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L'arte di costruire nel medioevo in Garfagnana

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Villaggi, castelli e soprattutto chiese e palazzi. Quelle chiese e quei palazzi signorili che ancora oggi sono lì presenti davanti ai nostri occhi e che hanno attraversato ben mille anni di storia. La Garfagnana e la Valle sono costellate da questi edifici, di chiese e chiesette ne abbiamo in ogni dove. Tutto questa vivacità creativa nella nostra zona cominciò nel lontano medioevo quando il Vescovo di Lucca Frediano nel VI secolo fondò le prime pievi, anche se, ad onor del vero furono i Longobardi i primi a costruire edifici cristiani nell'Alta Valle del Serchio. Ma fu lei, la Grancontessa Matilde di Canossa, dopo l'anno mille a consolidare la presenza delle chiese in Garfagnana. Tutta questa sua smania di costruire si può ritrovare infatti nella leggenda
che 
vuole Matilde chiedere al Papa il permesso di celebrare messa; il Papa gliel'accordò a patto che costruisse cento chiese, la contessa si prodigò, ma alla novantanovesima morì. Comunque sia, bando alle leggende e ai miti bisogna dire che il clima fervido di nuove fondazioni si protrasse fino a tutto il 1200 e a rendere ancora meglio l'idea  di tutta questa intensa attività ci pensò nel suo libro "Cronache dell'anno mille" il monaco francese Rodolfo il Glabro, il più famoso cronista d'epoca medievale che così narrò:" Si era già quasi all’anno terzo dopo il Mille quando nel mondo intero, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali. Pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta in un fulgido manto di chiese". Allora, proprio in quel periodo ecco nascere la chiesa di San Michele a Castiglione, San Jacopo a Gallicano, la Pieve dei Santi Pietro e Paolo a Careggine, la chiesina della Sambuca dedicata a San Pantaleone e tutte le altre ancora, compresi austeri palazzi e edifici vari. Certo però, a pensarci bene queste costruzioni, secolo più secolo meno, hanno mille anni d'età... Quelle pietre sono state testimoni di guerre, catastrofi, lotte, hanno visto morire e nascere centinaia di migliaia di persone, hanno subito terremoti, piogge, giornate afose e calde, eppure sono sempre lì, nel 2020 sono ancora integre, inviolate e...
San Jacopo Gallicano
allora la domanda sorge spontanea... ma come le avranno costruite per resistere a tutte le avversità? Chi le avrà materialmente innalzate? E con quale materiale? Proviamo allora a dare una risposta a tutte queste domande. Il funzionamento di un cantiere medievale fu una realtà complessa che vide il coinvolgimento di tutta la comunità. I lavori per edificare una simile costruzione richiedevano anni e anni di lavoro e rappresentavano una grande risorsa economica per il paese, un'opportunità da sfruttare poichè si dava la possibilità di lavorare a una gran parte della popolazione, difatti lavorare nei cantieri delle chiese garfagnine a quel tempo era una delle fonti di sostentamento delle famiglie, anche perchè intorno a quel cantiere sorgevano altre attività correlate, che permettevano la nascita di un microcosmo fatto (anche) da nuove figure professionali. Infatti sarebbe un errore pensare che tutto questo sia stato gestito da una banda di sconclusionati, anzi, tutto ciò era regolamentato da una serie di figure, ognuna con il suo proprio compito. A capo di tutto c'era il "fecit" o il "construxit" (così come riportano i documenti del tempo)ossia il committente.
Esistevano due tipi di committenti: c'era colui che oltre a mettere i soldi, stabiliva anche le forme e le caratteristiche dell'edificio secondo il proprio gusto, imponendo di fatto le sue decisioni agli esecutori dell'opera. Inoltre c'era anche la figura del committente finanziatore, nuda e pura, metteva i quattrini e "basta". Come ben si capirà tali committenti provenivano quasi esclusivamente dal clero, dalle signorie locali o dai regnanti. Altro personaggio importantissimo e fondamentale era il "magister murario", oppure il "caput magister" o anche il "fabricator", insomma l'architetto. La sua figura veniva identificata come quella del costruttore la cui attività intellettuale e progettuale prevaleva su quella manuale, una mansione che aveva maturato nei suoi lavori fatti in lontane terre. Infine c'erano le maestranze, coloro per capirsi che muovevano le mani. Anche qui però esisteva una scala gerarchica, in primis c'era il geometra capocantiere (geometricalis operis magister), poi c'era il lathomus (il tagliatore di pietre), gli scalpellini, il maczonerius (il fabbricatore di mattoni)e i muratori (paratores). Poi la scala cominciava a scendere ancora di più con gli spalatori, gli zappatori, i demolitori, i guastatori con i picchi, i livellatori,
tutti questi erano sotto la categoria degli "operarius". Insomma, un cantiere medievale equivaleva ad un vero e proprio spaccato di società del tempo ed inoltre, già nella categoria degli "operarius" esistevano altri gruppi ben distinti: maestri, garzoni e manovali. Alle diverse capacità corrispondevano diversi salari che tuttavia non permettevano a questi lavoratori di condurre una vita agiata. Comunque sia per tutti la giornata lavorativa era durissima, ed era scandita dalle pause pranzo, una avveniva prima dell'orario d'inizio lavori, una a tarda mattinata con pane, formaggio e frutta e infine un'altra a metà pomeriggio, tutto era compreso nel salario del lavoratore. Non solo lavoro però, esistevano anche momenti di festa, grandi bevute erano previste ogni qualvolta varie parti dell'edificio venivano terminate. Non mancavo però, nemmeno i  momenti drammatici, gli infortuni sul lavoro erano all'ordine del giorno e ogni tanto, oggi come allora non era affatto difficile che ci scappasse pure il morto. Per altro la sicurezza sul cantiere era importante anche secoli fa e tale responsabilità era di fatto nelle mani del carpentiere, colui che era addetto (anche) al montaggio delle impalcature. Appena una costruzione raggiungeva l'altezza uomo si provvedeva ad innalzare impalcature in legno, per permettere ai muratori di accedere ai vari livelli della costruzione. Queste
strutture di legno permettevano agli operai di muoversi, lavorare, deporre materiali utilizzando precarie piattaforme legate insieme da corde formate da una resina estratta dal tiglio, oppure da rami flessibili di quercia o salice. Esistevano quindi due tipi d'impalcatura: l'impalcato indipendente, dove la struttura era difatti autonoma e non poggiava sulla parete dell'edificio, era soprattutto usata per lavori delicati, come la posa in opera degli intonaci. C'era poi l'impalcato dipendente, direttamente connesso alla costruzione, dei pali di legno venivano conficcati nel muro in modo che sorreggessero l'impalcatura stessa (quei fori d'alloggiamento sono ancora visibili in molte edifici del tempo), questo tipo d'impalcato era molto più economico, dato che per il suo assemblaggio era necessaria una minore quantità di legno.
 E a proposito di legno...era con questo materiale che il misero popolo costruiva le proprie case(per questo motivo che di queste case niente ci è giunto). Erano invece le pietre le grandi protagoniste: con questo materiale erano realizzate queste grandi costruzioni. Una volta giunte nel cantiere le grandi pietre dovevano essere tagliate, squadrate e scalpellinate, secondo la misura o il disegno dell'architetto, dopodichè questi blocchi (a volte giganteschi) dovevano essere sollevati in modo da poter essere messi in opera e per questo venivano utilizzati elevatori particolari, talvolta
Castiglione
complessi e pericolosi. Queste primitive gru non servivano solamente per sollevare pietre ma permettevano anche di sollevare enormi travi di legno. Infatti in queste costruzioni non mancavano notevoli quantità di legno per metter su, travi, capriate, mensole e scale. Ma è anche in questo periodo che partì su vasta scala la produzione del mattone, le fornaci venivano allestite all'interno del cantiere, così come sul cantiere venivano preparate le malte. D'altronde a quel tempo il cemento non esisteva e la malta era quel legante composto da acqua, sabbia e detriti che permetteva alle pietre e ai mattoni di avere stabilità. Naturalmente per creare questi fabbricati servivano materie prime per fare proprio malta e mattoni e per cercare pietre adatte all'edificio in costruzione. Allora, ecco che nascevano nelle vicinanze del cantiere delle vere e proprie cave dove reperire
 sabbia, terra e pietre. Una buona parte di materiale, ahimè, era reperito attraverso la cosiddetta "tecnica del riuso", una pratica questa molto diffusa nel Medioevo dove si utilizzava altro materiale lapideo distruggendo i resti di costruzioni dell'antica Roma. Per buona sorte anche in Garfagnana esisteva qualche legislatore accorto, infatti a tal proposito fu emanata una legge che autorizzava gli spogli e le demolizioni di
Careggine chiesa dei S.S Pietro Paolo
resti d'epoca romana a patto che fossero eseguiti su edifici non più restaurabili (quasi tutti) e che non avevano pubblico utilizzo. Come abbiamo letto i nostri antichi avi costruirono tutto ciò con lungimiranza, con perizia, attenzione e bravura, quella stessa bravura che si dava a una cosa che doveva durare "ad perpetuam memoriam" . La perpetua memoria era infatti una prerogativa per tutti quegli edifici (che secondo la gente del tempo) rivestivano una certa importanza  sociale o religiosa. Questa rilevanza ha fatto si che una chiesa o un palazzo abbiano avuto nei secoli una costante manutenzione, la loro importanza sociale non permetteva che avessero un decadimento ed è poi lo stesso motivo per cui ancora oggi provvediamo a restaurarli e a mantenerli integri. Questa antica avvedutezza non deve sorprendere, d'altra sarebbe sbagliato credere che il medioevo  
La Sambuca (Garfagnanadream)
sia  stato un'epoca buia e oppressiva. Nel medioevo ci sono stati progressi importanti in tutti i campi: i mulini a vento, l'aratro di ferro e soprattutto sono avvenuti molti miglioramenti in campo edile, in modo particolare con la costruzione di chiese. Del resto la gente costruiva cattedrali perchè sognava il paradiso...  


Bibliografia

  • RestaurArs-Dalla parte dell'arte- La cattedrale e il cantiere medievale: microcosmo della società di Selenia Michele novembre 2015

La Cascata del Pendolino: natura, leggenda e scienza

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foto tratte da riprese 
di Abramo Rossi per Noi Tv
Ode alla cascata: "Di tutto quello che esiste sopra la terra, pietre, edifici, garofani, di tutto quello che vola nell’aria, nubi, uccelli, di tutto quello che esiste sotto la terra, minerali, morti, non esiste niente tanto fuggitivo, niente che canti come una cascata". Tanto è ammaliante il suo fascino che Pablo Neruda dedicò ad essa questi versi sublimi. Ma il suo magnetismo non incantò solo Neruda ma chiunque si fosse trovato di fronte a cotanta bellezza. Le cascate sono spumeggianti, imponenti, la loro bellezza lascia tutti a bocca aperta. Conosciute come "le danzatrici della natura" questi fenomeni naturali ci regalano sensazioni uniche, immerse nel verde più rigoglioso, simboleggiano la forza e l'irrefrenabile lavoro del creato e grazie a Dio queste sublimi bellezze ci sono anche nella Valle del Serchio, difatti qui esiste una fra le più belle cascate della Toscana, che non avrà la grandiosità della cascata delle Marmore e nemmeno la storia di quelle di Iguazu o la maestosità di quelle del Niagara, ma rimane il fatto che anche lei ha il suo degno passato e una magnificenza di cui tener conto. Questa cascata si può visitare risalendo la strada che porta nella Val di Turrite, nel comune di Fabbriche di Vergemoli. A un certo punto, infatti, andando in direzione del paese di Fabbriche di Vallico ci si imbatte nell'antico mulino, ecco, di lì inizia il sentiero che porta ad una delle meraviglie della Garfagnana: la Cascata del Pendolino. E'
foto tratte da riprese 
di Abramo Rossi per Noi Tv
proprio dopo queste noiose giornate di pioggia che il torrente che alimenta la cascata si riempie d'acqua precipitando fragorosamente nel fiume sottostante  per quasi cento metri. Un fenomeno stupendo che suscita una forte ammirazione in colui che assiste a questo spettacolo, d'altronde il contesto naturale in cui è questa cascata è molto suggestivo: natura incontaminata, verde, nude rocce. Un chiaro segnale della natura stessa, una dimostrazione della sua potenza, infatti davanti a ciò il visitatore viene assalito da quella strana sensazione che ti fa sentire piccolo piccolo davanti a quell'incredibile salto dell'acqua. Questi incanti non trovano spiegazione solo nella grazia della natura stessa, andando a disturbare la scienza vediamo che tecnicamente una cascata non è altro che una variazione del letto di un fiume o di un torrente dove, a causa di un dislivello, l'acqua cade anzichè scorrere. Indagando ancor di più nello specifico, proprio per quello che riguarda la
foto tratta da Gulliver.it
formazione di questa cascata, fra le varie ipotesi si dice che possa essere avvenuta per la bassa resistenza del terreno all'erosione. Un'altra probabile ipotesi afferma che la sua origine può essere stata causata da antichissimi terremoti, possibilità cui tener conto vista l'alta sismicità della zona. La scienza però non ha l'incanto e l'attrattiva che può dare una leggenda e a noi ci piace credere che la cascata del Pendolino sia nata grazie a un magico dono di due fate:" 
Sui fianchi del monte Gragno, si aprono grotte buie e profonde che la gente chiama Buche delle Fate. Ce ne sono un po’ ovunque sparse qua e là, suggestive e misteriose. La tradizione ha infatti conservato nella memoria la leggenda di due fratelli, che un giorno salirono sulla montagna a far legna. Erano forti, ma poveri; coraggiosi, ma stremati da una vita difficile. Quel giorno si trovavano nei pressi di una di queste buche, quando cominciò a piovere, quindi si ripararono all’interno della grotta. Videro arrivare due donnine, avvolte in un panno grigio con un grosso cesto pieno della cenere che i carbonai ammucchiano in una parte della
foto tratta da canyoning.it
carbonaia. I due giovani le salutarono e le due signore, due fate del bosco, li guardarono incuriosite, poi aprirono i loro mantelli e ognuna di loro regalò a ciascuno dei due ragazzi una tazza di legno dicendo: -Se riuscirete a riempirla d’acqua e a farvi specchiare la luna piena del mese di maggio, un sentiero d’argento vi guiderà ad una sorgente dove troverete il vostro tesoro-. Poi le due donne entrarono nella grotta e scomparvero nel buio. La sera i due giovani raccontarono ai loro genitori quanto avevano visto e udito nel bosco e mostrarono loro le due tazze di legno, ma i genitori non ci fecero molto caso. Passarono i mesi e una notte di maggio la luna piena splendeva alta sopra il monte Gragno. I due giovani si inerpicarono sulle pendici del monte con un fiasco d’acqua e riempirono le due tazze proprio di fronte all’entrata della grotta. Fu molto difficile inseguire la luna fra rami, foglie fitte, speroni di roccia, mentre la notte correva via. Mancava ormai un’ora al sorgere del sole, quando i due giovani arrivarono sulla vetta. Lassù il cielo era libero e la luna entrò nelle loro tazze. Subito mille riflessi
d’argento ribalzarono giù dalla montagna e andarono a moltiplicarsi nel letto del torrente che scorreva fragoroso giù fra alte rocce. I due giovani correvano dietro quello sfavillio che pareva un serpente argentato,  scendeva rapidamente giù, lungo il torrente finché non finiva la sua corsa su di una cascata d'incommensurabile bellezza. Una volta caduta di li, l'acqua
 proseguiva e si concentrava su un enorme pietra. I fratelli si guardarono e capirono che lì stava il loro tesoro, di qualsiasi natura fosse. Cominciarono quindi a portare massi, a squadrarli e a disporli una sopra l’altro su quell’enorme pietra piatta e liscia. Dopo qualche mese, un bel mulino (che ancora oggi si può vedere) con la sua ruota macinava da mattina a sera. E non vi fu mai stagione che vide quella ruota fermarsi. I campi vennero coltivati e i boschi seppero dare i loro frutti generosamente. Quel mulino lavorò per molti anni. Nel mese di maggio le fate scendono dalla montagna, trasportate dai raggi delle luna piena, per attingere l’acqua da quella cascata che in quella notte acquista poteri magici. E se si ascolta bene, sembra di sentire da lontano la ruota di un mulino mossa dall’acqua". D'altra parte tutto ciò che riguarda questa cascata è ammantato da pura poesia, anche lo stesso nome che gli è stato attribuito segue questo percorso, difatti il nome Pendolino (o Pendolo) deriva dal fatto che quando spira il vento, l'acqua della cascata oscilla proprio come un
"il gorilla"foto tratte da riprese
di Abramo Rossi per Noi Tv
 pendolo, simulando di fatto una sinuosa danza. Ma attenzione il portento non finisce qui, se si fa attenzione ai suoi piedi si può vedere il suo austero guardiano affiorare dalle acque: un gigantesco masso forma infatti la figura di un severo gorilla ... Proprio qui... dove tutto è immaginazione, tradizione e poesia...


Sitografia

  • https://www.erboristeriasauro.it/le-tazze-delle-fate-e-la-cascata-del-pendolino-toscana-val-di-serchio-it.html di Daniela Sauro

C'era una volta il pranzo di Natale in Garfagnana...

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C'è poco da fare, sfido chiunque a negarlo... Quanto sarà
forzosamente allegro e fastidiosamente trito quel cenone di capodanno? Lenticchie inquinate di coriandoli e stelle filanti, trenini danzanti e chiassosi al ritmo del "Mio amico Charlie Brown", tappi che saltano per un bere smodato e senza freni, sono sinceramente diventati dei rituali obbligati e tediosi. Non vuoi mica mettere quel lungo pranzo natalizio, prolungato nei ritmi antichi di una digestione che non avrà mai fine !? E poi perchè solo pranzo? La cena della vigilia dove la mettiamo? Quella ha dei tempi un po' più accelerati, perchè (di solito) parte tardi e finisce un attimo prima della Messa di mezzanotte, alla quale si arriva frettolosamente e rigorosamente a piedi
(se si sta vicini alla chiesa), giusto giusto perchè il freddo della Santa Notte permetta ai "tordelli" ingeriti qualche ora prima di congelarsi nello stomaco.
Nonostante ciò, tutto questo sa tanto di tradizione, di familiare, una qualità in più che ha il Natale e che le altre feste non sanno dare. Si, perchè il Natale in Garfagnana vuol dire anche mangiare. Non accusatemi di blasfemia se vi dico che questi luculliani pranzi sono parte integrante della sacra celebrazione, anch'essi scandiscono ritmi e abitudini al pari della liturgia religiosa, per di più rientrano in quella sfera sacra che trova la sua apoteosi negli affetti della Casa, nel gusto di ritrovarsi, nel bicchiere portato in alto per riaffermare nuovamente un affetto, un'amicizia, un legame. Magari senza esagerare e ne tanto meno ostentare... difatti mi viene alla mente il pantagruelico pranzo di Natale del re inglese Giovanni Senzaterra, era il 1210: "... 24 barilotti di vino, 200 teste di maiale, 1000 galline, 100 libbre di cera, 50 libbre di pepe, 2 libbre di zafferano, 100 libbre di mandorle e diecimila
anguille salate..."
. La parsimonia non fu dalla sua nemmeno per il vescovo cattolico Riccardo di Swinfield e nel Natale del 1289 alla faccia della povera gente e della carità cristiana fece servire ai suoi quarantuno commensali tre pasti al giorno, nei giorni del 24, 25 e 26 dicembre che comprendevano due manzi, due vitelli, quattro cervi, quattro maiali, sessanta polli, otto pernici, due oche, pane e formaggio in quantità. Ma in Garfagnana non era così, purtroppo la povertà ci contraddistingueva anche in questo senso qui, rimaneva però il fatto che era proprio per questi giorni che si mangiavano le cose migliori, le cibarie che avevamo conservato e preparato proprio per le feste natalizie, insomma anche il più povero garfagnino per il giorno del Natale qualcosa di speciale avrebbe messo in tavola. Il concetto del pranzo di Natale in Garfagnana trova radici lontanissime. Tutto nacque nel lontano medioevo, in quel periodo storico i grandi teologi e gli intellettuali disquisivano profondamente sul mistero della nascita di Cristo, non certo il garfagnino privo d'istruzione che festeggiava
eventi più concreti e propiziatori come ad esempio la conclusione delle attività agricole. Natale arrivava infatti dopo l'ultimo raccolto dell'anno, nei campi allora non rimaneva un granchè da fare e, se non era necessario mantenere gli animali tutto l'inverno, era allora conveniente macellarli. La festività del Natale si unì così ad un bisogno utile e concreto che aveva il miserabile contadino e difatti con ogni probabilità il concetto di "cenone" di Natale proviene dall'associazione di queste due necessità. Anche i primi regali natalizi di cui si ha notizia rientravano nella sfera mangereccia. Quindi niente sciarpe chilometriche, niente guanti di lana e nemmeno variopinti maglioni con renne di Babbo Natale, si regalava del cibo. Difatti dai registri dell' Annona 
 di Lucca nel 1324 si ordinava ai funzionari statali di distribuire nel giorno di Natale una pagnotta e un piatto di carne ai contadini del castello di Castelnuovo, in più vi era la facoltà di concedersi un giorno di riposo... Ma gli anni e i secoli passano e si arriva ai Natali dei nostri nonni, quelli che
anche noi abbiamo vissuto, quelli in cui la mattina di quel santo giorno ci svegliava tardi e giù, ai piani bassi della casa si sentivano i tacchi frettolosi degli ospiti che arrivavano, in cucina c'era già qualcuno che lavorava da ore, il rumore della cappa accesa accompagnava il gorgoglio delle pentole al fuoco, insieme al tic tic dell'accensione del fornello e il chiedere -com'è di sale?-. Tutto questo faceva parte di un mondo magico e fatato e  che dire di poi di quei prelibati piatti? La nonna intanto ricordava i suoi pranzi di Natale ancora più lontani: 
"Mi ricordo che da piccola quando si avvicinava il Natale mia madre incominciava un po' di tempo prima a preparare qualcosa. Comprava lo zucchero e diceva -Questo lo useremo per il vino bollito- Poi preparava qualche bottiglia di liquore comprando gli estratti, poi la tradizionale bottiglia di rum non mancava mai, quella serviva per fare il ponce. Quelli erano tempi duri, non c'era niente, c'era solo miseria, però
per Natale non volevamo farci mancare niente. 
Io e miei fratelli non vedevamo l'ora di mangiare, quella sera la cena era costituita da piatti speciali: polenta e baccalà, cavolo nero e fagioli bianchi. Dopo cena era il momento più bello quando il babbo tirava fuori il torrone e tutti battevamo le mani per la gioia". Dall'altra parte allora subentrava la vecchia zia che non voleva essere da meno della nonna e allora anche lei si lasciava trasportare nei suoi ricordi di lontane cene della vigilia:"Arrivava la sera della vigilia di Natale, eravamo in tanti: i nonni, genitori, fratelli, zii e cugini e ci riunivamo festosi intorno alla tavola per la misera cena. A quel tempo non avevamo disponibilità economiche, e ciononostante in quella sera della vigilia i visi di tutti i familiari segnati dalla sofferenza e dagli stenti, si distendevano in gioiosi sorrisi e allegria, anche se a quel tempo la fame era tanta. In questa occasione la cucina era modesta, ma allo stesso tempo genuina. In quella sera si mangiavano verdure lessate, come cavolfiori e finocchi, poi pastellate e fritte, e per secondo l'immancabile baccalà con patate. Finita la cena la casa si riempiva di persone che abitavano nelle vicinanze, così da far diventare la serata festosa, chiassosa e gioiosa". Diciamo che storicamente parlando gli anni 50 del 1900 furono lo spartiacque fra questi vecchi natali della nonna e quelli dei moderni pranzi di
Natale, più opulenti e ricchi; da quegli anni in poi presero piede dei cenoni nel segno del consumismo odierno
, anche se ad onor del vero in Garfagnana siamo rimasti sempre legati alle tradizioni, alle ricette casalinghe a quei segreti della cucina che ogni massaia costudisce gelosamente. Cercare quindi un tipico pranzo di Natale garfagnino è difficilissimo, ogni famiglia cercava e cerca di portare in tavola qualcosa di speciale: crostini con fegatini di pollo, tordelli, lasagne, succulenti brodi di cappone come tradizione vuole accompagnati da tortellini fatti in casa, arrosti vari con patate insaporite con salvia e rosmarino, ed infine "dulcis in fundo", com'è proprio il caso di dire, i dolci, a chiudere l'interminabile pranzo: panettoni, pandori, torroni, ricciarelli, tutte leccornie che una volta erano lontane chimere, eventi eccezionalissimi sarebbero stati se fossero stati presenti sulle tavole garfagnine. Di solito, infatti, si preparavano dolci fatti in casa e di questi dolci casalinghi tre fanno parte della tradizione delle feste natalizie della valle. Era per Santa Lucia quando nel rione omonimo di Castelnuovo si preparava (e si prepara ancora) "la Mandolata", un dolce simile al croccante, ma guai a chiamarlo così,
fatto con miele di castagno o millefiori e noci. La particolarità di questo dolce sta nella lavorazione del miele che viene prima bollito poi versato su lastre di marmo unte d’olio e lavorato ancora bollente, con le mani, tirato a fargli prendere aria fino a che da molto scuro diventa color oro. Si aggiungono le noci scaldate, si distribuisce su dei fogli di ostie e si taglia. 
La storia della mandolata è avvolta nel mistero, non ci sono notizie negli archivi comunali. Dalla fine del 1800, ogni anno si fa riferimento alla festa di Santa Lucia come a una tradizionale fiera dei maiali.  La mandolata viene menzionata solo nel 1965 ricordando il “profumato dolce a dose di miele mandorle e noci”, il resto è tradizione orale che comunque la fa risalire a molto prima. Pare che in origine fosse fatta dai frati del convento dei Cappuccini e poi che la tradizione sia stata ripresa dai fedeli, variando la ricetta da mandorle e noci alle sole noci che nella valle si trovano in abbondanza. Che dire poi di quegli squisiti biscotti chiamati "befanini", è vero che si preparano il giorno della Befana, ma ormai possiamo dire che sono i biscotti per eccellenza delle feste
natalizie, fatti di svariate forme: stelle, alberi di Natale, animali, ingentiliti poi con guarnizioni colorate. Però è a Barga dove trovano la loro glorificazione, li dove la tradizione della festa della Befane ha origine lontanissime, infatti se ne parla già negli Statuti del 1366. Qui, questo biscotto viene lavorato senza lievito e al posto dei "chicchini" colorati viene messo del marzapane. Se si parla di Natale poi, non possono mancare i cialdoni con la panna: friabili, non troppo dolci, croccanti , una ricetta semplice e antica, il loro profumo nell'aria significa festa. Acqua, farina, zucchero, latte e burro, questi i soli e semplici ingredienti. Semplici e genuini, così come sono rimasti i piatti della cucina garfagnina, in barba a tutti quelli che si stanno reinventando cenoni festaioli moderni: happy
hour, finger food e buffet vari. Al tempo delle nonne sarebbero state bollate come vere e proprie eresie. In Garfagnana non è pranzo di Natale se non dura almeno sei ore...


Bibliografia

"Stasera venite a vejo Terè. Le veglie della Garfagnana". Gruppo Vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria 

La Garfagnana del treno. L'interminabile ed epica storia della Lucca- Aulla

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Sinceramente mi sento un po' in difficoltà a scrivere questo
articolo...Per scrivere di questo argomento mi servirebbero pagine e pagine... Come si fa a condensare una storia durata sessantanove anni in poche righe? Troppe cose accadono in un arco di tempo così lungo. Proverò, comunque sia, a raccontare questa epica ed interminabile storia. Ecco a voi i leggendari fatti che portarono alla costruzione della ferrovia della Garfagnana: la Lucca-Aulla. Nel 2021 ricorreranno i 110 anni di quando il treno raggiunse per la prima volta la Garfagnana. Ho già avuto modo di raccontare e scrivere molto della sua gloriosa nascita, ma ogni tanto trovo giusto ricordare a tutti i miei lettori l'importanza di quest'opera che si può definire in senso assoluto l'opera più importante e fondamentale mai costruita in Garfagnana e nella Valle del Serchio. La storia della Valle si sviluppò parallelamente a quella del treno, un'impresa quella della sua costruzione che ha saputo raccontare oltre un secolo della nostra storia e della vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone. L'arrivo della ferrovia segnò in maniera profonda la storia della Garfagnana, dopo la sua prima corsa quel 25 luglio 1911, tutto verrà influenzato e a volte stravolto da quel "mostro di
ferro", portatore di progresso economico, sociale e tecnologico, inoltre il suo arrivo in Garfagnana rappresentò per la prima volta la presenza vera dello Stato Italiano nella valle, per una terra che era stata dimenticata da troppo tempo e che da decenni chiedeva attenzione per i propri figli. La Garfagnana non voleva essere dimenticata e ne tanto meno emarginata, con l'arrivo del treno si assistette infatti alla costruzione del futuro di questa zona. E' passato oltre un secolo da quel mondo e comunque sia ancora oggi l'importanza di quella linea non è diminuita: studenti, lavoratori, turisti e anche merci usufruiscono ancora di questo mezzo, che attraversa una valle ricca di scorci inusuali, di vedute improvvise e di apparizioni mozzafiato. Oltre a ciò, sulla Lucca- Aulla sono stati costruiti manufatti importantissimi, si sono adoperati uomini, mezzi, sono accaduti fatti curiosi e singolari. Insomma, oggi voglio narrare la sua straordinaria storia, raccontando fatti ed eventi che forse pochi sanno. 

Le prime notizie su una ferrovia in Garfagnana si hanno ben prima dell'Unità d'Italia. Era il lontano 1840 quando da Castelnuovo si alzò una voce che chiedeva al regnante estense di allora, Francesco IV, la concessione di costruire una ferrovia per la Valle del Serchio, in quell'antico progetto non si faceva riferimento all'attuale linea ferroviaria Lucca- Aulla, ma bensì ad una Lucca-Modena, il duca (senza esitazione) non approvò il progetto. Si ritentò con la medesima fortuna nel 1851 per una eventuale Lucca- Reggio Emilia. La situazione cambiò con l'Italia unita. Tutti gli "staterelli" filo austriaci erano caduti e una delle priorità della nuova nazione italiana era la difesa del territorio nazionale in caso di una eventuale guerra. Così fu, che nel 1870 si mise sul tavolo dei nuovi governanti il progetto di costruire una ferrovia che collegasse Parma con La Spezia, quest'opera era considerata di strategica importanza poichè avrebbe creato un passaggio nell'Appennino, mettendo di fatto in comunicazione l'Arsenale Militare di La Spezia con la Pianura Padana. In questo caso sarebbe tornato comodo avere eventuali sbocchi anche verso sud, per approvvigionare l'Arsenale Militare di mezzi e uomini in un eventuale conflitto bellico. L'ideale sarebbe stato creare una ferrovia protetta, quasi invisibile ai nemici, riparata da possibili attacchi dal mare in caso di occupazione nemica. Ecco allora nascere per la prima volta l'idea di una possibile Lucca- Aulla, una ferrovia inespugnabile, riparata da due catene di monti, una ferrovia (come è bene sottolineare) ideata per ragioni puramente militari. Nel 1890 cominciò così l'epopea della Lucca- Aulla. I lavori partirono dalla già esistente stazione di Lucca, dopo due anni furono solamente 

Stazione di Lucca primi 900
messi in opera appena nove chilometri di ferrovia... Due lunghi anni per una tratta completamente pianeggiante, che partiva da Lucca e arrivava a Ponte a Moriano. Cosa sarebbe successo allora quando ci si sarebbe inoltrati per l'impervia Garfagnana? Infatti questo non era altro che il preludio a una storia infinita. Fattostà che il 15 febbraio 1892 si inaugurarono questi miseri nove chilometri di ferrovia. E' giusto dire che tali ritardi furono giustificati dal fatto che casualmente durante gli scavi per la posa a terra dei binari furono ritrovati alcuni cinerari e un cippo sepolcrale etrusco databili fra il IV e il II secolo a.C. Tale attenzione alla storia e ai suoi manufatti non fu riservata dagli ingegneri della ferrovia al magnifico Ponte del Diavolo. Prima di affrontare il problema inerente Ponte del Diavolo c'era però da raggiungere Borgo a Mozzano. La ditta dei fratelli Sandrini si accaparrò l'appalto (per sei milioni di lire) e l'onere di portare a termine il tratto Ponte a Moriano- Borgo a Mozzano che fu inaugurato il 15 luglio 1898. La patata bollente del tratto Borgo a Mozzano- Bagni di Lucca andò invece nelle mani della ditta Barozzi. Questo tratto se si vuole era di facile realizzazione, ma il problema vero era un altro: per arrivare alla stazione di Bagni di Lucca c'era da oltrepassare il Ponte del Diavolo. Per transitare da lì non ci sarebbe stata altra 

Prima
soluzione se non quella di aprire un nuovo arco nel ponte, che permettesse al treno di passarvi sotto, per fare questo fu anche alterata l'originale rampa d'ingresso al ponte stesso sul versante destro del fiume Serchio. Naturalmente non mancarono le proteste per lo scempio che avrebbe subito l'opera, ma nonostante ciò nel periodo agosto novembre 1898 venne apportata la modifica, si raggiunse così anche la stazione di Bagni di Lucca. Passarono poi altri dodici anni, nel 1910 la ferrovia giunse a Piano di Coreglia e un anno dopo (25 luglio 1911) raggiunse Castelnuovo. Il 
Dopo
nuovo tratto fu di difficile realizzazione, in appena venti chilometri furono costruiti ben tre trafori e tredici ponti sul Serchio, ma il "bello" doveva ancora arrivare. Erano difatti serviti ventuno anni per arrivare a
 Castelnuovo Garfagnana, in quel lasso di tempo si calcolò che tutta la ferrovia Lucca- Aulla doveva essere completata... ma c'era poco da pretendere se si costruiva al ritmo di poco più di un chilometro l'anno. Alla meta (Aulla) mancavano ancora 68 chilometri e le opere più impegnative e importanti erano ancora da affrontare e avrebbero avuto costi esorbitanti, si stimò che quel pezzo mancante di ferrovia sarebbe costato qualcosa come quattro milioni e duecentomila lire a chilometro. Quel pezzo mancante di ferrovia diventò infatti
L'arrivo del treno a Castelnuovo
 25 luglio 1911
foto in possesso
 di Silvio Fioravanti
una vera e propria chimera, venti di guerra stavano soffiando su tutta Europa, la prima guerra mondiale era alle porte e la Lucca- Aulla era l'ultimo pensiero dei governanti. Difatti fu l'ultimo pensiero per svariati anni ancora, tant'è che della Lucca- Aulla si tornerà a parlare (e a lavorare) nel 1940. Ma il destino beffardo ci volle mettere ancora lo zampino...una guerra mondiale era già passata e una nuova stava per cominciare. 
Tuttavia una ferrovia esisteva già da molto tempo in Garfagnana, lo Stato impiegava anni a costruire, ma la Società Marmifera di Minucciano no... Undici chilometri di ferrovia per il trasporto dei blocchi di marmo furono costruiti in due anni e collegavano le cave con il paese di Gramolazzo, funzionò ininterrottamente dal 1901 al 1947. Infatti l'idea degli ingegneri della Lucca-Aulla sarebbe stata quella di sfruttare questo difficile tratto, ma così non fu mai, 
La ferrovia del marmo
Silvio Fioravanti
perchè quando la ferrovia arrivò da quelli parti i blocchi di marmo venivano già trasportati via strada fino alla stazione di Castelnuovo, che divenne il terminal dei marmi. Poveri ingegneri allora, ogni momento dovevano cambiare i loro progetti e i loro programmi. Quei poveri ingegneri che per ragioni naturali non fecero in tempo a cambiare le loro progettazioni furono
due padri di questa via ferrata che nel frattempo (visti gli anni che erano passati) erano morti: Raffaele Righetto ex garibaldino, riuscì nella famigerata impresa dei Mille, ma non in quella più ardua della realizzazione completa della Lucca-Aulla. Stessa fine toccò pure a Jean Luis Protche, ingegnere di fama mondiale, che applicò i suoi studi anche su questa ferrovia. Comunque sia tanto si deve a questi ingegneri, furono loro a progettare le due più grandi opere della linea, opere che a quel tempo sapevano di leggendario. I mezzi non erano quelli di oggi, si andava avanti "a picco e pala"... figuratevi voi quello che fu la realizzazione della galleria del Lupacino. La galleria collegò le stazioni di Piazza al Serchio e
Minucciano, quasi otto chilometri di tunnel (7515 metri) che costarono la vita a sette persone. Il suo progetto fu autorizzato dal governo di sua Maestà il re Vittorio Emanuele III il 27 aprile 1916, i lavori cominciarono nel 1922 con il governo Mussolini e il loro completamento vide la presenza del  Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 21 marzo 1959. Insomma, dal suo progetto iniziale, alla sua inaugurazione ci vollero 42 anni,11 mesi e 6 giorni. Tempi molto più rapidi per l'altra ciclopica opera della Lucca-Aulla: il Ponte della Villetta. Il ponte venne costruito in tre anni (1926-1929), costò allo Stato poco più di cinque milioni di lire (5.100.000 milia lire per l'esattezza), per la
foto Aldo Innocenti
 sua messa in funzione si attese però il 21 agosto 1940, quando fu inaugurato il tratto Castelnuovo- Piazza al Serchio. Se si vuole, ancora oggi i numeri di questo ponte della ferrovia sono strabilianti: 410 metri di lunghezza, per oltre 50 metri d'altezza, si staglia nella valle esibendo di fatto le sue 13 arcate a tutto sesto da 25 metri, più una da 12 metri. Insomma, finalmente ormai tutto pareva procedere in maniera spedita, il regime fascista aveva fatto rientrare la Lucca- Aulla fra le cosiddette "grandi opere" da completare, i soldi c'erano, ormai mancava poco per raggiungere Aulla... Ma come la vita insegna "mai dire mai" e come già anticipato qualche riga sopra la seconda guerra mondiale piombò come una mannaia sui sogni di gloria. I lavori si fermarono in maniera inesorabile, ma andò anche peggio, perchè molto di quello costruito fino a quel periodo fu miserevolmente distrutto. Proprio il Ponte della Villetta fu preso di mira, prima ci provarono gli americani a farlo saltare in aria, era il 18 maggio 1944 il bombardamento non centrò però l'obiettivo, altri successivi attacchi andarono a vuoto e quando il pericolo sembrava scampato, nell'aprile 1945 ci pensarono i tedeschi in ritirata a farlo esplodere. Dopo aver posizionato le mine una raffica di mitra
Ponte della Villeta distrutto
annunciò ai paesi vicini l'imminente esplosione, il boato riecheggiò in tutta la valle. Ma i danni non finirono qui, il 30 giugno 1944 a Piazza al Serchio gli aerei americani mitragliarono il ponte ferroviario. Inoltre all'inizio del luglio del medesimo anno la stazione di Castelnuovo venne pesantemente bombardata dagli anglo americani e messa fuori servizio, stessa sorte per la stazione di Fornaci di Barga. La guerra grazie a Dio finì, ma la Lucca- Aulla no... Il tempo di riprendersi e di riorganizzarsi dallo shock della guerra e finalmente nel 1953 i lavori ripresero. Stavolta niente e nessuno avrebbe fermato la conclusione di quest'opera. Nel giro di cinque anni Aulla fu raggiunta e in "pompa magna" il 21 marzo 1959 il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi inaugurò ufficialmente tutta la tratta. Il treno
Il presidente Gronchi il
giorno dell'inaugurazione
presidenziale partì da Aulla. La cerimonia si svolse invece nelle stazioni di Minucciano e Piazza al Serchio, dove il Presidente dette omaggio ai caduti per la costruzione della galleria del Lupacino. Nella notte 
sui monti circostanti della valle al passare del treno si accesero grandi falò per festeggiare il grandioso evento, così come tradizione benaugurante voleva. In definitiva per fare 89 chilometri di ferrovia, 33 fra ponti e viadotti e 31 gallerie ci vollero due re, due guerre mondiali e tre Presidenti della Repubblica, per complessivi 69 lunghi anni. Un amaro primato nella storia delle ferrovie, che con tutta probabilità non trova eguali al mondo.


Sitografia

  • Ferrovia Lucca-Aulla.com  

Cronaca di feste natalizie garfagnine in tempo di pandemia...era il 1918...analogie e similitudini

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Rosso, giallo, arancione, spostamenti, congiunti
"coprifuoco" e 
cenone. Tutta una serie di parole che possiamo condensare in una sola espressione: d.p.c.m Natale 2020, ovverosia (superfluo spiegarlo), tutte quelle buone norme che regolamentano i comportamenti da attuare con l'attuale pandemia in corso. D'altronde è ben comprensibile come non sia semplice, soprattutto per le festività natalizie rispettare certe regole. Tali festività significano (anche) unione, aggregazione, affetto, contatto. Purtroppo per quest'anno sono tutte realtà di difficile attuazione, però il mio animo e il mio cuore si risollevarono quando qualche giorno fa lessi questo appello: "Quest'anno- così vi era scritto- mostrerete più amore per vostro padre e vostra madre, per vostro fratello, vostra sorella e il resto della famiglia rimanendo a casa anzichè andandoli a visitare per Natale o tenendo feste o riunioni familiari". Quest'appello non era di un qualsiasi Presidente del Consiglio di turno, nemmeno del virologo di fama mondiale e nemmanco di un qualsivoglia ministro della salute. Sembrerà strano, ma ad onor del vero, non è nemmeno un appello del 2020... Queste parole hanno 102 anni e il 21 dicembre 1918 le scrisse sul quotidiano americano "Ohio State Journal" il Commissario della Sanità locale. Era infatti da poco tempo che una nuova pandemia aveva affetto tutto il mondo. Questa pandemia verrà conosciuta da tutti come influenza "Spagnola", un virus che causò cinquanta milioni di morti circa. Già
qualche tempo fa ebbi modo di scrivere della Spagnola, degli effetti che ebbe in Garfagnana, di come fu combattuta e quali accorgimenti presero i sindaci della valle per combatterla (se vuoi leggere quell'articolo clicca di seguito:http://paolomarzi.blogspot.com/2017/11/cent-fa-la-febbre-morte-e-malattia.html). A distanza di qualche anno sono voluto tornare sull'argomento e l'ho voluto affrontare da un altro punto di vista (più che mai attuale) e allora mi sono incuriosito, mi sono informato, ho letto e ricercato e ho tentato di fare un parallelo fra le feste natalazie che stiamo vivendo oggi sotto la minaccia del Covid 19 e il Natale dei nostri nonni garfagnini ai tempi dell'"influenza spagnola". Guardiamo allora come si arrivò a quel tragico Natale 1918. Nell'ottobre di quell'anno l'Italia era stremata, la
prima guerra mondiale però ormai era agli sgoccioli, giorni comunque sia difficili quelli. Ma non erano giorni difficili solo per chi era al fronte, erano
 giorni complicati anche per chi era rimasto a casa e nei paesi. Difatti era già dall'estate appena trascorsa che sulla Penisola si era abbattuta una seconda ondata di un'influenza detta "la spagnola"... e purtroppo stava anche facendo più morti della guerra... Il 4 novembre del medesimo anno la guerra finì, l'Italia usciva da questo conflitto con le ossa rotta, ma vittoriosa. Era anche arrivato il momento che i nostri soldati facessero ritorno alle proprie case. Molte famiglie in Garfagnana poterono così  riabbracciare i loro cari partiti per il fronte, un po' alla volta rientrarono anche i prigionieri dai campi di prigionia austriaci, la felicità di tutta la popolazione era alle stelle... Ma il vero dramma stava per cominciare e si scatenerà proprio con il ritorno di quei ragazzi nelle proprie case, difatti furono proprio quei soldati che rientravano nei propri paesi e nelle proprie città il veicolo
principale della diffusione del virus in tutto il mondo. Da quel novembre ci fu per tutti la consapevolezza di essere sopravvissuti a un qualcosa di terribile come la guerra, ma un male ancor peggiore si era ormai insinuato in ogni dove. Nella prima ondata di quella primavera, come già accennato, il virus era passato quasi inosservato, il nuovo picco di settembre non poteva però essere ignorato. Quattro milioni e mezzo di contagi e seicentomila morti colpirono la Nazione, proprio in quelle tredici settimane da settembre a quel maledetto Natale. Lo Stato doveva reagire. Il prefetto di Massa su indicazione del governo centrale il 17 ottobre pubblicò un decalogo da affiggere nel Circondario di Castelnuovo Garfagnana e nei suoi mandamenti": "
Fare gargarismi con acque disinfettanti (dentifrici a base di acido fenico, acqua ossigenata), non sputare per terra, viaggiare in ferrovia il meno possibile, diffidare dei rimedi cosiddetti preventivi, evitare
contatti con persone, non frequentare luoghi dove il pubblico si affolla (osterie, caffè, teatri, chiese). Così facendo si mette in pratica l’unico mezzo veramente efficace contro l’influenza, l’isolamento
". In tutta la Garfagnana si diede il via ad una campagna di disinfezione dei luoghi pubblici. L'inizio della scuola (che al tempo cominciava il primo ottobre)venne posticipato a data da destinarsi, venne ridotto l'orario d'apertura dei negozi, con le sole farmacie a beneficiare di un allungamento dei turni. Cinema e teatri vennero chiusi. Il governo decise però di non chiudere le fabbriche, i mille operai della S.M.I di Fornaci di Barga si spostavano da tutta la valle, le occasioni di contagio così si moltiplicavano, la distanza non poteva essere rispettata, gli operai in questo modo si ammalarono, facendo crollare inesorabilmente la produttività. Insomma anche al tempo le regole da rispettare c'erano, eccome. A differenza di oggi però è bene sottolineare che una buona parte della popolazione garfagnina aveva un orizzonte esistenziale molto più ristretto che quello attuale. Per molti, in quel 1918 lo
Stato era ancora una realtà astratta, distante, che si presentava soltanto per le tasse e la leva militare, esisteva allora una certa diffidenza, una certa distanza dalla istituzioni ma nonostante tutto anche cent'anni fa ci s'interrogava di come si sarebbero passate le feste in quella situazione eccezionale. I garfagnini però non se ne facevano un cruccio eccessivo, anche perchè le occasioni per i raduni familiari erano molte, non era come oggi che ci si vede solamente(e malvolentieri) per le cosiddette feste comandate, al tempo oltre che alle canoniche feste, i parenti s'incontravano spesso per darsi una mano nei lavori quotidiani, per le donne invece non mancava occasione per incontrarsi nelle aie per infornare il pane, per di più  non c'era bisogno di spostarsi tanto, in molti casi diverse generazioni abitavano sotto lo stesso tetto (genitori, figli, nonni, zie zitelle...)e i congiunti (così come è di moda dire) magari abitavano nella casa accanto o poco più in là. Al tempo il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando non dovette quindi invitare i garfagnini (e gli italiani in genere) a trascorrere un "Natale sobrio" come ha fatto il premier Conte, da noi quelle consumistiche feste non erano ancora arrivate, rimase il dispiacere per la nostra povera gente di non poter partecipare alle messe nel mese dell'avvento così come tradizione voleva, le chiese infatti furono chiuse. Insomma in quel dicembre del 1918 il grande protagonista
delle feste in Garfagnana fu la beneficienza, la carità e l'assistenza per gli orfani di guerra e per questi "nuovi" malati, di quel poco che già c'era il buon cuore dei garfagnini decise di donarne un po' al vicino bisognoso, ma naturalmente non furono feste natalizie come le altre, il dispiacere più grosso per quelle famiglie che si riunirono per il pranzo di Natale fu per quelle sedie vuote al tavolo...


Una "nuova" ed intrigante tesi sull'origine del nome Garfagnana

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Isaac Newton, il famoso scienziato inglese, un giorno ebbe a dire:
"Nessuna grande scoperta è mai stata fatta senza una audace ipotesi"e se lo diceva lui non si poteva che dargli ragione. D'altronde cos'è un ipotesi se non un'idea provvisoria il cui valore deve essere accertato? Quindi per avanzare una determinata teoria ci vuole anche coraggio, poichè può essere sbugiardata in qualsiasi momento, a patto che dall'altra parte si formuli un'ennesima ipotesi supportata da ragionamenti congrui e osservazioni calzanti. Tutto questo bel ragionamento perchè tempo fa ho avuto modo di leggere ed analizzare una nuova supposizione sul significato del nome della nostra terra: la Garfagnana. Ci siamo sempre basati, ed io per primo, su svariate teorie da sempre consolidate. Difatti al tempo scrissi anch'io un articolo in cui citavo le svariate possibilità etimologiche del nome Garfagnana e mi rifacevo ad un ipotetico Tito Carfanius colono romano, nonchè proprietario latifondista di vaste
terre. Poi passavo ad analizzare antichi etimi in cui "carpana" o "garfana" potevano significare montagna o roccia. Naturalmente in queste molteplici possibilità non potevo nemmeno trascurare i Liguri- Apuani e il loro linguaggio, in cui "car" significherebbe pietra e "fania" fascia, ossia fascia di pietra. Infine, sempre su questo articolo, sfatavo la congettura più famosa che vuole che il termine Garfagnana trovi la sua nascita nelle parole "Grande Selva". Niente di più sbagliato, e questo non lo dico io, modesto studioso, ma esimi ricercatori che asseriscono che "grande selva"è una denominazione recentissima (pare XVI secolo) che veniva aggiunta alla parola Garfagnana, ovvero, Garfagnana detta "la grande selva". Insomma, quello che tengo a sottolineare è che tutte queste teorie non è che siano farlocche, tutt'altro, rientrano in ipotesi più che valide, che si appoggiano su studi seri e complicati, però, come detto qualche riga sopra la mia attenzione settimane fa è stata rapita dalla più recente di tutte queste ipotesi, la più nuova, la meno conosciuta e che merita quindi di entrare nel novero delle possibili supposizioni sul misterioso nome Garfagnana. D'altra parte bisogna dare una mano agli audaci e questo audace porta il nome di Pellegrino Paolucci. Ma chi era Pellegrino Paolucci? Ebbene, il Paolucci fu un grande studioso del diciottesimo secolo, nonchè parroco di Sillano. I suoi studi d'altronde erano tutto dire sull'erudizione di quest'uomo: egli studiò a Modena umanità e grammatica, a Parma logica e filosofia e a Pisa leggi civili e nel 1720 (a pochi mesi dalla sua morte) pubblicò
la sua più grande opera dal titolo "Garfagnana Illustrata". In questo libro si raccontava in maniera dettagliata la storia e le tradizioni della nostra valle. Studiando appunto questo volume mi accorsi infatti della suggestiva ed affascinante ipotesi dell'origine del nome "Garfagnana", una illazione al quanto interessante, mai udita ne letta prima. Tanto per rendere un po' più chiaro questo misterioso scenario partiamo con il dire che la prima volta che troviamo scritta la parola "Garfagnana"  è nel 769 d.C e la troviamo scritta coma "Carfaniana". In altri testi di poco successivi le diciture variano in: "Carfagnana", "Carfignana" oppure "Carfiniana". Rimane il fatto che il nostro illustre ricercatore su tutto questo proliferare di vocaboli ebbe una teoria tutta sua, che si basava su una dea della mitologia romana (già però conosciuta dagli etruschi): la dea Feronia. Questa dea era la protettrice della natura, degli animali selvaggi (dal latino: fera, ferae, le fiere)
, dei boschi e delle messi, come pure dei malati e degli schiavi riusciti a liberarsi.
Rappresentazione
della dea Feronia
Sempre secondo la mitologia romana, Feronia era anche la dea della fertilità e sotto la sua protezione stava proprio ogni tipo di fertilità conosciuta, quindi non solo quella degli uomini, ma anche quella delle acque sorgive, del suolo e degli animali. Insomma era una dea della Natura, una dea, a quanto pare, fatta su misura sulle caratteristiche del territorio e del paesaggio garfagnino. Infatti, sempre secondo Paolucci, tutto l'arcano sulla nascita del nome della nostra terra gira tutt'intorno a questa divinità pagana. Già dalla sua denominazione latina 
"Capharonia" si troverebbe infatti la sua genesi. Tant'è che riferito a questo si racconta che dalle nostre parti il culto di questa dea era molto sentito e molti templi erano stati eretti per ingraziarsi la benevolenza della divinità. Intorno a questi templi, com'è rimasta poi usanza anche ai giorni nostri con le cosiddette canoniche, sorgevano le case dei sacerdoti di Feronia, queste case  presero poi il nome di Ca' Feronia, ossia casa di Feronia. Da Ca' Feronia, con il passare dei secoli il nome venne "corrotto" in "Cafaronia". Sempre secondo l'eminente parroco, molte di queste "Caferonie" (cioè case dei sacerdoti di Feronia), con l'avvento del cristianesimo vennero sostituite dalle attuali chiese, un fenomeno questo molto diffuso quando una cultura si sovrappone ad un'altra, specialmente se si parla di fede cristiana che dentro di se integrò questi antichi luoghi di culto pagani in una sorta di continuazione devozionale. Ma
il Paolucci, oltre a farci conoscere queste particolarità fece ancor di più e non si fermò solamente a congetture puramente analitiche e con uno slancio di fantasia narrò come in una sorta di romanzo epico di quando le truppe romane arrivarono in questa selvaggia ed innominata terra e si posero la domanda di quale nome darle: "Allorchè la Romana Potenza ebbe ritrovata la valle, vedendola innominata e bramando di porle un nome che si adattasse alle sue qualità; co' soliti riti, e auguri fece ricorso ai suoi idoli, da' quali ebbe risposta, che le fosse dato il nome da lei meritato...". Il nome tanto meritato venne fuori quando i romani, una volta ispezionata la valle si resero conto che la sua terra poteva produrre di tutto e si riferirono ad essa come: "
tellus illa FERT OMNIA"("una terra che produrrà ogni cosa"). Dopodichè, il tempo vorace di vocaboli, mangiò alcune lettere trasformando "fert omnia"
in Feronia, mutandosi poi per le ragioni sopra citate
nelle parole composte che generarono l'espressione "Ca' Feronia", il passo successivo fu di conseguenza il definitivo cambiamento in "Garfagnana". Con tutto ciò anche lo stesso Paolucci nella sua bellissima opera non dava spazio alla certezza assoluta della sua tesi, anzi, anche lui affermava che varie sono le ipotesi da prendere in considerazione e nella sua umiltà di uomo antico così disse: "Concludo che in questa varietà d'opinioni è difficile accertarne la vera. Ciascuna ha del probabile, onde chiascheduno può seguire quella che più gli aggrada".


Bibliografia

  • "La Garfagnana Illustrata", Pellegrino Paolucci, anno 1720

Garfagnana: non solo "terra di lupi e briganti", ma anche terra di scienza

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Tutto cominciò in questo modo qui:"Più tosto di' ch'io lascierò
l'asprezza di questi sassi, e questa gente inculta, simile al luogo ove ella è nata e avvezza"
. Era il 1524 e Messer Ludovico Ariosto governatore estense in Garfagnana con questi versi pose 
a perpetua memoria un marchio indelebile sulla pelle dei garfagnini. Da quella sua lettera (Satira VII) scritta all'amico Bonaventura Pistofilo dalla sua Rocca di Castelnuovo, il garfagnino fu etichettato per sempre come persona gretta, ignorante e senza cultura, proprio così, come le caratteristiche morfologiche della terra in cui viveva. Per dirla tutta non è che queste illazioni "ariostesche" fossero del tutto campate in aria, quello no, al tempo in Garfagnana regnava l'anarchia, le persone per le proprie necessità si affidavano di più ai briganti che allo Stato, perdipiù la gente viveva semplicemente dei frutti del campo e nella più completa
Briganti di epoca
ariostesca
umiltà, però portarsi addosso questa etichetta per secoli non è giusto e nemmanco vero. I tempi passano e le persone si evolvono e a confermare l'errata teoria che la Garfagnana fosse solo "terra di lupi e di briganti"è il fatto incontrovertibile che fu anche "terra di scienza". Ebbene si, nonostante tutte le opinabili opinioni questa terra così piccola e limitata partorì nei secoli a venire tre grandi scienziati di fama mondiale, dalle cui scoperte ancora oggi l'umanità trae benefici, scoperte che tutt'ora vengono studiate ed analizzate in tutte le università del mondo. Curiosamente possiamo notare che 
in età moderna di questi dotti personaggi la nostra terra ne generò uno per secolo, un numero altissimo considerando il nostro "piccolo orto" e fu proprio nel XVII secolo che nacque a Trassilico da Lorenzo e da Maria Lucrezia Davini di Camporgiano Antonio Vallisneri, era il 3 maggio 1661. Il padre era originario della provincia di Reggio Emilia e a Trassilico(oggi comune di Gallicano)ricopriva la carica di capitano di ragione della Vicaria. Tanto per capire capire bene chi fosse il Vallisneri è giusto dire che fu il principale esponente della tradizione medica galileiana tra il 1600 e il 1700. Era un uomo la cui erudizione spaziava in tutti i campi del sapere, dalla medicina all'anatomia comparata, dall'entomologia (n.d.r: lo studio degli
insetti)alle scienze della Terra per arrivare perfino all'embriologia. Insomma un'attività di studio intensissima, divulgata attraverso un carteggio monumentale che gli consentì senza ombra di dubbio di esercitare in Italia una sorta di egemonia culturale scientifica nei primi trent'anni del 1700. Tutta questa sua notorietà lo portò anche ad ottenere la cattedra di medicina pratica dell'università di Padova e in seguito quella di teoretica. Le sue ricerche e i suoi esperimenti ottennero poi risultati eclatanti: la scoperta dell'origine dei fossili, quella delle sorgenti, nonchè il ciclo di riproduzione degli insetti si devono soprattutto al suo sapere. La sua fama non si fermò qui e oltrepassò addirittura i confini italici, tant'è che la sua notorietà raggiunse le maggiori capitali europee al punto che l'imperatore Carlo VI d'Asburgo lo volle con sè, nominandolo medico di corte. All'apice della sua carriera, a sessantanove anni d'età (nel 1730), morì improvvisamente. Le sue spoglie mortali riposano nella Chiesa degli Eremitani a Padova. In suo onore è stata chiamata una pianta acquatica, la Vallisneria e a lui è dedicato il complesso che ospita i dipartimenti di biologia, di chimica biologica e di scienze biomediche sperimentali dell'università di Padova. Trassilico terra fertile non c'è che dire, infatti il secondo scienziato in questione è un'ennesimo trassilichino: Leopoldo Nobili, personaggio dalla vita a dir poco movimentata. Anche lui come il suo illustre compaesano
sopracitato fu figlio di un notabile di origine reggiana, il padre difatti era il podestà del borgo. Il futuro scienziato nacque a Trassilico il 5 luglio del 1784, in piena età napoleonica e dei mirabolanti trionfi dell'imperatore francese fu difatti ammaliato, tanto da iscriversi alla scuola militare di Modena. Li divenne uno studente modello, i suoi prodigiosi studi sulla matematica e sulla fisica meravigliarono perfino i suoi professori, sicuramente quello che faceva al suo caso sarebbe stata una carriera scientifica, non quella militare. Dello stesso avviso fu il padre che cercò in tutte le maniere di convincerlo a intraprendere la via dello studio, ma così non fu e con il grado di capitano d'artiglieria si arruolò nella Grande Armata napoleonica per partecipare alla campagna di Russia. Nelle steppe russe fu fatto prigioniero dai cosacchi e dopo inenarrabili peripezia riuscì a fuggire e a raggiungere l'amata Italia. Nonostante ciò gli fu riconosciuto il grande valore con cui aveva combattuto, tanto da ottenere la Legion d'Onore. Finita l'euforia napoleonica Leopoldo, per fortuna della scienza, riprese i suoi studi e le sue scoperte non si fecero attendere. Nel 1825 inventò il galvanometro (n.d.r: dispositivo che traduce corrente elettrica in un momento magnetico), l'anno successivo fu il turno della pila termoelettrica e in seguito brevettò il sistema di metallocromie. Queste invenzioni lo portarono
Trassilico
a fare conferenze in tutte le cattedre d'Europa, tant'è che la sua fama si diffuse su tutto il continente. Fu considerato il primo fra i fisici italiani della prima metà del 1800 "degno di stare vicino a Galileo e di confabulare con Volta", così come disse il professor Balletti nel suo volume "La storia di Reggio Emilia". Ma a quanto pare le sue aspirazioni rivoluzionarie prevalevano su quelle del sapere e il suo fermento politico tornò inesorabilmente fuori. Così fu che nel 1831 prese parte ai moti nel Ducato di Modena, le cose non andarono bene, anzi gli costarono veramente care, tanto che, una volta falliti i moti insurrezionali fu costretto all'esilio. Rientrato dalla lontana Francia trovò riparo nel Granducato di Toscana e Leopoldo II, il granduca, lo incaricò di reggere la cattedra di fisica sperimentale di Firenze. Pochi anni dopo il suo incarico i postumi delle scelleratezze giovanili si fecero sentire, e a causa di una malattia contratta nella campagna di Russia, il 22 agosto 1835 all'età di cinquant'uno anni il Nobili morì. Fu sepolto nella Basilica di Santa Croce di Firenze, oggi riposa accanto a Galileo Galilei, Michelangelo, Machiavelli e Ugo Foscolo...Da un secolo ad un altro e il XX secolo fu il secolo che vide la nascita di Francesco Vecchiacchi. Nacque a Filicaia (comune di Camporgiano) il 9 ottobre 1902 e già da giovanissimo prese su di se la passione dello zio ingegnere, tanto da costruirsi nelle vacanze estive un apparecchio radio ricevente. Già questo la diceva tutta sulle doti
del futuro inventore ed infatti dopo aver frequentato il liceo, nel 1925 si laureò in fisica in quel di Pisa (suo compagno di corso era Enrico Fermi). Una volta laureato fra le tante domande di lavoro inviate ci fu anche quella spedita alla Magneti Marelli di Milano che lo assunse nel 1932, li, con il tempo divenne direttore del laboratorio radio. Nella medesima città gli fu anche assegnata la cattedra di comunicazioni elettriche presso il politecnico. Grazie anche a queste nuove mansioni le possibilità di studio del professore garfagnino si ampliarono e fu proprio in quegli anni che grazie a Vecchiacchi l'Italia prese l'indiscusso primato nel campo dei ponti radio. Difatti nel 1939 il suo contributo fu fondamentale nella realizzazione del primo ponte radio multicanale: Milano- Cimone- Terminillo- Roma. Quell'anno fu poi magico, ed un ennesimo successo trovò compimento nella Fiera Campionaria di Milano. Mancavano ancora quindici anni prima dell'inizio delle trasmissioni ufficiali da parte della RAI, ma grazie a lui, proprio da quei locali e dagli strumenti da lui progettati realizzò con meraviglia di tutti la prima trasmissione sperimentale. Con gli anni e con il progresso le innovazioni in materia si svilupparono ancor di più, ed ecco che nel 1952 il professore garfagnino mise in funzione il ponte radio televisivo sperimentale TO-MI, primo collegamento a banda larga in Italia per le trasmissioni RAI. Da quel momento fu un fiorire di ponti radio sempre più sofisticati su tutti i monti della penisola. Nel frattempo il Vecchiacchi stava lavorando sul grandioso ponte radio Milano Palermo, in grado di portare il programma televisivo ripreso in qualsiasi punto d'Italia a tutti i trasmettitori nazionali e alla rete europea. Di questo progetto purtroppo il professor non vedrà mai la fine, proprio in quell'anno, il 1955, le prime avvisaglie di un brutto male si fecero sentire e a cinquantatre anni il 20 novembre di quel maledetto anno il "Cecco" (com'era chiamato affettuosamente in Garfagnana) morì. Non rivedrà mai più la sua bella Garfagnana e le sue amate Apuane che lo vedevano come un appassionato escursionista (il C.A.I gli intitolerà una via ferrata), decise però di ritornarci a riposarvi per sempre. Oggi è sepolto nel cimitero di Filicaia.
Detto ciò non rimane la speranza che da lassù, leggendo quest'articolo, il buon Ariosto si ricreda che da "questa fossa profonda" come ebbe a definire la Garfagnana non nacquero solo famigerati banditi, ma soprattutto gente che lasciò ai posteri il frutto del loro sapere... Ah! A proposito dimenticavo... Per quanto riguarda il XXI secolo in Garfagnana c'è ancora un posto libero da scienziato...

Bibliografia

"Profili di uomini illustri della Valle del Serchio e della Garfagnana" di Giulio Simonini, Comunità Montana della Garfagnana Banca dell'Identità e della Memoria anno 2009

C'era una volta un ragazzo lucchese: la vita di Romina Cecconi

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Questa che vado a raccontarvi non è una bella storia, è una storia
fatta di soprusi, persecuzioni, sofferenze e violenze. Quello però che rende speciale questa vicenda è la voglia di emancipazione e di rivalsa sociale da parte della protagonista nell'Italia bigotta e puritana del dopoguerra. Non parleremo allora, come è mia abitudine, di belle tradizioni garfagnine o
 di guerre fra estensi e lucchesi, parleremo però di una lotta, la lotta per la propria libertà. Questa, infatti è la storia di Romano Cecconi, diventato Romina. Romano era nata nel momento sbagliato (in piena guerra mondiale) e nel corpo sbagliato. Si, avete capito bene, nel corpo sbagliato, perchè lei si sentiva donna a tutti gli effetti, tant'è che dopo una lunga battaglia legale fu la seconda persona in Italia che ottenne sui documenti d'identità il riconoscimento del suo nuovo genere dopo l'operazione del cambiamento di sesso, contribuendo così ad aprire la strada alle legge 164, che permette tutt'oggi l'adeguamento del nome sui documenti. Nacque così a Lucca, era il 4 luglio del 1941. Schiaffi, litigi, umiliazioni, per tutti era la "donnicciola", questa era la sua vita in una provincia lucchese diversa da quella attuale, legata a tradizioni antiche dove il "pater familias" era a capo di tutto il parentado, dove la società era ben distinta in uomini e donne, gli uomini lavoravano  e le donne accudivano ai figli, vie alternative non esistevano e quando esistevano si tenevano ben nascoste, erano considerate uno scherzo della natura o peggio ancora un abominio di Dio, una punizione divina. Ma a quei tempi Romano non ce la faceva a nascondere quella che era la sua vera e propria essenza e quella madre (n.d.r: nativa di Bagni di Lucca) un po' manesca non ce la faceva a frenare gli istinti di quel ragazzetto:- Tante sculacciate gli davo da bambino. Visto come fanno le bambine, si girano, si atteggiano e si pavoneggiano e così faceva anche lui e io ero turbata, sicuramente non mi faceva piacere e io lo picchiavo e lui le pigliava, stava zitto e ricominciava nuovamente a fare in quel modo...-. La svolta della sua vita ci fu qualche anno dopo quando la mamma per fuggire dalla miseria più nera che attanagliava la valle nel dopoguerra decise di trasferirsi a Firenze e andare a lavorare in una trattoria. D'altronde uscire dalla
Firenze anni 60
provincia per Romina era come uscire da un incubo:- Non ho mai conosciuto il mio vero padre, quello che ci adottò era un brav'uomo, ma spesso si ubriacava e diventava violento. Dopo la sua morte siamo arrivate in una città che non conoscevamo, ma che ci sembrava bellissima-. A quindici anni Romina trovò il suo primo lavoro in San Frediano (n.d.r: un quartiere di Firenze), imparò a fare la doratura delle cornici, ma il mestiere durò ben poco, le distrazioni e al tempo stesso le opportunità che dava la città alle sue ambizioni andavano sfruttate... L'ambizione difatti era il palcoscenico, ma come ebbe a dire Romina: "Cosa resta per chi nasce in un corpo sbagliato? Solo due scelte: il palcoscenico o il marciapiede. Provai con il primo ma finì sul secondo..." Il suo esordio nel mondo dello spettacolo infatti fu al "Circo Gratta" e come un fenomeno da baraccone sulla locandina era presentata come "L'uomo-donna", li si esibiva ballando il Bolero, si travestiva da Brigitte Bardot e da Milva, ma il suo numero venne cancellato, turbava i giovani... Tentò la fortuna poi nella lontana Parigi nel famoso locale "Chez Madame Arthur", non raggiuse mai il successo, ma imparò ad assumere ormoni per ingrossare il seno. Tornò allora a Firenze e divenne con il tempo un personaggio conosciuto, le sue passeggiate notturne vestita vistosamente da donna in abiti
La Romanina
coloratissimi, lo sculettare in jeans strettissimi fecero nascere il mito de "la Romanina". Cominciarono così i problemi seri... Lei e la sua amica Silvia incominciarono a frequentare il Parco della Cascine, ogni giorno la Buoncostume faceva retate, passava più il suo tempo in Questura che sul marciapiede e le multe a suo carico per oltraggio al pubblico pudore fioccavano e cominciavano veramente a farsi tante. Quei soldi fatti con il mestiere più antico del mondo servivano per la tanto sospirata operazione per cambiare sesso, non certo per pagare multe. Ma nonostante tutto il mito della Romanina continuava imperterrito nel suo successo nella Firenze degli sessanta:-
 Ero diventata una star, tanto che quando iniziai a fare la vita su e giù per via Tornabuoni (n.d.r: una delle vie del lusso di Firenze), la mia clientela era fatta di medici, avvocati, architetti. Io e la Silvia entrammo nel bel mondo di Firenze dalla porta principale. I ricchi ci invitavano nei loro attici con vista. Una volta mi ricordo che in una cantina vicino Santo Spirito, una taverna frequentata dalle grandi famiglie della città dove si facevano gli spogliarelli, ci fu una retata della
Buoncostume e finimmo tutti sulla rivista 
Specchio. Fu la mia prima copertina. Non c’era festa, night club o appuntamento mondano in cui io e la Silvia non fossimo le star. Ogni volta che succedeva qualcosa il giorno dopo mi ritrovavo sulle pagine de "La Nazione"
, con titoloni che gridavano allo scandalo. Lo facevano per vendere più copie, naturalmente- Insomma Romina era diventata una vera e propria icona, di sè, se ne accorse anche il jet set internazionale che la voleva nei suoi salotti, era amica delle figlie di Chaplin e il suo flirt con Vittorio Emanuele di Savoia fece scandalo. La misura però era colma, pressioni politiche sulla questura di Firenze da parte della Democrazia Cristiana dicevano di chiudere questo scandaloso capitolo. La palla fu presa al balzo e in violazione dell'articolo 85 del codice Rocco alla Romanina gli fu imposto il coprifuoco, divieto di uscire di casa nelle ore serali e notturne e l'obbligo di vestirsi da uomo. Ovviamente Romina non avrebbe mai rispettato tali restrizioni e così le condanne aumentavano, 
per ben quattro volte le porte del carcere sia maschile che femminile si aprirono per lei e come se non bastasse subì perfino l'umiliazione delle visite psichiatriche. Arrivò così anche il 1968 e se quell'anno per l'Italia fu il momento della grande contestazione per Romina il suo '68 si tradusse nel suo anno peggiore che coincise con la sua totale repressione. "Persona socialmente pericolosa" così recitava la motivazione per cui Romina venne spedita al confino, al soggiorno obbligato nel sud più profondo, a Volturino un paesino
Volturino (Foggia)
montano di duemila anime in provincia di Foggia, tanti "riguardi" non venivano prestati nemmeno ad un pericoloso mafioso. 
A dispetto dei giudici, per Romina quello fu il giorno della liberazione, non della repressione:-Quando scattò il confino, che ormai andavo per i trenta, mi dissi: ora o mai più. Casablanca era lontana, ma Losanna no. Prosciugai il conto in banca e scappai. Costava 700 mila lire quell'operazione. I soldi non bastarono. Scrissi a mamma: dimentica tutto, aiutami. Due giorni dopo eccola lì di persona, il mio cuor di mamma, con 500 mila lire in una busta, i risparmi di una vita. Sapeva di avermi ridato la vita per una seconda volta. Ci siamo guardate e abbiamo iniziato a piangere, come due grulle. Non avevo paura più di nulla, né del confino, né del ritorno alla solita vita. Che soddisfazione, due anni dopo, sventolare sotto il naso di un agente i documenti con scritto "sesso: effe"-. Nonostante questo al suo rientro in Italia la Patria non si dimenticò di lei, anzi fu lei che una volta rientrata dalla Svizzera si autodenunciò per scontare il famoso confino, e fu mandata inesorabilmente a scontare la sua pena a Volturino. Passati  tre anni nel paesino foggiano la sua fama si diffuse ancor di più. Romina aveva vinto, il suo stato di donna gli era stato
Romina Cecconi a Firenze
legalmente riconosciuto, aveva dovuto citare in tribunale perfino l'anagrafe, i tempi delle umiliazioni, delle violenze, dei processi e del carcere erano finiti, era arrivato il momento di aiutare le altre perchè non subissero la sua stessa sorte, 
ma non c'erano ancora leggi al riguardo, ma grazie a lei ce la fecero molte altre e lei le ha aiutò organizzando scioperi, cortei, andando in televisione e scrivendo un libro. Fu il 1976 e in tutte le librerie uscì "Io la Romanina: perchè sono diventato donna". Il libro ebbe un successo clamoroso, la Firenze dei salotti buoni cominciò a tremare per gli eventuali nomi che li potevano comparire (n.d.r: i nomi non c'erano ma si potevano intuire). Fu poi invitata anche nelle trasmissioni da Enzo Tortora per parlare della sua storia e il famoso regista Mauro Bolognini nel 1978 girò su di lei un reportage dal titolo: "C'era una volta un ragazzo: la vita di Romina Cecconi". Sulle sue vicende fu fatto perfino uno spettacolo teatrale con l'attrice Anna Meacci che ancora oggi viene rappresentato: "La Romanina-La vera storia del primo uomo in Italia diventato donna". Ma oggi "la Romanina" che fine ha fatto?
Romina è ancora in gran forma, quest'anno compirà ottant'anni e adesso vive a Bologna. Gli anni sono trascorsi e passate le luci della ribalta la sua vita si è svolta regolarmente, un marito, un divorzio, un fidanzato che la convinse a lasciare la strada e a comprarsi un edicola, proprio in quella Bologna in cui adesso vive. 
Per tutto il mondo l.g.b.t è ancora un mito per il resto è tutto un lontanissimo ricordo.


Bibliografia

  • "Ero Romano, diventai Romina e l'Italia mi mandò al confino" di Michele Smargiassi, "La Repubblica" 1 dicembre 2002
  • "Le mie notti da Romanina" di Marco Luceri, "Corriere Fiorentino",11 novembre 2015
  • "Romanina, la donna pipistrello", "orlandomagazine.it" di Salvatore (Paolo) Pazzi, 13 aprile 2019 
  • "C'era una volta un ragazzo: la vita di Romina Cecconi" documentario RAI di Mauro Bolognini anno 1978
Il titolo dell'articolo in questione è ispirato dal documentario RAI di Mauro Bolognini "C'era una volta un ragazzo: la vita di Romina Cecconi"


Quando i cavatori garfagnini salvarono dalla distruzione lo splendore di Abu Simbel

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L'Egitto, nella fantasia di ogni bambino rappresenta nell'immaginario
infantile la figura dell'esploratore e difficilmente possiamo dire il contrario visto che proprio quella terra è stata fonte di migliaia e migliaia di ritrovamenti e di scoperte archeologiche. Eppure, trovarsi di fronte al ritrovamento del tempio di Abu Simbel deve essere stata un'emozione unica, senza pari, superiore a qualsiasi sogno fanciullesco. Quel tempio fu eretto dodici secoli prima della venuta di Cristo sulla Terra e il faraone Ramses lo fece costruire per intimidire i nemici e per celebrare la sua vittoria nella battaglia di Qadesh. In effetti ancora oggi, vista la grandiosità e la magnificenza dell'opera, un po' di soggezione la mette ancora. Sulla facciata alta 33 metri e larga 38 spiccano le quattro statue di Ramses II, ognuna della quali è alta 20 metri e in ognuna il faraone indossa le corone dell'Alto e
Tempio di Nefertari
del Basso Egitto. Ai lati delle statue colossali ve ne sono altre più piccole, che rappresentano la madre Tula e la moglie Nefertari, mentre tra le gambe delle statue ce ne sono altre di alcuni dei suoi figli. Sopra le statue, proprio sul frontone del tempio ci sono altre 14 statue di babbuini che guardano verso est aspettando la nascita del sole per adorarlo, in origine  queste erano 22, quante erano le province dell'Alto Egitto. Insomma, possiamo dire senza ombra di dubbio che il complesso archeologico egiziano di Abu Simbel è uno dei più famosi e conosciuti al mondo, secondo solamente alle piramidi di Giza. Tuttavia quel 22 marzo 1813 quando l'esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt 
scoprì queste meraviglie, di quelle enormi statue spuntavano 
dalla terra solo le spalle: "Per un caso
Burckardt
fortunato mi allontanai di qualche passo verso sud e i miei occhi incontrarono la parte ancora visibile di quattro immense statue colossali, tagliate nella roccia alla distanza di circa duecento iarde dal tempio. Queste statue si trovano in un profondo avvallamento scavato nella collina
". Così lo studioso annotava ancora nel suo taccuino: "
Una delle statue ha ancora tutta la testa e una parte del petto e delle braccia fuori dalla sabbia. Di quella contigua non si vede quasi nulla, poiché il capo è rotto e il corpo è coperto di sabbia fin sopra le spalle. Delle altre due emergono solo le acconciature". Immaginatevi allora  l'entusiasmo per la scoperta. L'allegria e la gioia dell'esploratore svizzero era incontenibile, infatti furono informati i giornali di tutto il mondo e la fama di Burckhardt andò così alla stelle. Purtroppo questo entusiasmo durò poco e qualche mese dopo da quel mirabolante giorno tutto cadde un po' nel dimenticatoio. Fino al giorno in cui, alcuni anni dopo la scoperta, comparve sulla scena l'esploratore padovano Giovanni Belzoni, che rimase nella leggenda per aver riportato alla luce tutto il complesso di Abu Simbel. Le vicende ci narrano che Belzoni conobbe Burckhardt proprio in Egitto. Lo svizzero e l'italiano divennero amici e un bel giorno lo svizzero rivelò all'italiano di essersi imbattuto,
Giovanni Belzoni
risalendo il Nilo ai confini con la Nubia, nelle rovine di un tempio rupestre fronteggiato da quattro statue colossali e semisommerso dalla sabbia. Quei racconti stimolarono la curiosità di Belzoni e in seguito lo spinsero ad inoltrarsi nelle profondità nel paese, la sua intenzione era infatti quella di liberare il tempio di Ramses dalle migliaia di metri cubi di sabbia che lo circondavano. "Andammo al tempio di buon’ora, animati dall’idea di entrare finalmente nel sotterraneo che avevamo scoperto", scriverà Giovanni Battista Belzoni nel diario di viaggio
Dopo ventidue giorni di scavi, l'esploratore padovano sentiva che l’impresa era fatta e il mistero di Abu Simbel stava per essere svelato. Avevano spostato dieci metri di sabbia, lavorando col termometro che sfiorava i 50 gradi. La liberazione del tempio dalla sabbia avvenne il 1 agosto del 1817, fu un'impresa sensazionale. Difatti quella maledetta sabbia non bastava toglierla che quella ritornava. Belzoni aggirò l'ostacolo e con un colpo di genio gli venne l'idea di bagnare l'arenaria, innalzando al contempo palizzate di sostegno: "Togliere la sabbia ai lati perché potesse essere rimossa quella del centro". Fu così che quel giorno
Abu Simbel 1930
violarono il tempio maggiore, consegnando al mondo una vera e propria meraviglia. Trascorsero qualcosa come 142 anni da quel giorno e anche la Garfagnana entrò con Belzoni a far parte della storia del faraone Ramses e di Abu Simbel. Tutto cominciò nel 1959, quando il presidente egiziano Nasser diede il via alla costruzione della grande diga di Assuan, opera indispensabile per la modernizzazione del Paese. La costruzione della diga avrebbe comportato la creazione di un immenso lago a valle della diga (l'attuale lago Nasser), nel bel mezzo della regione storica della Nubia. Tale regione era disseminata di straordinari complessi faraonici di inestimabile valore storico e culturale, destinati però ad essere sommersi dalle acque del grande lago artificiale. Tra questi c'era anche l'immenso tempio di Abu Simbel. Cosa fare allora? Quale soluzione? L'otto marzo 1960 l'UNESCO per bocca del suo direttore generale Vittorino Veronese rivolse un appello a tutti i paesi del mondo perchè partecipassero a un'operazione d'emergenza: il salvataggio del patrimonio archeologico dell'Egitto che stava per essere sommerso dalla diga di Assuan. Una
La diga di Assuan
gara di solidarietà a cui il nostro governo (insieme a molti altri) aderì con estrema convinzione e generosità. Comunque sia rimaneva in molti la convinzione dell'impossibilità del salvataggio del ciclopico sito, era un'impresa quasi impossibile, considerando proprio le dimensioni e l'urgenza dell'operazione (l'inondazione era prevista per il 1966) e in più i dubbi degli ingegneri su quale procedimento eseguire per la salvezza di Abu Simbel erano molti. Nel 1963 si decise per la soluzione più improbabile e la più spettacolare, si decise 
che i templi sarebbero stati tagliati in più di mille blocchi, per essere trasferiti su un altopiano 65 metri più in alto e rimontati esattamente nella posizione originale. Nella pratica ciò significava rimuovere tonnellate di terra e trasportare centinaia di blocchi di pietra.
Lavori ad Abu Simbel
foto di Werner Emse
Era un’impresa senza precedenti e ancor oggi rappresenta 
una pietra miliare ineguagliabile nella storia dell’archeologia. Ecco allora entrare in scena la Garfagnana e la sua gente. Il governo italiano affidò gli stupefacenti lavori all'impresa lombarda "Impregilo", che si mise così a cercare manodopera in tutta Italia per il taglio dei blocchi di pietra. Fu così che gli ingegneri della ditta milanese si recarono anche in Garfagnana. A Gorfigliano esisteva il fior fiore degli intagliatori di marmo, furono reclutati così il meglio della specializzazione marmifera locale: Tonino Marchi e il figlio Carlo, Leandro Casotti, Ivano Paladini e Michele Ferri, tutti giovani ragazzi che avevano cominciato a lavorare il marmo fin da
ragazzetti, il Pisanino e la Tambura furono per loro una vera e propria palestra  d'esperienza, quell'esperienza che dovevano trasferire per salvare una delle più importanti opere dell'archeologia mondiale. Il loro compito sarebbe stato quello di tagliare, smontare, trasferire e riassemblare 1003 blocchi di pietra. Insieme a loro una poderosa squadra di altri cavatori di marmo, un nucleo decisivo di duemila persone fra tecnici e operai che dovevano riposizionare perfettamente il tempio, portandolo sessanta metri più in alto in perfetto allineamento solare, così com'era nella vecchia collocazione quando una lama di luce  all'alba di ogni 22 ottobre e 22 febbraio penetra nella profondità del tempio illuminando le statue divine. Al loro arrivo in Egitto gli operai garfagnini trovarono sul luogo di lavoro una vera e propria città abitata da tremila persone, costruita proprio per questa impresa, non mancava niente, negozi, bar, alloggi, mense e perfino una centrale elettrica. Il lavoro si doveva svolgere in quattro fasi e la prima di questi
foto di Georg Gerster 
 fasi era quella che impegnava gli operai di Gorfigliano. Gli uomini 
si dedicarono a rimuovere tonnellate di roccia attorno ai templi. Precedentemente era stata collocata al loro interno un’armatura d’acciaio per evitare frane, mentre le facciate furono ricoperte di sabbia per prevenire danni alle sculture. Quindi l’operazione più delicata: il taglio in blocchi degli ipogei. Si effettuarono delle sezioni di tre metri di altezza fino a cinque di lunghezza, con un peso di 20 tonnellate per pareti e soffitti e di 30 per la facciata. Il contratto stabiliva che i tagli dovessero essere di un 
foto di Georg Gerster
massimo di 6 millimetri, ma i marmisti si fecero un punto di orgoglio nel farli ancora più sottili, soprattutto negli elementi decorativi. Una volta tagliati, i blocchi venivano etichettati con un codice che ne indicava la posizione, venivano introdotti in contenitori di cemento rinforzato e trasferiti in un sito di deposito. I lavori durarono otto anni, dal 1960 fino a quel 22 settembre 1968, quando con una grande cerimonia si annunciò al mondo la rinascita dei magnifici complessi monumentali di Ramses II e di sua moglie Nefertari. L'Egitto nel ringraziare le ventidue nazioni che aderirono all'impresa decise che questi partecipanti avrebbero potuto conservare una parte dei pezzi rinvenuti negli scavi. Quattro Paesi ricevettero in omaggio perfino un tempio completo che fu inviato e smontato e poi ricostruito nel luogo di adozione, per questo che oggi a Torino troviamo il 
tempio di Ellesija, a New York quello di Dendur, a Leida quello di Tafa e a Madrid quello di Debod. Infine il governo egiziano dalla pagine de "Il Corriere della Sera" scrisse parole di ringraziamento
foto di John Keshishi
agli italiani, ricordando che: "
Era stato salvato il gioiello dei tesori della Nubia, il monumento più grandioso mai scolpito nella roccia, esaudendo in questo modo il sogno del faraone Ramses di rendere il suo tempio immortale", anche grazie, aggiungo io, agli operai garfagnini.


Bibliografia

  • "Il trasferimento del Tempio di Abu Simbel" di Ester Pons Mellado, "Storica- National Geographic", settembre 2020
  • "Cinque operai da Gorfigliano in Egitto per salvare i tesori della Valle dei Re", "La Nazione- Lucca" di Amilcare Paladini. Anno 1960

Quando in Garfagnana era un problema anche vestirsi. Quello che indossare lo decideva lo Stato...

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Tempi facili adesso per Prada, Armani e Dolce e Gabbana. Siamo nell'era della moda imperante. Vestiti di ogni foggia, colore e forma sono presenti in ogni dove e più strambi e bizzarri sono e più fanno tendenza e glamour, anzi, ancora meglio (riferito in particolar modo alle femminucce) se questi abiti potessero lasciare intravedere qualcosina... Ecco allora il trionfo di seni prosperosi strizzati in indumenti attillatissimi, di gambe al vento e tacchi vertiginosi. Anche i maschietti un tempo scevri da ogni tendenza modaiola sono caduti nel trappolone dell'outfit più selvaggio: jeans strappati, giacche strettissime, pantalone corto alla caviglia stile “acqua in casa”. Così è, d'altronde i numeri parlano chiaro dal momento che la moda italiana e il tanto (giustamente) glorificato Made in Italy sono secondi al mondo per produzione. Ma a Gallicano in particolare e in tutte i paesi della Garfagnana sotto il dominio della Repubblica di
Gallicano
Particolare di una mappa del 1613
Lucca così non sarebbe stato nel lontano 1614, come vestire infatti, lo decideva lo Stato. Se oggi fosse ancora così, addio agli stilisti stravaganti, addio alle sinuose forme e soprattutto addio ai fatturati di questa grande industria. 
I tempi passano (grazie a Dio) e finalmente ognuno è libero di esprimere la propria personalità e il proprio gusto anche nel vestirsi, ma una volta no. In un tempo lontano esistevano regole ferree su quello che una persona doveva indossare e pene severissime se ciò non fosse stato rispettato. Questo articolo all'apparenza frivolo e leggero, invece è un articolo che deve far riflettere sulla condizione sociale che oggi abbiamo, sulla nostra autonomia nel decidere e nell'autodeterminarsi, cosa che un tempo era molto limitata. Facciamo allora questo viaggio a ritroso nel tempo di quattro secoli, nei meandri della moda seicentesca e alla scoperta di una delibera scovata nell'archivio storico di Gallicano, così intitolata “Decreti del Consiglio di Lucca sopra gli abiti e i loro ornamenti (anno 1614)”. Prima di addentrarsi in singolar decreto e per rendere più chiaro il contesto di questa originale ordinanza è
d'uopo al mio caro lettore inquadrare bene il periodo storico in questione. Siamo nel XVII secolo e precisamente nel 1640, Agostino Lampugnani (religioso milanese) così dice:
“Che monta tanto fantisticare intorno al vestire della moda se non se ne fa il cimento della sperienza”.Per la prima volta viene usata la parola “moda”, in questo suo libro (“Della carrozza da nolo, overo del vestire e usanze”)l'abate critica aspramente tutti quelli che “eccedono nel seguire la moda” e si mostra contrario non solo alle abitudini delle signorine, ma anche a quelle dell'uomo, che già al tempo è attratto dalle nuove inclinazioni. La Guerra dei Trent'anni d'altro canto ha lasciato il segno, la Francia vede il suo potere crescere esponenzialmente, le sue influenze anche nel campo della moda dilagano in quasi tutta Europa a discapito della cattolicissima e bigotta Spagna, la cui ascendenza sulla moda ha imposto un carattere di rigore e moderazione. Intanto a Roma ad inizio secolo (sempre il XVII) nasce un nuovo movimento culturale, esaltazione del potere creativo ed estroso, che viene applicato in tutti i campi del sapere e dell'arte, dall'architettura, alla musica, ad arrivare perfino alla filosofia e anche nella moda...Siamo nell'epoca del Barocco. La vita dei ricchi di quel tempo è caratterizzata da un'estrema sfarzosità, da un ritorno al lusso e alla sensualità, è il secolo della consapevolezza, in cui uomini e donne iniziano a esprimersi anche attraverso i vestiti che indossano. Ma così non deve essere e così non è per la Repubblica di Lucca, in barba a qualsiasi francese o a qualsivoglia tendenza. Chiesa e Stato sono ancora forti 
Repubblica di Lucca anno 1673
e dettano ancora il modus vivendi di qualsiasi cittadino, in Garfagnana la Francia e la moda sono lontani anni luce, ormai è da tempo immemore che per la Repubblica di Lucca vige la legge
“sugli ornamenti”. Già nel 1308 queste regole sono introdotte per mettere un freno “nell'immoderatezza del vestire”e per limitare le spese superflue dei cittadini. Quindi da una parte vediamo la Chiesa che impone morigeratezza e dall'altra lo Stato che dice che è bene che il cittadino non spenda soldi in cose “inutili”, è più giusto risparmiare per poi pagare le tasse... questo è il patetico “leitmotiv” che per secoli vedrà il perpetuarsi di questa legge . A vigilare sul rispetto di queste regole sono dei semplici giudici, con il tempo di ciò si occuperanno delle commissioni apposite, fino ad arrivare al Decreto in questione che è addirittura opera di una speciale commissione:“L'Offizio sugli Ornamenti”. E' il 22 luglio 1614, anno di Grazia e il Decreto viene approvato dal Consiglio degli Anziani del Comune di Gallicano: “Che da qui in avanti s'intenda proibito agli uomini e donne di qualsiasi voglia, grado, e condizione, finiti che avessero i dieci anni di portare le infrascritte cose..”, inizia così una sequela lunga ben sei pagine di proibizioni e divieti di ogni qualità, tipo e
genere: 
“perle di ogni sorta vere o false, gioie di ogni sorta vere o false (eccetto in anella), oro o argento vero o falso, di qualsivoglia abito, comprendente ancora, cinti di calze, ciarpe, berrette, cappelli, parasoli, guanti e cintole da spada...". Non si creda, come pare, da una sommaria lettura che la legge sia fatta per colpire le signore, anche i signori hanno il suo bel da fare nel districarsi fra regole e regolette: “Inoltre agli uomini s'intende proibito di portare cappe, cappotti e ferraioli (n.d.r: mantello) di seta, foderati di altro drappo che di semplice taffetà (n.d.r: tessuto pregiato), o ermellino”. La legge è anche ben articolata e non si limita a fare un semplice distinguo fra uomini e donne, ma fra donne e donne, particolare attenzione viene data a quelle maritate e alle cosiddette fanciulle, che si devono sobbarcare oltre alle proibizioni precedenti un ulteriore surplus e quindi... “s'intenda proibito di portare i cristalli intagliati, i profumi in filze, collane e cintole, tutti i pendenti all'orecchio eccetto che un semplice anelletto d'oro puro. I grembiali che siano partiti (n.d.r: senza) trine, rete o qualsivoglia sorta di lavori” -inoltre, bene si legga, è proibito-“...portare casacche di velluto se non di
colore nero -
e poi continua– non si possa portare da loro alcuna veste o casacca di seta d'altro colore che nero...” . Insomma, niente fronzoli ed orpelli vari, né per gentil donzella, né per messere, perciò niente collane, anelli, orecchini, tutto (o quasi) negato, per giunta gli abiti devono essere confezionati non con stoffe ricercate e perdipiù niente colori, è l'apoteosi del nero, del grigio, dell'argento, al limite si può indossare un color “leonato” (così specifica letteralmente il decreto), una sorta di marrone chiaro. Naturalmente esistono anche le eccezioni (quando si dice che la legge NON è uguale per tutti) e ci sono persone che da tutta questa “tiritera” si possono esentare. Per questo eccezion viene fatta: “Dichiarando che delle suddette proibizioni in tutti i casi suddetti, eccetto però il capo dei presenti (n.d.r: il capo del Consiglio degli Anziani), s'intende eccetuati gli eccellentissimi signori del tempo, che saranno in magistrato, gli ufficiali forestieri e stipendiari, forestieri del Magnifico Comune e ciascuno forestiero e sua famiglia per un anno dopo di che saranno venuti ad abitare nella città...”. Tanto per chiarire e rendere inequivocabile l'idea, questa non è una “leggetta” fatta tanto per fare, è una legge che si porta dietro pene
severissime. I trasgressori se colti in fallo la prima volta vengono sanzionati con 25 scudi d'oro in contanti, la seconda con 50 e la terza volta (udite udite) con 50 scudi d'oro e un anno al bando o un mese di prigione e attenzione anche all'eventuale responsabilità indiretta dei congiunti nei reati: 
“il padre è tenuto per i figlioli e le figliole, non maritate, il marito per la moglie, il fratello per la sorella, seco abitante”...( ma...sull'uomo chi vigila !).Per fortuna fra le tanti leggi terrene ne esistono altrettante ideologiche, che talvolta rendono giustizia a quelle inique e insensate che l'uomo impone e difatti, come ben si sa, il tempo è galantuomo e spesso rende onore a chi prima gli è stato tolto. Anticamente infatti si è sempre pensato che la moda fosse inutile, superficiale ed effimera, un  qualcosa di tanto veloce quanto leggero. La verità è, che è davvero così, la moda presenta tutte queste caratteristiche, ma allo stesso tempo mentre i secoli scorrevano tutto ciò si è rivelato quel fenomeno che ha rappresentato al meglio la società, il vestito così diventava il simbolo di una divisione delle classi sociali trasformandosi di fatto in uno strumento fedele che ha permesso di ripercorrere il tracciato della storia, del costume e dell'economia, come un perfetto marchingegno antropologico.


Bibliografia

  • "Decreti del Consiglio della Repubblica di Lucca sopra gli abiti e loro ornamenti" anno 1614 

Storie e leggende di briganti garfagnini

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Dalla gente comune erano considerati tutt'altro che dei manigoldi o dei furfanti, erano reputate persone di tutto rispetto, coloro che lottavano contro il potere, contro i ricchi, insomma, gente povera come loro stessi che però era riuscita ad alzare la testa dalla miseria che ammantava tutta la Garfagnana. Questi novelli Robin Hoood erano i briganti garfagnini. In questo mondo così variegato e complesso, che comprendeva anche questi presunti "Robin Hood", esistevano anche banditi comuni che non avevano alcuna ispirazione "filantropica" e che non erano altro che l'espressione di una società in cui la violenza era largamente praticata da tutte le classi sociali. Comunque sia, la vena benefattrice di questi briganti nostrali aveva il suo scopo principale nell'ingraziarsi il misero popolino, infatti dopo aver perpetrato il violento agguato all'opulento signorotto di turno e diviso fra la banda i proventi della rapina, era consuetudine che una parte di questo maltolto fosse
destinata all'acquisto di cibarie da distribuire alla povera gente, facendo così si sarebbero comprati la loro protezione e la loro benevolenza, in questo modo sapevano che mai e poi mai il tapino li avrebbe traditi alle pubbliche autorità, anzi li
 avrebbero difesi a spada tratta contro tutto e tutti, era più facile che uno stesso membro della banda tradisse un suo compagno. Fu proprio per questo motivo che nel periodo d'oro del brigantaggio garfagnino questi malfattori divennero delle vere e proprie icone, fu questa supposta umanità che fece nascere leggende e racconti su questi briganti, in questo modo la narrazione storica delle loro imprese si confuse con la leggenda e poco importava sapere se quel singolo episodio fosse realmente accaduto oppure no. Il brigante in fondo era anche questo: mito, leggenda, quel pizzico di sogno di rivalsa che in taluni casi non guastava affatto. Ecco allora nascere l'epopea  sui briganti garfagnini. Fra i più rinomati manigoldi c'erano quelli che agivano sulla Via Vandelli(n.d.r: la strada che avevano fatto costruire gli Estensi per collegare la Garfagnana con il mare), questi malviventi erano solito appostarsi dietro i faggi che
La Via Vandelli
costeggiavano la strada e in men che non si dica erano pronti ad assalire i malcapitati commercianti che si recavano a Massa. Tutto queste angherie verso questi commercianti mettevano però in seria difficoltà lo sviluppo economico della valle, per cui il duca per arginare l'illegalità ordinò che qualsiasi atto di brigantaggio nella suddetta strada fosse pagato da quei briganti con il taglio della testa. Non fu una vana minaccia... ancora oggi scendendo verso Resceto si può notare sul bordo della strada dei fori nella roccia, ebbene quei fori servivano a sorreggere il palo a cui venivano legate le teste dei briganti giustiziati, ciò doveva essere di monito a tutti quelli che avevano intenzione di continuare con queste ruberie. In effetti i furti sulla Vandelli diminuirono, ma continuavano imperterriti nelle osterie di questo percorso, dove i clienti e gli avventori non solo venivano derubati ma sparivano misteriosamente. Si narrava infatti che passando di notte dal passo della Tambura fosse possibile incontrare il brigante colpevole di tutte misteriose sparizioni, ad onor del vero non era proprio un brigante in carne e ossa, ma era il fantasma di uno di quei briganti decapitati dal duca. Lo si poteva incontrare avvolto in un pesante tabarro di colore scuro, con un cappello a tese ampie e con in mano una lanterna. Chi lo incontrava
veniva spinto irrimediabilmente giù dagli irti pendii della Tambura e non aveva alcuna possibilità di salvarsi. Il duca pensò bene di combattere questo fantasma allestendo un punto base per tutti quei mercanti che volevano fare il passo della Tambura, fece così in modo che a Vagli questi poveri mercanti facessero sosta per la notte, in questo modo avrebbero affrontato di giorno il viaggio senza alcun pericolo di incappare nel fantasma-brigante. Gli abitanti di Vagli furono ben contenti di questa iniziativa ducale, il commercio dentro il paese ebbe un notevole sviluppo e fu così che i fedeli sudditi del sovrano illuminato per ringraziarlo dell'opportunità data gli regalarono due posante fatte con l'argento estratto nella miniere che si trovava poco sopra l'eremo di San Viano. 
Come ho già potuto raccontare qualche riga sopra, era più facile che un'appartenente a una banda di briganti tradire un proprio compagno che una stessa persona del popolo e così fu in quel lontanissimo 1541, quando le cronache ricordavano di un certo brigante di nome Cesare e di quando insieme alla sua banda si rifugiò nella casa del prete di Vergemoli e qui vi rimase per alcuni giorni. Fino a che una notte non sentì bussare alla porta, erano le guardie del Granduca venute appositamente da Barga per arrestare quei farabutti per gli atti criminosi commessi in terra barghigiana. Le guardie erano pronte a tutto, perfino a dare fuoco alla casa, i briganti non si fecero spaventare da queste minacce e cominciarono uno scontro a fuoco furioso che non portò al cedimento di nessuna delle due parti. Dall'altra parte nemmeno le guardie non demorsero e misero in men che non si dica sotto assedio per ore e ore la casa del prete, i banditi erano però sfiniti e per uscire dall'impasse il capo delle guardie propose alla banda dei briganti di consegnarli il loro capo: il bandito Cesare, in cambio avrebbero avuto salva la vita e perdipiù sarebbero stati lasciati liberi di andare dove gli pare.
Cesare fu così tradito dai suoi compagni, ma anche i suoi compagni furono traditi dalle guardie stesse che le legarono come dei salami e li condussero nelle prigioni barghigiane. Ma la storia non finì qui, a quanto pare ancora oggi nelle sere invernali a Vergemoli, quando il vento soffia da nord e i camini del paese fumano, qualcuno sente ancora distintamente le urla e le imprecazioni di quei disperati mentre vengono portati via dalle guardie. C'è addirittura chi giura di sentir bussare alle porte delle case, proprio in quelle case che sono vicine alla casa del parroco, è una mano invisibile che bussa è l'anima di quei briganti che cerca rifugio in quelle dimore per sfuggire alla cattura. Ma non importava scomodare i barghigiani, talvolta messer Ariosto, governatore di Garfagnana, non vedeva di buon occhio queste incursioni d'oltreconfine, la legge nei territori estensi doveva esser fatta rispettare da lui medesimo, perciò niente intromissioni esterne. Fu proprio per questo motivo che in una delle sue poche uscite dalla rocca castelnuovese dovette recarsi nei territori delle Apuane settentrionali per vedere con i propri occhi e sentire con le proprie orecchie la gente che si lamentava di una banda di giovani briganti che non aveva rispetto per niente e per nessuno. Mentre stava percorrendo questa strada ebbe l'occasione di conoscerli personalmente, difatti fu da loro  
sfortunatamente catturato. Una volta immobilizzato lo legarono bene bene e lo fecero incamminare verso una grotta, fatto sedere sopra un sasso i briganti cominciarono a svuotare le bisacce della sua sella per cercare soldi e roba da rubare, mentre uno dei banditi rovistava serenamente in una delle bisacce recitò alcuni versi di un poema
dello stesso Ariosto, storpiandoli però in maniera veramente indecente. Il poeta nel sentire tale obbrobrio intervenne prontamente, recitandoli con grande ardore e sentimento dimostrando di essere così il poeta che li aveva composti. Con stupore ed ammirazione i briganti liberarono l'Ariosto e lo invitarono a declamare "L'Orlando Furioso". I malviventi sbalorditi da cotanti versi promisero che mai più lo avrebbero toccato, colui che compone tanta bellezza non poteva essere nè derubato, nè ucciso. Il poeta tornò così a Castelnuovo. Come si può leggere, l'affezione popolare verso questi briganti non li descriveva come dei guitti ignoranti, ma anche come persone che sapevano apprezzare un po' del sapere umano e se da una parte gli veniva riconosciuto questo merito dall'altra gli veniva accreditato  il grande pregio per eccellenza: l'arguzia, la furbizia e la scaltrezza. Di tutte queste doti il brigante che ne faceva più tesoro era il brigante Barbanera, uno dei criminali più famosi di tutto l'Appennino tosco emiliano. Il suo quartier generale era sui monti sopra Bagni di Lucca e lì nelle spelonche di quelle montagne viveva costantemente ricercato dalle guardie come il nemico pubblico numero uno. La sua astuzia gli aveva però sempre evitato la cattura, tanto per rendere chiara la sua furbizia i resoconti dell'epoca narrano che quando c'era la neve e le guardie seguivano le sue orme fin dentro la grotta dove abitava, egli metteva le scarpe alla rovescia, cosicchè quando rientrava nella grotta stessa sembrava che ne fosse appena uscito, facendo così credere alle guardie di essere arrivati troppo tardi. Una volta arrivò la notizia che Barbanera era stato avvistato a Montefegatesi, i gendarmi di corsa si recarono sulla strada
principale e su tutti i sentieri limitrofi per fermare ogni tipo sospetto. Giunti in località Sant'Anna i gendarmi incontrarono un montanaro dalla folta barba e una volta fermato gli domandarono:- Da dove venite voi?- il barbuto uomo tranquillamente rispose: -Da Montefegatesi- e le guardie ancora:- Vi risulta che lassù vi sia stato o ci sia ancora il brigante Barbanera?- e lo sconosciuto che in realtà era il bandito stesso rispose:- Quando io c'ero, c'era...- E i gendarmi senza capire la risposta corsero immediatamente in paese. Del resto tutte questi racconti di briganti nostrali viaggiano su quella sottile linea fra il fatto storico e la leggenda, anche se, la più calzante differenza fra storia e leggenda la sottolineò un famoso poeta francese che così ebbe a dire: "
Cos'è la storia dopotutto? La storia sono fatti che finiscono col diventare leggenda; le leggende sono bugie che finiscono per diventare storia".


Bibliografia
  • " Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi edizione "Le lettere" anno 2013

Prima del "paese sommerso". La "vera" storia di Fabbriche di Careggine

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Oramai la sua storia la conosciamo tutti e per tutti non intendo solo noi garfagnini, la storia del paese sommerso di Fabbriche di Careggine è conosciuta in tutto il mondo. I periodici, i quotidiani e i giornali d'Italia e d'Europa nel corso degli anni hanno scritto fiumi d'inchiostro su questa meraviglia. I titoli più singolari svariavano. E se "Il Corriere della Sera" nel 1994 lo definiva "il paese che appare e scompare", la rivista del Touring Club "Qui Touring" lo qualificò come "la Pompei del '900", addirittura il quotidiano newyorkese "Herald Tribune" così scrisse: "a tuscan atlantis resurfaces as tourist mecca", ossia, "un'atlantide toscana riemerge come una mecca turistica". Ma dietro a questi eclatanti titoli a quattro colonne esiste tutta un'altra secolare storia, fatta da uomini, da donne, da una comunità costruita su gente che lavorava. Si, perchè la storia di Fabbriche di Careggine non cominciò in quel 1947 quando il paese venne sommerso dalle acque della diga di Vagli, quell'anno coincise solamente con l'inizio della sua notorietà,
casomai quella data va ricordata come la sua fine. La sua storia infatti principiò  molti secoli prima, una storia che pochi sanno o che molti hanno trascurato per dar risalto alle sue più note vicende,  ma che vale la pena di non dimenticare, per il rispetto di tutte quelle persone che per circa sette secoli li hanno abitato. Tutto 
infatti ebbe inizio in una parte d'Italia molto lontana dalla nostra amata Garfagnana. Eravamo nel 1225 quando Ezzelino III diventò signore, podestà e capitano del popolo di Verona. Ezzelino era un condottiero di parte ghibellina, fedelissimo dell'imperatore Federico II di Svevia che lo nominò addirittura vicario imperiale di Lombardia. Questa sua nomina fu l'inizio della fine della libertà dei comuni del nord Italia. Saccheggi, omicidi,
Ezzelino III
arresti, sotto la sua spada intere città furono rase al suolo. Nemmeno la scomunica di Papa Alessandro IV mise un freno all'efferatezza del despota, tant'è, che le cronache dell'epoca lo definirono nientemeno che"colui che è temuto più del diavolo". Per sfuggire a tanta crudeltà una parte della popolazione delle odierne province di Brescia, Verona e Treviso decise di cambiare aria e di trasferirsi in luoghi più sicuri e a loro più consoni. Fu così che alcuni fabbri ferrai di Brescia fuggirono dalla loro terra natia e una parte di loro trovò asilo in Garfagnana. Quella terra era perfetta per la loro attività, c'erano rigogliosi boschi per alimentare i forni per fondere il ferro, non mancava nemmeno acqua limpida e pulita per far girare le ruote dei mulini e soprattutto li, in quelle montagne esistevano vene di ferro pronte per essere estratte. Si resero conto presto che tutta la zona era ricca di questi elementi, non c'era bisogno di concentrarsi solo in un posto, così, fu presa la pacifica decisione di dividersi in due gruppi. Un gruppo capeggiato 
da un certo conte Volaschio da Brescia raggiunse i piedi della Pania, in quella località  ebbe origine una fiorente attività di escavazione e lavorazione del ferro. Per fondere il metallo sorsero anche una serie di forni fusori(da qui la nascita del paese di Fornovolasco). L'altra fazione, nel 1270 si stabilì più a nord, in quel luogo esisteva un altro monte ricco di
Monte Tambura
ferro: la Tambura. Il sito minerario risultava ricco e da sfruttare, rimaneva il problema dove costruire le officine per lavorazione di questo metallo. Il luogo adatto fu individuato in un tratto pianeggiante di quella vallata, per di più quel posto sarebbe stato perfetto, era attraversato da un fiume: l'Edron. Così in quel fondovalle nacquero dei piccoli opifici, attorno ai quali sorsero le prime case e i primi edifici, quel nuovo insediamento abitativo prese il nome di Fabbriche di Careggine (nome che trovò origine dagli opifici del ferro li presenti e dal comune che li aveva potestà). I secoli passavano e gli abitanti del nuovo paese si erano ormai dimenticati delle angherie di Ezzelino, la gente lavorava tranquilla e in pace e nel frattempo il paesello cresceva sempre di più. Nel 1590 era stata infatti costruita una chiesa che fu dedicata a San Teodoro, ma non solo, si svilupparono anche le piccole attività di
L'interno della
chiesa di San Teodoro
artigiani del ferro, anche grazie ai molti contadini della zona che venivano proprio a Fabbriche per farsi costruire gli strumenti per il proprio lavoro nei campi. Insomma tutto si svolgeva nel modo più sereno, fino al giorno in cui capitò l'anno per "il grande salto". Si prospettava difatti una grande possibilità di ricchezza e sviluppo per tutto il paese. Correva l'anno 1751 e finalmente i lavori della Via Vandelli terminarono, l'importante asse viario che collegava la Pianura Padana con il mar Tirreno passava proprio da Fabbriche di Careggine, per l'occasione venne perfino costruito un ponte (prima di legno e poi in muratura)che attraversava l'Edron, una moltitudine di persone sarebbe quindi passata proprio da lì. Quale miglior occasione allora di incrementare il commercio? Fiducioso in questo il Duca di Modena Francesco III concesse a chiunque ne facesse richiesta permessi per metter su delle attività. Nel 1755 tale Giuseppe Trivelli da Reggio Emilia fu il primo a beneficiare di questa concessione, ed in men che non si dica nacque uno stabilimento per la lavorazione del ferro. Nel 1758 si continuò
Il paese prima di essere sommerso
con la costruzione di un'ennesima ferriera. Insomma nei progetti del duca questo piccolo paesello doveva diventare uno dei maggiori fornitori di ferro dello Stato. Tale era la sua convinzione che alle maestranze addette alle ferriere furono concessi privilegi mai visti prima: esenzioni fiscali, esonero dal servizio militare e agevolazioni sul trasporto del materiale. Questa convinzione ducale, purtroppo, nel giro di qualche anno si trasformò in delusione. Le attività andarono avanti egregiamente fino alla fine del 1700 e poi destino volle che le miniere di ferro entrarono in crisi e allo stesso tempo la famigerata Via Vandelli perse importanza e ben presto cadde in rovina. Come
Il paese prima
di essere sommerso
caddero in rovina tutte quelle attività legate al ferro. Così fu che i "fabbrichini" (così si chiamavano gli abitanti di Fabbriche) si dedicarono alle antiche occupazioni agricole e alla pastorizia, ma la sfiducia era tanta, alcuni abitanti provarono a cercare fortuna altrove e nel 1833 si contavano solamente 66 abitanti. Ma non tutto sembrava perduto, agli inizi del 1900 sembrò che per Fabbriche si aprissero nuove speranze e il paese in effetti si risollevò. Il tempo del ferro era finito, era cominciata l'era del marmo. Cave di marmo furono aperte a Vagli e a Gorfigliano e tra il 1906 e il 1907 nei pressi del paesello venne costruita una piccola centrale idroelettrica che sarebbe servita a questi bacini marmiferi. Questa piccola centrale però non era altro che il preludio a quello che sarebbe successo qualche decina di anni dopo. Nel 1941 nel segno delle grandi opere fasciste la società idroelettrica Selt Valdarno cominciò la costruzione della poderosa diga di Vagli, alta ben 92 metri, destinata a contenere fino a
trentasei milioni di metri cubi di acqua, il piccolo paese di Fabbriche di Careggine perciò doveva essere sommerso. Nel 1947 tutto fu compiuto e il paese fu ricoperto dalle acque del nascente lago artificiale. I fabbrichini furono così costretti ad abbandonare il loro paese per altri paesi della Garfagnana. In alcuni casi ci volle perfino l'intervento della forza pubblica per far desistere dall'abbandonare la propria casa gli ultimi ostinati abitanti del villaggio. 
Per la piccola borgata quell'anno, fu l'anno della fine, che corrispose però con l'inizio della sua leggenda. Al momento della sommersione il
foto tratta da
"Daniele Saisi Blog"
 paese contava 32 case, una chiesa, un cimitero e 146 abitanti. Di questi 146 abitanti, la maggior parte di loro portava un cognome legato alle loro lontane origini: Bresciani. Questo a significare quello che fu il loro stretto attaccamento alla loro discendenza e al loro paese. Un attaccamento, così come dice una leggenda che non è ancora finito, si narra che nei periodi in cui lago viene svuotato e il paese riemerge, gli antichi abitanti facciano ritorno alle proprie dimore... 

  • La foto di copertina è di Getty Images

I rifugi di montagna delle Apuane. La loro storia...

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Già di per se la parola rifugio contiene una miriade di significati, anche la sua stessa etimologia ci dà il pieno significato del
vocabolo stesso. Questo sostantivo, infatti, trae origine dal vocabolo latino "refugium", cioè rifuggire, nel senso di cercare aiuto. Anche gli stessi sinonimi chiariscono inequivocabilmente il concetto della parola: difesa, protezione, ricovero, asilo, nascondiglio, riparo. Insomma, in tutti questi termini si racchiude l'essenza di quello che rappresenta un vero e proprio rifugio di montagna. Nelle nostre Apuane ne troviamo diversi di questi rifugi che nel corso degli anni hanno dato riparo e conforto a tutti gli amanti della montagna. Pensiamo a cosa sarebbe la montagna senza questi ricoveri, la montagna è un luogo meraviglioso quanto difficile da affrontare, sia d'inverno che d'estate e quella costruzione nel bel mezzo del monte è lì per dare assistenza, cibo e un letto a chiunque voglia o a chi ne abbia bisogno. Ecco allora che questo articolo nasce per rendere omaggio a questi luoghi e a quelle persone che li prestano o hanno prestato servizio, un omaggio di poca cosa, me ne rendo conto, però raccontare la storia dei rifugi apuani è un atto di onore a tutte quelle persone che li vi hanno duramente lavorato. Prima però di andare nel particolare mi pare fondamentale chiarire la genesi di tutti quei rifugi di montagna sparsi in Italia. L'origine del rifugio di  montagna va fatta risalire al 1785 con la Capanna Vincent, costruita sul versante meridionale del Monte Rosa,
Capanna Vincent
usata come punto d'appoggio per lo sfruttamento delle vicine miniere d'oro, infatti il rifugio montano come noi oggi lo concepiamo era ancora cosa ben lontana dai pensieri della gente. La maggior parte dei rifugi presenti sul nostro territorio sono nati a cavallo fra il 1800 e il 1900, costruiti non per dare ricovero agli appassionati della montagna, ma bensì per molti altri motivi. Dapprima sorsero come avamposti commerciali sia legali che illegali (contrabbando), poi in periodo di guerre sorsero per venire usati come presidi militari. Fino a quel periodo non vi era difatti nessun interesse alpinistico per costruire eventuali ripari, coloro che frequentavano la montagna erano pastori, cacciatori ed agricoltori che si arrangiavano in qualche modo, creando rifugi di fortuna. Nel corso del XIX secolo però la situazione cambiò, la montagna non era vista come qualcosa di pauroso ed inaffrontabile, ma come un nuovo mondo da scoprire e con cui misurarsi. Ecco allora sorgere i rifugi come noi oggi li intendiamo. Con gli anni questi ricoveri hanno raggiunto un numero enorme, oggi quelli gestiti dal Club Alpino Italiano sono quasi 750, infatti ne esistono una variegata gamma, si va dal rifugio che ha una determinata categoria (categoria data in base alla raggiungibilità), fino ad arrivare al cosiddetto bivacco. Di questi bivacchi ne esistono anche sulle Apuane, e se da una parte abbiamo un rifugio che offre del cibo e un letto sotto la conduzione di un gestore, dall'altra abbiamo un bivacco che non è altro che una struttura molto semplice, incustodita, ad uso degli alpinisti per riparo e semplice pernottamento. A proposito di bivacco... Fu nel lontano 1902 che la sezione ligure del C.A.I costruì l'attuale Bivacco Aronte, lì, ai
bivacco Aronte
 piedi del monte Cavallo sorse il primo rifugio apuano. Fu inaugurato il 18 maggio di quell'anno e gli fu dato il nome del più potente indovino della Roma antica. Aronte fu un personaggio realmente esistito, era nato a Luni (La Spezia) e viveva in ascesi nella grotta dei Fantascritti. A Roma era considerato colui che:
"qui sapientem genuit testimonium centuriae et constituens ad historiam uniuscuiusque hominis" ovvero "un uomo saggio che testimoniava nei secoli il nascere e tramontare di ogni vicenda umana", ma lui, nonostante fosse ricoperto di tutti gli onori volle ritornare sulle sue Alpi Apuane e lasciare la gloria agli altri. Oggi il bivacco è in uso alla sezione C.A.I di Massa ed è quello che è situato più in alto di tutti(1643 m). Il 24 agosto 1924 invece, fu l'anno che vide la luce il Rifugio la Pania (così inizialmente chiamato). La neonata sezione C.A.I di Lucca (1923)con molti sacrifici economici volle dare un vero e proprio riparo a tutti coloro che avevano intenzione di affrontare le irte pareti della Pania della Croce, della Pania Secca e del Pizzo delle Saette. Di lì a pochi anni il rifugio cambiò nome e divenneRifugio Rossi alla Pania. Enrico Rossi era un giovane
rifugio Rossi inaugurazione
 alpinista morto in un tragico incidente stradale. La Val Serenaia invece è quella valle posta sotto l'ombra del Pisanino e in quel luogo esiste la più alta concentrazione di rifugi garfagnini, ce ne sono ben tre e un bivacco. La storia di questi ripari è tutta legata alla vita dei cavatori di marmo. Quello situato nella parte più alta della valle è il Rifugio Orto di Donna, posto a 1496 metri d'altezza, proprio sotto il Passo delle Pecore. Inaugurato il 29 giugno del 2005 fu ristrutturato su quello che era l'edificio di Cava 27, una costruzione era dedicata al servizio delle cave li vicine. L'opera fu realizzata dal Comune di Minucciano e dal Parco Apuane con i finanziamenti dell'Unione Europea. Storia più antica è quella del Rifugio Donegani. La struttura fu costruita nel 1960 dalla società Montecatini, nata come mensa per i cavatori, con il tempo la sua 
vecchia foto
rifugio Ronegani
originale destinazione perse d'importanza e fu così che l'ingegner Guido Donegani la trasformò in rifugio di montagna, lasciando la gestione al C.A.I di Lucca. Guido Donegani fu difatti amministratore delegato e poi presidente della Montecatini, nonchè senatore del Regno d'Italia, ma soprattutto fu un grande appassionato di montagna. Nel fondo della valle troviamo invece il Rifugio che prende nome dalla valle che lo ospita: il rifugio Val Serenaia. Questo costruzione è privata ed era la vecchia casa dei guardiani delle cave, fu ristrutturata nei primi anni duemila. Sempre nel comune di Minucciano c'è anche il bivacco K2. Il bivacco sorge sulle pendici del Monte Contrario a 1500 metri di quota, costruito nel 1968
bivacco k2
 dall'associazione di promozione sociale "K2 club" per iniziativa del suo presidente Vico Perutelli, appassionato frequentatore e valente fotografo delle Alpi Apuane. Nel 1988 l'associazione donò la struttura al C.A.I di Carrara in occasione dei cento anni della sua fondazione, alla ricorrenza partecipò Ubaldo Rey uno degli alpinisti della spedizione che nel 1954 conquistò il K2, ed in onore del quale fu intitolato il bivacco. Altra storia quella del rifugio Del Freo-Pietrapana di Mosceta. Le sue vicende risalgono al 1937 quando il presidente del C.A.I di Viareggio di quel tempo iniziò a pensare alla costruzione di un rifugio nella bella Foce di Mosceta, ai piedi della
rifugio Del Feo
Pania. Il progetto prese forma alcuni anni dopo. Era il 1948 quando il nuovo presidente Giuseppe del Freo pensò alla realizzazione di "un rifugio alberghetto per farne una stazione climatica invernale con tanto di campetto di sci per principianti" . Il costo di tale impresa fu di 975.000 lire. I lavori cominciarono nel 1949 e il 1950 fu l'anno dell'inaugurazione. L'edificio comprende una cucina, un dormitorio per gli uomini e uno per le donne. Come abbiamo letto questi rifugi non avrebbero avuto vita se oltre alla buona volontà di realizzazione qualcuno non avesse lavorato concretamente. A dimostrazione di ciò è la storia delrifugio Nello Conti. I lavori della sua costruzione cominciarono nel 1987 in una unione di forze fra i soci del C.A.I di Massa e gli abitanti dei paesi vicini:
rifugio Conti
Resceto, Forno, Casette. Il punto in cui costruirlo fu trovato sopra le mura di vecchie case di pastori che li, in località Campaniletti (lungo la via Vandelli, ai piedi della Tambura) portavano i loro greggi al pascolo. La fatica degli uomini e delle donne nella realizzazione del rifugio non fu poca cosa, i materiali venivano trasportati dal paese di Resceto passando per le vecchie strade dei cavatori che usavano come vie di lizza per avvicinarsi alle cave. Comunque sia i lavori durarono cinque anni e nel 1992 il rifugio fu inaugurato e dedicato alla guida alpina di Resceto Nello Conti. Altra storia quella del rifugio Forte dei Marmi, forse le sue vicende sono le più singolari fin qui raccontate, dato che la sua
rifugio Forte dei Marmi
nascita fu legata alla vendita di un libro. Questa pubblicazione 
s'intitolava: "Le Apuane da Forte dei Marmi", fu data alle stampe proprio per il 25° anniversario della fondazione del C.A.I di Forte dei Marmi. Il libro ebbe un notevole successo di pubblico e di critica, tant'è che fu premiato dal Ministero del Turismo. Il ricavato fu notevole e fu deciso quindi di devolverlo per la costruzione di un rifugio sulle Apuane versiliesi. Si decise così, nel lontano 1963, di comprare casa Gherardi, una casa situata proprio sotto il Monte Procinto in località Alpe della Grotta. Nel 1966 alla presenza di settecento appassionati fu inaugurata. Oltre a questo, altri due sono i rifugi dedicati a città: il rifugio Carrara, aperto al pubblico nel 1959 e il rifugio Citta di Massa situato in posizione bellissima fra le Apuane e il mare. Le vicende del prossimo rifugio di cui andrò a narrarvi possiamo dire senza ombra di dubbio che hanno fatto storia. Si, perchè ilRistoro Alto Matannaè presumibilmente il primo rifugio (vero e proprio) inaugurato sulle Alpi Apuane. Era nei 
ristoro Alto Matanna
prati di Pian D'Orsina che in quella fredda domenica di quel 10 gennaio 1894 si organizzò una festicciola per dar principio alla nuova attività di Alemanno Barsi, che già possedeva e gestiva l'albergo alpino del Matanna alle ferriere di Palagnana. Ma non solo, l'intraprendenza del Barsi nel 1910 lo portò, proprio in quel luogo, alla realizzazione della famosa e sfortunata funicolare aerostatica  e in più fu sempre nel ristoro Alto Matanna che il 27 maggio 1923 fu fondata la sezione del C.A.I di Lucca. Sempre nel comune di Stazzema c'è anche il rifugio Adelmo Puliti (1013m) da quella posizione si domina il paese di Arni. Nel
rifugio Puliti
 1965, anno della sua inaugurazione, si decise di intitolarlo all'ingegner Puliti, primo presidente e socio fondatore del C.A.I di Pietrasanta, che attualmente lo gestisce. Sempre nel comune di Stazzema, in località Puntato, c'è anche il rifugio La Quiete e proprio sotto la "bimba del Procinto" abbiamo la Baita degli Scoiattoli da cui si gode una meravigliosa vista. Infine, per chiudere in bellezza questo viaggio fra i rifugi apuani, dobbiamo aggiungere che esistono anche due benemerite associazioni che sono proprietarie di due rifugi. La prima associazione in questione è il "Gruppo Amici della Montagna di Camaiore" proprietaria della Baita Barsi che è il punto di partenza alle escursioni per le cime meridionali delle Apuane come il Piglione e il Prana. L'altra associazione è "Associazione Campallorzo" che gestisce Baita Verde che si trova ai piedi del Prana a 920 metri












d'altezza. In conclusione di questo articolo mi ritornano alla mente le parole di un vecchio delle nostre montagne che parlando proprio di questi rifugi così disse:" Posti semplici i nostri rifugi, niente a che vedere con lussuosi chalet o sontuose baite, si, perchè se in questi posti cerchi le stelle di un hotel sei nel luogo sbagliato, le uniche stelle che offrono le Apuane sono quelle del cielo".


Sitografia

  • https://www.rifugioortodidonna.it/
  • https://galateaversilia.wordpress.com/
  • http://www.rifugiodonegani.it/a-proposito-del-rifugio/
  • http://paolomarzi.blogspot.com/2014/09/novantanni-fa-nasceva-il-rifugio-rossi.html
  • https://caifortedeimarmi.it/Il-Rifugio/Presentazione
  • http://www.caicarrara.it/sentieri/rifugi/bivacco-k2.html
  • http://www.comune.minucciano.lu.it/rifugi/
  • https://rifugionelloconti.wordpress.com/
  • http://paolomarzi.blogspot.com/2014/11/la-leggenda-di-aronte-il-gigante-che.html
  • https://www.danielesaisi.com/2019/02/il-primo-rifugio-sulle-alpi-apuane.html

"La Garfagnana storica"... ecco i suoi discussi confini...

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Addentrarsi nell'argomento che affronterò nelle prossime righe è come fare un percorso ad occhi bendati su un campo minato, forse sarebbe meno insidioso passeggiare in una gabbia di leoni. E in effetti quando si parla d'identità, di confini e di appartenenze si rischia sovente di cadere nella trappola dei campanilismi più reconditi della persona e la conseguenza di ciò porterebbe alla faziosità più estrema dell'indole umana. Lungi da me questa intenzione, per l'amor di Dio, ma è bene chiarire una volta per tutte quali erano i confini storici della Garfagnana... Barga era dentro o era fuori? La Garfagnana terminava a Minucciano? Ed è vero che Gallicano è stato sempre il confine meridionale della regione?. Introduciamoci allora in quella che era la cosiddetta "Garfagnana Storica". Per fare questo non rimane che "armarci" di documenti, di fornire fonti e testi e di conseguenza far parlare questi, in modo da togliere ogni dubbio al mio caro lettore che quanto scriverò è tutto provato nei documenti d'archivio. Cominciamo con lo stabilire i confini attuali della Garfagnana. I comuni situati più a nord sono Minucciano e Sillano- Giuncugnano che rispettivamente
Sillano
 fanno da delimitazione fra la Lunigiana e la provincia di Reggio Emilia. A sud, Gallicano e Fabbriche di Vergemoli sono il limite meridionale, tale confine prosegue su tutta la riva destra del fiume Serchio fino al Ponte di Campia, lasciando sulla sponda opposta Barga e Coreglia come comuni confinanti. In breve possiamo considerare Garfagnana i comuni di: Camporgiano, Careggine, Castelnuovo, Castiglione, Fabbriche di Vergemoli, Fosciandora, Gallicano, Minucciano, Molazzana, Piazza al Serchio, Pieve Fosciana, San Romano, Sillano-Giuncugnano, Vagli, Villa Collemandina. Questa disposizione amministrativa se si vuole è recentissima, perchè questi attuali
Gallicano
pertinenze sono da attribuirsi al periodo napoleonico(salvo che i recenti accorpamenti dei comuni degli ultimi anni). Un decreto di Napoleone del 21 febbraio 1804 stabiliva che una parte della valle doveva essere annessa ai territori del Dipartimento del Panaro, che a sua volta veniva suddiviso in otto distretti, uno dei quali era Castelnuovo Garfagnana che sotto la sua giurisdizione aveva 21 comuni (fra i quali anche Soraggio, Sillicano, Sassi e altri ancora). La successiva modifica del 1806 portò oltre che un nuovo Stato d'appartenenza (il Principato di Lucca e Piombino) ad uno snellimento "burocratico" che arrivò a identificare la Garfagnana in 17 comuni (più o meno quelli odierni). Ma non sempre fu così... La parola, o meglio, la regione Garfagnana aveva prima di quella data tutt'altri confini e non a caso, come spesso si sente dire, si parla frequentemente e con opinioni diverse di "Garfagnana Storica". Ebbene il discorso è complesso o perlomeno non tanto difficile da comprendere, ma al quanto tortuoso e contorto. Cominciamo con il dire che l'uomo antico e saggio per suddividere zone e regioni partiva da un presupposto principale: la cosiddetta omogeneità culturale, soprattutto in fatto di tradizioni e vita sociale. Proprio per questo vediamo che nel 1300 c'era ancora una 
De Montibus
parte di studiosi e letterati che poneva(giustamente come direbbe uno studioso di etnografia) una buona parte di Garfagnana sotto l'influenza ligure, vista la discendenza che aveva la valle con la remota popolazione dei Liguri-Apuani. A conferma di questo il Boccaccio nel 1360 nella sua opera geografica il "De Montibus" parlando di confini garfagnini diceva che "il monte Pietra Apuana è proteso dall’inizio dell’Appennino dei già Liguri Friniati verso la pianura lucchese e da qua verso il mare Ligure e Tirreno e la vecchia città di Luni, quindi guarda verso la piana pistoiese e quella fiorentina e si avanza verso i gioghi dell’Appennino sud-orientale". Comunque sia, alcune carte del VIII secolo identificano "Carfaniana" i territori delle Pievi di Offiano (nei pressi dell'attuale Casola Lunigiana), Castello e Vinacciara (Alta Valle Aulella), nella diocesi di Luni. Non è escluso che tale nome comprendesse tutto il resto della zona, visto che le fortificazioni di Piazza al Serchio, Castelnuovo e Coreglia già in epoca bizantina potrebbero essere state le sedi "del distretto limitaneo carfaniense" (ossia dei presidi militari di frontiera). Quello che è sicuro che di li a qualche tempo dopo dei documenti ecclesiastici lucchesi chiamano Garfagnana i territori a nord di Molazzana (IX secolo)e che da documenti posteriori al 1000-1100 sono pressochè concordi nel porre il confine meridionale della Garfagnana sui fiumi Pedogna (attuale comune di Pescaglia) e Fegana (Bagni di Lucca). In pratica intorno all'anno mille possiamo considerare Garfagnana i territori a nord di Piazza al Serchio, e tutti gli altri territori che scendono a valle fino ad arrivare al torrente Pedogna. Perciò una zona ben circoscritta, ben definita anche da un punto di vista culturale e linguistico e come tale, a quel tempo era così avvertita. Naturalmente per gestire cotanto territorio non bastarono solo le affinità culturali, ma come in tutte le cose ci volle metter bocca la politica e sempre in epoca longobarda-bizantina (e forse già in quella romana) la Valle del Serchio fu divisa in due grandi
distretti: il "fines Carfanienses"(territori di Piazza e Careggine)e il "fines Castrinovi"(suddivisi nelle Pievi di Gallicano, Pieve Fosciana e Loppia). Esisteva anche un terzo distretto, il "fines Contronenses" (pievi d Controne-Monti di Villa e Crasciana). Quello che emerge chiaramente da questa suddivisione è che questo terzo distretto non era da considerare nei territori garfagnini, la Val di Lima e le stesse Pizzorne erano(secondo le valutazioni bizantine) nettamente separate, mentre a buon titolo erano considerati nei confini garfagnini la Pieve di Loppia (quindi gli attuali comuni di Barga e Coreglia) e la Pieve di Gallicano e i suoi territori annessi che comprendevano parte dei paesi del comune di Borgo a Mozzano (Gioviano, Motrone e San Romano). In epoca medioevale (basso medioevo) la situazione differisce un po' e da numerosi atti privati e pubblici in cui viene ribadito che Barga e Coreglia fanno parte della Provincia della Garfagnana, vengono compresi in questa provincia anche Borgo a Mozzano, Diecimo, Pescaglia, Gello e Convalle. Infatti per gli stessi lucchesi, fino al XV secolo era compresa nella Garfagnana tutta la Vicaria di Coreglia e di conseguenza anche Pescaglia e Borgo a Mozzano a nord della 
Coreglis
Pedogna
, ad avvalorare ciò c'è la conferma che il Pescaglino aveva come unità di misura quella garfagnina e non quella lucchese. Rimane il fatto che anche da questi documenti si può continuare ad affermare che sia la Val di Lima che le Pizzorne e i territori a sud della Fegana anche in quel periodo storico non erano affatto garfagnini, ma bensì erano già parte del lucchese. Questo stato di cose perdurò almeno fino al 1700-1800, quando sulle mappe si può vedere la Garfagnana divisa in tre distinte zone: la Garfagnana estense (Fabbriche di Valico e da Fosciandora in poi verso nord), Garfagnana lucchese (Borgo a Mozzano, Coreglia, Pescaglia, Gallicano, Castiglione e Minucciano) e Garfagnana Toscana (Barga). Una delle ultime delucidazioni di quelli che furono gli "storici" confini garfagnini prima dell'avvento di Napoleone e quindi della sua nuova (e quasi definitiva) disposizione amministrativa, la dà Pellegrino Paolucci nella sua opera datata 1720 "La Garfagnana Illustrata":"La Garfagnana a levante e a settentrione, tirando a ponente confina colla Lombardia(n.d.r: considerata Lombardia i territori al di là dell'Appenino)sulle cime de monti San Pellegrino, Corfino, Soraggio, Sillano, Dalli ed altri villaggi. A mezzo dì confina con lo Stato di Lucca, per mezzo del ponte di Calavorno, Fegana ed altri luoghi, e confinerebbe da quella parte con Barga; anche se quel Contado si comprende sotto il nome di Garfagnana (n.d.r: nel 1720 Barga,
nonostante la sua "fiorentinità" era considerata ancora facente parte del territorio garfagnino). Passo a ponente dove confina con la Lunigiana soggetta al Granduca di Toscana e alla Vicaria di Minucciano de' Signori Lucchesi. Dalla parte australe delle Panie per mezzo dei Monti Sagatonici confina con lo Stato di Massa ; verso il Forno Volastro (n.d.r: Fornovolasco)confina con Seravezza. Da Vagli passa a mezzo dì nelle giurisdizioni di Pietra Santa e di Montignoso e di altri luoghi. La sua lunghezza discende di venticinque miglia incominciando da Pratoreno (n.d.r: Pradarena), monte distante cinque miglia da Sillano, fino al fiume Fegana, che sotto Vitiana sbocca nel Serchio". D'altra parte, come possiamo vedere rimane e rimarrà tutta una questione di confine. Faccende tutte legate alla volontà dell'uomo che da sempre attraverso quella linea immaginaria ha stabilito che qui c'è mio e là c'è tuo. Un confine presume diversità, un confine talvolta racchiude attriti e incomprensioni e allora sempre a proposito di confini Gianni Rodari nella sua emblematica poesia "Il cielo è di tutti"volle far capire ad ognuno degli "amanti" dei campanilismi che..."
Spiegatemi voi dunque, in prosa o in versetti, perché il cielo è uno solo e la Terra è tutta a pezzetti".

Bibliografia

  • "De Montibus" Giovanni Boccaccio , edizione originale 1371 (rieditato)
  • "Ligures Apuani" di Michele Armanini editore Libreria Universitaria
  • "La giudicatura di pace di Castelnuovo Garfagnana in età napoleonica". Tesi di laurea in storia contemporanea di Dennis Favali anno 2015 2016
  • "Terre di confine" AA.VV Archivio di Stato Lucca
  • Luigi Angelini" Panoramica della storia ecclesiastica in Garfagnana" Atti del convegno Modena 2008 pag 129-172
  • G. Santini "Unità e pluralità distrettuale nella stoia millenaria della Garfagnana" in "La Garfagnana storia cultura arte" Atti del Convegno Castelnuovo Garfagnana, settembre 1992
  • "Luni nell'alto medioevo" P.M Conti, Padova 1967
  • "Inventari di terre coloni e rendite"  AA.VV  Roma 1979
  • "I bagni di Corsena e la Val di Lima lucchese dalle origini al XVI" Giambastiani Lucca 1996
  • "La Garfagnana dai Carolingi ai Canossa. Distretti pubblici e amministrazione del potere" in "La Garfagnana dai Longobardi alla fine della Marca Canossana" Atti del Convegno Modena 1996, pag 147-195
  • "Garfagnana medievale appunti storici" Guidugli 1982

I Liguri Apuani: non solo rudi guerrieri, ma anche abili commercianti

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Ce li hanno raccontati sempre come uomini rudi, violenti, sanguinari
e predatori, ma loro non furono solo questo. I Liguri Apuani, gli antichi abitanti delle terre garfagnine (e non solo), erano anche altro, infatti nessuno lo direbbe ma furono anche degli abili commercianti. Allora voi mi direte che cosa vuoi che commerciasse un popolo che faceva dell'aggressività la sua forza? E poi, cosa avevano da dare abitando una terra ricoperta da alberi, rocce e animali selvatici? Bhe, l'abilità del bravo commerciante stava proprio lì, adattarsi all'ambiente in cui viveva e perciò offrire "al cliente" di turno quello che la natura donava a loro. Naturalmente tutto si basava sul baratto: "io ti do, tu mi dai" e questa forma di commercio esisteva già nella preistoria, addirittura anche altre civiltà più evolute come gli egizi attuavano questa "forma commerciale", ma fra tutti i veri commercianti della storia furono i Fenici, come loro nessuno mai. Il loro fu un commercio marittimo, veleggiavano con le loro navi in tutto il Mediterraneo vendendo prodotti a dir poco
pregiati: porpora, oro, argento, rame. Consideravano il commercio la loro attività più importante fino al punto che oltre a possedere una fornita flotta commerciale possedevano anche una potente flotta militare che serviva soprattutto a proteggere quelle rotte commerciali fenice dai predoni e dai pirati. Insomma, per farla breve in quanto a questo i Liguri Apuani non avevano niente a che vedere con i Fenici, gli stessi Apuani non  consideravano il commercio un'attività preminente, però in qualche maniera anche loro riuscirono a tessere una rete commerciale di tutto rispetto. Già a partire dall'età del ferro (500 a.C -332 a.C) quando i mercanti stranieri passavano per le nostre terre scambiavano con loro i propri prodotti che Madre Natura metteva a disposizione. In questo caso facendo un azzardato parallelismo possiamo dire che i prodotti erano i soliti  che i nostri nonni e bisnonni commerciavano nei mercati garfagnini di una volta: formaggi, lana, pelli, cera d'api e miele, ma non solo, probabilmente vendevano legname, carbone e le loro personali
creazioni: vasellame e ornamenti. In cambio cosa avrebbero ricevuto? Tutti quei prodotti che (anche) nella Garfagnana odierna non sono di eccelsa qualità: vino e olio, oltre a ceramiche di provenienza etrusco-italica e soprattutto... armi. Con quelle armi avrebbero poi sviluppato il commercio a loro più redditizio, il loro principale "prodotto", quello che sapevano fare meglio: i mercenari. All'occorrenza sapevano vendere se stessi "nell'arte" a loro più congeniale: il combattimento. Capitava sovente che quando qualche popolazione italica nelle proprie guerre aveva bisogno di "manodopera" si rivolgesse proprio agli Apuani che in cambio della loro "opera" ricevevano stoffe, ceramiche e quant'altro. Il loro commercio non si fermava solo qui e come se fossero stati degli affermati imprenditori del XXI secolo a quanto pare concedevano agli stessi etruschi "permessi" per l'escavazione di marmo nei propri territori. Insomma i nostri Liguri Apuani conoscevano la propria terra a menadito, questa conoscenza la riversavano al personale tornaconto proprio come quando da guide ante litteram aspettavano negli sbocchi delle valli i mercanti stranieri che dovevano oltrepassare i passi appenninici o eventualmente andare verso il mare per imbarcare i loro prodotti. In conclusione a tutto
non rimane che dire che per conoscere qualcuno o qualcosa non bisogna fermarsi solo alle apparenze o a quanto leggiamo: bisogna approfondire... Apuani docet...

Bibliografia

  • "Ligures Apuani" di Michele Armanini, ed Libreria Universitaria anno 2015
  • "L'insediamento etrusco nella Valle del Serchio" G. Ciampoltrini 1998
  • Aggiunta all'articolo:
  • Il disegno di copertina non rappresenta nei particolari l'articolo in questione, ed è puramente rappresentativa


Quando l'emigrante garfagnino cadeva nella trappola del "padrone system"...

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Il Castle Garden di New York, l'Hotel degli Immigrati di Buenos
Aires e l'Hospedaria di San Paolo non li troveremo su Trip Advisor fra i miglior hotel del continente americano. Direi proprio di no. In verità queste strutture erano più vicine ad un lager che ad un albergo a quattro stelle e anche i nostri emigrati garfagnini lo sapevano bene. Castle Garden, ossia "il Giardino del Castello" era tutt'altro che un giardino, in realtà nella sua origine era un forte militare meglio conosciuto come Fort Clinton. Nel 1847 questo edificio divenne il centro di smistamento della prima grande ondata immigratoria negli Stati Uniti d'America. Una pubblicità ingannevole diffusa anche in Italia descriveva questo posto decantandone le sue  virtù. Già il suo
Castle Garden
leggiadro nome "Il giardino del castello" faceva apparire questo luogo come un posto sereno e confortevole, dove al suo interno esistevano persone cordiali, pronte a ricevere l'immigrato con tutte le gentilezze possibili, anche le stesse pratiche burocratiche venivano presentate come semplice formalità, ma la realtà era ben diversa:"era sommerso da un flusso enorme di esseri umani confusi, spaventati, carichi di fagotti, accalcati gli uni contro gli altri, in preda al panico, mentre venivano intruppati come animali in file che molto lentamente passavano davanti a funzionari indifferenti". Le stesse autorità nei loro giudizi su questo luogo e sulla gente che vi era internata non andavano tanto per il sottile, il 6 novembre 1879 il New York Times pubblicò in un articolo una dichiarazione del Sovraintendente del Castle Garden:" Tra i
Castle Garden oggi
passeggeri di terza classe c'erano 200 italiani, la parte più lurida e miserabile di esseri umani mai sbarcata". Questo centro rimase in funzione fino al 1890, quando l'amministrazione federale decise di aprire una stazione più funzionale: Ellis Island, l'isola delle lacrime... Molti garfagnini giunsero anche in Argentina e sicuramente passarono dall'Hotel degli Immigranti di Buenos Aires. Questo "hotel" era un enorme edificio di quattro piani, capace di ospitare fino a tremila persone, fu costruito fra 1906 e il 1911 con lo scopo di ricevere e dare assistenza a tutti gli immigranti che raggiungevano la capitale argentina. Al pianterreno c'era la cucina e la sala da pranzo, ai piani superiori c'erano le camerate, quattro per piano, tali camerate potevano contenere fino a 250 persone che dormivano tutte in delle  cuccette prive di
L'Hotel degli immigrati
 di Buenos Aires
materassi, questi erano rimpiazzati da stuoie di cuoio per evitare infezioni o malattie. Nell'albergo i nostri immigrati potevano sostare gratuitamente per cinque giorni, durante quei giorni l'immigrato doveva trovare lavoro, in caso contrario molte persone erano costrette a vivere li per settimane e settimane fino a che, qualche parente o conoscente (che già viveva a Buenos Aires) non andava a cercarli. Un'altra delle mete migratorie predilette dei garfagnini era il Brasile, non si direbbe ma fra il 1875 e il 1914 circa ottantamila toscani partirono per quella lontana terra. I flussi maggiori di questi immigrati toscani provenivano infatti dai territori della Lunigiana e Garfagnana. Per capire bene quale fu la proporzione di questo fenomeno "brasilero"è necessario sottolineare i dati ufficiali del 1910 che evidenziarono la netta predominanza delle due aree geografiche che rappresentavano da sole il cuore dei movimenti migratori regionali, superiori a quelli di ogni altra provincia del Regno. Rimane il fatto che le destinazioni conclusive di quel lungo viaggio erano due "Hospedaria": quella di Rio di Janeiro e di San Paolo. Quella di San Paolo fu il traguardo di molti
Hospedaria di San Paolo
garfagnini. Questa enorme costruzione era sita sul terreno nel bairro del Bras, era progettata per ospitare tremila persone, arrivò comunque a stiparne fino ad  ottomila. La struttura offriva tre pasti principali, assistenza medica e dentistica. Tutti dormivano in ampie camerate in attesa di un lavoro che molto probabilmente sarebbe arrivato dalle piantagioni di caffè. Era proprio per questo motivo che quel centro d'accoglienza era l'unico che non era all'interno di un porto, gli immigrati venivano caricati sui treni merci che collegavano San Paolo, una volta arrivati nella grande città brasiliana venivano fatti scendere, e in una scena che ricorderà negli anni che verranno altri tragici momenti, venivano selezionati e smistati per la manodopera necessaria per il faticoso lavoro nelle fazendas, le grandi aziende agricole dedite alla coltivazione del caffè. Insomma, quello che rimane chiaro è che questi luoghi, erano luoghi di speranza e di attesa, ma soprattutto erano luoghi di sofferenza. Ad alimentare questa sofferenza talvolta erano gli stessi emigrati italiani verso i loro stessi connazionali, in quello che è conosciuto come il fenomeno del "padrone system". Tanto era umiliante e degradante questa pratica che non troveremo
testimonianze dirette di chi fu colpito da questa brutta esperienza. La vergogna e l'imbarazzo dell'emigrante era superiore a qualsiasi voglia di rivalsa o di denuncia, quello che è chiaro che anche molti garfagnini caddero nella trappola tesa dai loro stessi compatrioti arrivati prima di loro. Tutto accadeva ai tempi della "grande emigrazione"(dal 1861, agli anni '20 del 1900) a New York nel già citato centro d'accoglienza di Castle Garden che nelle intenzioni doveva essere un centro a cui tutte le imprese e le persone che avessero avuto bisogno di assumere lavoratori dovevano far capo. In pratica la cosa fu ben diversa, gli immigrati venivano trattati e contrattati come alle fiere del bestiame che si facevano a quei tempi in Garfagnana, in una sorta di mercato degli schiavi. Fu in questo clima che nacque il "padrone
system". Già lo stesso nome la dice lunga su questa abbietta pratica. Di solito anche gli stessi immigrati italiani (un po' come succede adesso) tendevano ad "americanizzare" ogni parola, questa volta furono gli stessi statunitensi a lasciare per integro quel termine italiano "padrone" per distinguere bene l'origine di questa nefandezza. In pratica tutto ruotava intorno ad un boss (un padrone) che in cambio di una tangente procurava ai nuovi emigrati una pronta occupazione. Il padrone rimediava anche un alloggio in una lurida pensione a cifre esorbitanti, ed inoltre offriva lavori di durata settimanale per riscuotere in questo modo più frequentemente la tangente sull'ingaggio. In breve, quando si cadeva nelle mani di questa brutta persona, era certo che il suo compito era quello di spremere lo sventurato, il più possibile e il più a lungo possibile. Fu un'antica prassi consolidata questa, purtroppo oggi in Italia esiste ancora e porta il nome di "caporalato". Una pratica attuata sui quei migranti stranieri che sbarcano nel nostro Paese. Qui il giro d'affari non è quello di oltre un secolo in America, le cifre sono maggiori e a dir poco esorbitanti. Tale fenomeno oggi è un businnes da 4,8 miliardi di euro (dati 2019) che colpisce i lavoratori extracomunitari del settore agricolo nel sud Italia, mentre al nord è coinvolto il settore edile e anche al tempo, come oggi, il "padrone system" continuava per il
povero emigrato fuori dall'orario lavorativo, nella vita di tutti i giorni. Il boss difatti dava in affitto baracche simili a case che dai datori di lavoro otteneva gratuitamente e che affittava al malcapitato di turno a suon di dollari che gli venivano trattenuti dalla busta paga. Ma non solo, anche i piccoli negozietti, gli spacci di merci ed alimentari dove andavano a comprare i nuovi immigrati erano gestiti dallo stesso boss, naturalmente i prezzi in queste botteghe erano altissimi, talvolta la mercanzia costava il cinquanta per cento di più dei prezzi correnti. Quello che posso dire al mio caro lettore è che sarebbe ingiusto accusare l'emigrante garfagnino d'ingenuità, faciloneria e di creduloneria, bisogna calarsi nella mentalità garfagnina di 110 anni fa, i nostri avi erano nati in una terra semplice, questi atti erano inimmaginabili nella testa del garfagnino di quel tempo, i nostri paesi erano comunità dove ognuno si aiutava reciprocamente nelle faccende domestiche e di vita sociale. Loro malgrado furono catapultati in una realtà totalmente diversa e nel vero senso della parola in un nuovo mondo dove non conoscevano la lingua, gli usi
locali e non avevano relazioni sociali, perciò affidarsi a una persona (per di più della solita nazionalità) che  prometteva di aiutarti era quasi la normalità. Quello che mancava era infatti un'istituzione che vigilasse su questi biechi andamenti e se non ci pensò il governo americano ci pensò Santa Romana Chiesa con la 
St. Raphael’s Italian Benevolent Society. Questa organizzazione cattolica fu la principale istituzione cattolica che operò fra il 1891 e il 1923 per l'assistenza agli immigrati italiani negli Stati Uniti. L'idea di una organizzazione di assistenza agli emigranti italiani che nella seconda metà dell'ottocento si recavano ormai numerosissimi in America fu promossa da Giovanni Battista Scalabrini, vescovo di Piacenza, il quale a partire dal 1876 scrisse numerosi articoli sulla stampa cattolica richiamando l'attenzione sulle difficili condizioni materiali e spirituali degli immigranti in mancanza di un sostegno più attivo da parte della Chiesa cattolica. Il 25 novembre 1887 con la lettera apostolica Libenter Agnovimus egli ricevette l'approvazione pontificia da Papa Leone XIII alla costituzione di una congregazione missionaria, che formasse dei religiosi specificamente specializzati in questa missione. Intanto nel 1890 padre Pietro
Bandini (gesuita missionario) 
fu incaricato di costituire l'organizzazione a New York, punto di arrivo delle navi degli emigranti. Giunto a New York il 29 marzo 1891, Bandini si mise subito al lavoro, assistendo già nel primo anno oltre 20.000 persone, aiutandole nelle pratiche di immigrazione e fornendo anche alloggio temporaneo a chi ne avesse bisogno nella sede della Society. Molti garfagnini furono così sottratti dalle grinfie dei padroni. Negli anni a venire nacquero altre associazioni simili che  forzarono la mano al governo americano perchè varasse una legge a tutela degli immigrati. Il caso NON volle che questa legge prese il nome di "Padrone Act". Fu così che nel 1930 il "padrone system" era praticamente estinto. Della serie "volere è potere"...

Bibliografia

  • "Storie di ieri e di oggi, di donne e di uomini. I migranti" Fondazione Paolo Cresci per la Storia dell'Emigrazione Italian

  • Gianpaolo Zeni, En Merica! L'emigrazione della gente di Magasa e Valvestino in America, Cooperativa Il Chiese, Storo 2005

Quando in Toscana il Capodanno era il 25 marzo. Storia di "stili", riforme e di...tanta confusione

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Proprio adesso, 24 marzo, mentre stai leggendo quest'articolo se tu avessi vissuto nella Toscana di 270 (e oltre) anni fa ti staresti preparando(covid permettendo) per i bagordi del veglione di fine anno... Se invece vivevi in Garfagnana (fino al 1582) e cioè sotto il Ducato di Modena, il veglione di fine anno lo avresti festeggiato la vigilia di Natale: il 24 dicembre. Naturalmente ai quei tempi non esistevano i festeggiamenti come noi oggi le intendiamo e di veglioni neanche a parlarne, però quello che è vero che l'Italia fino a non molto tempo fa era un'inestricabile guazzabuglio per quanto riguardava il modo di iniziare l'anno. Praticamente si viveva in un capodanno continuo, bastava viaggiare da uno staterello all'altro. Difatti esistevano svariati modi per calcolare l'anno e i più consueti contemplavano due cosiddetti stili legati strettamente alla sfera religiosa. Lo stile dell'Incarnazione e lo stile della Natività, tanto per complicare ancor di più le cose succedeva anche che nel medesimo stile potevano convivere delle varianti significative, c'era ad esempio lo stile Pisano che seguiva lo stile dell'Incarnazione, anticipando però di un anno lo stile Fiorentino,anch'esso basato sull'Incarnazione (quindi un anno datato Anno Dominice Incarnationis MCXXVII, die Kalendarum octubris redatto a Pisa andrebbe datato 1126 ottobre 1°, a Firenze

1127 ottobre 1
°). Troppo complicato??? Niente paura! Adesso vi spiegherò chiaramente tutti i fatti. Le antiche (anzi antichissime) comunità contadine di una volta propendevano di far iniziare l'anno con il principio dell'annata agricola e cioè quando iniziavano i lavori nei campi, difatti il calendario romano di Romolo faceva iniziare l'anno a marzo. Con l'avvento del cristianesimo la musica cambiò e bando a qualsiasi scelta che ognuno facesse sul quando e come cominciare l'anno, si decise che a segnare le svolte del tempo dovevano essere le feste religiose. Così fu, che l'inizio dell'anno da luogo in luogo fu stabilito prevalentemente in due date: l'Annunciazione, ossia il 25 marzo, quando si ricorda l'annuncio dell'Arcangelo Gabriele alla Madonna della nascita verginale di Gesù e il 25 dicembre, il Santo Natale. Le considerazioni dell'epoca dicevano che il ciclo annuale doveva cominciare con il primo atto della Salvezza: con l'Incarnazione di Cristo, il momento in cui "Verbum caro factum est". Dall'altra parte il Natale (che difatti cade esattamente nove mesi dopo l'Annunciazione) legava l'inizio
dell'anno all'apparizione di Gesù, del Verbo in mezzo agli uomini, opzione poi che prevalse nella maggioranza dei casi. A fronte di tutto questo in Italia cominciò il bailamme di date sul giorno in cui far principiare l'anno e così ogni Stato adottò il sistema a loro più congeniale in un intricarsi convulso di giorni che vedevano oltre allo stile dell'Incarnazione e allo stile della Natività, anche (come abbiamo già letto) lo stile Pisano che seguiva lo stile dell'Incarnazione che rispetto allo stile fiorentino (anche questo basato sull'Incarnazione) lo anticipava di un anno. Lo stesso stile Pisano (oltre che a Pisa) era seguito da Piombino, a Roma alcuni Papi lo adottavano altri no, a San Miniato, a Bergamo, a Lucca(in parte), a Lodi (fino al XV secolo) e a Tarquinia. Il cosiddetto stile fiorentino era seguito ovviamente a Firenze, a Ravenna, Novara e Cremona (fino al XVI secolo), nella nostra Toscana trovò consenso a Siena, Pontremoli, Colle Val d'Elsa, Prato e a Lucca (fino al XII secolo). Lo stile della Natività prendeva invece una bella fetta di nord Italia ed era usato a Pavia, Brescia, Alessandria, Crema, Ferrara, Modena(e così anche in Garfagnana), Como (fino al XV secolo), Rimini e Orvieto. In Toscana era applicato alle città di
Pistoia, Massa, Arezzo e Cortona. Ad aumentare tutto questo grande disordine c'erano anche città come Milano, Bologna e Roma, dove questi diversi sistemi convivevano o si succedevano. Ma attenzione, la sarabanda di date non finiva qui, esisteva anche uno stile bizantino che faceva iniziare l'anno il 1° settembre ed era seguito in Calabria, ad Amalfi e a Bari... Ditemi voi come un povero sventurato del tempo poteva capirci qualcosa e anche oggi in tal senso per gli storici e gli studiosi la cosa non è semplice, poichè quando si analizzano documenti antichi si deve tener conto di questa accozzaglia di sistemi. Più previdenti furono gli antichi e saggi romani, anche loro facevano iniziare l'anno a marzo ma perlomeno nel loro vastissimo impero uniformarono per tutti i popoli sottomessi un'unica e sola data: il 15 marzo (successivamente il 1°), il che spiega a noi moderni perchè il nome dei mesi (che al tempo erano dieci) rimandi ancora per etimologia a un loro conteggio a partire da quello che per noi sarebbe il terzo mese (per i romani il primo): settembre il settimo mese, ottobre ottavo mese, novembre il nono, dicembre il decimo. Questo era il calendario romano o anche detto di Romolo o che dir si voglia calendario pre- giuliano. Pre- giuliano perchè un bel giorno dell'anno 46 a.C il buon Giulio Cesare decise la riforma del suddetto calendario, cosicchè, secondo calcoli
astronomici decise di iniziare l'anno non più a marzo, ma con grande spirito di lungimiranza il 1° gennaio (ops... dimenticavo, gli anni naturalmente si contavano non dalla nascita di Cristo, che ancora doveva nascere, ma bensì dalla data della fondazione di Roma), ma non solo, dal momento che c'era volle dedicarsi anche un mese, il mese quintile (cioè il quinto) divenne Julios ossia l'odierno luglio. Fattostà che questa riforma (a cui furono aggiunti gli odierni due mesi mancanti) che prese il nome di calendario Giuliano piacque molto e con alcune variazioni perdurò in tutta Europa per circa 1600 anni, fino al giorno in cui Papa Gregorio XIII stanco di tutto questo gran casino di date sparse per tutta Europa fece proprio come Giulio Cesare più di mille anni prima... Il 24 febbraio 1582 con la bolla "Inter gravissimas" riformò definitivamente il calendario, fissando una volta per tutte (e per tutti !!!) il primo gennaio come suo inizio. Proprio per tutti però no... Questa intimazione non valse per la Toscana e il suo Granducato che con grande caparbietà e tenacia non volle in nessuna maniera aderire a quel calendario gregoriano che adesso era applicato in tutta Europa. Tale e tanta fu la perseveranza del cattolicissimo Granducato e dei suoi possedimenti(vedi anche Barga)che nemmeno il fiorentino Giovanni de' Medici quando giunse al soglio di Pietro (1605) con il nome di Papa Leone X convinse il granduca Ferdinando I ad attenersi al nuovo calendario, nemmanco le giustissime motivazioni del Santo Padre persuasero il regnante
toscano: adottare questo calendario avrebbe significato minori confusioni politiche e uno snellimento dei commerci. Non ci fu niente da fare, per la Toscana l'anno sarebbe continuato ad iniziare il 25 marzo. Le tradizioni, la cultura e le usanze valevano più di qualsiasi altra cosa e allora come non poteva "Fiorenza", la città dei fiori, porre l'inizio dell'anno con l'avvento della primavera e soprattutto, Firenze era la città devota alla Madonna, a lei furono intitolati i templi maggiori, dalla SS Annunziata (dove il capodanno era celebrato con grandi feste al cospetto dell'affresco miracoloso della Madonna stessa), ma anche la stessa cattedrale di Santa Maria del Fiore alludeva (ed allude) alla rinascita della natura e al tempo stesso alla "rinascita" dell'umanità nel giorno dell'Incarnazione. Insomma, da quel momento per tutta la Toscana granducale la disobbedienza papale perdurò ancora per 167 anni, quando un bel dì il granduca Francesco III di Lorena stufo di tutta questa manfrina abolì gli antichi usi e impose anche per la Toscana che l'anno dovesse cominciare il 1° gennaio. Era il 20 novembre 1749, con il 1° gennaio 1750 iniziò per tutto il Granducato (c
ome era già in uso da molto tempo in molti
altri stati italiani e stranieri)
 la nuova conta degli anni. Le motivazioni che portarono l'illuminato granduca a questa sofferta decisione furono assolutamente tutte giustificate e al passo con i tempi, innanzitutto volle dare un uguale modalità di inizio anno in tutti i suoi possedimenti e più che altro in un Europa percorsa e unita da flussi e traffici di persone, merci e capitali non aveva più alcun senso mantenere un sistema di conta degli anni insolito e desueto, per cui:"...allo scopo di evitare ogni confusione e difficoltà nel discernere il tempo ha comandato, con la legge del 20 novembre 1749, che l'epoca e gli anni della salvezza dell'uomo, che solevano essere conteggiati dalle popolazioni toscane a partire da diversi giorni, vengano da tutti fatti iniziare in un unico ed identico modo, così che non venga più osservato il precedente
costume, contrario a quello dell'Impero Romano, ma che a partire dal prossimo anno 1750 e in perpetuo, il 1 gennaio che segna l'inizio del nuovo anno presso gli altri popoli, venga celebrato ed usato nel conteggio del tempo anche con il consenso del popolo toscano"
. Firmato: Cesare Francesco Pio, Fortunato, Augusto, Duca di Lorena e Bar e Granduca di Toscana, nato per il benessere della collettività, amplificatore della Pace, difensore della concordia e Salvatore del mondo... 

La storica e sciagurata epopea delle strade "garfagnine" (che tutt'oggi continua...)

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"La Garfagnana è assolutamente isolata, si trova a sei ore da Lucca,
senza ferrovia, senza tramvia, senza strade comunali. Essendo senza mezzi di comunicazione e non avendo sbocchi artificiali, è povera. La legna dei suoi boschi di castagni e di faggi rimane in gran parte invenduta o è venduta a prezzo vile per l'enorme costo del trasporto
". Queste furono le parole scritte dal sottoprefetto di Castelnuovo in una relazione inviata allo Stato centrale. Era il 1894 e ancora oggi il problema viario affligge in maniera seria la nostra valle e se dopo tantissimi anni questo è ancora uno dei maggiori crucci la dice davvero lunga su quello che è accaduto (o meglio non è accaduto) in un secolo e oltre di tempo. Guardiamo allora di entrare dentro il problema e di capirne l'evoluzione attraverso un illuminante percorso storico.  Partiamo allora nel descrivere la situazione generale delle nostre strade subito dopo la seconda guerra mondiale e già al tempo possiamo vedere che esisteva un'unica strada agevole che collegava la valle con Lucca. Per diversi anni non esisterà una strada per la Versilia e verso Massa; l'Appennino sarà valicabile solo dal Passo
delle Radici; per la Lunigiana esisterà sino alla fine degli anni '50 la sola strada per il Passo dei Carpinelli. La situazione delle strade interne se si vuole era di gran lunga peggiore. Per molti anni a seguire dopo la fine del conflitto diversi capoluoghi di comune erano ancora raggiungibili attraverso mulattiere che d'inverno potevano anche essere impercorribili e le strade asfaltate erano un lontano miraggio. Tanto per fare qualche esempio pratico nel 1956 a Cogna (Piazza al Serchio) gli ammalati o i feriti venivano trasportati a valle legati su una vecchia scala a pioli e tutto quello che occorreva per il trasporto di cose e persone veniva caricato a dorso di mulo. Per avere una sistemazione dignitosa di tutte queste strade e stradine si dovrà aspettare gli anni sessanta del 1900, quando con una disposizione amministrativa molte strade passarono sotto il controllo della provincia. Lo stato di queste strade prima di questi lavori ci diceva che su 170 km di strade interne solo 55 erano asfaltate, per di più la larghezza di queste vie era completamente insufficiente, occorreva poi modificare le
pendenze, rettificare le curve, tutto per una spesa complessiva di due miliardi e mezzo di lire. Ma la storia delle nostre strade parte da molto più lontano ed è simbolicamente rappresentata da un cippo stradale che pochi conoscono e che è situato a Lucca e da tutti è conosciuto come "l'indicatore del Giannotti". Da questo indicatore stradale parte "il chilometro zero" delle strade della Garfagnana (e non solo)e fu realizzato nella seconda metà del 1800. La costruzione (fatta in pietra serena) pare un obelisco, è alto quasi cinque metri ed ha la parte inferiore a base triangolare che si sviluppa verso l'alto in forma conica, sulla sua sommità sono poste delle piastre marmoree che indicano la direzione di vari luoghi e proprio sul lato destro è indicata "la Via per Bagni di Lucca e Castelnuovo". Questi segnali stradali dovevano essere d'aiuto per tutti quei viandanti, vetturini e barrocciai che si
dovevano indirizzare verso l'impervia Garfagnana. In verità il vero intento di questi imponenti segnalatori era un altro e infatti rappresentavano una sorta di monumento autocelebrativo dei Granduchi di Toscana per il fatto di essere riusciti a dare alla Toscana intera un nuovo assetto stradale. Per la Valle del Serchio e la Garfagnana fu invece il punto iniziale di un nuova direttrice viaria, che nel 1928 prese il nome di via del Brennero, una strada statale (SS 12 dell'Abetone)nata per collegare Pisa con il confine austriaco. Nella seconda metà dell'ottocento nacque però come collegamento veloce ai primi insediamenti industriali della piana lucchese che sorsero al Piaggione e a Ponte a Moriano. Questa strada, una volta presa la
direzione del Passo dell'Abetone continuava in quella che era la strada Nazionale n° 39 (oggi SRT 445), la dicitura nazionale era attribuita a tutte quelle vie che valicavano l'Appennino, tanto è vero che una volta attraversati i paesi
 di Calavorno, Ghivizzano, Piano di Coreglia, Ponte all'Ania, Fornaci, Mologno, Ponte di Campia, Castelnuovo, Camporgiano e Piazza al Serchio la strada oltrepassava l'Appennino e continuava verso Mantova in quella che al tempo era conosciuta come la "Livorno- Mantova". Non furono però solo i granduchi di Toscana a dare sbocchi esterni alla Garfagnana, prima di loro ci pensarono gli "illuminati" regnanti di Lucca nella persona di Maria Luisa Borbone che una volta insediatasi sul trono lucchese volle cancellare ogni traccia di Elisa Bonaparte, dando vita così ad un illuminato governo, promuovendo cultura, scienze e soprattutto lavori pubblici. La duchessa Maria Luisa si compiaceva di prendere parte personalmente alla vita del governo e si era tutta infervorita proprio sulle questioni che riguardavano i lavori pubblici e così con un decreto del 25 dicembre 1819 volle dare il via a tutta una serie di lavori istituendo "Il commissariato delle acque e delle strade". Furono reclutati tutti i migliori ingegneri, ognuno con un suo determinato compito e fra questi ingegneri c'era anche il celeberrimo Lorenzo Nottolini.
la Via Lodovica
Bolognana
Purtroppo pochi anni dopo la duchessa morì (1824) e salì al trono suo figlio Carlo Ludovico di Borbone che in qualche maniera prosegui sul solco tracciato dalla madre, continuando in tutta una serie di lavori già intrapresi da tempo. Proseguirono così anche quei lavori per quel tratto di strada che doveva collegare Diecimo e Valdottavo con Ponte a Moriano, mantenendosi sulla sponda destra del Serchio. Stava per nascere quella che anche oggi si chiama "Strada Lodovica", battezzata così in onore del regnante che intraprese la sua realizzazione: Carlo Lodovico. I lavori si prolungarono negli anni fra mille difficoltà, il tratto Bolognana Gallicano fu particolarmente arduo proprio nel punto in cui le pendici del monte Gragno cadono a picco sul letto del fiume Serchio ed inoltre a dare un ulteriore freno ai lavori fu una situazione politica paradossale. Il buon duca, difatti, era fin troppo prodigo e dalle mani bucate, tant'è che riuscì nella mirabolante impresa di far fallire lo Stato, consegnandolo così nelle mani dei (suddetti) granduchi di Toscana che su questo progetto vollero metter freno. E se per avere una ferrovia in Garfagnana ci volle più di un secolo, neanche per la realizzazione delle strade si scherzò poi tanto... Portiamo ad esempio la strada di Pradarena che avrebbe collegato la Garfagnana (Sillano) con l'Emilia (Reggio). Verso la fine del 1947 si parlava di questa strada come la
"nuova Abetone", su questa strada doveva nascere un polo turistico invernale di straordinaria bellezza e che avrebbe fatto diventare questa  un'arteria "di straordinaria utilità economica per le regioni Toscana ed Emilia". Come se non bastasse c'è chi vedeva in questa strada un valido mezzo per portare i turisti emiliani in Versilia... Ebbene di questa strada (il cui progetto iniziale risaliva al 1881), nel 1948 furono costruiti la bellezza di 450 metri. Solo nel 1952 ripresero i lavori e nel 1955 l'allora ministro Romita visitava i cantieri di lavoro. Non da meno la strada d'Arni, anche questo progetto era del 1881, in più alla via di Praderena questa strada aveva il supporto di una legge che la dichiarò "obbligatoria". Era talmente obbligatoria che nel 1914 si dovette riapprovare la sua costruzione e fra il 1915 e il 1917 fu compiuto il primo tratto Castelnuovo- Ponte di Rontano. Fattostà che
Strada d'Arni 
in costruzione
 per tutta una serie di eventi politico-burocratici i lavori si fermarono e ripresero nel 1936, per poi venire nuovamente sospesi con l'inizio della seconda guerra mondiale e ripresi ancora nei primi anni '50. Di questi fatti, se può essere consolante, è che almeno queste strade furono costruite nonostante i tempi biblici di esecuzione. Ci furono anche quelle vie che furono progettate e che (per fortuna) mai videro la luce, come il traforo del Monte Corchia che avrebbe portato "vantaggi ingentissimi", poichè si credeva che dalle solite province emiliane sarebbero venuti frotte di turisti. Che dire poi della Gallicano- Mare? 
Si trattava di un progetto elaborato come tesi di laurea dal giovane ingegner gallicanese Livio Alessandro Poli. La strada doveva partire da Gallicano, arrivare a Fornovolasco, di li inerpicarsi fino al valico di Petrosciana per poi scendere verso il mare e raggiungere Lido 
di Camaiore. Il progetto fu approvato, gli eventi del secondo conflitto bellico mandarono tutto nel dimenticatoio, per sempre. Da non scordare nemmeno la "Forte dei Marmi -Modena", progetto realizzato dall'ingegner Gianni, tale intenzione prevedeva che dall'Aurelia, all'altezza di Querceta, la nuova strada si distaccasse verso le Apuane tramite due gallerie, sotto il Monte Costalunga ed il Monte Forato, per raggiungere Gallicano, da Gallicano poi il tracciato per Fosciandora e il Sillico avrebbe attraversato
Quello che doveva essere 
la Gallicano-Mare
 l'Appennino con una galleria lunga sette chilometri e mezzo, andando poi a congiungersi con la Via Emilia all'altezza di Rubiera. Esisteva poi una "Livorno-Modena",  per non parlare di una ipotetica strada del marmo: "il traforo di Piastra Marina", un tunnel fra il Pisanino e il Monte Cavallo. Insomma, per continuare a scrivere la storia delle nostre strade non basterebbe un solo libro, anzi  a dirla tutta sarebbe più adatto scrivere un romanzo a puntate, di cui però non si vede ancora la parola fine...


Bibliografia

  • La foto di copertina è tratta dall'archivio Fioravanti ed è stata scattata al Casone di Profecchia nei primi anni del 1900 
  • " La Terra Promessa. La Garfagnana nella seconda metà del XX secolo" di Oscar Guidi, edito Unione dei Comuni della Garfagnana, anno 2017
  • "Il Sogno realizzato" di Umberto Sereni, Banca dell'identità e della memoria, anno 2011
  • "Da Lucca a Barga. Storia di viabilità" di Pietro Moscardini da "Il Giornale di Barga", febbraio 2016  

Il diavolo e la Garfagnana... Storie fra leggende e presunte verità...

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In Garfagnana e in Toscana in genere ci sono molte località che
portano il nome del diavolo o perlomeno ne richiamano la sua presenza: il Ponte del Diavolo, il Canale dell'Inferno, il Sasso del Diavolo e così via... Tutte
 località e luoghi legati ai racconti popolari, alle leggende e alle storie fantastiche. Parrebbe, infatti, che il diavolo conosca bene la nostra terra e i suoi abitanti. A quanto si dice, sembrerebbe che da queste parti il diavolo ha ricevuto sempre delle sonore fregature e questo avvalora la tesi che dice: "un garfagnino ne sa una più del diavolo". Infatti, si ritiene che quando il satanasso debba passare dalla Garfagnana, preferisce attraversarla a grandi balzi. Ma la paura del diavolo nasce da molto più lontano e si concretizzò maggiormente intorno all'anno mille, quando fra gli uomini si diffuse la paura che la fine del mondo fosse prossima. Questo terrore nacque dall'ultimo libro del Nuovo Testamento, l'Apocalisse di Giovanni che chiaramente profetizzava : "E vidi un angelo che scendeva dal cielo
con in mano la chiave dell'Abisso e una grande catena. 
Afferrò il drago, il serpente antico, che è diavolo e il Satana, e lo incatenò per mille anni; 
lo gettò nell'Abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali deve essere lasciato libero per un po' di tempo". Così la fobia si insinuò nei cuori della gente che cercava ogni segno premonitore dell'imminente fine, perciò si scrutava il cielo, si osservavano gli eventi naturali e il passaggio di una cometa, si cercavano avvisi catastrofici anche in un'eclissi, nella moria di bestiame, in una siccità prolungata o in un inverno troppo rigido, tutte queste sventure sembravano le conferme del pauroso evento e nonostante che la fede cristiana nei secoli passati avesse spazzato via ogni dio pagano, la mentalità collettiva continuava ad essere dominata dalla superstizione con la differenza che gli dei malvagi furono sostituiti dagli emissari dell'anticristo: i diavoli. Probabilmente è da questo momento che il malvagio entra a far parte dei nostri racconti e delle nostre leggende e la sua presenza in queste storie è li inserita per incarnare un vizio, un peccato o una colpa grave e proprio per questo che a tali leggende si attribuiva anche un forte valore educativo, nonchè inibitorio su cui la Chiesa faceva particolarmente leva, quindi chi commetteva un peccato particolarmente grave, chi bestemmiava, chi abusava d'alcol, chi non andava a messa, per lui si sarebbero aperte le porte
dell'inferno. D'altronde l'intento di queste particolari leggende era sempre il solito, punire un comportamento scorretto per la morale del tempo. A conferma di questo, capitava anche che alcuni episodi incredibili assumessero i contorni della verità assoluta, è il caso di una vicenda  accaduta nel 1612 e riportata di Sigismondo Bertacchi nel suo libro "Descrizione Istorica della Provincia della Garfagnana": "Dell'anno 1612, essendo una donna chiamata Caterina Mazzoni da Dalli, d'età d'anni 40 in circa, maritata in Antonio di Bernardino da Orzaglia, dal quale aveva avuto quattro figliuoli, e tal donna era poco osservante de SS. Precetti di Dio. Ella aveva il peccato della bestemmia e quello di non santificare le feste commandate, e per ordinario usare fare le sue bugate (n.d.r: il bucato) ne' giorni festive, et in essi andarle a lavare alla fonte. Avvenne che fattane una in giorno di Domenica, et andatala a lavare, secondo il suo uso, condusse seco alla fontana un paro de vacche, acciò esse mangiassero, mentre essa lavasse la bugata, e mentre ciò faceva, venne una folgore, overo saetta dal cielo, et ammazzò lei, senza che li vedesse nella sua vita male alcuno, e la spogliò nuda, come se fosse allora escita dal ventre della madre; e quella stessa saetta ammazzò anche
una delle vacche. Il marito con il Clero andornò a condurre la donna alla sepoltura, il che fatto, condussero anche la vacca nella Terra. Qui ora nasce la maraviglia. La vacca fu scorticata et aperto il suo ventre vi trovorno tutti i panni della donna, senza aver patito lesione alcuna"
 . Storie legate a personaggi realmente esistiti non finiscono con i fatti riguardanti questa povera donna, ma coinvolgono anche persone garfagnine di alto lignaggio che a quanto pare a suo tempo fecero un patto con il diavolo in persona. Vi vado allora a narrare l'inquietante caso che riguarda il capitano Pietro Cilla, nato a Giuncugnano nel 1776, laureatosi in medicina. Il Cilla aveva ricoperto nella sua vita incarichi importanti sia in ambito militare che amministrativo, infatti durante il periodo napoleonico era diventato comandante generale della gendarmeria e in seguito fu nominato a Castelnuovo "Incaricato per l'economato dei beni nazionali del Dipartimento del Panaro". Proprio grazie a quest'ultima mansione già nei primi anni del 1800 riuscì ad accumulare un ingente patrimonio che si andava a sommare con quello che già possedeva, ma non solo, tale ricchezza aumentò quando assunse su di sè per mezzo dello Stato tutti i beni ecclesiastici, un fatto che naturalmente sia per il popolo che per i religiosi fu poco apprezzato. Fattostà che al momento della morte del Cilla nacque uno spaventoso racconto. Infatti le cronache del tempo riferiscono che il corpo del capitano fosse misteriosamente sparito dalla bara. Ad insospettire i presenti fu l'eccessivo peso della bara stessa che una volta riaperta avrebbe rivelato la presenza di alcune pietre e alcuni pezzi di legno. Il cadavere, a quanto pare, così come la gente del posto diceva, era stato trafugato dal demonio in persona con il quale il Cilla, in vita, aveva stretto un patto per far
accrescere le sue ricchezze in cambio del suo corpo e della sua anima. Rimane il fatto che voci sullo stretto rapporto fra il capitano e il demonio già circolavano da molto tempo quando era ancora in vita, difatti si raccontava di diaboliche feste organizzate nella villa del Cilla stesso, non mancava nemmeno chi lo accusava di rapire bambini e di evocare entità maligne. Ma come già scritto in precedenza in Garfagnana il maligno più che un diavolo era considerato... "un povero diavolo" . Cominciamo con il dire che nel folklore garfagnino il diavolo risulta nettamente in subordine al Buffardello e agli Streghi e che dire poi di quelle solenni fregature che si è preso nella nostra valle? Tanto per riportare il primo esempio va ricordato proprio il fatto che ha dato il nome al ponte più famoso della Valle del Serchio: il Ponte del Diavolo. 
La storia narra che la costruzione del ponte fosse stata commissionata ad un capomastro che era molto preoccupato per i tempi di consegna. L’opera era difficile da realizzare, e l’imminente scadenza lo fece cadere in disperazione, tanto che​​ il diavolo si manifestò proponendo di aiutare il capomastro: avrebbe completato il ponte lui stesso, in cambio dell’anima del primo essere vivente che lo avrebbe attraversato. Stretto il patto, in una notte il ponte fu eretto, ma il muratore si sentì talmente in colpa da correre a confessarsi da un prete che gli suggerì una strategia per rimediare alla sua debolezza: far attraversare per prima una bestia (una versione della leggenda
parla di un maiale, l’altra di un cane). 
Il giorno dell’inaugurazione il capomastro segui il consiglio del prete, e bloccata la folla che entusiasta voleva attraversare il ponte, fece per primo passare un maiale (o un cane). In questo modo il diavolo, sentendosi sbeffeggiato dall’arguzia del capomastro decise di gettarsi nelle acque del fiume Serchio scomparendo per sempre. Per rimanere attinenti a questo
 non ci si può nemmeno dimenticare di quella storia che per protagonisti ha Satana, San Pellegrino e il Monte Forato. San Pellegrino dopo un lungo girovagare, proprio in quelle montagne dove adesso è il paese omonimo, aveva finalmente trovato il luogo dove pregare e fare penitenza. Il diavolo cercava spesso di farlo cadere in tentazione ma il sant’uomo era di animo puro, così il diavolo pensò bene di andare di persona a sistemarlo. Quando arrivò, San Pellegrino stava pregando così intensamente che il diavolo non ebbe pazienza e così gli rifilò un bel ceffone. “Finalmente, ora  la smetterai di pregare!”, disse tra sé il diavolo, ma ecco che San Pellegrino si rialzò e a sua volta gli tirò un bello schiaffo! Il diavolo, preso alla sprovvista e soprattutto colpito da un ceffone davvero potente,
fu addirittura sbalzato in aria, attraversò tutta la valle ed infine si schiantò sulla montagna, passando dall’altra parte e lasciando un grandissimo foro che creò quello che oggi è conosciuto come Monte Forato. Insomma, le storie riguardanti diavoli e demoni in Garfagnana e nella Valle del Serchio pullulano e da questa consuetudine non sono esenti nemmeno le Alpi Apuane e tanto per citare alcuni episodi posso raccontarne un paio davvero singolari. Si narra di un sentiero dimenticato fra le selve in quella che un tempo era una via di comunicazione importante fra Garfagnana e Versilia, ebbene, si dice che di li anche le bestie si rifiutavano di passare, poichè tra quelle pietre si trova la cosiddetta "culata del diavolo". A quanto pare su quel terreno si trova nitida l'impronta di un culo, con accanto tre fori che dovrebbero corrispondere al forcone di cui il diavolo è in possesso. Proprio in quel punto di passaggio il demone cercava anime da fare sue, ma un bel giorno fra le rocce gli sembrò di scorgere la Madonna, tanta fu la sua paura e il suo timore che scappò a gambe levate ed inciampò fra quei sassi, lasciando l'impronta del sedere e del forcone che teneva in mano. Particolare è anche la vicenda che ha portato in dote il nome a quello che oggi è una delle vie che portano alla Pania della Croce: il Canale dell'Inferno. Era da tempo che il diavolo stava arroccato sul Pizzo delle Saette, da quel punto infatti poteva vedere bene tutte le anime che arrivavano sulla vetta della
Il canale dell'inferno
 Pania. La sua presenza era celata da un grande mantello nero che gli serviva per sorvolare da una parte all'altra le cime delle Apuane. Un mattina un prete portò una sua processione sulla cima della Pania, da li poteva impartire la benedizione su tutte le cime vicine. Il maligno non la prese bene, anzi si arrabbiò tantissimo, tant'è che gettò il suo mantello che andò a cadere proprio ai piedi della Pania della Croce, creando di fatto un solco dove nessuna erba e nessuna pianta ancora vi cresce, questo aspetto portò quel luogo a somigliare ad una sentiero che portava agli inferi. In conclusione, bando ad ogni folklore e a qualsiasi credenza, non rimane che ricordare una sacrosanta e veritiera citazione di William Shakespeare, dove nella sua opera teatrale "La Tempesta" rammentava: "L'inferno è vuoto...tutto i diavoli sono qui in Terra".


Bibliografia 

  • "Gli Streghi, le streghe" di Oscar Guidi, Pacini Fazzi editore, anno 1990
  • "Usanze, credenze, feste, riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rossi, edito Banca dell'Identità e della Memoria, anno 2004
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi, edito da "Le Lettere", anno 2013

Gli aiuti umanitari in Garfagnana. Una storia da ricordare

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Il 24 giugno 1859, nel corso della 2° Guerra di Indipendenza
italiana, a Solferino si consuma una delle battaglie più sanguinose dei XIX secolo, sulle colline a sud del Lago di Garda. Trecentomila soldati appartenenti a tre eserciti distinti (francese, sardo-piemontese e austriaco) si scontrano, lasciando sul terreno circa
 centomila fra morti, feriti e dispersi. Castiglione delle Stiviere (provincia di Mantova) è il paese più vicino, a sei chilometri da Solferino, dove esisteva già un ospedale e la possibilità di accedere all’acqua, elemento fondamentale nel soccorso improvvisato ai novemila feriti che, nei primi tre giorni, vengono appunto trasportati a Castiglione. Lì si trova anche un cittadino svizzeroJean Henry Dunant, venuto ad incontrare per i suoi affari 
Henry Dunant
Napoleone III. Egli si ritrova coinvolto nella terribile carneficina, aggravato dall'”inesistenza” della sanità militare e li insieme ad altre decine di contadine si prodiga spontaneamente nell'assistenza dei soldati feriti, qualsiasi fosse la loro appartenenza di nazione o di esercito. Dunant organizzò così i primi soccorsi, mentre il parroco di Castiglione delle Stiviere spalancò le porte della chiesa trasformandola in un ambulatorio d'emergenza. Alcuni anni dopo questi fatti Dunant fondò la Croce Rossa Internazionale. Questa  fu il primo atto ufficiale di quello che sarà definito universalmente come "aiuto umanitario". Il concetto di aiuto umanitario fa parte delle tendenze “naturali” dell’uomo: l’assistenza ai propri simili nel momento in cui la loro vita é minacciata é un’espressione dell’istinto di sopravvivenza della specie, e lo spirito di solidarietà rappresenta indubbiamente uno dei fondamenti del vivere sociale. Il "dogma" cardine dell'aiuto umanitario è l'imparzialità, ossia la totale estraneità dell’assistenza umanitaria a prescindere dagli aspetti politici e militari della guerra.
Insomma, l'aiuto umanitario oggi, ai nostri occhi, ci sembra una cosa che mai ci ha riguardato, aiuti e soccorsi hanno interessato ed interessano le nazioni africane, l'Iraq, l'Afghanistan, eppure appena 76 anni fa ci fu una grande mobilitazione per salvare dalla fame e dalle povertà anche la popolazione della Garfagnana. Eravamo alla fine della seconda mondiale, la guerra stava ormai volgendo al termine e già gravi problemi erano all'orizzonte: fame, penuria di abitazioni e disoccupazione. La Garfagnana, come si sa, era sul fronte della Linea Gotica, era da oltre un anno che la sua popolazione subiva bombardamenti e battaglie. Le condizioni di vita della gente erano ormai allo stremo per cui già prima della fine del conflitto, il 10 aprile 1945, per la gente della nostra valle si era già mobilitata la Croce Rossa Italiana. In quel di Lucca furono infatti convocate le autorità al fine di istituire già un "Comitato pro Garfagnana" che nell'immediato fosse pronto ad inviare vestiario, medicinali e cibo, ma non solo, si cercò anche di risollevare lo spirito dei garfagnini e di tutti gli sfollati qui rifugiati, si
Castelnuovo bombardata
 cercò di far pervenire tutte le lettere dei prigionieri di guerra e dei soldati garfagnini. Qualche giorno dopo il presidente del comitato, Frediano Francesconi, fece un appello a tutti i cittadini lucchesi "soprattutto abbienti e ricchi" poichè "il vivo desiderio di ogni lucchese di portare tutto il possibile aiuto ai nostri fratelli della martoriata Garfagnana". Fattostà che si cercò in ogni modo di organizzare al meglio la rete della solidarietà e si fece si che ogni parrocchia garfagnina avesse un comitato a se stante a cui affidare la distribuzione degli aiuti, a capo di questo c'era il parroco, una rappresentante dell'Unione Donne Italiane e un altra incaricata del Centro Italiano Femminile. I primi beni di sussistenza arrivarono subito dopo lo sfondamento del fronte, un auto con diversi generi alimentari fra il 26 e il 27 aprile 1945 arrivò presso l'ospedale di Castelnuovo. La macchina degli aiuti aveva quindi cominciato il suo percorso. E' bene sottolineare che il capoluogo di provincia (Lucca), soprattutto fra la gente qualunque, prese molto a cuore "la questione garfagnina", e per stimolare la solidarietà alla Garfagnana nei negozi della città si esponevano fotografie dei rovinosi
bombardamenti sulla valle. I giornali della città delle mura definirono la Garfagnana "fra le regioni maggiormente devastate dalla guerra" e ogni giorno questi quotidiani pubblicavano fra le loro pagine la lista di enti e privati che numerosi davano il loro contributo al Comitato pro Garfagnana. Alla fine di novembre erano stati già raccolti denari per la considerevole cifra di un milione di lire. Non furono solamente le donazioni della brava gente a risollevare le sorti della valle, anche il Vaticano stesso nel 1946 diede il via all'iniziativa denominata "la pasta del Papa", notevoli quantitativi di questo alimento venivano distribuiti dalle parrocchie locali alle famiglie più bisognose. La Commissione Pontificia d'Assistenza non si limitò solamente ad inviare pacchi di pasta, ma intervenne personalmente con i suoi uomini sul territorio, distribuendo circa 400 pasti al giorno a Castelnuovo e altrettanti nel resto dei comuni garfagnini. Non poteva mancare nemmeno l'intervento di quel partito che guiderà il Paese per decenni. La Democrazia Cristiana istituì la "Giornata Popolare", nell'ambito della quale le varie sezioni della provincia versavano denari ai comuni. Vennero aiuti anche dall'Ente Nazionale Distribuzioni Soccorsi che attraverso i buoni uffici del nuovo sindaco di Castelnuovo Loris Biagioni portò in Garfagnana 600 quintali di farina. Dall'altra parte nemmeno il Partito Comunista
volle essere da meno e così videro la luce i cosiddetti "Ristoranti del Popolo", questa iniziativa aveva lo scopo di fornire buoni pasto ai disoccupati, ai mutilati, invalidi e partigiani. Alla fine del gennaio '46 erano ventuno mila i buoni distribuiti. Per capire bene quanto durarono le difficoltà e l'emergenza per la Garfagnana basta vedere che ancora nel 1947
(erano due anni che era finita la guerra...) la "Mensa del Popolo" (anche quest'ente nata per iniziativa del Partito Comunista) forniva ancora sessanta pasti al giorno e nel 1949 la Croce Verde distribuiva pacchi alimentari a famiglie bisognose. Naturalmente non mancarono nemmeno gli aiuti dai tanti emigrati garfagnini, fece scalpore la donazione di una signora (di origine garfagnine) di San Paolo del Brasile che donò ai bambini garfagnini bisognosi un milione e mezzo di lire. Ad onor di cronaca bisogna dire che non tutto fu all'insegna della trasparenza più assoluta e nel più classico stile italiano non mancarono le polemiche e le proteste circa l'effettiva utilizzazione e destinazione di
queste risorse. Insomma, nonostante ciò gli aiuti per la Garfagnana martoriata non mancarono e la rinascita della valle ricominciò proprio da quella solidarietà e anni dopo qualcuno nel ringraziare per questi aiuti si lanciò in una profetica frase: "Se aiuti gli altri, verrai aiutato. Forse domani, forse tra un centinaio d'anni, ma verrai aiutato. La natura umana deve pagare il suo debito..."   


Bibliografia

  • "La Terra Promessa" di Oscar Guidi, edito Unione dei Comuni della Garfagnana, anno 2017

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