondo luogo, alla diminuzione dell’efficienza delle forze dell’ordine, impegnate in altri urgenti problemi. Il calo dei furti, delle rapine e degli omicidi poteva essere spiegato nel fatto che il conflitto bellico, allontanò dalle case e dalle strade un gran numero di giovani maschi, ovvero proprio gli appartenenti a
quel gruppo che più frequentemente commetteva tali reati. Dall'altro lato lo straordinario aumento della frequenza di molti reati nel secondo dopoguerra fu provocato da numerosi fattori: da quello economico, innanzitutto, perché in misura maggiore o minore, in tutti i Paesi europei questo periodo fu caratterizzato dall’aumento della disoccupazione e dell’inflazione (il costo della vita in Italia fra il 1938 e il 1945 salì di 23 volte !!!), dalla riduzione dei beni disponibili e dal peggioramento del livello di vita. Ma vi furono anche altri fattori che spinsero verso questa direzione: la presenza di larghi strati della popolazione che, a causa del conflitto, erano ormai assuefatti all’uso delle armi, nonchè al disorientamento di numerosi ex militari che faticavano a trovare un posto adeguato all’interno della società dopo aver vissuto la drammaticità della guerra. Infatti molti dei primi banditi erano state personalità che avevano partecipato a diverse operazioni belliche, c'è da aggiungere poi che in tutta questa situazione rimanevano un gran numero di armi disponibili
lasciate dagli eserciti in ritirata, che chiunque poteva procurarsi. Figurarsi allora in Garfagnana dove il fronte si attestò fra opposti eserciti per dei lunghi mesi. Difatti anche qui vigeva un clima d'insicurezza totale. Svariate bande di delinquenti si formarono fra queste impervie strade, tali bande si macchiarono anche di reati gravissimi. A Ponteccio (Sillano- Giuncugnano) un commerciante di Villa Minozzo (Reggio Emilia) fu prima derubato di 7.000 mila lire e poi ucciso da un uomo di Sillano. Una banda armata composta da tre uomini invece aveva presidio sul Passo delle Radici, questi manigoldi erano specializzati nel derubare i camionisti. Fra le più grosse bande c'era quella che aveva sede nella zona di Fornaci di Barga e operava in tutta la Valle del Serchio, composta da gente senza scrupoli che non esitava a risolvere le situazioni con frequenti scontri a fuoco con i Carabinieri, il suo arsenale era composto da armi residuate dalle guerra: pistole, mitra, bombe a mano, rimase alla storia lo scontro avuto con le forze dell'ordine nel mezzo del paese di Fornaci. Sempre a Fornaci furono arrestati due uomini sospettati di essere nientemeno affiliati alla banda di Salvatore
Salvatore Giuliano
Giuliano, il re di Montelepre. Insomma in quegli anni in Garfagnana c'era la base per associazioni a delinquere di vario genere che addirittura operavano su un vasto raggio territoriale, d'altronde la valle da secoli e secoli si prestava a nascondigli introvabili, le vaste selve e gli impervi boschi da sempre avevano offerto riparo a delinquenti di ogni risma a partire dai tempi del Moro per arrivare poi ad eminenti personaggi di spicco degli anni di piombo. Ad esempio a sottolineare la gamma e la varietà di malavita che in Garfagnana era presente in quel periodo fu il fatto del 1947 dove al Sillico (Pieve Fosciana) fu sgominato un traffico regionale illecito di medicinali che provenivano dal deposito americano di Tombolo (Livorno), a capo della banda c'erano un tedesco disertore e una donna del posto. In definitiva, queste erano bande  pericolosissime e armate fino ai denti, pronte a tutto e senza scrupoli che vigliaccamente cavalcavano il momento di sbandamento sociale che si era creato dopo la fine della guerra. Comunque sia niente a confronto di una banda della lucchesia che ben presto salirà alla ribalta della cronache nazionali come una delle associazioni a delinquere più spietate di tutto il panorama italiano. Svariate definizioni furono attribuite a questa banda, per molti fu la "la banda del camioncino rosso" per altri "la banda  dell'autostrada", ma per tutti sarà riconosciuta con il nome del suo capo "la banda Fabbri". Le sue attività criminose durarono per pochi mesi, dall'ottobre 1945, alle primavera successiva, in questo poco lasso di tempo uccisero cinque persone e rapinarono di tutto, dai soldi alle cose più impensabili. Il giorno in cui ci fu il processo il giudice per leggere i reati commessi si protrasse per oltre 25 minuti... La banda operava su tutto il territorio provinciale e oltre, aveva una delle sue basi operative nelle trincee e nelle grotte della Linea Gotica scavate dai tedeschi a Borgo Mozzano. I rapinatori agivano sia sulle strade che nelle abitazioni (come 
Gallerie Linea Gotica
Borgo a Mozzano
avvenne a Minucciano), la banda era composta da elementi che provenivano da tutta la regione e anche dalla Valle del Serchio. Il suo capo si chiamava 
Lando Fabbri, fiorentino di Santo Spirito. Classe 1912, prima della guerra aveva lavorato come fattorino presso una ditta farmaceutica, impiego ottenuto tramite la federazione fascista, grazie ai meriti acquisiti con la sua partecipazione alla campagna d’Etiopia. “Lo dovemmo assumere per forza– avrebbe dichiarato al processo il suo ex principale – e non lo potevamo licenziare, benché fosse violento e prepotente. Una volta inseguì un altro dipendente sparando in aria con la rivoltella che portava sempre con sé”. A seguito di una condanna a 30 anni di reclusione comminatagli nel ‘38 dal tribunale di Genova per tentato omicidio a scopo di rapina, Fabbri fu rinchiuso nel carcere di Parma, per essere poi trasferito in quello di Apuania; dal quale riuscì tuttavia a fuggire nel luglio del ‘44, sfruttando un bombardamento aereo alleato che aveva sventrato il penitenziario. Unitosi assieme ad altri evasi a una formazione partigiana, al termine della guerra egli si stabilì a Pisa, sotto falsa identità trovò lavoro alle Poste. Nella medesima città conobbe, nell’ottobre ‘45, i fratelli Attilio e Nilo Moni, con i quali formò un sodalizio criminale che, allargatosi rapidamente (la banda era composta da 22 persone), avrebbe causato, in pochi mesi di attività la morte di cinque persone, tutte uccise a sangue freddo. Come quella volta ad Anchiano (Borgo a Mozzano)quando ammazzarono come cani tre persone per rubare quattro gomme. Difatti si racconta che una parte della famigerata banda era a prendere un caffè a Lucca, quando tornando verso Viareggio scorsero un autocarro Mercedes targato Udine, carico di carrozzine per bambini. Il camioncino rosso dei malviventi si mise di traverso in mezzo alla strada e l’altro dovette fermarsi; a bordo c’erano due commercianti, i fratelli Secondo e Quinto Di Pauli e il loro amico Giorgio Pacile, provenienti da Udine e diretti a Roma. Una volta scesi, i tre si trovarono di fronte quattro rivoltelle e uno Sten; spinti al margine della strada, furono legati e imbavagliati. Gli ostaggi furono poi caricati sul camioncino rosso e il mezzo si avviò per la statale dell’Abetone avendo già in mente la destinazione: Anchiano, dove nell’ambito delle fortificazioni della Linea Gotica i tedeschi avevano approntato una caverna artificiale utilizzata come deposito munizioni. Ecco comunque la cronaca del processo e del fattaccio in questione riportata dalle pagine de "Il Tirreno" il 10 aprile 1946. Testimonianza dell'imputato Fabbri:" Erano diversi giorni che il Lippetti ci aveva pregato di aiutarlo a trovare delle gomme, perchè quelle del camioncino erano fuori uso. Così si decise di andare sull'autostrada ed avevamo aspettato due tre ore per trovare quello che andasse bene. E' arrivato il camion abbiamo guardato le gomme e così si decise di fermarlo... Ad Anchiano ci fermammo ed io andai a vedere la grotta ove avevamo stabilito di lasciarli e di andare in un altro posto per levare e gomme. Con degli stracci imbevuti di nafta esplorai la grotta e li portammo là... Essi si raccomandarono di non fargli nulla di male, ed infatti noi li rassicurammo. Il Lippetti però cominciò a dire che il suo camioncino rosso, che era ormai preso d'occhio poteva essere riconosciuto e che quindi bisognava ucciderli... Fra tutti decidemmo di ucciderli. Il Lippetti disse che se non li avessimo uccisi noi, li avrebbe uccisi lui. Allora io rientrai nella grotta e sparai!". A giudicarli per direttissima fu il Tribunale militare straordinario, istituito il 10 maggio‘45 conformemente alla legge speciale per la repressione delle 
Un momento del processo
rapine e che prevedeva anche la fucilazione. Il processo ebbe inizio a Lucca il 10 aprile ‘46 e fu peraltro l’ultimo tenuto da tale organismo giudiziario. La sentenza giunse già il 13 aprile (per leggerla ci vollero più di venti minuti), infliggendo, come il giornale riporta “le condanne più dure del dopoguerra toscano”: pena capitale per Fabbri e per il suo luogotenente Baccetti, ergastolo a Lippetti e ai fratelli Moni, 30 anni a Brega, Angelini e Fanelli, 15 anni a Baldacci, proprietario del mitra in dotazione alla banda; oltre a una serie di condanne minori. Un'ultima affascinante descrizione della miseria umana degli imputati la diede sempre "Il Tirreno" dell'epoca: 
"
Senza folla intorno, senza giudici e l’apparato del processo, nell’intervallo, seduti, stanchi e depressi, hanno gettato la maschera e abbandonato il loro aspetto tracotante, che amano ostentare davanti al pubblico. Eccoli qui senza infingimenti, miseri uomini vinti dalle loro folli passioni, più bestie che uomini, paurosi al pensiero della sorte che gli attende, e pensare che uccidevano le loro vittime come se si fosse trattato di mosche. Dal dire al fare. Oggi no, oggi ci stanno attaccati alla vita, alla propria".


Bibliografia

  • "Il banditismo in Italia nel dopoguerra" di Umberto Giovine, Bompiani 1974
  • "Crimini toscani del secondo dopoguerra raccontati da Umberto Giovine" di Giuseppe Alessandri (https://giuseppealessandri.myblog.it/2019/08/28/crimini-toscani-del-secondo-dopoguerra-raccontati-da-umberto-giovine/)
  • "La Voce di Lucca" , "Banda Fabbri il processo in 15 puntate" di "Oracolo di Delphi" (http://www.lavocedilucca.it/post.asp?id=6483)
  • "Il Tirreno" 10 aprile 1946 di Dino Grilli
  • "La Terra Promessa. La Garfagnana nella seconda metà del XX secolo" di Oscar Guidi, edito Unione dei Comuni della Garfagnana
Fotografie
  • Le fotografie riguardanti il tribunale sono tratte dalla pagina facebook "Studio legale Paolini Tommasi Piana"

Quello che potevano e NON potevano fare le donne garfagnine (e non solo quelle garfagnine) nell'Italia del secolo passato...

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"Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere a
capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un'accessione(n.d.r: un accessorio), un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata" e poi: "La donna, insomma, è in un certo modo verso l'uomo ciò che è il vegetale verso l'animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sè". Ebbene si, nonostante possa apparire così, questi non sono i pensieri o le parole di qualche integralista islamico riportate da qualche quotidiano sui fattacci di cronaca che stanno riempiendo le pagine dei giornali in questi giorni. Questi concetti erano espressi dai maggiori intellettuali e filosofi italiani del tempo che fu, in questo caso rispettivamente ad Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti. D'altronde è innegabile e tantomeno incontrovertibile, dire che le donne fino a poco tempo fa erano purtroppo considerate cittadine di serie B. Quando oggi ci schifiamo e giustamente alziamo la voce contro quelle nazioni che negano i diritti alle donne, pensiamo bene che fino al secolo scorso (storicamente parlando è come se fosse trascorso il tempo di un batter d'occhi), la nostra Italia si trovava più o meno (in fatto di diritti civili) nella approssimativa situazione di quei Paesi e se andiamo a vedere ancor di più nello specifico, ancor peggio andava alla nostre bisnonne, che seppur inconsapevolmente vivevano una situazione ancor più deficitaria in
confronto alle altre donne che vivevano nella città, dove bene o male una possibilità, seppur minima di emancipazione poteva essere trovata. In Garfagnana sotto questo punto di vista era ancor più dura: una donna nasceva esclusivamente per lavorare nei campi, fare figli e accudire casa. Rimane il fatto che per tutte le donne italiane parlavano le leggi dello Stato. Uno Stato che a partire dall'Unità d'Italia, fino ad arrivare al suffragio universale del 2 giugno 1946, conoscerà la sola voce dell'uomo in fatto di diritti e di leggi. Così fu che il nuovo Stato unitario, nonostante l'esaltazione della madri e delle spose risorgimentali, non concesse un millimetro di emancipazione al sesso femminile, malgrado ci fosse stata la possibilità attraverso il nuovo, nonchè il primo Codice Civile del neonato Regno d'Italia, di dare il "de profundis" ai vecchi e retrogradi codici degli stati preunitari. Pertanto alle donne garfagnine (e italiane in genere)il nuovo codice non concesse un bel niente, anzi, tali leggi erano improntate sulla supremazia maschile, precludeva alla donna, attraverso la sola "autorizzazione maritale", ogni decisione di natura giuridica o commerciale. Quindi, tanto per chiarire bene la situazione nel cosiddetto "codice di Famiglia" del 1865 le donne non avevano diritto di esercitare la tutela sui figli,
nè di essere ammesse ai pubblici uffici, per di più le donne sposate non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro (la cosa spettava al marito), da questo ne nacque quella che fu chiamata la suddetta "autorizzazione maritale", per vendere o meno dei beni mobili ed immobili (fino al 1919). La ciliegina sulla torta la metteva invece l'articolo 486 del codice penale che prevedeva la galera da tre mesi a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di  concubinato, ossia di convivenza. Non rimaneva allora che una sola strade alle donne per emanciparsi e ottenere una coscienza civile: la scuola, lo studio. Anche qui però le nuovi leggi ben ne guardavano di dare questa opportunità al gentil sesso, anche se (solo) nel 1874 alle donne fu consentito l'accesso e l'iscrizione ai licei, anche se in realtà molte di queste scuole continueranno a respingere queste adesioni (nel 1900 le donne iscritte alle università italiane saranno 250, mentre ai licei 287...). E in Garfagnana sotto questo punto di vista come eravamo messi? La situazione era ben peggiore. Anche qualora le ragazze avessero potuto avere facile accesso alle scuole superiori, nella valle tali scuole non esistevano; addirittura bisognava considerare il livello di alfabetizzazione che nel 1901 contava il 43% di analfabeti di ambosessi. Sia le bambine che i bambini del tempo non frequentavano la scuola elementare, figurarsi i licei. In un resoconto giornalistico del 1911 sulle condizioni  sociali della Garfagnana si cercò anche di trovare un perchè a questo malcostume: "Quindi si presenta molto frequente il caso che paesetti di 100 o 150 abitanti siano distanti a 3 -4 chilometri dalla scuola più vicina ed è impossibile che fanciulli di 6-12 anni le frequentino a causa delle pessime strade di montagna, d'inverno con neve e gelo.
Le famiglie sono poi libere di mandare o di non mandare i figli a scuola, preferiscono impegnare le femmine nei lavori domestici e nei campi e i maschi negli esclusivi lavori campestri. L'ultima preoccupazione di questi contadini è di mandare i loro figli a scuola
". Figuriamoci allora se in Garfagnana la condizione femminile era considerata un problema (anche dalle stesse donne). Rimane il fatto che nel 1902 fu approvata una prima legge per proteggere il lavoro delle donne "le ore giornaliere di lavoro sono limitate al massimo a 12 ore..."(!!!).A proposito di lavoro femminile è interessante analizzare dei dati riguardanti il censimento del 1901 che ci dava sotto questo aspetto un quadro dettagliato del panorama garfagnino dove si riscontrava che la maggior parte del gentil sesso era impiegata nei lavori agricoli (3912 femmine). Nell'industria, nei mestieri e nell'artigianato si potevano contare 501 donne (maschi 2416), il piccolo commercio era composto da 17 lavoratrici (uomini 501). Impiegate dello Stato e maestre erano 12 (maschi 608). Da notare le così poche maestre (in realtà erano molte di più) perchè risulta che questo non era il loro lavoro ufficiale, tali donne risultavano in buona parte sotto un'altra categoria, forse proprio in quella delle "cure domestiche" dove si annoverava la cifra di ben
8998 donne. Insomma, in Garfagnana circa dodicimila donne lavoravano nei campi e nelle cure domestiche e buona parte di esse non sapeva nè leggere, nè scrivere. Quale futuro ci poteva essere allora?
  Nel 1912 per la prima volta si parlò di dare il voto anche alle donne, il Presidente del Consiglio Giolitti gelò la questione definendola "un salto nel buio". Bhè, direte voi, il tempo passa, le menti si evolvono, qualcosa sarà pur cambiato. Certamente dico io... in peggio. Il nascente partito fascista ebbe da subito una posizione ambigua, da un lato dichiarava il suo favore per il voto alle donne, dall'altro accusava le stesse di togliere il lavoro ai reduci di guerra. L'ambiguità fu comunque dissipata da una serie di Regi Decreti che propendeva da una sola parte: Regio Decreto 1054, 6 maggio 1923, con la riforma Gentile si proibiva alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie. Regio Decreto 9 dicembre 1926 n°2480, vietava alle donne l'insegnamento nei licei, dando l'esclusività femminile all'istruzione negli istituti magistrali. Il 20 gennaio 1927 furono dimezzati per decreto i salari femminili rispetto a quegli degli uomini, una legge fatta ad hoc per disincentivare il lavoro femminile a tal proposito l'esimio economista Ferdinando Loffedo nella sua "Politica della famiglia" del 1938 diceva: "Il lavoro femminile crea al contempo due danni: la mascolinizzazione della donna e la disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe" e sempre in quest'ottica con la legge 22/1934 venne concesso alla pubblica amministrazione di discriminare le donne nelle assunzioni, escludendole di fatto da una serie di pubblici uffici. La posizione del fascismo a riguardo della condizione femminile venne poi
rafforzata dalla Chiesa che nel 1930 ribadiva il ruolo primario della donna come madre e si condannava come "contro natura" ogni idea di parità tra i sessi. A chiudere miseramente il cerchio su tali leggi fu l'approvazione dell'articolo 587 del codice penale che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse moglie, figlia o sorella per difendere l'onore suo o della famiglia. Fu istituito in questo modo il cosiddetto "delitto d'onore" (quello che è più grave) rimasto in vigore fino al 1981. Arrivò poi la guerra e qui, se mai ce ne fosse stato bisogno, le donne assunsero il ruolo di protagoniste assolute. Svani per sempre l'immagine della donna come angelo del focolare e anche e soprattutto in Garfagnana, quando mariti, figli o nipoti partirono per la guerra o per la lotta partigiana, la donna prese su di sè tutto il carico della società, sostituendo il lavoro fatto in fabbrica degli uomini (vedi la S.M.I di Fornaci di Barga e la Cucirini di Gallicano), sostituendo sempre gli stessi anche nei lavori della terra, al contempo non fecero mancare il sostentamento agli altri familiari nei lavori casalinghi. A questa situazione la donna garfagnina non era nuova, non era infatti la prima volta che si sobbarcava sulle spalle tutta la responsabilità familiare, era già accaduto negli anni passati quando nella valle l'emigrazione raggiunse il suo apice, la donna oltre ai suoi
tradizionali compiti, assunse anche quelli dell'uomo che era emigrato in terre lontane, il fenomeno è evidente in documenti degli anni 20-30 del 1900, dove negli atti notarili è ben evidenziato che i contraenti di accordi di ogni tipo e di compravendite varie  sono in prevalenza firmati con nomi di donne. D'altra parte fu proprio dalla fine di quella maledetta guerra mondiale che le donne, grazie alla loro forza e alla loro caparbietà presero in mano il proprio destino. Quel 2 giugno 1946, quando finalmente anche loro poterono votare, fu vissuto da quelle "ragazze del '46" proprio come l'inizio vero del cambiamento. Un cambiamento, se si vuole vissuto anche con timore, quel timore reverenziale di chi non ha mai assaporato una certa autonomia. A tal proposito rimasero impressi nella mia memoria di bimbo i ricordi della mia nonna Beppa di Gallicano, che di quel giorno rammentava: 
"Misi cappello e guanti (l'ultima volta l'aveva fatto per la comunione delle figlie)e mi preparai per uscire a compiere a 40 anni e per la prima volta il mio dovere di cittadina". Ricordava sempre che nell'attimo che aprì la porta di casa  per recarsi al seggio ebbe un attimo di
esitazione, 
guardò il nonno che già era andato a votare e gli chiese: - Alfredo, cosa devo votare?- La cara nonna era stata impaurita dalla troppa indipendenza che gli si presentava in età adulta, lei che fino a quel giorno aveva accudito e pensato solo alla numerosa famiglia, mentre il nonno (come diceva lei) "si occupava di cose importanti, di cose da uomini"...


Bibliografia

  • "Il sogno realizzato" di Umberto Sereni, Banca dell'Identità e della Memoria, anno 2011
  • Biblioteca digitale ISTAT . Censimenti 1901-1911
  • "La Garfagnana" di Augusto Torre, articolo pubblicato su "La Voce" il 26 ottobre e il 2 novembre 1911

Un'antica e vera storia garfagnina: inquisizione, tesori, maghi e... un maledetto capitano

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Chi da bambino non ha mai sognato di trovare un tesoro nascosto,
sepolto magari da qualche pirata o da un avventuriero di passaggio? Fantasie degne dei romanzi di Emilio Salgari o delle imprese del Corsaro Nero. Storie che hanno rappresentato per tutte le generazioni di ragazzi e ragazzetti un'irresistibile attrazione. Che dire poi di quell'avvincente mappa del tesoro? Simboli e parole indecifrabili che ancor di più stimolavano la creatività. Ma quelle che potevano sembrare le fantasie di bambini dotati di fervida immaginazione, per qualcun altro la cosa si poteva presentare ben più seria, tanto da scomodare forze occulte e misteriose. Questo accadeva veramente nella Garfagnana del XVII secolo, quando un personaggio d'alto lignaggio, per ritrovare il tesoro nascosto del padre affidò le ricerche a maghi e fattucchieri vari... Ma ben presto l'inesorabile scure della Santa Inquisizione di Modena non tardò ad abbattersi sui loschi protagonisti di questa fantasmagorica ed incredibile vicenda. Ma prima di addentrarsi nei fatti è giusto fare un doveroso preambolo, per far capire meglio al caro lettore gli avvenimenti di quel lontano 1668. Bisogna infatti fare un salto indietro nel tempo di qualche decennio dai suddetti misfatti e andare a quel 1586 quando Papa Sisto V emanò la bolla "Coeli et Terrae". Con questa bolla il Santo Padre operò una vera e propria rivoluzione
Papa Sisto V
sociale, non bastava più dare la caccia alla streghe. Nonostante il moltiplicarsi dei roghi in tutta Europa la guerra alla blasfemia si affinò, allargando la cerchia degli eretici agli astrologi, ai superstiziosi e ai trasgressori del riposo festivo, ma non solo a loro, con tale lettera papale si cercò soprattutto di colpire, e anche in maniera piuttosto energica, la magia rinascimentale, ossia la cosiddetta "magia dotta", fino a quel momento se si vuole tollerata. Ma cos'era questa "magia dotta"? A praticare la magia dotta(che a differenza di quella popolare di competenza femminile, era una specializzazione prettamente maschile) erano gli stessi prelati, i medici, gli avvocati e tutta la classe delle professioni in genere, che facevano uso di libri di formule magiche come "La Spada di Mos"(per la cura delle malattie), e "La Chiave di Salomone" (per trovare tesori nascosti). Spesso questi tomi circolavano nei paesi e nelle città in maniera clandestina, addirittura talvolta questi libri venivano trascritti a mano e ciò era dovuto soprattutto non tanto alla difficoltà di ottenere copie edite, ma bensì quello che spaventava di più era la paura di incorrere nell'accusa di possesso di materiale proibito. Rimaneva il fatto che per ottenere l'efficacia delle formule inserite nei libri bisognava che queste stesse pagine fossero riprodotte usando penne e carte consacrate dal mago di turno. Insomma per farla breve tale magia era usata principalmente per trovar tesori, pertanto se le classiche streghe si affidavano ad una tradizione orale, i sapienti vantavano un metodo "scientifico" e usavano nei loro riti tutte le
Chiave di Salomone
 risorse di loro conoscenza (alchimia, chimica e così via...). Quello che è sicuro che talvolta la bramosia di ricchezza e di prosperità di questi individui era ben superiore a qualsiasi altra paura, vorrei infatti rammentare a quei pochi che non se lo ricorderanno che le carceri di Regina Coeli in confronto a quelli dell'Inquisizione del XVII secolo erano un hotel a cinque stelle, perciò una volta scoperti  dovevano subire la condanna alla scomunica, sottoporsi "alle pene salutari" che consistevano a un lungo periodo di pane e acqua, alla quotidiana recita del rosario per mesi o anni (secondo la colpa commessa) e alla preghiera quotidiana (per cinque volte) del Padre Nostro davanti a un'immagine sacra, nonchè alla prigione e alla letali torture. Tutto perchè il potere di questi dotti maghi derivava esclusivamente dal demonio in persona. A tal proposito le vicende garfagnine del lontano 1668 che andremo a raccontare ricalcano perfettamente quanto finora è stato scritto. Questi singolari avvenimenti nostrani tornarono alla ribalta e all'interesse di tutti nel 2012, quando il professor Manuele Bellonzi pubblicò il suo bel libro "Il Castellano delle Verrucole". Dall'Archivio di Stato di Modena l'esimio studioso portò alla luce le carte processuali del Santo Uffizio di Modena che parlavano di un certo Francesco Accorsini di Puglianella, capitano militare e comandante dell'inespugnabile Fortezza delle Verrucole accusato di "superstizione qualificata",
Fortezza delle Verrucole
atta a trovare con l'aiuto dello spiritismo quelle monete d'oro a suo tempo nascoste dal defunto Ser Marco, padre del presunto colpevole. Del protagonista della nostra storia sappiamo ben poco, sappiamo che nacque in quel di Puglianella (Camporgiano), nel massiccio palazzo di famiglia (detto il castello), nel 1646 e che sposò Donna Chiara Micotti, facente parte anch'ella di una delle famiglie di notabili di Camporgiano. Gli Accorsini appartenevano a un antica progenie garfagnina, probabilmente originaria di San Donnino (Piazza al Serchio), di essa forse il più noto esponente fu tale Bartolomeo, primario medico a Ravenna agli inizi del 1600 e personaggio fortemente stimato dal Vallisneri. Da parte sua Francesco si dedicò fin da giovane alla carriera militare nell'esercito estense, ottenendo prima i gradi di tenente e successivamente quelli di capitano, questa nomina lo portò ad assumere il comando della Fortezza delle Verrucole (San Romano)e poi, a fine carriera, quella di Mont'Alfonso (Castelnuovo). Aveva ventidue anni il capitano Accorsini nei giorni in cui accadde il misfatto, fu Don Andrea Baldi a fare luce su strani accadimenti che coinvolgevano, a quanto pare, in un rituale magico perfino un bambino di 11-12 anni circa. Il parroco seppur in attesa di esercitare la funzione di delegato dell'inquisizione si dimostrò da subito particolarmente
Puglianella foto Amalaspezia.eu
attento a raccogliere testimonianze su quanto di strano succedeva in paese. Il tutto era infatti legato ad un altro processo svoltosi a Castelnuovo e poi concluso con un nulla di fatto. Fra gli imputati di questo processo c'erano personaggi di ogni risma... tale Conte Federico di Villanova, parigino, domiciliato a Lupinaia (Fosciandora), don Sebastiano Satti, Cristofano Danzi maestro di scuola a Pieve Fosciana, il caporal Giovanni e suo fratello Domenico Sabatini di Chiozza, servitori del (presunto) nobile parigino. Il Villanova infatti possedeva un libro manoscritto dal quale era sicuro di poter trarre istruzione per ritrovar tesori, il libro era intitolato "Cornelio Agrippa con aggiunta di secreti di Pietro Abano". Il creduto tesoro si immaginava fosse nella canonica del paese di Roccalberti, per cui il 18 aprile 1668, qui si ritrovarono i sopra menzionati, dopo che, per giorni si era proceduto ad un'opera di purificazione che lo stesso conte fece su di sè:"Prima si cominciò ad osservare per nove giorni continui la castità, poscia dentro nove giorni mi confessai e comunicai due volte, e fra tanto in questi nove giorni digiunai tre giorni continui in pane e vino, cibandomi solamente una volta il giorno". In quel giorno il rito continuò ponendo sotto la tovaglia dell'altare la spada rituale ed il pentacolo sul quale vi erano scritti e riportati simboli magici riconducibili al sigillo di Salomone. Il rettore Satti non partecipò al rito, il parroco lasciò la chiesa in mano agli altri figuri e dopo aver fornito a loro il sacro abbigliamento sacerdotale se ne andò a
pescare e poi si rifugiò nella casa del nostro capitano Francesco Accorsini. Fattostà che tutto il complesso cerimoniale non riuscì: "a tutti gli scongiuri fatti non avevamo visto che un ragnio (n.d.r: ragno)entrare in una apertura e il tutto si è risoluto in riso" . Detto fatto, finita tale messinscena tutta la schiera di loschi figuri si trasferì per la notte a casa dell'Accorsini per mettersi al suo servizio in quanto lo sapevano interessato a ritrovare il tesoro nascosto dal padre. A quanto pare il capitano non era nuovo a un simile tentativo di ricerca, circa un mese prima dei fatti vi fu in casa del militare una seduta spiritica fatta da fattucchiere locali, da testimonianze processuali si parlava di certe zingare, ritenute streghe, che in quella casa avrebbero fatto delle magie. Ma un altro teste parlò di fatti ben più gravi, nel tentato ritrovamento del tesoro di Ser Marco era stato coinvolto un innocente bimbetto del posto. Il fanciulletto (di nome Antonio) era stato chiamato dal capitano stesso mentre era a scuola. In tali accadimenti, è giusto dire, non fu coinvolto però il bizzarro Conte Villanova, poichè l'Accorsini non ebbe pazienza di aspettarlo e perciò furono convocati per il rituale il caporale Giovannini da Granaiola e Giuseppe Niccolai d'Anchiano "che sapevano fare l'alchimia" e ahimè, l'inconsapevole bambino. Il piccolo Antonio era infatti indispensabile al mago per la riuscita della magia, serviva proprio un "putto vergine" necessario per invocare gli spiriti. Interrogato poi dal tribunale del Sant'Uffizio il bambino rivelò il perchè ad un
Tribunale del Santo Uffizio
 primo interrogatorio non osò proferire parola: "Quello homini lucchesi che erano il caporale Giovannini da Granaiola e quel altro suo compagno mi dissero che non dicessi niente perchè mi haverebbero dato. Io non volsi dire cosa alcuna perchè havevo paura". Per il resto, sempre dalle parole del giovinetto continua l'incredibile storia dove si raccontò che il mago di turno fu il Giuseppe Niccolai, fu costui che in un rito propiziatorio costituito in una mistura di "raschiatura di capelli" e  d'olio d'oliva 
unse la mano destra del piccolo: "...mi disse poi alcune parole nel una e nel altra orecchia che io non intesi e poi me mise una candela di ferro (???) accesa fra le dita, mi disse che guardassi nella palma della mano e li dicesse cosa vedessi". Il povero piccolo Antonio venne così catapultato suo malgrado in un'esperienza sconvolgente dovuta all'ingenuità dell'età e alla giustificata impressionabilità del momento, tuttavia agli atti rimase il racconto di ciò che vide:"...io li dissi che vedevo deli homini me venevano nella mano... il detto giovine lucchese (n.d.r: il Niccolai)mi disse che domandassi ad uno di quelli se era ancor venuto sua Maestà". Sempre su richiesta del ragazzetto venne detto agli uomini li presenti nella visione di portare al sovrano (individuato come capo)  "la sedia e la corona reale e da mettere sotto i piedi una Bibia Sacra". Il racconto continuò dopo che il cosiddetto "sovrano" giurò di dire la verità in merito a quello che gli avrebbe chiesto "il putto": "...mi faccia vedere qui in questa mano quella stanza dove sono i denari nascosti e io vidi nella mia mano una camera con dentro due letti e io dissi: vostra Maestà facci venire fuori quei denari e vidi dui che lavoravano con un palo in mano...io dissi a quelli che lavoravano di fare presto, vi comando in virtù della mia verginità e del Nostro Creatore e che fate presto a metter fuori i denari e così vidi nella mano che votarono quel lavezzo e chi vi erano delli denari gialli e bianchi e poi comandai che ritornassero i denari e il
lavezzo dove erano prima"
. Il Capitano Accorsini a quel punto ordinò al bambino di ritornare a casa e di ripresentarsi la mattina dopo al palazzo. Il giorno seguente il rito continuò nella camera dei due letti:"quando quelli homini che erano nella mia mano lavoravano per tirar fuori il lavezzo come avevano fatto il giorno avanti, il caporale Giovannini andava toccando la muraglia con uno stiletto, mi disse che li sapessi dire il luogo dove lavoravano e quando il caporale con il detto stiletto fu arrivato al luogo con la mia mano dissi che lavoravano ivi et allora si fermarono et io andai a fare li fatti miei". Ecco,  è allora che a questo punto della storia un altro personaggio entrò a far parte di essa, era tal Lorenzo Angeli maniscalco di Sillano, che trovandosi anch'esso nella casa dell'Accorsini ed avendo sentito voci che raccontavano di un tesoro nascosto volle farsi raccontare direttamente come erano andate le cose e così narrò:"rompirono la muraglia dove haveva detto quella voce in luogo dove già altre volte vi era stato un finestrino e che nel aprir questo e veder la tavoletta che vi era per tener saldo detto finestrino il capitano stete alegro persuandosi d'haver ritrovato i denari, ma che in fatto non ritrovarono cosa alcuna e che il diavolo era bugiardo". Il capitano Francesco Accorsini oramai inchiodato alle sue responsabilità a sua difesa presentò la sua giovane età (22 anni), il fatto di essere
incensurato e una sorta di "fede-certificato", ossia un documento di cristianità conclamata, rilasciata da un penitenziere (n.d.r: sacerdote presente nelle cattedrali nominato direttamente dal vescovo) di Reggio Emilia, per di più si tentò la richiesta di grazia. Niente di tutto questo servì per evitare il severo carcere dell'Inquisizione che lo condannerà a più di un anno di reclusione, un fatto questo che segnerà il militare garfagnino per tutta la vita. Infatti negli anni a seguire le sue vicende non saranno ricordate per le sue imprese militari, ma bensì per le sue imprese criminali. Una volta subita la giustizia secolare del Santo Uffizio, dei suoi crimini si occupò la giustizia ordinaria modenese. Erano trascorsi ormai venti anni dai suddetti fatti e il capitano la sua vita l'aveva continuata fra sotterfugi e angherie varie, nel tempo furono molte le colpe di cui fu  imputato: concubinaggio ("Il Castellano Accorsini non abita mai con la moglie e vive in continuo concubinato con una vedova detta Maria nipote del sergente da Verrucole, dalla quale ha figliuoli,"), ma non solo questo, il suo comportamento era alla pari di quello di un padre- padrone del luogo. Non mancò infatti di far malmenare preti, militari e persone normali, ordinare delitti (non compiuti), intrallazzare in loschi affari realizzando di fatto alleanze sia familiari, oltre che politiche, civili e religiose, cercando in questo modo di speculare sui conti pubblici, si arrivò perfino a dire che la sua "patente" di castellano fosse stata negoziata, falsificando gli atti anagrafici dichiarandosi così cittadino di Reggio Emilia, insomma come si testimoniò nei processi a suo carico: "egli perseguita tutti quelli che non obbediscono ai suoi capricci". Francesco Accorsini finirà così ancora una volta imprigionato nelle carceri di Modena, era il 1688. Per il resto sappiamo che la sua ultima lettera scritta risale al 1691 e che da li a poco morì. Con ogni probabilità per lui si
aprirono le porte di quell'inferno, dove sicuramente avrebbe trovato il suo amico più fidato: il diavolo...

Bibliografia

  • "Il Castellano delle Verrucole. Storie e misteri della Garfagnana del seicento" di Manuele Bellonzi, edito Garfagnana editrice, anno 2013

Animali fantastici (garfagnini): dove trovarli

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Il titolo di questo articolo si rifà ad un libro(poi diventato
film)di J.K Rowling
 , la famosa autrice della saga letteraria fantasy di Harry Potter. "Animali fantastici: dove trovarli", questo è il titolo esatto, faceva parte di quella categoria di libri definita  "pseudobiblium", ossia un libro immaginario citato come vero in un'opera letteraria reale(n.d.r: nel 2001, anno in cui è stato pubblicato il racconto perse tale definizione)
. Difatti questo libro, nei romanzi di Harry Potter si pone come uno dei libri di testo richiesti fin dal primo anno di Hogwarts (l'istituto scolastico che frequenta il maghetto). Il saggio (nella fantasia della scrittrice) fu scritto nel 1918 dal famoso "magizoologo" Newt Scamandro e descrive settantacinque specie di animali magici (il Velenottero, lo Snaso, il Purvincolo, il Moonclaf e così via). Tante informazioni su di essi furono raccolte proprio da lui attraverso i tanti viaggi. Viaggi che poi si trasformarono in ricerche, fatte presso "l'Ufficio di ricerca e regolamentazione dei draghi". Questi studi nel 1979 portarono poi lo studioso a guadagnarsi l'Ordine di Merlino di seconda classe... Bhè, che dire, in Garfagnana e nelle Apuane non esiste alcun libro a riguardo e nemmanco un "magizoologo" per studiare queste strane creature, in compenso esiste però una forte tradizione orale di leggende, racconti e favole, che senza dubbio ci fa dire che la nostra "collezione" di animali fantastici non ha nulla a che invidiare a quella del suddetto libro. Pertanto ecco a voi un bel
 viaggio negli animali fantastici garfagnini. Direi di cominciare dai Gatti Streghi. Una delle ultime volte che furono avvistati fu grazie ad un uomo di Palagnana che tornando a casa lungo la strada che scende da San Pellegrinetto vide in prossimità del paese dei
gatti neri appollaiati su un noce. L'uomo allora capì subito che erano proprio i gatti streghi e d'improvviso il coltello che aveva in tasca lo piantò sul tronco del noce. Subito i gatti si trasformarono in persone, persone che l'uomo conosceva bene. Gli strani uomini sul noce si cominciarono a dimenarsi e ad agitarsi e raccomandarono al passante di non rivelare la loro identità, se non avesse fatto ciò gli avrebbero dato il malocchio a vita. Sul versante del Monte Procinto (anzi, proprio sulla sua cima) di notte si sente uno svolazzare di grossi uccelli neri, sono gli Sputasecchi. Questi strani volatili hanno l'abitudine di posarsi sui rami degli alberi e di sostare lì fino alle ultime ore della notte.
Al povero disgraziato che passa sotto questi rami dove loro si sono posati, può capitare di sentirsi rivelare verità agghiaccianti o segreti terribili. Per evitare questi incontri il viandante di turno può rilevare la loro presenza grazie ad alcune accortezze: a un ramo che si spezza, un sasso che rotola o anche da una stella che sfreccia nel cielo. Questi esseri, così come i gatti streghi, assumono forma umana e si presentano come donne altissime vestite di nero, 
senza capelli e con le braccia lunghe. Sempre ed a proposito di donne esiste la Donna Bodda (metà, appunto donna e metà rospo) vive per lo più nelle acque stagnanti, nonchè dentro le grotte, a patto che li ci siano delle pozze d'acqua. Per non incappare nel pericolo di incontrarla, maggior attenzione deve essere fatta soprattutto sul far della sera o dopo un'abbondante pioggia. Infatti dal pantano e dalle acque ferme e fetide si può udire un gorgoglio strano, da li, come code di serpente, lunghe dita  strisceranno fino ad avvinghiarsi alle gambe del malcapitato. Comunque sia,
 fra gli animali più feroci e orripilanti esiste invece il Serpebue. Il serpebue abita negli anfratti naturali della Tambura, la spaventosa creatura esce di notte per mangiare, la sua preda preferita: la pecora, che può prima catturare e poi trascinare in men che non si dica nella sua tana. Il suo aspetto è simile a quello di un grosso serpente, è perfino dotato di squame che riflettono la luce come tanti specchi ed è proprio per questo è difficile da vedere, il suo avvistamento si rivela come un forte lampo che lo sguardo non può sostenere. Tanto brutto e mostruoso è il suddetto animale, quanto magnifico e bello è il Cerbiatto Bianco delle Apuane. Bianco come la neve, tanto da confondersi con il colore chiaro delle rocce. Molti uomini gli hanno dato la caccia ed un brutto giorno riuscirono anche a ferirlo, il cerbiatto bianco comunque sia riuscì a fuggire. Fu avvistato da questi cacciatori sulla via del loro ritorno a casa 
mentre si curava la ferita ad una sorgente d'acqua. Per molto tempo si è creduto che quella sorgente d'acqua
potesse guarire tutte le malattie. Storia diversa quella di un capretto che vive dalle parti di Chiozza in località "Piana Tagliata". Il
capretto nero , quando batte gli zoccoli per terra fa scintille e se passa di fronte ad una "mestaina" o a una croce l'animale scompare. La creatura che invece è stata più  avvistata nella valle è il Serpente Alato. Nei tempi andati si diceva che uno di loro abitasse alle chiuse del fiume Ania, mentre a Sillicagnana, ormai due secoli fa, il mostro attaccò uno dei membri della famiglia Ferrari. Nella chiesa del paese c'è un quadro dove è raccontata questa scena. La sua presenza fu rilevata anche fra le rocce dei Diaccioni che scendono il Monte Giovo. Infine, ma si potrebbe ancora continuare, voglio chiudere questa lista di animali fantastici con la Chioccia dai pulcini d'oro. La si può notare fra le scoscese pareti del Balzo Nero. Nelle notti di luna
piena fra gli sterpi e i rovi è possibile sentire un chiocciare lento lento accompagnato da un pigolio. E' la chioccia che porta a spasso i suoi pulcini tutti luccicanti d'oro zecchino. Nessuno sa la genesi di questo animale e nemmeno si sa da dove provenga, rimane il fatto che è fortunato colui che riesce a vedere i pulcini prima che la chioccia lo scorga, perchè in quell'istante ci si  ritroverebbe di fronte un bel mucchio di monete d'oro... Storie e fantasie queste che fanno parte di un mondo magico tutto nostro e chissà, forse un giorno questi misteriosi animali si potrebbero incontrare anche noi...


Bibliografia

  • "Storie e leggende della montagna lucchese", di Paolo Fantozzi, edito "Le Lettere", anno 2003
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi, edito "Le Lettere" anno 2013

Garfagnana (anche) terra di confino: dissidenti politici, ebrei e mafiosi...

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Porto Ercole, Favignana, Ponza, Elba, Lipari, Pantelleria. Località
italiane stupende, di vacanza, di mare, divertimento e gioia. Oggi però! Durante gli anni del regime fascista furono luoghi di dolore e sofferenza. Furono infatti dei luoghi cosiddetti di "confino". Ma cos'era il confino? Con questa parola si definiva una misura di prevenzione prevista dall'ordinamento giuridico italiano durante il Regno d'Italia. Questa misura fu già introdotta in Italia fin dai primi anni della sua Unità. La legge Pica del 1863 la definiva "domicilio coatto". Successive modifiche (testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 6 novembre 1926 n° 1848) la cambiarono profondamente trasformandola in "confino di polizia". Dopo la nascita della Repubblica tale legge fu dichiarata incostituzionale, introducendo però una misura simile: il 
"soggiorno obbligato". Naturalmente ognuna di queste modifiche di legge aveva le sue grandi differenze e se ai tempi del regime colpiva soprattutto dissidenti politici, oggi va a punire le associazioni mafiose e i soggetti pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza. Il "massimo splendore" di questa misura di prevenzione fu proprio durante il ventennio fascista, essa infatti mirava a inviare in soggiorno forzato in svariate località italiane tutte quelle persone ritenute socialmente pericolose. In questo caso il confino di epoca fascista si divideva in due tipologie: il confino comune, che colpiva omosessuali, prostitute e tutti quelli che erano nemici della morale pubblica. Esisteva poi il confino politico che
perseguitava tutti coloro che erano avversi e contrari al fascismo, fra questi "confinati" ricordiamo l'ex Presidente della Repubblica Pertini, Antonio Gramsci(fondatore del Partito Comunista Italiano)e gli scrittori Curzio Malaparte e Carlo Levi. Fattostà che la vita per questi malcapitati era tutt'altro che facile, seppur in libertà, nella maggior parte dei casi tutte queste persone venivano isolati dalla vita sociale, privati del loro lavoro, allontanati dalla famiglia e mandati nei posti più sperduti e isolati d'Italia. Si, perchè oltre ai ridenti e solatii luoghi sopra elencati esistevano posti ben più isolati che un isola e fra questi c'era anche la nostra Garfagnana. Pochi sanno che la valle in quel tremendo periodo e anche in tempi recentissimi è stata prima località per confinati politici e poi dopo soggiorno obbligato per esponenti mafiosi... Ma andiamo per gradi e cominciamo allora a raccontare questa storia. La Garfagnana, così come altri luoghi selezionati sulla terraferma secondo il pensiero del M.V.S.N (Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale), era l'ideale per mandare al confino persone socialmente pericolose, era difatti un luogo "isolato", lontano dai confini di stato, lontano dalle principali strade di 
La Milizia Volontaria
collegamento, lontano dai grossi centri urbani, ideale poichè tale milizia riteneva la nostra valle "arretrata nelle condizioni di vita della popolazione e quindi non suscettibile da idee politiche fuorvianti e pericolose, impossibile quindi che ivi si possa covare dissenso politico e intellettuale". Da queste parti non capitarono mai quelli che diventeranno negli anni successivi esponenti politici di spicco, tanto meno vi giunsero personalità famose, ma è indubbio che nel corso di quei tremendi anni una ventina di confinati vi giunsero. I nomi non sono da me saputi, ma dai registri anagrafici comunali del tempo sono bene evidenziate le parole "confinato per motivo politico". Spesso anche gli stessi confinati non rivelavano il loro status, poichè il regime era riuscito a far considerare dalla gente malfattori comuni i confinati per ragioni politiche. Le regole da sottostare per questa povera gente erano dure, severe e rigide. Innanzitutto gli veniva elargita una misera diaria per il sostentamento, ma i Carabinieri dovevano ben vigilare ogni spostamento e guardare bene che non si ritrovassero in luoghi pubblici, per di più in ogni momento poteva capitare un'ispezione dell'alloggio e li veniva perfino vagliato quello che il confinato leggeva. La sua posta poi prima passava dalla censura dei Carabinieri, poi da quella della Milizia e poi (eventualmente)arrivava  nelle mani del destinatario e tutto questo sarebbe continuato per tutta la durata della pena, che poteva variare dal minimo di uno, al massimo di cinque anni (rinnovabili) e a parte casi eccezionali, la popolazione locale non ebbe rapporti di conoscenza con i confinati stessi e, il più delle volte non era nelle condizioni di poterne neppure conoscere l'identità. Caso diverso fu quando nella seconda metà del 1941 a Castelnuovo Garfagnana furono inviati 
dai vertici del Reich tedesco al confino coatto circa settanta ebrei. Uomini, donne e bambini provenienti dalle nazioni dell'Europa Centrale (Austria, Polonia e Ungheria) cacciati dalle 
Una famiglia ebrea di Castelnuovo
loro case e destinati in tutti quei Paesi alleati o occupati dai nazisti. I tedeschi chiamarono questa operazione "Vertrieb", ovvero "la ripartizione". Furono dapprima alloggiati in albergo(Il Globo, il Vittoria e L'Aquila d'Oro), poi si stabilirono presso case di privati che affittavano a loro una o due stanze, altri ancora trovarono sistemazione presso i locali della Fortezza di Mont'Alfonso, altre famiglie erano sparse per Torrite, Via Marconi, Via Farini e altre strade ancora. Nel loro regime d'internamento libero ben presto fraternizzarono con i castelnuovesi che si daranno da fare per aiutarli, così come la stessa Amministrazione Comunale 
cercò in qualche maniera di essere comprensiva, nonostante le restrizioni e i divieti. Si formarono anche amicizie e relazioni e di nascosto (malgrado fosse assolutamente divieto per loro lavorare) qualche ebreo trovò impiego come fotografo, barbiere, sarto, meccanico e disegnatore. Questa povera gente passò 28 mesi nella cittadina garfagnina e ben presto si capì il perchè le autorità tedesche avevano permesso tutta questa fratellanza fra ebrei e popolazione locale. Il 4 dicembre 1943 arrivò l'ordine del OberKommando der Wermatch (il comando supremo delle forze armate tedesche), parlava chiaro: tutti gli ebrei residenti a Castelnuovo il mattino seguente
si dovevano riunire presso la caserma dei Carabinieri locale, destinazione campo di concentramento di Bagni di Lucca e poi trasferimento ad Auschwitz... Passarono poi gli anni, i regimi totalitari scomparvero e il confino di memoria fascista decadde e fu sostituito in età repubblicana dal "soggiorno obbligato". 
Il soggiorno obbligato era un provvedimento giudiziario consistente (proprio come nel caso del confino) nell'obbligo di soggiornare in una località ristretta, stabilita dal tribunale, per un certo periodo di tempo sotto la vigilanza delle forze dell'ordine. Introdotto come misura cautelare dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 soprattutto come misura di contrasto alla mafia in Italia, venne poi abolita per effetto del referendum abrogativo del 1995; nell'ordinamento attuale ci sono disposizioni simili, contenute in varie norme. Comunque sia a parte queste doverose sottigliezze di leggi e decreti rimane il fatto che questo "soggiorno obbligato" era mal digerito dai comuni che dovevano ospitare (come nella maggior parte dei casi) esponenti mafiosi di un certo rilievo, si pensava, e a mio modo di vedere a giusta ragione, che questo fenomeno portasse a una sorta "d'inquinamento" mafioso in una parte d'Italia che fino a quel punto era rimasta fuori da ogni giro malavitoso. Dall'altra parte i vertici della Polizia affermavano che questa misura sarebbe stata opportuna, sarebbe stato uno smacco per il malavitoso perchè: "tutti coloro che vengono inviati al confino ricevono un duro colpo per il loro prestigio" Dati alla mano una delle regioni più interessate da ciò era proprio la Toscana, che dal 1961 al 1972 aveva accolto 228 persone a soggiorno coatto, che rappresentavano oltre il 9% di tutti i soggiornati d'Italia. Le province di Palermo, Reggio Calabria e Trapani stavano saldamente in testa a questa classifica e in Garfagnana fra gli anni '70 e i primissimi anni'80, di questi criminali ce n'erano ben tre, residenti nei comuni di Castiglione, Piazza al Serchio e Minucciano, tutti provenienti dalla provincia di Reggio Calabria e tutti esponenti di un certo spessore della 'Ndrangheta.
Se si vuole forse non era poi questo gran numero, ma ben presto si capì il perchè... Il Ministero dell'Interno si accorse che non era il caso di inviare altri delinquenti nella Valle del Serchio... Già, ce n'erano anche troppi... Difatti la Garfagnana durante gli anni di piombo fu indifferentemente, sia per terroristi di destra che di sinistra, centro di addestramento alla guerriglia e all'uso delle armi. Fra il 1974 e il 1979 la magistratura evidenziò fra interrogatori e intercettazioni varie che proprio la nostra valle era uno dei maggiori centri d'addestramento per il terrorismo italiano, nonchè rifugio e terra di latitanza per i maggiori esponenti dell'eversione armata. 
Probabilmente i primi a ripararsi fra le impervie montagne garfagnine furono i gruppi neo fascisti che avevano alcuni esponenti di spicco proprio nella provincia di Lucca, per di più in Toscana operava la colonna armata legata a Mario Tuti. A queste indagini fra Garfagnana e terrorismo lavorò molto il Procuratore di Firenze Pierluigi Vigna. Capirete bene allora voi il motivo per cui in quegli anni non furono più inviati altri mafiosi in soggiorno obbligato in Garfagnana. Mafiosi (seppure sotto sorveglianza) e terroristi sotto lo stesso tetto potevano creare pericolose alleanze, traffici e chi
sa cosa altro
 ancora. Insomma, questo per dire che sotto i nostri occhi di garfagnini amanti della propria terra, dei suoi paesaggi e delle sue tradizioni, esisteva o esiste (?) un "mondo sommerso", un mondo fatto di misteri, di segreti e di eventi nascosti. Un mondo di cui spesso ignoriamo la sua esistenza.


Bibliografia

  • "La criminalità organizzata in Toscana. Storia, caratteristiche ed evoluzione" di Enzo Ciconte, dicembre 2009, Centro Stampa Giunta Regione Toscana
  • "La Garfagnana tra brigate rosse e gruppi neofascisti durante gli anni di piombo" di Andrea Giannasi da "Il Giornale della Garfagnana" 2 febbraio 2017 
  • "Andare per luoghi di confino" di Anna Foa, editore "Il Mulino" anno 2018
  • "Il confino: come si mettevano fuori gioco gli oppositori" best5.it


Com'era organizzato un comune garfagnino del 1461...

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Nelle nostre piccole realtà di paesini e paesotti vari fatti da poche
anime, il comune, il sindaco e gli amministratori hanno da sempre fatto parte del nostro viver quotidiano. In Garfagnana non siamo certo nè a Milano nè a Roma e il sindaco lo possiamo incontrare (anche) al bar ed esporgli i nostri eventuali problemi senza nemmeno (in alcuni casi) passare per il suo ufficio e così tanto vale per gli altri componenti del consiglio. Questa infatti, dalle nostre parti, è un modo di fare molto diffuso da tempo immemore e tutti (più o meno) sappiamo anche come funziona un'amministrazione comunale, ogni quanto viene eletto un sindaco, cos'è una giunta comunale, cos'è un consiglio comunale e via dicendo. Sappiamo tutte queste cose proprio perchè il comune è l'ente locale a noi più vicino, quello che più ci rappresenta territorialmente e perchè frutto di un elezione diretta. Ma non sempre è stato così. Ad esempio in età napoleonica fu introdotto in Italia un sistema di organizzazione dei poteri di tipo piramidale. Il territorio era difatti ripartito in dipartimenti (la Garfagnana faceva parte di quello delle Alpi Apuane e poi andò a finire in quello del Panaro), in distretti e comuni. Al dipartimento era a capo un prefetto
(nominato dal ministro dell'interno), al distretto sovraintendeva un sotto prefetto e al comune era preposto un sindaco, scelto direttamente dal governo. Negli anni che passavano questo tipo di organizzazione amministrativa piacque, tant'è che dopo la caduta dell'imperatore francese, quando i vecchi ordinamenti monarchici ripresero il potere, tutto questo apparato fu  mantenuto. In età monarchica- sabauda la cosa cambiò, il sindaco inizialmente era nominato con Regio Decreto e doveva essere scelto fra i consiglieri comunali. Solo nel 1889 fu introdotta la sua elezione da parte del suddetto consiglio comunale(scelto tra i suoi membri); la durata del mandato era di quattro anni con possibilità di rielezione. A scompigliare le carte in tavola ci pensò Mussolini e infatti nel ventennio fascista fu introdotta la figura del podestà (l'equivalente del nostro sindaco), un'autorità cosiddetta "monocratica". Gli organi elettivi dei comuni furono soppressi e tutte le funzioni svolte in precedenza dal 
La divisa
di un
podestà
sindaco, dalla giunta comunale e dal consiglio comunale furono trasferite al podestà stesso, che era nominato direttamente dal governo. Il suo incarico durava cinque anni, poteva essere rimosso però in qualsiasi momento dal solo Prefetto, che eventualmente poteva anche riconfermargli la carica per altri cinque anni ancora. Con la caduta del fascismo e della monarchia il nuovo assetto repubblicano riesumò la presenza del sindaco. Il sindaco quindi veniva designato dal consiglio comunale regolarmente eletto dai cittadini. Con la legge del 25 marzo 1993, n°81 venne introdotta l'elezione diretta del sindaco, quella norma che ancora oggi è in vigore e che tutti conosciamo. Certo le cose erano ben diverse secoli e secoli fa e credo di far cosa gradita e a dir poco curiosa al mio lettore spiegando e illustrando la struttura amministrativa e le figure di un comune del 1461. Esisteva un sindaco? Com'era composto quello che oggi si direbbe un consiglio comunale?. Guardiamo allora com'era organizzato un comune garfagnino di 560 anni fa. Per chiarire ciò partiamo però da molto prima, ed esaminiamo in particolare quella che era la struttura amministrativa di Gallicano. Anno di Grazia 1342, la Garfagnana e la Valle del Serchio erano ormai da molto tempo terre di conquista per pisani, fiorentini, modenesi e chi più ne ha più ne metta. In quel preciso anno (il 4 luglio per l'esattezza), Lucca si arrese a Pisa, con questa resa la città della pantera si consegnò di fatto nelle mani dei suoi avversari: Pisa e Firenze. Nonostante ciò la guerra fra queste due città perdurò fino a che un bel giorno la pace sbocciò. Nel trattato di non belligeranza (fra le altre cose)fu sancito che anche i territori sotto l'influenza di Lucca  passassero sotto il dominio di Pisa. Gallicano quindi diventò pisana, in compenso, proprio per contrastare il dominio fiorentino di Barga, il paese nel 1343 venne nominato Vicaria, ossia, quello che in pratica oggi si direbbe un comune. Il territorio gallicanese era vastissimo e comprendeva:
Cardoso, Valico Sopra, Valico Sotto, Bolognana, Verni, Trassilico, Vergemoli, Calomini, Brucciano, Molazzana, Montaltissimo, Perpoli, Fiattone, Cascio, Riana, Treppignana e Lupinaia. Gli anni passavano e nelle seguenti e bellicose vicende storiche Gallicano tornerà sotto Lucca mantenendo comunque sia il titolo di Vicaria con a capo un vero proprio Vicario (ovvero l'odierno sindaco). Guardiamo però cos'era nello specifico una Vicaria. Nel 1460 il territorio di Lucca era diviso in Contado, tale Contado a sua volta era suddiviso in Vicarie. La Vicaria era un unità territoriale che, sotto il diretto controllo dell'autorità centrale (in questo caso Lucca), svolgeva un ruolo ispirato ad ampi principi di autonomia in materia di gestione amministrativa. A capo, come detto, c'era il Vicario che era delegato tale dal governo centrale, aveva l'onere dell'amministrazione della giustizia per la quale operava in linea immediata, senza alcun intervento di chicchessia. Dall'altro canto la gestione delle altre altre attività amministrative dovevano essere discusse ed approvate dai vari consigli interni. A Gallicano esisteva infatti un Parlamento Generale (una sorta di giunta comunale) che era legato direttamente alla persona del Vicario, il quale aveva la
facoltà di autorizzarne le convocazioni. A sua volta, al Parlamento Generale, spettava la nomina del Consiglio Generale
(una sorta di consiglio comunale). Questa nomina avveniva due volte, nei mesi di giugno e di dicembre di ogni anno, il Parlamento sceglieva così i sei uomini che avrebbero fatto parte del Consiglio Generale, a sua volta questi sei uomini insieme a due capitani e al Vicario stesso ne nominavano altri dieci (il cosiddetto Consiglio dei Dieci) che insieme ai sopracitati capitani avevano potere di "auctorità et potestà et jurisdittione". Il Consiglio Generale aveva poi capacità di procedere autonomamente all'assegnazione dei proventi del Comune, in collaborazione con i "Sindici". La convocazione del Consiglio Generale avveniva per "comandamento" del Vicario e dei Capitani a seguito del suono della campana e su richiesta del Messo. Le riunioni avevano validità purché fosse stata registrata la presenza di almeno tre quarti degli aventi diritto. Le votazioni avevano luogo a scrutinio segreto usando le fave o le pallottole, ed i consiglieri (fra cui non dovevano esistere particolari rapporti di parentela), al termine del loro mandato dovevano rimanere senza
Antica urna per votazioni
nessun'altro incarico per almeno un anno
Il Parlamento Generale era regolamentato con le medesime norme del Consiglio Generale. Vediamo però nel particolare le specifiche cariche che facevano parte di questi consigli e vediamo (dov'è possibile) di fare un parallelo con quelle attuali. Come già detto in precedenza la figura del Vicario era la figura principale, il sindaco odierno per capirsi, per importanza subito a ruota venivano i Capitani (in una sorta di sindaci aggiunti) i quali avevano una vera e propria funzione governativa, essi erano in due, rimanevano in carica tre mesi e si occupavano della gestione complessiva del comune: eseguivano deliberazioni consiliari, convocavano i vari consigli, imponevano condanne e si occupavano della riscossione delle imposte. La loro elezione era per mano del suddetto Consiglio dei Dieci che nel mese di dicembre di ogni anno provvedeva alla scelta degli otto nominativi al fine di coprire la necessità di tale carica per ogni trimestre a venire. L'elezione di questi avveniva in maniera a dir poco curiosa e singolare, infatti si procedeva a sorte fra i componenti del Parlamento Generale: "et scrivinsi li nomi lor in nelli brevi, cioè du nomi per cischedun breve et li ditti brevi si mettino in un sachetto o vero borsa apresso messer lo Vicario". I prescelti dovevano accettare, il rifiuto senza giusta causa  comportava la multa di un fiorino. Un'altra carica molto importante era quella dei "Sindici" che avevano una funzione piuttosto delicata e di notevole rilievo. Il loro compito basilare era quello di comparire davanti alle autorità (ai Signori Anziani del Governo di Lucca, al podestà della medesima città, al Vicario) e ogni qualvolta fossero stati chiamati: "et a risponder a ciascun giuramenti". La carica era svolta da due persone che venivano elette due volte l'anno (giugno e settembre).La delicatezza di questa funzione era tale che i Sindici concluso il loro semestre di attività non potevano essere rieletti alla solita funzione se non dopo un periodo di tre anni. Ruolo simile ma non uguale era quello degli "Imbasciatori", questo 
Ambasciatori
incarico aveva una breve durata nel tempo e difatti si protraeva giustappunto il tempo di due tre giorni, o per il periodo per svolgere la rappresentanza della Vicaria presso altre vicarie. Nonostante che il compito fosse di breve durata le persone che lo svolgevano avevano una posizione di un certo prestigio e venivano anch'esse scelte dai Capitani e dal Consiglio dei Dieci. Finito il suo mandato "l'imbasciatore" tornava ad essere un semplice cittadino. Quella che oggi invece si definisce la figura del segretario comunale, al tempo era ricoperta dal "Notaro", un funzionario di massimo rilievo che di fatto assisteva a tutte le attività della Comunità, da quelle legislative, a quelle di governo, da quelle amministrative per finire a quelle prettamente burocratiche. Differenza sostanziale con il l'incarico attuale è che al tempo il Notaro (per disposizione di legge) si spartiva gli introiti delle condanne imposte dallo Statuto con il Vicario, assegnando a lui un terzo delle medesime e trattenendo per sè i due
Il Notaro
terzi...  Qualora però si fosse comportato in maniera fraudolenta o indegna, al termine del suo mandato sarebbe incorso in una penale di dieci fiorini d'oro. Naturalmente non poteva mancare poi tutta la parte che riguardava la sicurezza di un comune, proprio per questo esistevano una serie infinita di guardie e guardiani vari, esattamente(più o meno) come oggi esistono i vigili urbani. C'erano allora le guardie adibite alla sorveglianza delle mura castellane. Fare la guardia era un obbligo per tutti gli abitanti maschi a partire dai quattordici anni d'età. Discorso diverso per i "Guardiani", essi erano tenuti:"ad andare alla guardia dello territorio dello Comune di Gallicano, et lo ditto territorio guardare et tutti così bestie come huomini o li quale trovasse a far danno denunsiare allo notaio et alli Capitani". C'era poi un altro guardiano, ossia il "Guardiano Forestieri", in pratica questo guardiano vigilava sugli altri guardiani, infatti questa figura era diciamo così un personaggio "super partes", poichè essendo "forestiero" non aveva rapporti di amicizia o di parentela con gli abitanti del borgo, poteva garantire così una maggiore severità nell'imposizione di multe o nella rilevazione di eventuali danni. Tutt'altro tipo di guardiano quello conosciuto come "Guardiano delli libri", tale personalità veniva scelta tra individui di buona fama e di buona condizione, aveva l'incarico di conservare "tutti li libri, scripture et tutte le ragioni et privilegi et lo sugello (n.d.r: il sigillo) del dicto Comune". Veniva perciò affidato a lui la custodia
di tutto l'archivio comunale, questo archivio poteva essere consultato solo chi avesse avuto espressa licenza dai Capitani. Altro carica importante era ricoperta "dall'Officiale sopra le vie, ponti et fonti", questa specie di assessorato ai lavori pubblici doveva provvedere alla manutenzione di tutte le infrastrutture presenti nel comune. Il ruolo era svolto da diverse persone che avevano il potere di incaricare qualsiasi cittadino per prestare opera e aiuto per ripristinare o aggiustare strade, ponti e qualsiasi altra cosa necessaria per mantenere il decoro urbano. Fra i cittadini inosservanti a tale chiamata si disponeva una multa salatissima. Concludendo possiamo dire che così era costituita la 
struttura amministrativa di Gallicano. Con alcune differenze tale organizzazione era molto simile negli altri comuni della Garfagnana. Rimaneva comunque il fatto che una sola regola (o meglio una legge) valeva per tutti i comuni della valle, difatti la durata di un mandato elettivo come si è potuto notare aveva una durata molto limitata nel tempo, al massimo un incarico poteva perdurare un anno, in molti casi alcuni mesi e in altri ancora
addirittura pochi giorni, tutto questo perchè si credeva che avere un ricambio frequente di persone in mansione pubbliche e in ruoli cosiddetti strategici evitasse accordi, vantaggi e favoritismi vari per se e verso gli altri. Insomma si cercava di sottrare le persone a quello che oggi è un malcostume dei più noti... l'attaccamento alla poltrona...


Bibliografia

  • Archivio storico Comune di Gallicano
  • Archivi Storici Comunali Italia


Quando in Garfagnana il funerale misurava la scala sociale...

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I sociologi la chiamano "stratificazione sociale", questa brutto e
specialistico termine indica semplicemente la cosiddetta "scala sociale" che non è altro, sempre parlando in termini tecnici, lo strato sociale calcolato in base alla ricchezza, al potere e al prestigio dell'individuo. Le classi sociali sono sempre esistite, ma man mano 
che la società si dirigeva verso un'era consumistica queste due parole assunsero il segno visibile della condizione economico sociale di una persona. Vance Packard nel suo libro del 1955 "The status seekers" (n.d.r: i cercatori di status)sottolineava questo fatto e aggiungeva che il possedere alcuni oggetti metteva in risalto l'appartenenza ad un determinato gradino di questa scala sociale. Ecco allora nascere i famosi "Status symbol" e se negli anni '60 lo "status symbol" era avere una televisione in casa, nei decenni a venire le cose cambiarono; negli anni '70 per le signore la pelliccia era una vera e propria icona, negli anni'80 imperava la moda e le scarpe della Timberland erano un "must", negli anni '90 i celeberrimi orologi della Swatch erano al polso di tantissime persone, arrivò poi l'era del telefonino e degli attuali smartphone della Apple che sono l'emblema dei nostri anni. Ma una volta esistevano questi marcatori di scala sociale? Direi che le esigenze erano altre, veri e propri oggetti di culto non esistevano, le condizioni economiche erano misere soprattutto in Garfagnana, dove il pensiero principale per molti era quello di mettere un tozzo di pane sul tavolo, se si vuole  solo le signore altolocate del tempo si potevano permettere qualche sfizio legato alle mode dei primi anni del 1900, forse un capellino particolare da sfoggiare per le feste paesane, un vestito fatto con stoffa pregiata comprata a Lucca, poco altro comunque... In barba però a qualsiasi condizione sociale che uno avesse esisteva un evento in cui tutti volevano fare bella figura e in cui si cercava di dare il meglio delle proprie tasche:... il funerale di un congiunto. Il funerale era bene o male un vero e proprio momento di aggregazione, uno dei pochi direi, quindi non bisogna mostrarsi troppo restii davanti alla gente... Detto ciò vi potete immaginare cosa implicava un rito funebre.
Fin 
dalle prime ore di lutto, nella piccola vita di un paese garfagnino anche il dolore era motivo di condivisione. Quando la gente ancora moriva in casa, la morte non era una livella (come diceva Totò nella sua celebre poesia) e anche se al tempo l'espressione non esisteva la morte diventava un vero e proprio misuratore di scala sociale. Usi e consuetudini scandivano i riti funebri marcando le differenze fin dalle prime ore di lutto. “Il marchese” e “o scupatore”, del grande Totò, non sono personaggi nati per caso. Nei nostri paesi il lutto era un evento abbastanza condiviso. Più che dal passaparola o dai manifesti funebri, l’annuncio veniva dato da un drappo nero. Adornava il portoncino d’ingresso e scendeva sui due lati. Era il primo triste messaggio di lutto alla comunità. Di norma quel lembo di stoffa era semplice e sventolante ma poteva essere anche drappeggiato, fermato con cordoncini e nappe dorate. E non era solo un problema di spesa. All’apparire del drappo, partiva il passaparola e iniziava il silenzioso via vai di gente per rendere omaggio al defunto. Del lutto era partecipe la comunità e la porta di casa rimaneva accostata. Era inimmaginabile che qualcuno della
famiglia, più che al dolore, dovesse pensare ad aprire e chiudere porte. 
Le tende alle finestre e ai balconi restavano chiuse per lasciare la casa in penombra. La luce e il sole sono segni di vita, incompatibili lì dove una vita si era appena spenta. La scelta della stanza funebre coincideva in genere con la camera da letto, illuminata da qualche fioca abat-jour e dalle fiammelle fumose e tremolanti delle candele accanto al letto. Gli specchi venivano coperti con teli neri, come si usava fare da generazioni anche se nessuno sapeva perché. Di certo evitavano lugubri riflessi o vanitose distrazioni. Quando si prevedeva che un gran numero di persone avrebbe reso omaggio alla salma, si sceglieva la camera più grande della casa e, scostati i mobili, la si faceva addobbare con paramenti, tappeti, coperte broccate e candelabri dorati. L’aria si saturava presto col profumo dei fiori e della cera ardente. Il religioso silenzio ero rotto solo dal pianto dei familiari e dalla nenia delle donnine in nero che recitavano il rosario sottovoce, scorrendo fra le dita i grani del rosario. L’arrivo delle suore era segno di rispetto per famiglie molto religiose o molto benefattrici. In qualche casa appariva il registro dei visitatori, destinato alla firma o a qualche affettuoso ricordo. Era il segno che distingueva i defunti più in vista. Nato per inviare i ringraziamenti agli intervenuti senza dimenticare nessuno, in realtà era utile per vedere non solo i presenti ma anche gli assenti. Prima che fosse sostituito da apposite automobili furgonate, il carro funebre, seguito da parenti ed amici a piedi, era davvero un carro in legno, imponente, con cocchiere e cavalli e
quello era il vero segno visivo di appartenenza ad una determinata classe sociale. Il numero dei cavalli variava a seconda del livello del funerale, di prima, seconda o terza classe. Variava anche la spesa (nel 1893 un funerale di Ia classe poteva costare anche 100 lire !!!) e in base a ciò cambiava naturalmente la sontuosità della carrozza e il numero dei cavalli. La carrozza di prima classe, scelta per prestigio e massima visibilità, era arricchita da colonnine, capitelli dorati e ganci per i cuscini di fiori. Aveva il cocchiere, con la livrea nera piena di bottoni dorati, e i cavalli, due o quattro, bardati con finimenti di lusso. Nel funerale di II, quello forse più accessibile a tutti, gli addobbi erano meno sontuosi, i cavalli (due e non di più) erano parzialmente bardati a lutto e con altri finimenti rispetto ai funerali più lussuosi, i pennacchi neri sulla carrozza erano solamente due e il cocchiere per il funerale di seconda era vestito semplicemente di nero. Per quello di terza classe non erano previsti
addobbi, i cavalli erano sempre due e 
tutto era al quanto spartano e semplice. Rimane il fatto che questi cavalli procedevano con andatura lenta e solenne e, nel silenzio della strada, si sentiva solo la preghiera del sacerdote e il tonfo e ritonfo degli zoccoli che risuonavano sul selciato. Il corteo era preceduto dalla sfilata delle corone. La quantità di corone era proporzionale all’importanza del defunto o al cordoglio della comunità per la sua scomparsa. Erano portate a mano, una dietro l’altra, da amici e volontari. A volte, per qualche funerale eccellente, partecipava anche la banda musicale, che si collocava in genere davanti al carro. I musicanti in divisa procedevano inquadrati, assorti nei loro pensieri. A un segno del capobanda approntavano gli strumenti e partivano struggenti marce funebri. Usi, costumi e tradizioni di un passato lontano quando la vita nella piccola comunità garfagnina di paese significava condividere gioie e dolori. L'unica certezza per tutti era che il misterioso viaggio per l’aldilà era sicuramente in classe unica e così diventa più vera l’amara saggezza di Totò: 

"Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo,

trasenno stu canciello ha fatt'o punto

c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme:

tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,

suppuorteme vicino-che te 'mporta?

Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:

nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"

"Un re, un magistrato, un grande uomo quando passano questo cancello hanno perso tutto, la vita e anche il nome, tu a questo non hai ancora pensato? Perciò stammi a sentire non essere restio, sopportami, che te ne importa? Queste pagliacciate le fanno solo i vivi, noi siamo seri... apparteniamo alla morte!"

Garfagnana: terra di lupi, briganti e... di preti. Vescovi, cardinali, esimi letterati e un quasi Papa

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Una volta si diceva che la Garfagnana era terra di lupi e di
briganti e io aggiungerei anche di preti... A questa affermazione corrisponde una ragione storica che non ha nulla a che vedere con un qualcosa di divino, non siamo stati e mai lo saremo una sorta di "terra promessa" scelta da Dio, da dove pescare anime pure e candide per diffondere la parola del Vangelo al mondo... Tutt'altro... Nei secoli scorsi in Garfagnana si sceglieva di fare il prete non solo per vocazione, ma per mestiere, avere un prete in famiglia era un risollevarsi dalla miseria quotidiana, avrebbe portato denaro e prestigio all'interno del proprio focolare domestico. Succedeva infatti che anche le famiglie garfagnine più povere spesso investivano tutti i propri averi sul figlio maschio dotato (fra tutti gli altri fratelli)di un intelletto un po' più spiccato. Si decideva allora di farlo studiare nei seminari di Massa e Castelnuovo nella speranza di vederlo tornare a capo di qualche parrocchia locale. Lo sappiamo bene che nei tempi andati le esimie personalità dei nostri paesetti erano il sindaco, il maresciallo dei carabinieri, il dottore e il prete... Difatti da censimenti fatti
nei tempi passati risulta che la maggioranza dei sacerdoti locali non veniva dalle famiglie abbienti, da li uscivano avvocati, medici e professionisti vari, dalle famiglie povere si generavano contadini e se quei figli non diventavano contadini sarebbero divenuti con buona probabilità dei preti. Questo fenomeno non fu un fenomeno temporaneo ma nacque secoli e secoli fa, fra tutti questi ci fu una moltitudine di preti locali che lasciarono il segno 
"solamente" nelle proprie parrocchie e di cui purtroppo talvolta non sono giunte notizie, ai posteri infatti sono arrivate informazioni su quegli illustri garfagnini diventate personalità all'interno della chiesa cattolica romana: vescovi, cardinali, dotti sacerdoti letterati e perfino un quasi... Papa. Guardiamo allora chi erano e partiamo dal lontano XV secolo. Se non il primo (in ordine di tempo) Nicola Sandonnini fu tra i primi prelati d'alto rango di marca garfagnina. L'illuminato (futuro) principe della chiesa nacque a Piazza al Serchio nel 1422, le sue prime notizie lo danno a Roma nella figura di segretario di Papa Paolo II. Riconosciute le sue doti il Papa lo nominò a soli 39 anni vescovo di Modena. La sua nomina però fu osteggiata dal duca modenese Borso d'Este che si oppose all'ingresso nell'arcivescovato per i pessimi rapporti fra Modena e la Repubblica di Lucca. Le minacce papali d'interdire Modena dai divini uffici fecero cambiare idea al regnante estense e 
Borso d'Este
dopo cinque anni di dissidi il Sandonnini prese possesso della diocesi. Abilissimo nell'arte della diplomazia svolse delicati incarichi per svariati papi. Non si dimenticò nemmeno della sua terra natia,  dove fece costruire la chiesa parrocchiale  nella quale si trova la lapide che lo ricorda. Alla sua morte nel 1499, al suo funerale erano presenti principi e re venuti da ogni dove, fra i presenti Ferdinando Re di Napoli. Non solo il Sandonnini, Modena fra le sue braccia accolse anche Pellegrino Bertacchi nato a Camporgiano nel 1567. Nominato prete giovanissimo nel 1610 divenne vescovo di Modena. Innamorato della sua terra, prima dell'insediamento nella citta emiliana ottenne il permesso dal Papa di celebrare la sua prima funzione da vescovo nel duomo di Castelnuovo. In quei due giorni che rimase nella cittadina garfagnina prima di raggiungere Modena amministrò il sacramento della Cresima a cinquemila fanciulli. A Modena venne accolto con altrettanto entusiasmo. Prese possesso così del suo alto mandato e si fece subito notare per le sue severe regole riguardanti il clero: si proibiva ai prelati il gioco delle carte e il possesso di qualsiasi arma. Unico suo neo, così si diceva, il canto ecclesiale, si racconta che fosse stonato come una campana . Mori nel 1627, le sue spoglie sono sepolte nella cattedrale di Modena. Questa invece è la storia del quasi Papa. 
Lui era Pietro Campori nato a Castelnuovo Garfagnana nel 1553.Pietro era un passo avanti a tutti i suoi coetanei, tant'è che si credette utile mandarlo a studiare a Lucca gli studi classici  e poi successivamente a Pisa dove ottenne la laurea in utroque (n.d.r: laurea che veniva conferita nelle prime università europee che indica i dottori laureati in diritto civile e in diritto canonico). Per uno con le sue capacità intellettive all'epoca una delle poche strade percorribili era dedicarsi al sacerdozio e così vocazione fu. Infatti fu una mirabolante escalation la sua, salì in maniera veloce tutti i gradini ecclesiastici, fino a sfiorare alla morte di Papa Paolo V, nel 1621, l'elezione a Sommo Pontefice. Ma andiamo per gradi
Pietro Campori
e cerchiamo di raccontare in maniera piuttosto breve come andarono le cose. Pietro giunto a Roma assunse una posizione influente nella potentissima famiglia Borghese, che già al soglio pontificio aveva un proprio componente, Paolo V (al secolo Camillo Borghese).Alla corte dei Borghese, il Campori assunse in un primo tempo la segreteria personale del cardinal 
Scipione Borghese, poi divenne  maggiordomo e con tale qualifica non solo ebbe conoscenza di tutti gli affari dei Borghese, ma addirittura assunse la gestione dei loro traffici. Era diventato il personaggio più importante di tutto l'entourage della famiglia. Le onorificenze per Pietro Campori si sprecavano, compreso il giorno in cui Papa Paolo V, il 19 settembre 1616, lo elevò alla porpora cardinalizia (si riferisce di ricchi omaggi al nuovo cardinale da Modena, Castelnuovo e Lucca).Arrivò poi il giorno (28 gennaio 1621) che Paolo V morì e qui si aprì una lotta fra famiglie per portare Papa un proprio rappresentante. Già il defunto Papa aveva fatto capire che il Campori doveva (e sottolineo doveva) essere eletto Papa, addirittura si credette che inizialmente il cardinale garfagnino avesse forze sufficienti per essere eletto per adorazione (n.d.r: senza votazioni) ma l'altrettanto influente famiglia Orsini mise il bastone fra le ruote. Il cardinale Orsini procedette energicamente a radunare un partito per l'esclusione di Campori, poteva contare su alcuni cardinali importanti e sull'appoggio dei rappresentanti di Francia e Venezia. Mentre Pietro poteva contare sugli ambasciatori di Spagna e Toscana. La cosa poi degenerò, si rincorsero voci gravissime contro il Campori che lo dipingevano uomo indegno, macchiato di gravi peccati giovanili e si disse addirittura che avrebbe comprato i voti dei cardinali d'Este, dandogli in cambio, una volta Papa, la restituzione del ducato di Ferrara. Comunque sia alla chiusura della porta del conclave la situazione era totalmente incerta. Per soli tre voti Pietro Campori non diventò Papa e così solo dopo un giorno di conclave Alessandro Ludovisi con il nome di Gregorio XV salì sulla cattedra di Pietro con buona pace di tutti. Ci furono poi quei prelati che dedicarono la loro carriera ecclesiale non alla scalata al potere, ma bensì all'intelletto e alla cultura, Don Domenico Pacchi ne è il classico esempio. Nacque a Villa Collemandina il 16 dicembre 1733. Rimasto da bambino orfano di padre, fu affidato alle cure dello zio Michelangelo Pacchi parroco a Molazzana, sotto la sua ala protettrice lo zio insegnò al piccolo il latino (a otto anni lo scriveva già correttamente). Insomma il piccolo Domenico era dotato di
un'intelligenza acutissima, tant'è che dapprima (a soli 15 anni) fu mandato a Firenze per approfondire gli studi e poi a Bologna dove si perfezionò in teologia e in filosofia. A 24 anni era già di ritorno in Garfagnana, venne ordinato sacerdote nel duomo di Castelnuovo. Numerose le opere da lui scritte fra tutte rimarrà la più famosa: "Ricerche historiche sulla provincia di Garfagnana", pietra miliare per chiunque s'interessi di storia locale. L'ultima sua ultima opera delle già 600 scritte la pubblicò ormai ottantanovenne. Mori a 92 anni nel 1825. E, se così come abbiamo letto, il Pacchi eccelleva nella scrittura, Monsignor Bartolomeo Grassi spiccava nella musica. Bartolomeo nacque nel 1846 alla Villetta (San Romano) i titoli a lui conferiti nel corso della sua carriera ecclesiale furono molteplici: Cameriere d'Onore di Sua Santità, Canonico di Santa Maria Maggiore ad Martyires, socio dell'Accademia Pontificia dei nuovi lincei, ablegato apostolico del cardinale Place arcivescovo di Rennes, decorato della Legion d'Onore in Francia e dell'Ordine di Leopoldo del Belgio. Ma la sua vera passione era la musica, anche questa passione venne nobilitata da altrettanti riconoscimenti, conquistando nel 1881 il Gran Premio di Milano, nel 1885 ad Anversa durante l'esposizione universale gli venne conferita la massima riconoscenza per l'insegnamento musicale. Ma il fiore all'occhiello fu una sua invenzione di una nuova tastiera cromatica e di un nuovo sistema di scrittura degli spartiti. Morì nel 1904 a soli 58 anni in un drammatico incidente durante i lavori di restauro della chiesa della Villetta. C'è anche chi fu amico di poeti, e che poeti! Di lui scrisse Giovanni Pascoli: "Mi ha scritto monsignor Sarti, dicendomi che, quando morirò, Gesù mi verrà incontro a braccia aperte". Andrea Sarti vescovo di Guastalla nacque a Rontano e morì durante la prima guerra mondiale. Molte persone invece si ricorderanno ancora del Cardinal Paolo Bertoli, nato a Poggio di Garfagnana nel 1908, l'alto prelato fu un vero giramondo, un vero e proprio globe trotters della chiesa cattolica. A ventitrè anni fu ordinato sacerdote e tre anni dopo lo troviamo già segretario della Nunziatura apostolica di Belgrado. Sarà l'inizio di un lungo peregrinare per tutti i paesi del mondo. Nel 1942 arrivò a Parigi dove strinse importanti conoscenze, alcuni anni dopo trovò incarico come addetto agli Affari Esteri ad Haiti, poi messaggero di Pace in Svizzera. Nel 1952
Cardinale 
Paolo Bertoli
 delegato pontificio in Turchia, l'anno seguente si insediò in Colombia per seguire da vicino lo sviluppo religioso della nazione. Lì rimase sei anni, lo ritroviamo nel 1959 in Libia come Nunzio Apostolico, dopodichè gli fu conferita la prestigiosa Nunziatura di Parigi. Il 1969 fu l'anno della nomina a cardinale, concessa da Paolo VI, successivamente fu investito del mandato di Prefetto della Congregazione dei Santi e Camerlengo di Santa Romana Chiesa. Alla morte di Paolo VI si parlò anche di una sua probabile elezione a Sommo Pontefice. Morì a 93 anni nel 2001. Per ultimo ecco Don Antonio Fiorani, il classico prete di campagna, portato d'esempio per tutti quei sacerdoti che rinunciarono a qualsiasi carriera per rimanere legati alla propria terra e alla propria gente. Antonio Fiorani nacque a Casatico nel 1876, poeta, commediografo, un personaggio celebre, le cui opere hanno interessato i maggiori intellettuali e critici nazionali. Nato da genitori contadini fu ordinato sacerdote agli inizi del secolo e inviato a Vergemoli dove rimase per per ben 40 anni. La sua fu una sorta di missione in quel piccolo paese che era privo di conoscenza delle più elementari cognizioni di cultura, dovute in buona parte all'isolamento geografico. Negli anni successivi fu chiamato come insegnante di latino e italiano nel seminario di Castelnuovo, rifiutò di trasferirsi in sede preferendo compiere per tre volte alla settimana, per ben 19 anni, una ventina di chilometri a piedi pur di rimanere a Vergemoli. Il destino lasciò un segno indelebile nella storia del piccolo borgo: Don Antonio arrivò nel paese il 17 giugno 1900 e lì vi morì il 17 giugno 1940. L'articolo poi potrebbe continuare ancora, molti altri preti locali lasciarono il segno del loro passaggio e non esiste un paese in Garfagnana che qualcuno non ricordi il prete di una volta...

Bibliografia

  • "Profili di uomini illustri della Valle del Serchio e della Garfagnana" di Giulio Simonini, Comunità Montana della Garfagnan, Banca dell'Identità e della Memoria, anno 2009   

Il mistero del passaggio di Annibale e del suo elefante sugli Appennini: Garfagnana? Val di Luce? Passo della Porretta? O chissà dove...

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 E' bene essere subito chiari, tutte le teorie che il mio caro
lettore leggerà in questo articolo saranno frutto di supposizioni, ipotesi e presupposizioni. Niente di quello che leggerete è avvalorato da fonti storiche certe o da documenti che convalidino le tesi in questione. Spieghiamo meglio però. In Italia e in tutto il mondo in genere esistono luoghi dove sono accaduti fatti storici di una certa rilevanza di cui però non si conosce l'esatta ubicazione, fattostà che di questi accadimenti, in mancanza di fonti certe, un po' tutti cercano di accaparrarsi la teoria di questo o quello studioso per determinare che lì, in quella precisa zona è accaduto questo o quel fatto. Di solito(quasi sempre direi) succede per avvenimenti storici antichissimi e nella Valle del Serchio di questi casi ne abbiamo addirittura due. Di uno ebbi già occasione di raccontare e narrava le vicende riguardanti la clamorosa sconfitta nel 186 a.C di Quinto Marcio Filippo e delle sue legioni romane contro gli indomiti Apuani. La scontro passò alla storia come la battaglia del "Saltus Marcius". Ma questo "Saltus Marcius" dov'era? Alcuni storici sostenevano che
si trovasse in Versilia nei pressi di Pontestazzemese, altri dicevano che in realtà poteva essere proprio a Marciaso (frazione del comune di Fosdinovo), altri ancora invece 
asserivano che il fattaccio accadde al "Marcione", località poco distante da Castiglione Garfagnana. Insomma, come vedete siamo proprio nel campo delle più svariate congetture, questo però non vuol dire che una delle teorie presupposte sia errata, ci mancherebbe altro, perciò anche le opinioni sull'impresa che andrò a raccontarvi meritano di essere esposte, poichè, anche se non certe, qualche studioso prima di me ha creduto che quella fosse la cosa giusta da asserire. La storia in questione tira in ballo nientepopodimeno che Annibale Barca, il condottiero cartaginese (definito da molti "il più grande generale dell'antichità") e l'ormai celeberrima spedizione di guerra che vide marciare verso Roma centomila soldati e trentasette elefanti. Ebbene, a tutti è noto il fatto dell'attraversamento delle Alpi da parte di Annibale, ma quando al valoroso, nonchè (sottolineerei) coraggioso condottiero gli toccò oltrepassare gli Appennini, da dove passò? Ecco qua che indirettamente, o forse direttamente, entrare in ballo la Valle del Serchio. Prima però di affrontare "il giallo" dell'attraversamento appenninico di Annibale e del suo elefante è doveroso illustrare brevemente l'antefatto che portò il cartaginese ad affrontare questa epica impresa. Quando (tanto tempo fa...) frequentavo la scuola, studiare le guerre puniche era di una noia unica, sarà stato perchè la voglia di applicarsi era poca e forse anche perchè tali vicende erano esposte in qualche maniera dal professore di turno, fattostà che rileggendo oggi quei fatti tutto assume un altro sapore e un
altro interesse. Eravamo infatti nel maggio dell'anno 218 a.C quando proprio agli inizi della seconda guerra punica Annibale lasciò la penisola iberica per puntare direttamente su Roma con 90.000 fanti, 12.000 cavalieri e 37 elefanti. Le cause belliche che spinsero a questa ardita guerra furono essenzialmente tre: 
lo spirito di rivalsa del padre di Annibale, che da bambino gli aveva fatto giurare di fronte agli Dei odio eterno a Roma, l'onta subita dai cartaginesi per la perdita della Sardegna e della Corsica e l'esaltazione per i numerosi successi in terra iberica delle armate africaneIn ogni caso l'attraversamento delle Alpi avvenne verso la fine del 218 a.C; il freddo e la fatica però si fecero sentire penalizzando fortemente uomini e animali, nonostante tutto e con mille sforzi gli indomiti guerrieri raggiunsero la Pianura Padana prima che le nevi bloccassero i passi. Annibale arrivò così in Italia dopo una ventina di giorni di aspri combattimenti con le popolazioni montanare, il risultato di tutto questo tribolo fu pagato a caro prezzo, dato che gli rimasero a sua disposizione "solo" 20.000 fanti e 6.000 cavalieri, con questi uomini nella primavera del 217 a.C il condottiero cartaginese decise malgrado ciò di continuare la spedizione. Oramai però di quei 37 elefanti da guerra il rigido inverno ne aveva uccisi 36 e quando fu deciso di valicare gli Appennini un solo elefante era rimasto vivo, l'animale si chiamava "Surus" ed era l'elefante personale di
Annibale rappresentato
sopra il suo elefante
 Annibale, il povero bestione anch'esso provato morì (come ricordò lo storico greco Polibio) proprio nel discendere queste montagne. In conclusione le perdite subite furono molte per l'esercito cartaginese, bisognava quindi oltrepassare l'Appennino nella maniera più indolore possibile. La scelta del luogo diventava quindi fondamentale per le sorti belliche. Questo fantomatico posto nei millenni e nei secoli che trascorrevano ha colpito molto l'immaginario collettivo, basta vedere solamente la toponomastica italiana, la penisola italiana è piena di ponti di Annibale, passi di Annibale e strade di Annibale, quasi come se ognuno volesse far parte di quella leggendaria impresa, rimane il fatto che sapere da dove i cartaginesi oltrepassarono l'Appennino (e anche le Alpi) rimane un mistero. Di ipotesi accreditabili ce ne sono alcune: una vuole che questo esercito fosse sceso dal Mugello e che avesse attraversato il fiume Sieve, un'altra dice che il passo di Collina presso Porretta fosse il posto giusto, di li raggiungere la piana pistoiese sarebbe stato piuttosto agevole, le altre due tirano in ballo anche le nostre terre. Ci sono infatti studiosi che indicano Foce a Giovo come luogo esatto, di li l'esercito sarebbe sceso nel fondovalle della Valle del Serchio e avrebbe raggiunto Lucca. La più accredita fra queste eventualità rimane però la località oggi propriamente conosciuta come "Passo D'Annibale", il valico a quei tempi era un passaggio già conosciuto e rodato dalle popolazioni
Il passo di Annibale
presso Val di Luce
locali, in più questo cammino offriva alternative viarie diverse e di difficile individuazione da parte di eventuali nemici e in effetti ancora oggi è così, questo passaggio ai giorni nostri è meta di escursionisti e amanti della montagna, si trova a 1798 metri d'altezza e collega le provincie di Modena e Pistoia, da li si domina tutta la Val di Luce, la vista è mozzafiato, si può ammirare il Monte Rondinaio e il Monte Giovo, da qui si diramano una moltitudine di sentieri e uno di questi porta proprio a Foce a Giovo, chissà forse fu da quel punto che Annibale raggiunse Foce a Giovo per scendere poi fino Lucca, o magari è possibile anche che di lì abbia raggiunto altresì la Val di Lima, o come è stato ribadito è probabile che si fossero scelte altre strade alternative. Quello che è certo che l
a primavera di quell’anno fu particolarmente fredda e piovosa e la traversata dell’Appennino fu drammatica, quasi quanto quella alpina. Come narra Tito Livio (n.d.r: storico romano), ci fu un primo tentativo fallito per le terribili condizioni atmosferiche che costrinsero il condottiero a ritornare indietro con il suo esercito.  Il fatto incontestabile è anche un altro e ce lo descrive ancora Tito Livio e dice che una volta discesi gli Appennini "il punico" si trovò davanti a sè un altro ostacolo: il fiume Arno ("fluvius Arnus per eos dies solito magis inundaverat"), il fiume tanto caro a Firenze era straripato, bloccando così la strada da percorrere, malgrado ciò il suo esercito non potè invertire la marcia, dato che il cammino in quel tratto d'Arno era troppo stretto per far mutare "rotta" a ventimila soldati. Anche su questo particolare evento rimane però un alone di mistero, capire in quale punto fosse esondato l'Arno avrebbe potuto aiutare a comprendere da quale zona delle montagne 
Il percorso del Fiume Arno
 appenniniche i cartaginesi sarebbero eventualmente discesi, ma purtroppo anche questo non c'è dato da sapere. 
Tuttavia in tutto questo bisogna considerare che le varianti possibili per individuare il luogo esatto sono molte, conoscendo le indubbie qualità strategiche di Annibale che analizzava ogni cosa c'è da chiedersi quali strategie poteva aver adottato per valicare in tutta sicurezza l'Appennino? Sicuramente nell'ozio dei campi invernali dell'Emilia nell'attesa della primavera Annibale inviò in Toscana delle pattuglie a cercare le vie migliori per scegliere l'opzione più consona al suo cammino verso sud. Quello che è certo che furono scartate come possibilità di attraversamento i passi appenninici nei pressi di Arezzo e Rimini, più facili da attraversare vista la conformazione del territorio, ma per questo ben vigilati dalle legioni romane. Si può comunque dire che Annibale prima di partire per l'impresa, conosceva già perfettamente la situazione viaria per valicare il nostro Appennino. Certamente sapeva anche quali fossero le vie presidiate dai Romani e quali no. E in base anche a questa certezza l'attraversamento della Garfagnana dai suoi passi appenninici fu presa in considerazione? Io direi proprio di si, con ogni probabilità la Garfagnana fu presa in considerazione per questa ardimentosa operazione militare, il perchè è presto detto. Sappiamo che in questa seconda guerra punica i Galli e altre popolazioni del nord aderirono quasi in massa all'esercito cartaginese e fra loro c'erano anche i nostri lontani avi: i Liguri Apuani. Ad onor del vero molti di loro parteciparono come mercenari e altri ancora proprio come guide, assunte specificatamente per attraversare l'impervie montagne, è
Liguri Apuani
 plausibile poi che queste guide abbiano proposto ad Annibale la sua discesa nell'attuale Garfagnana. Gli Apuani vista la loro alleanza con i cartaginesi gli avrebbero garantito di passare nei propri territori in maniera indenne, visto che queste zone (in quel momento) erano libere da infiltrazioni romane, da lì raggiungere l'Arno (forse) presso Pisa sarebbe stato poi un gioco da ragazzi. Allora dove fu l'inghippo? Probabilmente l'inghippo fu puramente strategico, bisognava che questa marcia di valico fosse la più rapida possibile, appena fosse stata svelata la direzione da intraprendere bisognava fare questo viaggio in maniera velocissima, in tale modo il nemico non avrebbe avuto il tempo di organizzarsi e muovere contro lo stesso Annibale, per fare questo il tempo concesso era al massimo quattro giorni, in quei termini la missione doveva essere compiuta, infatti Tito Livio ricorda che i militari cartaginesi per attraversare l'Appennino marciarono di notte e in maniera celere: "le veglie sopportate quattro giorni e tre notti". La struttura del territorio garfagnino però non lo avrebbe permesso, considerando che quella stessa struttura territoriale che faceva da difesa per gli Apuani, per i cartaginesi sarebbe diventato un ostacolo insormontabile: le aspre montagne, le gole, i dirupi e l'assenza di strade ben marcate avrebbe fatto si che passare con un tale esercito ed un elefante in quelle zone sarebbe stato un compito praticamente impossibile da affrontare. Come poi andò a finire la storia lo sappiamo tutti. La seconda guerra punica durò ben 15 anni (218 a.C- 202 a.C), Annibale non raggiunse mai Roma, in quegli anni le sue scorribande colpirono in tutto il centro e sud Italia e nell'autunno del 203 a.C il senato cartaginese, sotto la pressione dell'invasione di Scipione, diede ordine ad
Scipione l'Africano
Annibale d'imbarcarsi e tornare in Africa, il condottiero apprese con amarezza queste decisioni e lo storico Howard Scullard scrisse che: "egli abbandonò l'Italia invitto, con più tristezza di un esule che la lascia la terra natale. Era fallita l'impresa a cui aveva dedicato una vita".

Bibliografia

  • "Ab Urbe condita CXLII". La storia di Roma dalla sua fondazione, Tito Livio, 1a edizione tra il 27 e il 14 a.C

I mille modi per cucinare farina di neccio e castagne. Storia e curiosità di ricette secolari

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Fu lei la prima a capire tutto e fu sempre lei a comprendere l'importanza
fondamentale di quel frutto autunnale: la castagna. Matilde di Canossa la possiamo considerare senza dubbio alcuno un personaggio di assoluto rilievo, in un'epoca in cui le donne erano considerate di rango inferiore. Era lei la Grancontessa, la Vice Regina d'Italia, che nel 1076 entrò in possesso di uno dei più vasti feudi italiani che comprendeva la Lombardia, l'Emilia, la Romagna e la Toscana. In quei luoghi cominciò a governare con pugno fermo, saggezza e lungimiranza. Quella stessa lungimiranza che la portò ad intuire il valore che poteva avere la coltivazione del castagno, come base per la sopravvivenza alimentare di quelle popolazioni che vivevano sulla montagna, proprio com'era la nostra Garfagnana, terra sotto i suoi domini. A favore di questa coltivazione emanò una serie di regolamenti che portarono al disboscamento delle querce già esistenti, che vennero poi sostituite dai castagni e da veri e propri castagneti che fornirono agli abitanti dei suoi possedimenti una fonte di sostentamento certa. Ma non solo, la Grancontessa si affidò anche alla sapienza dei monaci che con il loro dotto sapere studiarono misure agronomiche per una maggior produttività del 
Matilde di Canossa
castagno stesso, un criterio che ancora oggi viene definito "sesto d'impianto matildico", dove le piante di castagno allevate in forma libera sono disposte a vertici di triangoli sfalsati ad una distanza di circa dieci metri. Con questo sistema si poteva anche sfruttare l'erba del sottobosco quale pascolo per i greggi, in questo modo le pecore avrebbero tenuto pulita la selva e la raccolta delle castagne sarebbe stato più agevole... come si suole dire due piccioni con una fava, ed eravamo nel XI secolo. Insomma, in questo caso Matilde di Canossa fu la spinta per altri politici e regnanti che nei secoli e nelle guerra a venire si insediarono al comando della Garfagnana. Difatti un altro sovrano (in tal senso) illuminato fu Paolo Guinigi, Signore di Lucca, che istituì nel 1487 "l'Offizio sopra le Selve", questo nuovo ente doveva vigilare sui castagneti e doveva far si che queste piante dovessero essere curate con ogni dovizia e sotto ogni aspetto, dato che, in questo modo il castagno avrebbe dato "
cultivazioni più idonee alla produzione di farina buona e serbevole", infatti si riteneva, a giusta ragione, che tale squisitezza avrebbe sfamato una famiglia per gran parte dell'anno. Tutto considerato, visto quello che abbiamo letto possiamo sgombrare il campo da ogni dubbio e dire che la moltitudine di ricette in cui viene impiegata la farina di castagne nacquero proprio in quel
Paolo Guinigi
lontano periodo storico. Le svariate maniere con cui veniva trattata la farina di neccio trovò il bisogno naturale nel garfagnino di diversificare il più possibile la dieta alimentare con i prodotti che la natura offriva, la base sarebbe sempre rimasta la castagna o la sua farina, ma le varianti culinarie diventarono un'infinità. Così, in questo modo, le tullore, i bollocciori, la vinata (e tante altre preparazioni ancora) sono arrivate sulle nostre tavole. Oggi queste bontà della nostra cucina le possiamo considerare senza dubbio un di più, uno sfizio, nonchè una vera e propria golosità, ma in quei tempi andati furono vero e proprio pane per la gente di Garfagnana. Guardiamo allora la storia e i mille modi in cui possiamo trasformare in vera prelibatezza la farina di neccio e le castagne. Innanzitutto andiamo ad indagare sul termine principe e guardiamo il significato della parola "Neccio", riferito proprio alla ghiotta farina. Dobbiamo dire che la derivazione è incerta, è credibile pensare che (così come dice il dizionario etimologico)il vocabolo abbia un etimo latino da "castanea" o da "castaneccio".
Fatto il doveroso preambolo sulla provenienza di tale nome esaminiamo la preparazione per eccellenza: i
l Castagnaccio. Questa assoluta bontà è una fra le più diffuse in tutta Italia, ma è bene sottolineare che la paternità è nostrale. Di solito queste appartenenze culinarie ce le concediamo con "motu proprio", ma questa volta, questa ricetta ci venne attribuita nel 1553 dal frate agostiniano Ortensio Landi di Piacenza nel "Commentario delle più notabile et mostruose cose d'Italia e altri luoghi", infatti ci narra che "Pilade da Lucca fu il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riporto loda". Quel Pilade il castagnaccio lo faceva sicuramente con la farina di castagne della vicina Garfagnana: stacciava un mezzo chilo di farina dolce (per una dose-famiglia) e la metteva in una zuppiera, aggiungeva un paio di
Castagnaccio
cucchiaiate d'olio d'oliva, un pizzico di sale e ci versava quasi un litro d'acqua fredda rimescolando sempre, fino ad ottenere una composto piuttosto liquido. Prendeva una teglia, l'ungeva d'olio e ci versava il suddetto composto. Generosa dose di zibibbo, pinoli e noci spezzettate e quindi in forno. Quando il colore era diventato di un bel "marrone castagnaccio" e la crosta croccante, il castagnaccio di Pilade era cotto. Diciamo che questo, come si direbbe oggi fu uno dei primi "street food", ossia del cibo da strada e a conferma di ciò Vincenzo Tanara (agronomo)nel 1644 ci parlava dei "castagnazzi da strada" 
elencando anche varianti oggi impossibili, che prevedevano l’aggiunta di grana grattugiato o di cacio grasso e tenero. Inoltre leggenda dice che lo stesso castagnaccio sia un dolce legato all'amore; che si comporti come un filtro magico e qualunque ragazza che lo porti in dono all'innamorato si assicuri il suo affetto e la sua fedeltà in eterno. Invece "Il Neccio", la classica frittellona arrotolata ripiena di ricotta, era il pasto freddo dei 
Il neccio
carbonai e dei boscaioli garfagnini. La più antica ricetta dei necci racconta che venivano cotti fra testi di pietra arenaria. Stessa finalità aveva "la Pattona di Trassilico", questa preparazione era la classica "merendina" dei trassilichini che andavano a lavorare nel bosco, la sua preparazione però differiva da quella dei necci, 
vedeva sempre un'impasto di farina di castagne, mele a pezzetti, noci, nocciole e fichi secchi sminuzzati. Del tutto si facevano delle palline che venivano poste dentro delle formine e infornate. Il giorno dopo sarebbero state pronte per la veloce merenda del taglialegna. Curiosa invece l'origine del vocabolo "pattona", pare che il nome derivi dal latino "pactus", ossia "compatto", compatte come le palline di questa ricetta. Questa invece è una ricetta per
La pattona
stomaci forti. Il nome è già un preludio: la Vinata. La sua preparazione è antichissima, di solito veniva offerta dopo cena quando gli amici venivano "a veglio" intorno al caminetto, serviva anche per combattere il freddo pungente della Garfagnana quando nelle case contadine il riscaldamento era una lontana chimera, ma non solo, i vecchi dicevano che avesse anche proprietà terapeutiche: "polpava (n.d.r: ammorbidiva) la tosse". Comunque sia l'antica ricetta diceva che nel paiolo bisognava fare una polenta "scria, scria" (n.d.r: molle, molle)di farina di neccio e vino picciolo (un vino rosso ottenuto 
dopo una brevissima fermentazione, di colore molto chiaro). Si faceva cuocere per circa mezz'ora e si versava bella fumante nella scodella. Per capire meglio quando la vinata sarebbe stata pronta da servire ci si rifaceva ad un antico adagio:"quando fa plotta, plotta la vinata è bella e cotta". E se nella vinata l'ingrediente di spicco era ed è il vino, nei Manafregoli il componente principe è il latte. Questa preparazione assume svariati nomi (tutti d'incerta origine) nella Valle del Serchio e Garfagnana: manafregoli, brugiaioli o manufatoli, la ricetta tutta via è la solita in qualsiasi modo venga chiamata: si fa bollire l'acqua nel abituale paiolo, si aggiunge poi la farina di 
I manafregoli
castagne, si mescola in maniera continua fino ad ottenere anche qui un composto piuttosto morbido. Dopo circa mezz'ora si serve in una ciotola condita a piacere con latte, ricotta o panna liquida. Adesso guardiamo invece le ricette che riguardano la castagna vera e propria. Un altro antico processo che si faceva per mangiarle era quello di farle essiccare, ed ecco allora nascere la preparazione delle Tullore. Le tullore sono castagne secche ammollate nell'acqua per circa due ore (così perdono bene la pecchia), fatta questa operazione vanno fatte bollire sul fuoco lento con acqua, latte e foglia d'alloro per altre due ore ancora. Si servono calde, o anche fredde nel latte. Questo strano vocabolo (a quanto pare) prende fondamento da un'altra pianta: la canapa (presente in Garfagnana nei tempi antichi)e da una sua parte detta "tiglia", che altro non è che quell'elemento legnoso del fusto che veniva conciato per farne tela, è possibile quindi che per quanto riguarda le castagne tale vocabolo venga inteso come "acconciate", per far si, che poi in tal modo  diventino morbide. Il Balluccioro o
I ballucciori
 Ballotta che dir si voglia è invece la castagna (buccia compresa) lessata nell'acqua con foglie d'alloro e un pizzico di sale. La bizzarra parola si presta a una interpretazione piuttosto esotica, infatti può darsi che il termine derivi dall'arabo "ballut", ossia ghianda. E delle Mondine cosa dire? Le mondine non hanno bisogno di presentazioni, in tutta Italia sono conosciute come caldarroste e in Garfagnana vengono cotte al fuoco dei camini nella classica padella bucherellata a manico lungo. Prima di essere messa al fuoco la castagna deve essere incisa per far si che poi una volta messa sulla fiamma non scoppi; verso la fine della cottura le castagne vanno bagnate con un bicchiere di vino rosso. L'origine del classico nome garfagnino "mondina"è facile a dirsi, difatti trova fonte dalla stessa parola dialettale "mondare", ovvero pelare, sbucciare, proprio quello che si fa una volta che sono cotte. D'altronde è presto detto nel capire perchè storicamente le castagne hanno fatto da vero e proprio pane per la nostra gente. Il valore calorico di questo frutto è difatti piuttosto elevato (165 Kcal/100g) a causa dell'alto contenuto di carboidrati (36,7 Kcal/100g). Il suo beneficio principale da tenere
in considerazione per il fisico è l'alta carica energetica che dà alla persona, per di più sono consigliate per anemia, apatia e stanchezza, inoltre l'alto contenuto di fibre può contribuire a migliorare la funzionalità intestinale. Non a caso Giovanni Pascoli nel 1908 sulle pagine di un quotidiano argentino dedicato ai nostri emigrati ebbe a dire: "Il castagno è il nostro albero del pane. Ci andrebbe messa, in ogni castagno, una croce, come si fa per gli alberi divenuti sacri". 


Bibliografia

  • "Commentario delle più notabili et mostruose cose d'Italia et altri luoghi" di Landi Ortensio, anno 1550
  • "L'economia del cittadino in villa" Vincenzo Tanara , anno 1665
  • "Dizionario garfagnino" di Aldo Bertozzi, edizioni L.I.R, anno 2017 

Eremi ed eremiti in Garfagnana. Storie del passato e del presente

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Parlare di eremiti nel XXI secolo è come parlare di cose fuori dal
mondo odierno, gli eremiti si ricordano se si ragiona su tempi antichissimi, facendo riferimento ai primi secoli del cristianesimo. Quanti e chi sarebbero quelli che oggi, in un mondo iper tecnologico e globalizzato vorrebbero allontanarsi da questo modo di essere e vivere una vita in mezzo al deserto e alle montagne? Eppure, nonostante le moderne comodità questi personaggi ancora oggi esistono. Ma chi sono gli eremiti del secondo millennio? Sono proprio quelli che vogliono allontanarsi dalla civiltà, dallo stress e dall'agitazione quotidiana, la maggioranza di loro si dedica a meditazioni profonde, vogliono vivere con uno spirito libero, distaccati dalle cose terrene, cercano Dio nelle profondità del silenzio di luoghi sperduti. Fra questi, i più noti sono l'eremita del Libano, un sacerdote colombiano: Dario Escobar, che vive in un eremo scavato nella roccia al santuario di Nostra Signora di Hauqa, ha 84 anni ed eremita da 18. Per non parlare poi di Gisbert Lippelt, figlio di un magistrato e di un architetto che vive nell'isola di Filicudi, è stato ufficiale di marina e ora vive di quello che produce la natura. Un altro caso emblematico è quello che fa riferimento ad un ex cantante di un gruppo rock; è diventato un monaco camaldolese e vive da eremita in uno sperduto monastero in Toscana. Di casi come questi ce ne sono molti altri ancora, di persone che per essere più vicino a Dio si ritirano in posti lontani, remoti, difficili da raggiungere, proprio com'era la Garfagnana secoli orsono. Ed infatti, proprio per conformazione geografica e naturale, la nostra valle fin da tempi lontanissimi è stata terra di eremi ed eremiti. Eravamo difatti verso la metà del XII secolo quando un po' in tutto il mondo religioso si affermò lo sviluppo delle istituzioni eremitiche. Fu proprio in quel periodo che fonti storiche testimoniano che nell' attuale territorio lucchese ci fu un fiorire di insediamenti eremitici, costituiti da piccole comunità o anche da singoli individui. Uno dei primi eremi
fu infatti il Santuario dell'Eremo di Calomini, conosciuto fin dal XII secolo con il nome di "Romitorio della Penna di Calomini" dedicato a "Sancta Maria ad Martyres". Non è certo, ma è probabile che fu intorno all'anno 1000, quando degli eremiti decisero di venire in questo luogo solitario, aspro ed impervio, tanto che lo ritennero perfetto per le loro preghiere. Iniziarono scavando delle grotte (che sono ancora oggi visibili), vivevano la loro vita di preghiera e di lode a Dio dedicandosi anche alla cura di un orto, tutto questo nel ritiro e nella solitudine assoluta. Di questi eremiti le prime notizie certe si hanno in documento del 23 luglio 1361; un certo Azzetto, del fu Orsuccio da Verni e sua moglie Vezzosa decisero di dedicarsi, in qualità di Conversi, alla custodia di una delle celle scavate nella roccia. Il converso fu una figura che prese ampia diffusione verso il XII secolo e non era altro che un laico che abbandonata la vita comune si dedicava al servizio di una chiesa rurale, di uno ospitale, oppure all'assistenza dei poveri e degli ammalati. Dal XVII secolo all'Eremo di Calomini risiederanno più conversi e si deve proprio a loro e a dei probabili miracoli la crescente devozione verso questo luogo. 
Secondo tradizione, nel luogo dove tutt'oggi scaturisce dalle rocce uno zampillo d'acqua purissima, l'immagine della Madonna che si venera nel santuario si rivelò ad una pastorella di Calomini. Il nome della ragazza non si conosce, ne si hanno notizie se la stessa Madonna parlò alla ragazza. Subito però la fama di questa Santa Madre si sparse nei vicini villaggi, tanto che mirabilmente crebbe tra quei popoli il desiderio di farle onore. Con devoto e numeroso accompagnamento fu portata quindi a Gallicano, in luogo ritenuto più onorevole. Ma, sebbene custodita con attenzione, non passarono ventiquattro ore che nuovamente fu ritrovata dove si era fatta vedere alla pastorella di Calomini. Conosciuto il volere di Maria con questo prodigio, nessuno ardì più rimuoverla dalla sua grotta. Fu così, che vista tutta questa popolarità tra il 1710 e il 1747 si perfezionò l'edificio in quello che oggi conosciamo. Più di un secolo dopo, precisamente nel 1871 si chiuse per sempre la secolare presenza degli eremiti, dato che la loro principale prerogativa di pregare in solitudine era finita, visto che la chiesa veniva aperta al culto popolare. Nel 1914 subentrarono i frati cappuccini che ebbero la custodia dell'eremo per 98 anni, fino al 2011. Poco distante da questo eremo c'è Cardoso e lì di un tale Doroteo o Tirosseo nel 1260 si raccontava che fece opere miracolose: "Ecclesia‘s tirossei de Cirognana. Villaggio allora di Cardoso ora distrutto, non essendovi rimasta che la sola Chiesa di San Doroteo o Tirosseo, distante circa mezzo miglio dal suddetto paese di Cardoso, e dove riposa il suo sacro corpo, dicesi che abitasse in una valle, dove separato da ogni
La fontana di San Doroteo
conversazione, 
in sante orazioni e contemplazioni impiegò la sua vita. Non era in quel luogo acqua da potersi reficiare nelle necessià del suo vivere; onde confidato in Dio ,conficcato in terra il suo bastone, divenne subito verde,ed il piede di questo scaturì un limpidissimo fonte, che si vede anche a giorni nostri appresso la chiesa del Santo, nè mai manca 
per gran siccità, e non pochi che bevono di quella, ne conseguiscono grazie del Signore". Si presume infatti, che questo frate nato in Palestina fosse un eremita ospedaliere, proprio dell'Hospitale di Colle Asinaio (n.d.r: Colle Acinaia) lì, vi giunse insieme a San Pellegrino, i due arrivati in quel luogo decisero di prendere strade diverse, così Pellegrino decise di proseguire e Doroteo di fermarsi:"San Doroteo era compagno di San Pellegrino, insieme col quale peregrinava visitando i Santuari e macerandosi le carni di aspre penitenze. Quando San Pellegrino seguendo l'impulso del cuore, che era impulso divino, si portò sulle alpi di Castiglione per liberare dalle fiere la gran selva tenebrosa. Doroteo lo seguì lungo la via risalendo il corso del Serchio. Giunti nelle selve di Cardoso, attraverso le quali passava la via Romana, i santi si baciarono, s'incoraggiarono l'un con l'altro  a sostenere con fermezza le lotte del demonio e della carne e si dettero l'addio per vivere una vita eremitica e caritativa nella contemplazione e nella penitenza. San Pellegrino proseguì il viaggio e San Doroteo rimase nella foltissima selva di Cardoso"
Così la storia-leggendanarra che lo stesso San Pellegrino prosegui per quello che oggi è conosciuto come il Santuario di San Pellegrino in Alpe. Di questo complesso si ha notizia  già nel 1168 in una bolla di Papa Alessandro III, anche qui come nell'eremo di Calomini ad accogliere i viandanti non erano nè frati, nè monaci, ma dei conversi, guidati da un rettore laico. Per il resto, come sovente succede, il mito, la leggenda e la santità di quest'uomo fece si che anche questo luogo diventasse meta di pellegrinaggi e di devozione diffusa. Difatti la fantasia popolare elaborò una vita leggendaria di questo santo. San Pellegrina pare che fosse il figlio del re di Scozia Romano e di sua moglie Plantula. Trascorsa una fanciullezza di penitenza, rinunciò alla successione del regno e s’incamminò quindi verso la Terra Santa, accompagnato da una banda di ladri che aveva miracolosamente convertito. Tornato in Italia, giunge sui monti di San Pellegrino dove prese per abitazione una
San Pellegrino in Alpe
 caverna, qui venne visitato dagli animali selvatici, che gli diventarono amici. Passati molti anni vide un luogo adatto alla penitenza e vi si recò, rifugiandosi dentro un albero cavo. Arrivato all’età di oltre 97 anni San Pellegrino scrisse in una corteccia d’albero la sua vita, e poi morì. Due coniugi modenesi, avvertiti in sogno da un angelo, ritrovarono il suo corpo come fosse vivo, custodito da una gran moltitudine di animali. Accorsero sul luogo vescovi e popolazioni della Toscana e dell’Emilia. Sorse però una disputa, fra gli stessi emiliani che volevano portare il Santo in pianura, ed i toscani che lo rivendicarono, essendo morto nei loro confini. La salma venne posta così su di un feretro tirato da due torelli indomiti, uno toscano ed uno emiliano, che si fermano sul luogo detto “termen Salon”. Qui ora sorge la chiesa in onore di San Pellegrino. Dall'altro lato della valle, sempre in quei tempi lontani sorse l'Eremo di San Viano che si trova sulle balze orientali del Monte Roccandagia, proprio nei pressi del sentiero che conduce a Campocatino. Questo magnifico luogo incastonato nella roccia si può raggiungere solo a piedi, arrivando così a circa 1090 metri sul livello del mare. Le
 prime notizie di questa piccola chiesa si hanno in un documento risalente del 1568 che parla di una visita pastorale alle reliquie del santo che vi abitava, ma è probabile collocare la sua esistenza in epoca medioevale. Qui, in questo posto quasi inaccessibile Viviano(oggi patrono del Parco delle Alpi Apuane), viveva in completa solitudine. La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che questo personaggio fosse 
L'eremo di San Viano
un viandante proveniente da Reggio Emilia, il quale, non sopportando più gli uomini, si ritirò sulla cima di un monte. La sua scelta di vita da eremita entrò in contrasto con quelle di alcuni pastori del luogo che non videro di buon occhio la figura del futuro santo e tanto meno il suo atteggiamento spirituale. A quanto pare i suoi modi di fare poco ortodossi, lasciarono il segno in quella parte di Garfagnana, dal momento che le sue punizioni per coloro che peccavano erano a dir poco severe. Fra verità e leggenda si racconta che punì alcuni briganti del luogo, facendoli rimanere ciechi, castigò anche una spergiura facendogli ammalare il figlioletto, mentre il bestemmiatore precipitò rovinosamente nel fiume
. Il suo cibo quotidiano erano le preghiere e certi cavoletti selvatici, oggi conosciuti come cavoli di San Viano, che il Signore avrebbe fatto nascere per sfamarlo. Fu trovato morto nella grotta dove abitava, il 22 maggio (giorno in cui si festeggia la santità)  di un anno imprecisato, fu sepolto nel cimitero di Vagli di Sopra; ma per ben due volte la sua salma tornò miracolosamente all’amato eremitaggio. Cominciò così la sua venerazione, che portò alla costruzione della chiesina in quel luogo impervio dove egli si era ritirato dal mondo. Su uno sprone roccioso fu invece costruito l'Eremo di Capraia. Questo posto viene ricordato già nel 1168 in una
Eremo di Capraia
(foto Garfagnana dream)
delle tante guerre medievali fra lucchesi e pisani, quando il castello omonimo fu distrutto nella battaglia. Infatti qui si parlava di un romitorio intitolato a San Jacopo e San Cristoforo. In documenti successivi datati 1467 si racconta di una chiesa con la stessa titolazione che risultava essere però "destructa". Ulteriori documenti la menzionano nel 1658, e nel 1716 ad essa venne aggiunta la titolazione attuale di Santa Maria. All'interno ospita la bellissima "Madonna con bambino" attribuita a Pietro da Talada. Invece, a due chilometri da Minucciano, posto in luogo che un tempo era di passaggio obbligato per chi voleva scendere in Garfagnana sorge il Santuario della Madonna del Soccorso. L'attuale santuario risale al XVIII secolo che sostituiva un più antico eremo costruito fra il 1400 e il 1500 e sorto vicino ad "mestaina" che fu oggetto di venerazione popolare dato che, così si narra, in quel luogo la Madonna intervenne per salvare un bambino che il demonio si voleva portare via. Dall'altro canto la storia vera e propria riferisce che nel 1550 il vescovo della diocesi di Luni (a cui apparteneva territorialmente Minucciano) approvava una confraternita di laici a custodia del posto. I priori scelsero una persona adatta a costudire come eremita questo oratorio e da quel giorno gli eremiti non se ne sono più andati. Ebbene si, ancora oggi all'interno dell'eremo vivono tre eremiti. 
La piccola comunità osserva la Regola di San
Madonna del Soccorso
 Benedetto, vissuta nello Spirito degli Eremiti Camaldolesi di Monte Corona, e ha ottenuto il riconoscimento canonico dall’Arcivescovo Bruno Tommasi l’11 novembre 1994, come associazione pubblica maschile non clericale. E' rimasto così, l'unico dei 16 eremi sorti nei secoli in Garfagnana a essere ancora custodito proprio dagli stessi eremiti. 
L’eremita della Madonna del Soccorso ha la missione di custodire il santuario e di accogliere i devoti che vengono a venerare l'immagine della Madonna. Egli vive appartato, una vita di preghiera e si guadagna da vivere col proprio lavoro e con le offerte che i fedeli lasciano per lui. 

Storie antiche che nel 2021 ancora si ripetono come cose fuori dalla logica moderna, proprio perchè si è portati a immaginare gli eremiti come individui strani e solitari, ma i luoghi comuni, come sempre, non servono a nulla. Sono persone che hanno viaggiato moltissimo, hanno affrontato pericoli di ogni sorta e non rifiutano il contatto con il mondo, semplicemente il mondo, se lo sono lasciato alle spalle.


Armi da fuoco e polvere da sparo. Era il 1382 quando in Garfagnana nacque una delle prime "officine d'arme" (una fabbrica di armamenti)

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Esistono pro e contro del progresso scientifico e ogni nuova scoperta è sempre una specie di arma a doppio taglio, può avere effetti benefici o effetti catastrofici, a seconda di come l’uomo decida di sfruttarla. Alla domanda “la scienza è più vantaggiosa o svantaggiosa per la vita dell’uomo?”, la maggior parte delle persone sarebbe probabilmente portata a considerare i progressi in campo medico, tecnologico e industriale degli ultimi secoli, e a rispondere conseguentemente in modo positivo e ottimista. Ma basterebbe guardare con un occhio un po’ più attento per rendersi conto che non è tutto rose e fiori come può sembrare. Qualche esempio? Partiamo dal più noto. Albert Einstein fu il padre dell'energia nucleare, lo scienziato scoprì che questa nuova fonte energetica primaria derivante dall'energia dell'atomo poteva essere usata per produrre energia elettrica, in compenso ci furono altri uomini che ebbero "la brillante" idea di impiegarla in ambito bellico, trasformando una grandissima invenzione in un arma di distruzione di massa. Qualcuno di voi ha invece sentito parlare di Zyklon B? Credo proprio di si. Lo Zyklon fu un insetticida della Bayer, sviluppato negli anni '20 del 1900 da un ebreo tedesco di nome Friz Haber, vincitore del premio Nobel per la chimica nel 1918. Haber fu poi costretto ad emigrare in Inghilterra per non rimanere vittima della sua stessa invenzione. Infatti l'insetticida fu usato dalla Germania
nazista nelle camere a gas nei tristemente famosi campi di sterminio. Secoli e secoli prima delle suddette scoperte g
li orientalissimi cinesi scoprirono per primi il potere della polvere da sparo, ma la usarono per fare i fuochi d'artificio e per rischiarare l'oscurità della notte con fantasmagorici fiori di luce colorata. Noi occidentali arrivammo alla polvere da sparo un po' dopo i cinesi, ma ne facemmo subito uno strumento di guerra, un modo per uccidere, da lontano e senza sporcarsi le mani e in Garfagnana di questa invenzione fummo tra i primi in Italia ad "industrializzare" la produzione e a fabbricare nuove e potenti armi che la potessero sfruttare. Sicuramente non è un merito, per l'amor di Dio non lo nego, ma rimane di sicuro un fatto storico oggettivo da analizzare con interesse. Difatti sappiamo che è nel 1240 che per la prima volta in Europa si cominciano a fare ricerche su una presunta "polvere esplosiva" e fu il filosofo inglese, nonchè francescano, Ruggero Bacone a sperimentare gli effetti "esplosivi" di una miscela fatta di zolfo,
salnitro e polvere di carbone. Dall'altro lato è plausibile pensare che la probabile paternità ad inventare i primi strumenti in grado di sfruttarne le doti propellenti di questa nuovo composto siano stati gli italiani e in particolare i fabbri e i meccanici bresciani della Val Trompia. In effetti questa è una circostanza da non sottovalutare (che vedremo poi in seguito), poichè furono sempre i fabbri della Val Trompia che nel XIII secolo per sfuggire alla persecuzione del ghibellino Ezzelino III si rifugiarono (anche) a Fornovolasco, dove poi misero su dei forni fusori per fondere il ferro delle vicine miniere. Rimane il fatto che nel giro di qualche decina di anni in barba ad archi e frecce si cominciò a parlare di "balestrieri e scoppettieri" e nel 1321 quando gli Estensi (coloro che poi governeranno anche sulla Garfagnana)assedieranno Argenta(cittadina in provincia di Ferrara) utilizzarono "scoppietti e spingarde". Questo nuovo modo di fare guerra non trovò sempre consenso e anche il "nostro" Ludovico Ariosto, governatore in Garfagnana, ebbe a che da ridire nella sua opera più celebre "L'Orlando Furioso" e 
precisamente, attraverso una metafora condannava l'uso delle artiglierie in quanto contrarie allo spirito cavalleresco, dato che, erano in grado di offrire un vantaggio militare che non aveva nulla a che vedere con il valore e la lealtà. Anche Santa Romana Chiesa ne fece una questione etica e morale, precisando che le armi da fuoco "erano molto omicide e spiacenti a Dio". Tuttavia rimane innegabile che la scoperta della polvere da sparo e del suo utilizzo per la creazione delle armi fu un cambiamento epocale che si ripercosse anche nelle nostre zone e cambiò da un punto di vista architettonico anche la struttura dei paesi, e se prima le mura che si ergevano a
difesa dei borghi erano alte e sottili, ora con l'avvento delle armi da fuoco dovevano essere per forza ridisegnate, dato che non avrebbero retto l'urto delle palle da cannone. Si costruirono così mura più basse e larghe, rinforzate da terrapieni, per reggere il tiro delle artiglierie.  Necessariamente si diede così addio anche al ruolo dell'arciere e delle unità corrazzate, difatti nessuna armatura era in grado di garantire la mobilità necessaria in battaglia e tanto meno la resistenza ai proiettili. Ad ogni modo c'è chi arrivò 
perspicacemente a capire che con queste nuove tecniche di guerra ci si poteva fare soldi a palate. Difatti a quel tempo le guerre erano all'ordine del giorno, basta prendere un qualsiasi testo di storia e rendersi conto che in Europa (e anche in Italia) abbiamo smesso di guerreggiare in maniera assidua solamente alla fine della seconda guerra mondiale. Fattostà che fra i primi a comprendere questo fu Giovanni Turignoli da Barga, detto "Zappetta". Lo Zappetta si trasferì in quel di Gallicano dove aveva aperto un'attività per la lavorazione del metallo, quello che è certo che nella sua officina non produceva nè pentole, ne' attrezzi da lavoro, anzi, probabilmente li avrà anche fabbricati, visto il suo soprannome, quindi è più giusto dire che convertì la sua produzione in poderose armi da fuoco, tant'è che in un documento del 1382 (quindi pochi decenni dopo che la polvere da sparo prese campo) si evidenziava che il 23 agosto il Comune di Lucca stanziava a Giovanni Zappetta di Gallicano ben cento fiorini d'oro per "due bombarde
Bombarde
 grosse
", ma non solo, e come se fosse proprio una commessa, l'ordinazione di bombarde si ripeteva per l'anno 1384. Parallelamente, con un fiuto imprenditoriale degno dei giorni nostri, il buon Giovanni sviluppò la fabbricazione di polvere da sparo e di palle da cannone, che il Raffaello Raffaelli nel libro "Descrizione storica della Garfagnana" del 1879 dice che: "In un canale detto il Pietraio (oggi Piastraio), in quei pressi esisteva una fabbrica di palle da cannone, che si facevano principalmente con il ferro delle miniere di Forno Volasco e si spedivano all'estero". Ecco allora, a chiudere il cerchio, tornare alla ribalta Fornovolasco e i sopraccitati fabbri della Val Trompia, già esperti nella costruzione di armi da fuoco. Insomma, gli altri staterelli e la Repubblica di Lucca avevano bisogno di queste attività, fino al punto che gli stessi anziani di Lucca incentivarono l'apertura di queste nuove fabbriche, promettendo esenzioni e altri vantaggi a chiunque avrebbe intrapreso queste attività nella Valle del Serchio, a patto che, quanto veniva prodotto fosse ad esclusivo uso della Repubblica. Ma perchè questi privilegi venivano dati a chi avviava questa industria solamente nella nostra valle? E' presto detto. Ad esempio la fabbrica dello Zappetta situata a Gallicano aveva la prerogativa di essere collocata fra delle piccole vallate, in questo modo si poteva nascondere da occhi indiscreti e curiosi. L'altro pregio di questo posto era che in caso di esplosione accidentale i danni sarebbero comunque stati limitati e per di più, cosa da non
Gallicano
 sottovalutare, la fabbrica era situata vicino alla via di comunicazione principale. Ma soprattutto, la particolarità più importante era l'acqua (quasi) perenne dei torrenti, quei corsi d'acqua che furono di fondamentale importanza per alimentare e dare forza motrice a questi nuovi macchinari. Nel caso specifico di Gallicano era il Torrente della Fredda ad alimentare queste attrezzature, il medesimo corso d'acqua che per parecchi anni fece funzionare anche la S.I.P.E Nobel del paese. Ma questi non furono i soli motivi che fecero la fortuna dello Zappetta, la zona era infatti ricchissima di alberi; il legname ricavato avrebbe alimentato i forni fusori e principalmente sarebbe servito per fare carbone, elemento fondamentale per ottenere la polvere da sparo. Naturalmente, come abbiamo letto, non bastava il solo carbone, in buona parte serviva anche del nitrato di potassio, che in casi d'emergenza veniva prodotto artificialmente nelle "nitrerie" locali, in maniera a dir poco curiosa per i tempi moderni. Infatti veniva preparato mescolando ceneri, terra e materiale organico (paglia e letame), fatto questo si formava manualmente un blocco alto un metro e mezzo, largo due metri e lungo cinque, tale blocco veniva poi messo al
Nitrerie medievali
 riparo della pioggia e tenuto bagnato con l'urina... Si avete capito bene, l'urina. In caso di guerre improvvise sarebbe stato saggio avere scorte di questa sostanza e per fare ciò ci si premuniva comprando la pipì degli animali dai contadini. Pertanto, dopo circa un anno e mezzo, da 
questo marcescente blocco si otteneva del liquido ricco di nitrato di potassio, che poi in seguito veniva raffinato ed utilizzato. Ovviamente la maggior parte del nitrato(insieme allo zolfo) veniva importato e in questo caso dalla lontana Venezia. In sostanza possiamo dire che la produzione dello Zappetta era a dir poco fiorente, niente, come abbiamo letto era lasciato al caso, dalla sua fucina uscivano solamente armi di prima qualità. Le sue bombarde (una sorta di primitivo cannone), erano fra le più rinomate in campo militare, ma la vera novità bellica fu l'introduzione dello "schioppetto", o "schioppo" che dir si voglia, la prima arma da fuoco portabile costituita da una canna di ferro e rame e sostenuta da una sorta di manico di legno (o ferro)con accensione a miccia. Alla fine dei conti, possiamo senz'altro dire che la famiglia Turignoli divenne nel giro di pochi anni una delle famiglie più importanti ed influenti della zona e con buona pace di chi crede che le "lobby"
Lo schioppo
siano un argomento moderno è giusto dire che tale famiglia (a proprio sostegno economico e di prestigio), nel 1400 concorse fattivamente e con tutte le sue forze all'elezione di Paolo Guinigi, che venne poi eletto Signore assoluto della Signoria di Lucca, dove resse il comando per ben 30 anni. La casata Turignoli, vide così crescere la sua posizione finanziaria, diventata così prospera grazie e soprattutto all'opera dello Zappetta. Nel corso dei lustri che passavano ottenne anche il 
titolo onorifico del "segnale guerresco" e non mancò di dare uomini atti alle armi, come tal Francesco Turignoli, che si distinguerà nella difesa di Firenze contro Carlo V. 

A margine di tutta questa storia rimane però un fatto singolare che oscurò la fama di guerrafondai di questa stirpe. Nell'anno 1399 nacque a Barga il nipote dello Zappetta, un certo Lodovico Turignoli che salirà alla ribalta della cronache come il Beato Michele da Barga. A 35 anni il sant'uomo abbandonò ricchezze e potere della famiglia e si dedicò ai poveri, ai bisognosi e agli sconfitti, diventando fra l'altro discepolo di Frà Ercolano che in quel tempo stava costruendo il convento di San Bernardino in Mologno. Bhe! Non rimane che dire... Dio vede e...provvede. 


Bibliografia

  • Camarlingo generale, n. 80, c. 88-89, 1370 maggio 13 e 23; n. 82, c. 229, 1378 luglio 28; n. 105, c. 143v, 1382 agosto 30; n. 106, c. 154v, 1383 aprile 22; n. 109, c. 158, 1395 giugno 16, ove è detto «da Barga, maestro di bombarde abitante in Gallicano» (in Concioni-Ferri-Ghilarducci, Arte e pittura cit., p. 147, 154, 158, 172).
  • "La Sipe di Gallicano", Circolo Culturale Gilberto Tognotti, edito Garfagnana editrice, anno 2016
  • "Descrizione storica della Garfagnana" di Raffaello Raffaelli del 1879


Cronaca di un tragico femminicidio d'altri tempi in Garfagnana. Era (forse) il 1922...

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Femminiciodio. Una brutta, bruttissima parola che è entrata
recentemente a far parte del nostro vocabolario per indicare l'uccisione di una donna, "in quanto donna" da parte di un uomo. Si potrebbe pensare che questo neologismo, come spesso accadde, sia stato coniato dalla stampa sensazionalistica, ma stavolta no. Per la prima volta questa parola fu usata dalla criminologa Diana Russel nel 1992 nel suo libro "Feminicide". Fino a quel momento nella nostra  bella e cara Italia l'unica parola esistente di significato simile era "uxoricidio". Tuttavia però, la radice latina "uxor" (moglie) limitava il significato del termine all'uccisione di una donna in quanto moglie. Fattostà che la Russel analizzò il grave problema facendo riferimento alle società patriarcali che usavano il femminicidio come forma di controllo e punizione sulle donne, la cui "colpa" sarebbe stata quella di essersi opposte al potere dell'uomo. Infatti, sarebbe sbagliatissimo pensare che la violenza, il sopruso e la prevaricazione contro la donna sia un male moderno, purtroppo è sempre esistito e la sua storia ha origini ultra secolari. Naturalmente questo non giustifica il fatto che sia un fenomeno "naturale" e immutabile nel tempo, anzi, più le società si evolvono con il passare degli anni e più si dovrebbe prendere coscienza del "viver civile". Ma non è così e mai sarà così, basta pensare a quella che oggi definiamo "violenza domestica e familiare", fino a meno di un secolo fa era considerato l'uso legittimo della forza da parte del marito o del capofamiglia, e se nel lontano 1607 si diceva che: "
 quando le mogliere non obbediscono li loro mariti, anzi li sprezzano e gli sono ritrose e pertinace nelle loro opinioni et che non gli basta essere riprese con parole, che sia lecito e conveniente a detti lor mariti dargli qualche schiaffo, pugno o percossa legiera et ciò per correzione et monitione et per redurle all’obedienza et questo sempre io ho inteso dir essere cosa lecita", nel 1865 il codice civile italiano affermava senza se e senza ma che la situazione non era affatto cambiata: "La moglie non può donare, alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali, costituirsi sicurtà, né transigere o stare in giudizio relativamente a tali atti, senza l'autorizzazione del marito". Insomma, ribellarsi a questo status quo per la donna voleva spesso dire perdere la vita e questo però non capitava solo nelle classi sociali dei poveri e dei derelitti. Anna Bolena ne è 
Anna Bolena
l'esempio più fulgido e lampante. La seconda moglie di Enrico VIII, fu condannata a morte dal marito perchè accusata di averlo tradito. Non era assolutamente vero, in realtà, il re si era innamorato di un'altra donna e così decise di ucciderla facendole tagliare la testa. Artemisia Gentileschi fu una grandissima pittrice italiana del 1600, che fu violentata da un pittore con cui lavorava e che era stato più volte da lei rifiutato. Nel conseguente processo per stupro la difesa tenterà in tutti i modi di screditare la ragazza che sarà costretta a sottoporre la sua testimonianza alla dolorosa e pericolosa tortura dello schiacciamento dei pollici. Anche in u
no dei canti più suggestivi e famosi della “Divina Commedia” si presenta un caso di femminicidio. Stiamo parlando del Canto V dell’“Inferno”, in cui la protagonista Francesca da Polenta (o da Rimini) commette adulterio innamorandosi del cognato Paolo Malatesta e per questo viene uccisa con violenza dal marito. Come si può capire queste violenze nascono soprattutto per motivi passionali e germogliano quasi sempre in ambito familiare. Queste sono infatti anche le caratteristiche che nel secolo scorso portarono ad uno dei più efferati delitti compiuti in Garfagnana, a conferma che anche le zone più pacifiche e quiete come le nostre zone non sono esenti da questi avvenimenti. Infatti, questa che vado a raccontarvi è la cronaca di un femminicidio, a riprova evidente di quanto sopra scritto. 

Risalendo sulla vecchia "Strada di Vallico", l'antica via che collegava Vallico a Gallicano a poche centinaia di metri dall'alpeggio di San Luigi ci s'imbatte in una vecchia e consunta lapide che riporta una scritta a futura memoria: "Alla Santa memoria di Giuseppina Furischi sposa e madre esemplare. Dal proprio consorte quivvu crudelmente uccisa. La famiglia". Le domande e la curiosità che attanagliano la mente dell'ignaro passante sono molte e la prima che balza alla mente è pensare come sia stato possibile che in un luogo così piacevole e pacifico possa essere successo un così grave fatto di sangue. A dar soddisfazione al nostro desiderio di conoscenza sono stati gli attuali e ultimi vecchi pastori dell'alpeggio, che oralmente hanno trasmesso il misfatto ai posteri. La vita a San Luigi(comune di Fabbriche di Vergemoli) è da sempre trascorsa in maniera semplice e senza fronzoli, lassù ad 871 metri d'altezza il lavoro nei campi e la pastorizia erano le attività principali, difatti, li in quella località posta a spartiacque fra la Valle di Turritecava e Gallicano è da tempo immemore che i pastori vivono delle loro attività agricole, producendo per se stessi e per i mercati paesani del fondovalle, formaggi, insaccati e dell'ottima farina di castagne e fu proprio durante la raccolta di castagne che il fattaccio si compì. Ma partiamo dal principio, da quando Goffredo Benelli un giovane pastore del luogo agli inizi dei primi anni del 1900 partì emigrante per le lontane Americhe. Quello era il tempo 
San Luigi
delle grandi emigrazioni garfagnine, la miseria da queste parti era tanta e le opportunità di lavoro che davano gli Stati Uniti erano buone. Forza di volontà e sacrificio erano le doti che un emigrante doveva avere, a maggior ragione se a casa si lasciava moglie e figli, proprio quello che accadde al Benelli. Ci si può immaginare quali e quanti pensieri poteva avere nella testa un emigrante, lasciando la famiglia a casa e tante volte a fomentare pensieri assurdi e maligni ci pensava la gente del paese di origine, nonostante si fosse a migliaia e migliaia chilometri di distanza. Sta di fatto che a San Luigi, così come in altrettante località garfagnine, era abitudine durante le serate "a veglio" fare e comporre delle satire. Per chi non lo sapesse (in questo caso) la satira è un componimento (per così dire) poetico, fatto per deridere e sfottere le persone e che mette in risalto, a volte con ironia pacata, e a volte con invettiva sferzante, vizi e difetti di svariati personaggi e quei personaggi nei piccoli borghi erano la gente che in paese vi abitava. A San Luigi "maestro" in questi scritti era tale Gustavo Puccetti. Il Puccetti era uno di quelli a cui piaceva, e non poco, alzare il gomito, per di più era anche uno di quelli che si deliziava a mettere zizzania, insomma era un vero e proprio pettegolo. Dalla sua parte però aveva anche un pregio (mal sfruttato), era bravo nell'arte dello scrivere,
 dato che: "era intelligente e aveva studiato per diventare prete". Fattostà che a conseguenza di ciò, la malasorte e la  becera maldicenza di queste satire colpirono la sfortunata Giuseppina Furischi, moglie del Benelli. I fatti narrano che il Puccetti, a quanto pare, si faceva vanto di aver avuto una storia un po' piccante proprio con la stessa Giuseppina (si reputava che questo non fosse vero), d'altronde la poveretta era un bersaglio facile da colpire, la donna era giovane, sola e con dei figli piccoli, il marito era emigrante e la sventurata forse non si sapeva neanche difendere e poi ci sarebbe stato poco da difendersi... Niente si poteva fare quando una di queste velenose satire raggiunse per lettera il marito. In questo componimento si parlava in doppio senso e in maniera sottintesa ed ironica che qualcuno del paese fosse stato a mangiare "le susine" in Chiusa (località dove la famiglia Benelli aveva un'altra casetta)... e che "susine"!!! L'autore di tutto ciò, così si riferisce, non poteva che essere stato il Gustavo Puccetti, solo lui, con la sua arguzia e finezza nello scrivere poteva congegnare tale scritto. A dispetto di questo, senza sincerarsi della verità e del pettegolezzo il Goffredo Benelli tornò improvvisamente dall'America e pervaso dalla più completa gelosia rimise piede in San Luigi. Poco tempo dopo il suo ritorno arrivò il tempo della lavorazione castagne. Forse sarà stato  un novembre del 1922 quando di buon mattino la Giuseppina, il Goffredo e altre persone del posto partirono per andare a lavorare al metato. Era arrivato il momento di "sgusciare" le castagne e questa era l'occasione conviviale in cui tanta gente si adoperava allegramente in queste mansioni. Resta il fatto, com'era sua abitudine, che quel giorno il Goffredo partì di casa con a tracolla il suo fucile ad avancarica e s'incamminò in fila indiana con tutta la comitiva sulla strada che portava al metato. Giunti all'altezza della "mestaina" che ricorda la disgrazia,
La mestaina che ricorda il misfatto
testimoni raccontano che marito e moglie si misero a parlottare, improvvisamente Goffredo si rivolse verso la moglie e pronunciò queste parole: - Giuseppina ti sparo!-, Giuseppina si voltò e incredula
 gli sorrise, a bruciapelo dallo schioppo parti un colpo che squarciò il petto alla sventurata, che balzò morta nel fosso sottostante. Il Benelli preso dalla paura del probabile linciaggio dei parenti della Giuseppina fuggi per le selve, finchè non raggiunse Gallicano dove si costituì ai Carabinieri Reali. I resoconti orali raccontano ancora che l'assassino fu condannato e di fatto carcerato nella colonia penale dell'Isola di Procida. Pochi anni dopo l'efferato femminicidio Goffredo Benelli tornò libero, fortuna (sua) volle che  l'8 gennaio 1930 il Principe Umberto di Savoia e Maria Josè del Belgio convolassero a nozze. Com'era occasione per un matrimonio reale, il re concedeva l'amnistia e la grazia visto che: "In occasione delle nozze del principe ereditario, il re ha emanato un decreto di amnistia e d’indulto per reati comuni e militari. Si presume che del provvedimento odierno beneficeranno oltre 400 mila persone, delle quali circa un terzo imputate di delitti e il resto di contravvenzioni. In virtù del condono saranno liberati circa 600 detenuti. Consiglio di Stato
1/1/1930"
. Probabilmente il delitto del Benelli, così come altri di medesima tipologia fu inserito in quella categoria di crimini minori che si appellava al "delitto d'onore",  istituito dal codice Zanardelli del 1889 (e rimasto in vigore fino al 1981!!!) che all'articolo 587 prevedeva: "Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall'offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni". Insomma, l'uccisione della donna era considerato un reato marginale e di poco conto. Per giunta, i protagonisti di questi fatti negli anni a venire continueranno la loro tranquilla vita. Gustavo Puccetti morì nel 1968 per un tumore allo stomaco causato dall'abuso d'alcool, il Goffredo Benelli tornò a vivere a Vallico con una figlia, morì a 95 anni nel 1979.

In ricordo di Giuseppina Furischi, donna inconsapevole di un mondo che non è ancora cambiato.

Un ringraziamento al mio amico Daniele Saisi, il primo ad aver riportato alla luce questa vecchia e triste storia e che con pazienza ha raccolto le testimonianze orali dei "vecchi" di San Luigi. (Le foto dell'articolo sono sempre di Daniele)

Mummie, capelli, braccia e perfino il legno della Croce di Cristo... Viaggio fra le reliquie "garfagnine"

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Dita, mani, lingue, cuori e anche capelli, senza farci mancare femori, sacre spine e piume di angeli... Signore e signori benvenuti nell'ingarbugliato e complicato mondo delle reliquie cristiane. "Reliquiae" in latino significa "resti", nella maggior parte dei casi queste si riferiscono al corpo di un beato o di un santo, o a un qualsiasi altro oggetto che abbia avuto con questi una  diretta connessione. Esistono poi anche le cosiddette "reliquie laiche", riferite nello specifico a persone famose: la chitarra di John Lennon, il cappello di Napoleone, senza parlare dei vestiti di Elvis e altro ancora. Rimane il fatto che il Medioevo rappresentò l'età d'oro delle reliquie cristiane, si venerava di tutto, dalla lancia che trafisse il costato di Gesù, alla tovaglia usata per lavanda dei piedi per gli apostoli, nonchè il bastone di San Giuseppe, o il latte della Vergine, fino ad arrivare... ai raggi della Stella Cometa. Questi resti viaggiavano da un luogo all'altro dell'Europa, con il loro carico di devozione e superstizione e molti di questi oggetti (presunti) sacri nel loro girovagare non mancarono nemmeno di raggiungere anche la remota Garfagnana. Ad ogni modo, è giusto dire che tutto quello che riguarda le reliquie va preso con le dovute cautele, alcune di esse senza ombra di dubbio le possiamo considerare autentiche e altre un po' meno. A conferma di ciò Papa Paolo VI fece raccogliere in tutto il mondo i denti di Sant'Apollonia, patrona dei dentisti (che fu proprio martirizzata togliendoli i denti con le tenaglie), ebbene, riuscì a raccoglierne circa tre chili... fu dato ordine di gettarli nel Tevere... Che dire allora? Senza paura di essere smentiti possiamo affermare che per secoli e secoli di questa pratica sussisteva un vero e proprio mercimonio, che portò ad una corsa per accaparrarsi ogni sorta,
specie e genere di oggetto che avesse avuto almeno un'apparente vicinanza ad una reliquia, nessuno però si preoccupò o si curò
, come sarebbe stato doveroso fare, della loro dubbia origine, anzi, in seno alle chiese fu portato veramente di tutto. La Valle del Serchio fu una delle zone maggiormente colpite da questa moda e i motivi di questo furono svariati. Il primo fu di ordine puramente superstizioso, si credeva infatti che i resti dei santi avessero proprietà curative e spirituali. Il secondo era naturalmente religioso, in quanto queste reliquie erano funzionali per avvicinare l'uomo alla fede. Il terzo era strettamente politico, ed era quello che più influenzava la Garfagnana, terra da sempre frammentata da poteri contrastanti, infatti possedere gli oggetti dei santi era strumento di rafforzamento dell'identità, ma non solo, per il popolo costituiva (anche) elemento di garanzia per una eventuale protezione divina contro guerre, pestilenze e miseria, inoltre poneva una salda base per le nascenti realtà locali. Era comunque il tempo  dei grandi pellegrinaggi, molti di questi percorsi che conducevano ai luoghi santi passavano proprio di qua e possedere un tale oggetto diveniva motivo di attrazione per quel determinato posto, facendo nascere così una sorta di turismo mistico-religioso. Con il passare degli anni questo singolare traffico di collezionismo sacro non diminuì, al contrario, aumentò e si ampliò così tanto che si rese necessaria una categorizzazione (ancora oggi in vigore). Esistono così reliquie di I classe: ossia tutti quegli oggetti associati direttamente alla vita di Gesù (il legno della Croce, i chiodi della crocifissione o la Sacra Sindone che tutti conosciamo). Le reliquie di II classe: oggetti che il Santo ha usato o indossato (un mantello, un anello o un vestito). Reliquie di IIIa, cioè ogni oggetto entrato in contatto con le reliquie di I classe. Infine reliquie di IV classe, qualunque oggetto che sia entrato in contatto con le reliquie di II... Insomma, questo dovrebbe chiarire bene che mondo tortuoso e complesso è quello di questi oggetti sacri, un mondo  che già in quei tempi lontani era fatto da creduloni, truffatori e da... "corpisantari", personaggi che non avevano il benchè minimo scrupolo nel devastare tombe e cimiteri alla ricerca di corpi di santi o beati o dei loro oggetti. A conti fatti ci si rese conto che era stato passato veramente ogni limite alla decenza e in qualche maniera andava messa la parola fine a questo indegno bailamme. Fu il teologo protestante Giovanni Calvino a scuotere Santa Romana Chiesa dal suo torpore e conseguentemente a pubblicare nel 1543 "Il Trattato delle reliquie", questo elaborato criticava e ridicolizzava il fervore religioso che esisteva intorno ad ossa e
tessuti del corpo umano, fece notare che alcuni santi avevano tre o quattro corpi diversi sparsi per tutta Europa o che una spugna veniva adorata come se fosse il cervello di San Pietro... Per la Santa Sede fu come aprire gli occhi su un qualcosa che già si sapeva e che più o meno era tacitamente consentito, da quel momento però, per autenticare una reliquia servi un certificato di autenticità che solo il vescovo poteva concedere. Ma allora le reliquie che abbiamo in Garfagnana sono vere o false? San Pellegrino e San Bianco mummificati sono proprio loro? e il legno della Santa Croce che è a Gallicano è proprio quello? Possiamo solamente dire che tutte queste reliquie possiedono un certificato d'autenticità. Gli studiosi però affermano che certi criteri di vecchie certificazioni erano per così dire un po' lacunosi. Infatti insieme a questi oggetti non è affatto raro trovare un piccolo cartiglio o un vero e proprio documento con tanto di sigillo in lacca rossa, in cui un alto prelato o un vescovo a suo tempo certificarono l'autenticità della reliquia secondo diritto canonico. Era però il metodo con cui venivano attribuiti questi certificati che lasciava un po' di perplessità, difatti spesso ci basava sulla tradizione orale o sulla cosiddetta "continuità", non mancava nemmeno che questa documentazione fosse assegnata per "adorazione": una determinata reliquia era ormai venerata dai fedeli da molto tempo, per cui era impossibile che non fosse vera... Quello che è certo che sono davvero pochi i casi in cui si è conservata traccia della reliquia fin dal suo nascere. In sostanza non rimane che fidarci delle cronache antiche e credere... Credere che la reliquia più nota di
tutta la Garfagnana:  i corpi mummificati di San Pellegrino e San Bianco, siano li in quella chiesa, quasi incorrotti da 1500 anni e custoditi da 600 in quel tempietto marmoreo di Matteo Civitali. C'è poi Pieve Fosciana che dal 31 agosto 1860 ricorda e festeggia il Beato Ercolano. Pochi anni prima, nel 1856, fu rinvenuta la sua tomba nei pressi del suo convento, da quel giorno i suoi resti mortali sono conservati dentro un'urna. E se di questi suddetti santi sono rimasti i corpi e pochi altri resti, di San Doroteo nella chiesa di Cardoso a lui dedicata non rimase che un braccio che era già venerato nel 1260: "Nel detto castello se ne fà in questo giorno gran solennità, portando in processione dalla chiesa maggiore al suo oratorio, il suo braccio tenuto amorevolmente in vaso d'argento". Fu invece alla "Compagnia della Santa Croce" di Castelnuovo, i fondatori di un nuovo ospedale, che verso la metà del 1500, proprio grazie al loro grande amore avuto verso i bisognosi, che il conterraneo Cardinal Pietro Campori donò a loro diverse e preziosissime reliquie: secondo la tradizione si sarebbe trattato del latte e di un pezzo del velo della Vergine Maria, alcune reliquie degli apostoli Pietro e Paolo (insieme ad altre) e a un pezzo della Santa Croce. Il solito pezzettino di legno della Santa Croce lo ritroviamo a Gallicano, questo nel 1728 fu donato alla comunità dal Reverendo Vincenzo Cheli, inoltre (sempre a Gallicano)non poteva mancare la
reliquia
della santa croce di
Gallicano
reliquia di San Jacopo, patrono del paese, e nella chiesa omonima insieme a quella del suddetto apostolo abbiamo una reliquia di San Giovanni Battista, Santa Scolastica, Santa Caterina e Papa Pio V queste (in parte) donate nel 1666 dal padre gesuita  Bartolomeo Santucci. Di fronte a tutta questa santità nostrana non poteva nemmeno mancare la reliquia del poverello d'Assisi, ossia San Francesco, questa è a Borgo a Mozzano, nel convento a lui dedicato, ma non c'è solo questa, fra pezzi di stoffa, capelli e ossa abbiamo reliquie di Santa Rita da Cascia, San Rocco, San Bernardino, Sant'Antonio da Padova e a seguire ancora una trentina fra santi e beati... Ah dimenticavo, anche a Borgo a Mozzano c'è un ennesimo pezzettino della Santa Croce... A proposito di questa santa e benedetta croce mi ritornano alla memoria gli scritti dell'umanista spagnolo Alfonso del Valdes che riguardo a questa disse: "
I chiodi della croce, come scrive Eusebio, erano tre... e adesso ce ne sono uno a Roma, uno a Milano e uno a Colonia, poi ancora un altro a Parigi, uno a León, e infiniti altri. E infine, i legni della croce: vi dico in verità che se riunissero tutti quelli che dicono esservi nella cristianità, basterebbero per riempire un carro". Va bhè, la fede è fede e questa non va discussa, sennò così non si chiamerebbe, comunque sia a corollario di questi resti sacri, sono i suoi contenitori, un vero portento di bellezza sono infatti i
reliquiari: magnifici e di uno sfarzo impressionante, delle vere  e proprie opere d'arte, alcuni sono in oro, altre in argento e taluni erano tempestati di pietre preziose. Tutti questi oggetti, sono oggettivamente affascinanti, misteriosi e forse a volte un po' patetici, però bene o male rappresentano una cultura, una tradizione ed una identità, valori oggi quasi del tutto scomparsi...

Bibliografia

  • "La storia delle SS reliquie della comunità gallicanese" Fabrizio Riva, Don Fiorenzo Toti, anno 2021
  • "Il traffico delle reliquie" di Jesus Callejo, National Geographic, anno 2020
  • La foto della reliquia della Santa Croce di Gallicano è tratta dal opuscolo "La storia delle SS reliquie della comunità gallicanese"

"La febbre del sabato sera"... di una volta (in Garfagnana)

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Non capitemi male per favore... Il suddetto titolo non vuole esse
re nè irrispettoso e nè tanto meno irriverente, vuole essere semplicemente esplicativo su quello che era il sabato sera e il divertimento per i nostri antenati. Anche per loro esisteva un sabato dedicato al riposo e allo svago, non era tutto un lavorare nelle fabbriche e nei campi, ci mancherebbe altro... Quello che è certo è che nessuno dei nostri avi era un Tony Manero che bazzicava le fantasmagoriche discoteche di New York, quello no, però l'essenza del film si può applicare anche alla nostra gente, infatti il film narra di un ragazzo che ha una passione sfrenata per il ballo, questo suo passatempo trova il suo sfogo il sabato sera nelle disco newyorkesi, uno svago che lo fa rifuggire (anche)dalle amarezze e dai problemi della vita. Un po' quello che succede pure oggi e che forse una volta accadeva di più, quando la vita era ancora più grama e misera e il sabato era l'occasione per distrarsi, divertirsi e lasciar da parte per qualche ora le preoccupazioni famigliari. D'altronde il sabato è stato sempre un giorno speciale, non per nulla il nome deriva dall'ebraico "shabbat", ovvero, giorno di riposo. Per i romani invece era "Saturni dies", il giorno di Saturno (ancor oggi in inglese sabato è saturday)e ad onore del vero bisogna dire che era un giorno di cattivo augurio. Tutt'altra cosa durante il periodo fascista  ci pensò "lui" a cambiargli nome in "sabato fascista", si evidenziava in quel giorno la conclusione anticipata dal lavoro per dedicare il resto della
giornata ad attività culturali, sportive e paramilitari. Meglio di tutti però lo descrisse Giacomo Leopardi nella poesia "Il Sabato del Villaggio", il sabato paragonato alla metafora delle speranze e delle illusioni umane: "
Questo di sette è il più gradito giorno/pien di speme e di gioia/diman tristezza e noia recheran le ore/ ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno". Insomma vediamo allora com'era un sabato garfagnino nei primi anni del 1900. Però, prima partiamo da lontano, da molto più lontano. Il concetto di tempo libero cominciò a prender piede  già nel medioevo anche se non era proprio come lo intendiamo oggi, però anche in quell'epoca in cui vita e lavoro spesso coincidevano vi erano feste e passatempi e non solo chiesa, lavoro, politica e guerre. Naturalmente il tipo dei divertimenti medievali variava da classe sociale a classe sociale, l'unica cosa che accomunava tutte le persone erano infatti gli ultimi due giorni della settimana: il sabato che poteva (sottolineo, poteva...) essere dedicato alla distrazione e la domenica che era obbligatoriamente dedicata al Signore. Fattostà che il cavaliere nel giorno di svago iniziava il pranzo alle dieci circa e dopo qualche ora di riposo riceveva i suoi ospiti nel giardino e li si dilettavano a raccontar novelle, discorrere, fare giochi di società ed eventualmente ad improvvisare danze, in certe Signorie non mancavano nemmeno i giocolieri e i musici. Ma anche i contadini garfagnini si divertivano, anche se in modo diverso, il divertimento qui era incentrato più che nel sabato nelle numerose feste religiose in cui esisteva l'obbligo di non lavorare e allora si abbondava in bevute e scherzi. In alcuni documenti storici degli archivi garfagnini si parla anche di rappresentazioni teatrali basate sui misteri della fede, ma c'erano anche i cantastorie che narravano imprese eroiche di guerre lontane e poi c'erano soprattutto quei giochi di strada, croce e delizia del misero popolino. Il più famoso nella Valle del Serchio era il gioco della ruzzola (l'attuale tiro della forma). Il gioco
radunava decine e decine di persone, ben presto queste assemblee si trasformavano in un clamoroso e scomposto vociare, e quando gli animi più focosi ed energici, sollecitati da qualche bicchierotto di vino si trovavano al culmine della gara, per ogni minimo screzio o per qualche contestazione sulla regolarità della competizione in men che non si dica si passava alla baruffa e dalla baruffa alla rissa collettiva il passo era breve. In questo contesto era chiaro che di secolo in secolo per questi giochi seguiranno proibizioni e divieti vari, quello che doveva essere un semplice divertimento spesso e volentieri si trasformava in un turbamento per l'ordine pubblico. Era ad esempio il caso di Camporgiano dove nel 1605 si ordinava che: "per evitare li scandali, ed ogni altro buon rispetto, nessuna persona terriera o forestiera aderisca, nè presuma tirare trottole di legno". Neppure a Gallicano nel 1668 si badava tanto per il sottile: " Per l'avvenire s'intende e sia proibito nel castello di Gallicano e suo territorio ad ogni persona di tirar formaggio e girelle per le strade o altrove senza licenza del Signor Commissario, pena di due scudi d'oro per uno". Le autorità non erano preoccupate esclusivamente per le risse e gli infortuni, non si perdeva di vista nemmeno l'aspetto morale e religioso e in quel di Cascio Don Vincenzo Angeli oltre a lamentarsi delle bestemmie e degli improperi dei giocatori  diceva anche: "Il giuoco della palla o delle pallette si fa davanti a questa chiesa parrocchiale, è non è il raro caso che quest'ultima si sia arrivati a batter nei muri della chiesa stessa mentre ha fatto sempre mal sentire il fracasso e le parole improprie che spesse volte si proferiscono dai giocatori". Tuttavia il tempo passa e le cose cambiano e anche nei momenti di maggiore difficoltà e grande povertà, non si è mai smesso di cercare un modo per svagarsi ed era proprio in queste uggiose giornate autunnali quando la luce spariva sotto una fitta coltre di nuvole basse e la notte si faceva buia come la pece che in Garfagnana, davanti al camino e a una padella di mondine,
illuminati da una fioca luce proveniente da una lucerna che cominciava un classico sabato sera invernale di oltre cento anni fa. Non erano le discoteche o i rumorosi pub le location di quelle serate, erano le stalle o le ampie cucine di una volta lo scenario ideale per le sere "a veglio". Era un rituale quasi sacro che si ripeteva nel tempo. 
I vegliatori più anziani si mettevano con le loro seggiole vicino al camino e così piano piano  si avvicinavano i ragazzi e le ragazze, dopo pochi attimi ai ragazzi si aggiungevano le famiglie, intanto tutt'intorno nonostante il momento fosse di riposo e tranquillità i piccoli lavoretti andavano avanti, c'era chi aggiustava gli attrezzi, chi sgranava le pannocchie e chi badava al fuoco del camino  Nel frattempo mentre le mani erano occupate in cento cose fiorivano i racconti e le storie più o meno fantasiose, più o meno vere e tutto si confondeva in un misto fra verità e leggenda. D'altronde era durante queste feste che certi racconti rimanevano più impressi nella memoria di tutti, storie che affascinavano genitori e bambini, storie che parlavano di streghe, fantasmi e di buffardelli. Chi si avvantaggiava di questa situazione erano gli innamorati che approfittando dell'attenzione dei genitori al vegliatore sfuggivano al loro occhio vigile per scambiarsi dei fugaci baci. Arrivava poi il momento che gli estasiati bambini andavano a dormire e allora una volta messi a nanna i pargoli le
donne chiacchieravo dei fatti e fatterelli del paese e gli uomini giocavano a carte. In certe serate non mancava nemmeno il tempo per giocare a tombola, anche questo era un gioco che accomunava molte  famiglie, il problema era che anche questo divertimento non era visto di buon occhio dalle autorità religiose: "il gioco distrae i fedeli dai loro doveri di buoni cristiani, soprattutto dalla preghiera". Bando a ogni sorta di impedimento la gente ci giocava comunque, dato che il tempo in cui ci si poteva permettere maggiormente diletto era limitato nei mesi. Era difatti l'inverno, il cosiddetto "riposo stagionale", per i contadini la stagione fredda era meno laboriosa e stancante e ci si poteva concedere qualche distrazione in più, dedicandosi perfino a qualche serata danzante; 
mazurke e valzerini vari capitavano proprio il sabato sera. I Bar, le aie (dove di solito d'estate ferveva il lavoro contadino) e qualche rara sala da ballo erano i luoghi preposti al ballo. Anche qui, immancabilmente, contro questi balli "peccaminosi e tentatori" molto spesso tuonavano dal pulpito i vari parroci di quei tempi, spesso da quel pulpito il prete la domenica avvertiva le famiglie del pericolo di quei balli, un pericolo che incombeva sia sui giovani che sugli adulti. Arrivava comunque il momento dell'anno in cui la parola "divertimento" con tutti i suoi annessi e connessi doveva essere sospesa dal vocabolario di chiunque, ricco o povero, giovane o anziano che fosse, la Quaresima era il "de profundis" del sabato e dello svago, e qui nessuno doveva transigere. Paesi interi in Garfagnana si immergevano in un’atmosfera di attesa, un’attesa di silenzio paziente, con la chiusura di teatri, posti di ritrovo, perfino le radio rimanevano spente. Sempre nel silenzio, le famiglie di contadini, limitavano il loro pasto quotidiano a uno spuntino frugale, che doveva essere consumato rigorosamente al buio e dopo il tramonto. Anche talune 
osterie, per evitare tentazioni, venivano chiuse e questo significava niente bicchierino di vino o partitina a carte. Arrivò poi il tempo in cui le feste perderanno il senso di comunità, arrivò anche il tempo del divertirsi "per forza" e quei sabati "a veglio" rimarranno un lontano e nostalgico ricordo da tramandare ai più giovani in un articolo di qualche blog...

Origine e storia dei meravigliosi laghi della Garfagnana

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Era la sera del 6 novembre 1780 quando una rana diede l'inizio ad un
cambiamento epocale in tutta la Garfagnana: la geografia della nostra valle cambiò per sempre... Va bhè dai, il concetto è un po' estremizzato e fin troppo specifico, sicuramente quello che è indubbio è che questo esperimento che vi illustrerò (molto) brevemente migliorò la qualità della vita di tutta l'umanità. Prima però di chiarire questa sensazionalistica affermazione partiamo con il raccontare i fatti dall'inizio. Senza dubbio è da quella data e da quelle suddetta rana che la storia dell'uomo mutò radicalmente. Questa rana, diventerà la rana più famosa della storia, grazie allo scienziato Luigi Galvani che effettuando un esperimento toccò con un arco conduttore i muscoli della zampa di una rana morta e scoprì che l’animale si mosse con un balzo. Senza saperlo, aveva inventato il prototipo della pila. Difatti sulla base di queste sperimentazioni, un altro grande scienziato italiano, Alessandro Volta, nel 1799 la realizzò: fu così la nascita dell’energia elettrica. Da quel momento, una buona parte del mondo scientifico per diverso tempo s'interessò marginalmente degli studi
sull'elettricità che di fatto progredirono ben poco. Addirittura nel 1878 all'Esposizione Universale di Parigi questa nuova fonte di energia fu completamente snobbata, tant'è che lo scienziato inglese Sir Erasmus Wilson convintamente affermò:-Finita questa mostra, di luce elettrica non sentiremo più parlare!- Mai nessuna previsione fu così clamorosamente errata... Pochi anni dopo da questa dichiarazione l'Italia era all'avanguardia nelle due principali fonti rinnovabili: geotermica ed idroelettrica e l'energia dell'acqua è quella che toccherà da molto vicino tutta la Valle del Serchio. Insomma, cominciava così la corsa all'elettrificazione d'Italia. Annusando l'odore di bei soldoni ci fu un proliferare di nuove industrie e di nuove società elettriche pronte ad investire capitali nell'energia e di fatto a spartirsi geograficamente le zone d'Italia, in modo che ognuno potesse avere la sua fetta di torta. Al sud presero il monopolio la G.M.E (Gruppo Meridionale Elettricità) e la S.M.E (Società Meridionale Elettricità), che curò la prima elettrificazione della città di Napoli. Al nord del Paese esistevano la Società Adriatica di Elettricità, che s'interessava di tutto il nord est della nazione. In Piemonte poi c'era la Società idroelettrica Piemonte (la S.I.P),in Sardegna la S.E.S (Società elettrica Sarda)... e in Toscana? In Toscana (e in Liguria) regnava incontrastata la S.E.L.T, ossia la Società elettrica ligure toscana. Il suo fondatore nel 1905 fu nientepopodimeno che Luigi Orlando, colui che già dal
1902 era il proprietario della Società Metallurgica Italiana, ovvero la S.M.I. L'occhio lungo (e più che altro lungimirante) della famiglia Orlando era infatti caduto proprio sulla Valle del Serchio. Quale zona poteva essere migliore di questa valle per la produzione dell'energia elettrica? La particolare conformazione del territorio con tutte le sue pendenze e la ricchezza d'acqua erano l'ideale per lo sfruttamento della risorsa idrica per la produzione di forza motrice, dando di fatto vita ad un business tutto locale ed esportato poi in tutta la regione. Fu in questo modo che per tutto il novecento il bacino del fiume Serchio e i suoi principali affluenti divennero l'oggetto di realizzazione di diverse dighe. Il paesaggio della Garfagnana iniziò una progressiva trasformazione ed a un mutamento perenne, che diede luogo alla formazione di laghi artificiali: Vagli, Gramolazzo, L'Isola Santa e altri ancora. Insomma nell'arco di quel secolo nel nostro territorio sorsero ben 13 dighe e una decina di laghi, si calcolava che già negli anni '30 del 1900 il 60% degli impianti toscani fossero realizzati lungo il bacino del Serchio, che producevano l'80% circa del valore energetico regionale. Nel 1933 ci fu invece un'altra svolta, la SELT allargò i suoi orizzonti
associandosi con la Valdarno, che operava in altra parte della regione. Il connubio diede vita al colosso energetico SELT-Valdarno. Tutto questo andò avanti fino al 1962, quando tutte queste società furono nazionalizzate in una sola: ENEL. Dopo questa doveroso chiarimento ecco spiegato per quale ragione una rana cambiò per sempre la fisionomia geografica della Garfagnana... Fattostà, lasciando perdere qualsiasi business, faccende varie e attività economiche, possiamo dire senza ombra di smentita che questi laghi sono da considerarsi un valore aggiunto alla bellezza della Garfagnana, essendosi perfettamente integrati con il paesaggio circostante, tanto che senza di loro la Garfagnana non sarebbe più la stessa. Oggi questi laghi sono sfruttati, per la pesca, per le attività sportive e soprattutto per le attività turistiche. Tutti sono bacini artificiali, nati proprio in quel periodo storico. La Garfagnana ha un solo lago naturale ed il laghetto di Prà di Lama a Pieve Fosciana. Comunque sia il primo lago e la prima diga realizzata fu quella di Villa Collemandina. Era il
La diga di Villacollemandina 
in costruzione
1914 quando fu innalzata a tempo record: tre mesi. Questa diga alta 37,5 metri dette di fatto vita al lago che raccoglie le acque del torrente Corfino e Castiglione. La diga resse perfino l'onda d'urto del terribile terremoto del 1920. Il più famoso di tutti rimane sicuramente il lago di Vagli e il suo paese sommerso. Tutto iniziò nel 1941 quando (l'ormai famosa) Selt Valdarno, sbarrò il corso del fiume Edron con lo scopo di costruire un bacino idroelettrico. Tra il 1947 e il 1953 venne costruita la diga (92 metri d'altezza) e 34 milioni di metri cubi d'acqua sommersero per sempre l'antico paese di Fabbriche di Careggine. Quando il borgo venne sommerso contava 31 case popolate da 146 abitanti, un cimitero, un ponte a tre arcate e la chiesa romanica di San Teodoro, risalente al 1590. Anche il lago dell'Isola Santa ha in parte un'ennesimo paese sommerso sotto le sue acque. Prima di essere (semi) inondato la storia ci dice era una fiorente località. Le prime notizie scritte dell'Isola Santa le abbiamo nel 1260, certamente la sua nascita risale però a molto tempo prima. Il borgo poggia sulle rovine di un antico hospitale, chiamato l'Hospitale di San Jacopo, meta di sosta per viandanti e pellegrini di ogni sorta. Purtroppo però il progresso arrivò anche lì. Nel 1949 venne innalzata la diga per lo sfruttamento delle acque della Turrite Secca e il piccolo 
Isola Santa 
paese fu così in buona parte sommerso dalle acque del lago: alcune case, un ponte ed un mulino. Il peggio però doveva ancora arrivare, infatti le restanti case avevano problemi di stabilità, la grande escursione giornaliera delle acque rendeva fragile il terreno che era diventato soggetto ad un facile smottamento. Il paese nel 1975 fu così completamente abbandonato, era diventato un paese fantasma. Da un punto di vista turistico il lago di Gramolazzo è quello sicuramente più frequentato, tanto che la sua immagine è finita sui barattoli della celeberrima "Nutella" in una "limited edition" dei luoghi più belli d'Italia. Un campeggio con noleggio barche, alberghi, bar, ristoranti e aree attrezzate per il 
Lago di Gramolazzo
pic nic hanno fatto di questo luogo una meta turistica d'eccellenza. Un fatto che non si sarebbe mai immaginato la Selt Valdarno quando negli anni '50 del secolo scorso sbarrò il corso del Serchio di Gramolazzo. Il lago ha una superficie di un chilometro quadrato e un volume di 3,8 milioni di metri cubi. Un altro importante torrente che va ad immettersi nel lago è l'Acqua Bianca che proviene dal Monte Pisanino. Invece il paese di Pontecosi da tempo immemore aveva già uno stretto rapporto con l'acqua, infatti il castello che li sorgeva aveva la sua funzione principale nel controllare gli accessi al fiume. Ma la vera trasformazione ci fu nel 1925 quando con la realizzazione della diga nacque l'omonimo lago. Immissario del lago è anche il Fosso di Corfino che a sua volta proviene dal lago artificiale di Villa
Lago di Pontecosi
Collemandina. Lo specchio d'acqua è poco profondo e non balneabile, possiede però una bellissima fauna, essendo uno dei luoghi di svernamento di folaghe, anatre selvatiche, aironi cenerini e altre specie ancora. 
Nel corso degli anni 2000 un gruppo di volontari ha recuperato terreni abbandonati all'incuria e che sono stati trasformati in zone relax con giardini e aiuole curate, parco giochi, bar e campo gara per il gioco delle bocce. La manutenzione è curata interamente dagli abitanti del paese. Il lago di Turritecava  è quello più a sud della Garfagnana ed ha una conformazione del tutto diversa dagli altri visto che inserito tra due gole rocciose. La sua creazione avvenne tra il 1937 e il 1939 e le acque che lo alimentano
Lago di Turritecava
(oltre a quelle dell'omonimo torrente) arrivano dalle cime meridionali delle Alpi Apuane: il monte Bicocca e il Monte Matanna. Il lago si sviluppa per ben 1200 metri di lunghezza e 70 di larghezza è ideale per fare canyoning. Andando dalla parte opposta, all'estremo nord della Valle, percorrendo la strada comunale che collega Sillano al Parco naturale dell'Orecchiella, subito dopo l'uscita dalla galleria irrompe improvvisamente la diga di Vicaglia, costruita nel 1920, questo invaso è alto 53 metri e le acque del Fiume a Corte formano il lago. Questo invaso d'acqua alimenta la centrale idroelettrica di Sillano la più alta di tutta la Garfagnana. Infine rimane lui, l'unico lago naturale della Garfagnana: il laghetto di Prà di Lama. Diciamo che il lago ha una storia del tutto particolare, nel tempo queste acque hanno alimentato timori e leggende, in paese si diceva che era un lago magico, ed in effetti la sua storia lasciava dei presupposti per quel tempo a dir poco misteriosi... 
Lago di Prà di Lama
La nascita del lago di Prà di Lama è recentissima, nel 1826 al posto del lago c'era un bel prato verde, dove al centro vi era una copiosa sorgente termale. Lì in quel luogo ci fu costruita una capanna, una casupola dove gli avventori facevano bagni ed abluzioni a scopo terapeutico. Nel giro di pochi mesi la situazione mutò clamorosamente, la capanna venne inghiottita dal terreno ed il suolo sprofondò lasciando il posto ad uno specchio d'acqua non troppo grande. 
In quell'occasione il lago si ampliò e arrivò a misurare quaranta metri di circonferenza e undici di profondità. Nel 1842 il lago da come era "miracolosamente" comparso improvvisamente scomparì quasi del tutto, per poi nell'anno successivo un nuovo movimento del terreno provocò la nascita di altre dieci sorgenti che ingrandirono nuovamente il lago. Insomma, per farla breve oggi è ancora lì e in tutto il corso della sua storia il laghetto si allargherà e stringerà a suo piacimento (per saperne di più leggi:http://paolomarzi.blogspot.com/2014/11/le-terme-di-pieve-foscianacroce-e.html). In conclusione non mi rimane che lasciarvi con una speranza e visto che la stagione estiva ci ha già lasciati da un pezzo e il tempo delle ferie è già passato, io auspico che questo non impedirà a qualcuno di voi di sfruttare il fine settimana per venire 
Lago di Vagli
alla suggestiva scoperta di questi laghi. Luoghi affascinanti in qualsiasi stagione, pronti a regalavi fresco in estate, colori meravigliosi in autunno, e forse chissà, scenografici quadri imbiancati d'inverno.

Bibliografia

  • "Lucca, imprese di tradizione e successo. L'acqua come motore dello sviluppo", Storia dell'Economia, Cassa di Risparmio di Lucca
  • Archivio Storico ENEL. Personaggi che hanno fatto la storia dell'energia

Viaggio alla scoperta delle parolacce e degli insulti garfagnini. Perchè si dice così...

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Che il turpiloquio e le parolacce siano vecchie come il mondo, certo
non ve lo devo insegnare io, quello che però lascia perplesso un povero profano come me è che gli insulti in generale siamo stati fondamentali per lo sviluppo della società e questo non lo disse uno "scenziatello" qualunque in cerca di visibilità, assolutamente no, difatti Freud, il padre della psicanalisi asseriva che: "colui che per la prima volta ha lanciato all'avversario una parola ingiuriosa invece che una freccia è stato il fondatore della civiltà". L'etologo Irenaus Eibl Eibesfeldt invece avanzava un'ipotesi ancora più azzardata: "gli insulti sono stati il più importante motore nello sviluppo del linguaggio, perchè hanno aiutato a risolvere gli scontri in modo non cruento". Insomma, davanti a cotante affermazioni di esimi professori non mi rimane che togliermi il capello e vista l'importanza che questi termini hanno avuto nell'evoluzione dell'uomo non resta che intraprendere un piccolo e curioso studio sulle parolacce tipicamente (e non) garfagnine. Prima però di addentrarmi nell'argomento mi è doverosa un'introduzione, perchè niente venga lasciato al caso. Cominciamo con il dire che le parolacce o gli insulti in genere erano già nel vocabolario di egizi, greci e romani, questo per ribadire che il turpiloquio è vecchio quanto l'uomo, visto proprio che duemila anni prima della nascita di Cristo compare già nel più antico poema della storia: la saga del babilonese Gilgamesh, nel quale si dice che una
"baldracca" trasformò il bruto Enkidu in un essere civilizzato. Nello stesso periodo storico gli egizi non andavano tanto per il sottile e a quanto pare bestemmiavano senza nessun ritegno e remora. Stando all'interpretazioni di alcuni geroglifici e papiri gli studiosi deducono che Nefti, la dea dell'oltretomba, era definita "femmina senza vulva" e il dio Thot un essere "privo di madre". Tutto questo rimane però interpretabile, quello che non interpretabile è quello che scrisse a suo tempo il poeta greco Archiloco nel IV secolo a.C. Attraverso versi in rima (i cosiddetti giambi)componeva poemi che avrebbero fatto arrossire anche Rocco Siffredi, in compenso però i greci non bestemmiavano per paura di far infuriare gli dei dell'Olimpo. I nostri antenati romani da par loro a parolacce non erano da meno dei "cugini" greci. Anche il loro vocabolario conteneva termini che sono rimasti nel nostro dizionario degli insulti: "stercus" (merda) "mentula"(membro maschile), "futuere"(fottere)e "meretrix"(prostituta). Comunque sia per levarsi ogni dubbio su questo "forbito" dizionario consiglio una visita a Pompei e leggere sui i muri i graffiti di oltre duemila anni fa... Rimane il fatto che con l'andare dei secoli nel nostro bel Paese non ci siamo fatti mancare niente su questo argomento, nemmeno la singolarissima circostanza di avere dentro una basilica romana 
una iscrizione dell' XI secolo che riporta la più antica parolaccia in lingua volgare (volgare in tutti i sensi...). L'affresco in questione raffigura Sisinnio, ricco cortigiano di Nerva, che era convinto che Clemente (futuro Papa), lo
avesse stregato per sottrargli la moglie e convertirla. Ebbene, lo sdegno di Sisinnio fu talmente tanto che in una sorta di fumetto li rappresentato apostrofò Clemente con un sonoro: "Fili de pute".Insomma è inutile girarci intorno, la lingua italiana indubbiamente è quella che nel suo "campionario" contiene più di tutte le altre, insulti, imprecazioni e offese di ogni tipo. Se poi questa materia passa a gerghi specifici e soprattutto ai dialetti italiani, ecco che allora si apre una vera e propria babele. In Garfagnana da questo punto di vista abbiamo svariate ingiurie che hanno origine da molteplici ambiti: storia, natura, animali, altre ancora invece le abbiamo importate da città vicine o addirittura da altre nazioni. "
Bischero" ad esempio è una parola che non ci appartiene ma che sicuramente abbiamo fatto nostra, anche se la sua origine è più che mai fiorentina. La nascita di questa offesa (anzi in questo caso meglio definirla bonaria ingiuria)affonda le sue radici nella storia di Firenze e bisogna andare verso la fine del 1200  quando la Repubblica Fiorentina decise di costruire la Cattedrale di Santa
Maria del Fiore e offrì alla famiglia Bischeri, una delle più potenti al momento, una grossa somma di denaro in cambio del terreno su cui sarebbe poi sorto il Duomo. 
La famiglia, avida di soldi, rifiutò più volte e alla fine, per sfortuna o per dolo, un incendio devastò le loro proprietà radendole al suolo e lasciandoli senza soldi e senza terra. Da allora "fare il bischero" o semplicemente "bischero" significa comportarsi in modo poco furbo, proprio dal nome di quella sfortunata famiglia che, a causa di un comportamento poco assennato, perse tutto. Anche l'offesa tipica nostrale "sciabigotto" trae origini dalla storia "nobile",purtroppo l'ipotesi non è provata nè documentata, ma la tradizione dice che nel corso di una visita di Napoleone a sua sorella in quel di Lucca, il condottiero ebbe l'idea di affacciarsi dalla finestra di Palazzo Ducale per salutare la folla plaudente, non tutti però erano plaudenti e festosi e una parte di questa folla
cominciò a rumoreggiare in segno di protesta verso le imprese dell'imperatore francese, al che un po' sconcertato e arrabbiato si rivolse verso sua sorella Elisa e disse: "
Cosa vogliono questi chien bigots?"("Cosa vogliono questi cani bigotti?"), da qui le autorità italiane li presenti e che erano intorno a Napoleone presero ad intendere la parola "sciabigotto", intesa però da loro in riferimento a persone "buone a nulla", come quelle che erano in piazza a protestare. Fra tutte queste parolacce anche sentirsi dare del "loffaro" non è proprio edificante, essere trattati da vagabondi ed indolenti non è proprio il massimo della vita. Fattostà che questo termine dispregiativo non ha niente a che fare con la storia, ma trae origine dalla natura. La loffa infatti è quel fungo biancastro dalla forma sferica contenente una polvere impalpabile, schiacciandolo questo fungo produce un rumore che fa una cosa gonfia ma vuota, proprio le stesse peculiarità del carattere di un indolente. Puzzi come una "fojonco"è rivolto a tutte quelle persone che hanno poca confidenza con il sapone. Il fojonco infatti non è altro che la faina, animale semi-saprofago che si nutre anche di carne e sangue e il suo odore (vista la sua alimentazione) è a dir poco nauseabondo. Un'altra offesa (grave) non tipicamente garfagnina ma che è da considerarsi propriamente toscana è "budello". Insieme a questa brutta parola si possono anche annettere tutte le varianti che coinvolgono anche il parentato (madre, sorelle e via dicendo).
Naturalmente sappiamo tutti che questo sostantivo ha il significato di prostituta, quello che però è curioso sapere dove trae origine. Difatti, riguardo a questo è bene sapere che già in tempi rinascimentali esisteva una sorta di profilattico fatto proprio con budella di animale, era stato creato per scopi igienici, per difendersi soprattutto dalla sifilide, importata in Europa dal Nuovo Mondo. Quindi quando i lor signori frequentavano i bordelli dovevano (giustamente) munirsi del "budello" prima di affrontare la prestazione con la signorina di turno. E quando una persona viene apostrofato con la parola "locco", che significa? Il locco non è altro che una persona sciocca, un tonto insomma. La causa che ha originato questo epiteto tira in ballo l'incolpevole olocco, ossia l'allocco. Questo rapace simile al gufo è dotato di grandi occhi che quando vengono abbagliati dalla luce conferiscono all'uccello un'espressione sciocca. Il "chioccoron" invece è un insulto tipicamente garfagnino, la "chiocca" infatti è la testa e il chioccoron è un tipo particolarmente duro di comprendonio. Detto questo, è bene sapere che le nostre offese non nascono solamente dal nostro specifico dialetto, anzi, possono avere anche un non so che di internazionale. Sentite un po'. La parola francese "lorgne" significa pigro, ebbene, probabilmente questo termine lo facemmo nostro quando la valle andò sotto il dominio napoleonico. Anche se, ad onor del vero con il vocabolo "lornio" s'intende più specificatamente una persona impacciata nei movimenti. Come se non bastasse, senza essere da meno di altri dialetti, abbiamo anche una identica parolaccia dal significato ambivalente. Difatti di questa brutto termine esiste una versione maschile e una femminile dal senso però completamente diverso: "la potta" e "il potta". La provenienza e la sua origine
comunque sia è unica e viene dalla citta di Modena, antica capitale garfagnina e proprio per questo entrata in uso anche nel nostro modo di dire. La versione al femminile (la potta) come ben sappiamo fa riferimento all'organo genitale femminile, ma la "potta" da cui trae la genesi è nientepopodimeno che un bassorilievo scolpito all'esterno del duomo di Modena, chiamato appunto "la potta di Modena", li è raffigurato un bisessuato che nella realtà si credeva che fosse una tale Antonia che ebbe ben 42 figli... Nella versione maschile (il potta), il significato cambia completamente e infatti questo epiteto viene attribuito ad una persona altezzosa e boriosa proprio com'era nel carattere Lorenzo Scotti, podestà della città emiliana nel XVII secolo. "Scriveano i modanesi abbrevito pottà per podestà su le tabelle, onde per scherno i bolognesi allototal'avean tra lor cognominato il Potta". Come questo documento riporta, per gli avversari politici bolognesi, il soprannome con cui era conosciuto l'arrogante podestà Scotti era proprio "il potta" in riferimento (anche) al bizzarro
 bassorilievo. Che dire poi... Si potrebbe continuare ancora, ancora e poi ancora. Un semplice articolo come questo non riuscirebbe a catalogare tutte queste "volgarità", come
non si riuscirebbe ad inventariare tutto il repertorio lessicale quando uno vuole  veramente sfogarsi. Ora invece vanno tanto di moda quelle parolacce anglofone, secche, univoche e senz'anima: "fuck","shit"... Vuoi mica mettere la nostra bella lingua italiana: tutto un ginepraio di espressioni fiorite, fantasiose, orripilanti e allo stesso tempo oscene, con le quali puoi andare avanti un quarto d'ora di fila senza mai ripeterti...


Bibliografia

  • "Dizionario garfagnino" di Aldo Bertozzi, edizioni  LIR, anno 2017
  • "Nuova Rivista di Letteratura Italiana"- "Il potta di Modena" precisazioni storico linguistiche attorno a un personaggio della "Secchia rapita" di Antonio Tassoni anno 2013
  • Raccolta di Proverbi Toscani di Giuseppe Giusti e pubblicato da Gino Capponi, Le Monnier Firenze, anno 1871

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