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Un'emigrazione "inconsueta"... Quando in Garfagnana si partiva per la Sardegna

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Mare stupendo, spiagge selvagge, sole cocente, movida sfrenata...
No, la Sardegna non ha rappresentato sempre questo. Prima del "Billionaire", prima di Porto Cervo, la Sardegna era sudore e fatica e la gente che partiva dal cosiddetto "continente" non partiva purtroppo per spensierate vacanze, ma per lavorare. Sembrerà alquanto strano ed anomalo ma ai tempi delle grandi emigrazioni non si partiva solo per le lontane Americhe o per gli esotici stati sudamericani, si emigrava anche all'interno dell'Italia, spostandosi da una regione all'altra. Naturalmente questo fenomeno non sarà inconsueto negli anni del secondo dopo guerra, quando dal sud Italia si emigrava verso le regioni industrializzate del nord. Sicuramente  rimane però insolito del perchè anche dalla Garfagnana si emigrava in Sardegna, regione se si vuole (all'apparenza) "povera" come lo era la Garfagnana al tempo.
Per spiegare al meglio il caso risaliamo all'origine di tale perchè, un perchè che parte prima della venuta di Cristo e da quelle fonti egizie che chiamavano la Sardegna "l'isola del grande verde". Un
luogo denso di vegetazione, foreste, boschi, che con il trascorrere dei millenni fu drasticamente rasato del suo verde. Ogni popolo che metteva piede su quest'isola distruggeva un po' di queste selve: Fenici, Cartaginesi e Romani abbatterono le foreste per far spazio alle piantagioni di grano e bruciarono i monti per stanare i nemici. Ma il peggio doveva venire e l'apoteosi giunse quando i Piemontesi (o meglio i Savoia) presero possesso dell'isola. Nel 1740, appena vent'anni dopo l'inizio del dominio savoiardo, il re Carlo Emanuele III aveva già distribuito a destra e a manca concessioni varie per il diritto di sfruttare le miniere con relativo permesso di prelevare nelle circostanti zone il carbone e la legna per le fonderie. Lo scempio continuò imperterrito fino al 1861. Nel 1861, con l'Unità d'Italia la partita si chiuse definitivamente, con lo sviluppo industriale la richiesta di combustibile si era fatta più pressante e perentoria. Con il regno di Umberto I fu impressa una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, lo stato
Italiano fra il 1863 e il 1910 autorizzò la distruzione di splendide e primordiali foreste per l'incredibile estensione di 586.000 ettari... un quarto dell'intera superficie sarda... e per fare questo c'era bisogno di uomini, di forza lavoro, di gente dedita alla fatica e non bastavano i soli sardi e chi meglio allora dei "vicini" toscani? E ancora meglio, chi della gente di Garfagnana? Da sempre gente avvezza alla fatica e al duro mestiere del carbonaio e del boscaiolo?
"I toscani lavoravano di buona lena. Si udivano le loro voci allegre e forti mentre le schegge bianche sprizzavano, diffondendo l'odore del legno fresco. I toscani erano attenti, precisi e gli alberi cadevano tra una carbonaia e l'altra, e poi venivano sfrondati, trascinati via, segati e spaccati con i cunei e le mazze". Lo scrittore Giuseppe Dessì nel suo libro "Paese d'ombre" descriveva così il lavoro dei toscani, una mansione che questi uomini erano abituati a fare da secoli e secoli, ma questa volta l'ambientazione per loro fu decisamente diversa, l'attività si svolgeva nei boschi della Sardegna. "Quegli uomini dalla faccia rubiconda e dalla voce sonora" (così come li descriveva lo stesso Dessì)provenienti dalla Garfagnana, a differenza di altri garfagnini emigrati in altre
nazioni venivano in Sardegna attuando un emigrazione di tipo stagionale, di solito questa periodo di tempo andava da novembre a giugno, quando la nostra terra non dava nessun frutto per la sopravvivenza della famiglia. Questi uomini sarebbero poi tornati in Garfagnana in estate nel momento dei raccolti del grano, del granturco e sopratutto delle castagne. Sicuramente a casa propria nella fase invernale sarebbe rimasto qualcuno di famiglia a preparare la terra per la buona stagione. 
"L'emigrazione deve attribuirsi alla soverchia della popolazione di fronte alla poca quantità del terreno coltivabile, il quale non può dar lavoro o sussistenza che per pochi mesi l'anno. Quasi tutti gli emigranti sono poveri, e posseggono una cattiva casa ed un poco di terra coperta da castagni a cui hanno grande affezione", così il prefetto descriveva perfettamente il fenomeno dell'emigrazione garfagnina in Sardegna. Rimaneva comunque il fatto che la vita per il povero garfagnino anche in Sardegna sarebbe rimasta tribolata, questo tipo di emigrazione infatti (a differenza di quella americana) non era alla ricerca (proprio perchè stagionale)di un'evoluzione stabile sociale e lavorativa dell'individuo, qui più ore si lavorava e più si guadagnavano soldi, a sfruttare questa situazione erano sopratutto due ditte che assumevano questi
garfagnini per un lavoro durissimo. C'era quindi la "Carradori" che si era aggiudicata 2000 ettari di superficie boschiva nella Sardegna sud orientale e la "Quilici" che aveva appalti nel comune di Baunei (Nuoro). Gli infortuni sul lavoro erano purtroppo all'ordine del giorno, ma non solo, con il tempo si potevano contrarre patologie professionali all'apparato respiratorio, anche la vita sociale era limitatissima, si viveva nei boschi, in alloggi improvvisati, sprovvisti di qualsiasi comodità, il contatto umano era solo con gli altri carbonai e la mancanza di casa così si faceva sentire ancora più forte, difatti Adolfo Mazzanti di Gallicano ricordava:"In Sardegna dormivo dentro un sacco con cimetti di leccio, avevo caldo, ma c'erano anche le pulci. Dai, dai, a grattarmi, alla mattina loro erano piene, io dovevo alzarmi. E il leccio mi bucava con le punte dei cimetti. Dormivo con i miei compagni del carbone in una baracca coperta di carta catramata e per le gocce dell'acqua quando pioveva ci si metteva sotto un pentolino. Il vento rompeva la carta. La porta era una fascina. Si faceva legna e carbone. Nove stagioni in Sardegna. Alle quattro la mattina la sveglia. Alle otto colazione, lardo sardo
carbonaie
arrostito con il pane"
 . Anche la natura si dimostrava certe volte avversa, non bastava lottare strenuamente con condizioni di vita pessime: "Nella foresta Taccu Addai dove lavoravano centinaia di uomini sotto la ditta Quliici, due operai muoiono uccisi da un fulmine", così "L'Unione Sarda". A ciò si aggiungevano gli incendi, facilmente originati dal fuoco incontrollato delle carbonaie. Insomma, una pagina di storia dell'emigrazione quasi dimenticata, chi non dimenticò mai furono coloro che questa esperienza la vissero sulle proprie spalle: "Io sono andato in Sardegna nel 1938 e nel 1939. Ci ho fatto due campagne. Si partiva a novembre e si tornava a giugno, per San Pietro. Noi si scollettava il carbone, poi c'erano i carbonai che lo facevano e gli scariolanti che lo portava con il carro tirato dai buoi. Noi scollettini gli si facevano anche le strade, dove era più comoda la foresta. Così si risparmiava di portarlo noi. S'attaccava la mattina con le stelle e la sera con la luna, con la ditta Berti Mosè e figli. I carbonai erano quasi tutti pistoiesi. Era faticosa, la mattina e la sera in quelle piazze! Anche 100 balle di carbone per ogni piazza s'imballava in quelle foreste vergini, con quei lecci grossi. E se c'era da scollettarle c'era da pigliarle tutte in collo e portarle sulla strada dove c'erano i carri. Le balle più pese era 110-120 chili e non erano poi tanto pese, in altre ditte erano anche 140 chili. Però in quella ditta non c'era mai tregua, i carri andavano e venivano. Invece in altre ditte partivano la mattina, andavano su e alle nove avevano finto di caricà i carri e

prendevano la zappa e andavano a concià la strada centrale e fino alla mattina dopo non riprendevano. Noi invece non si finiva mai, però davano 50 lire in più al mese ed erano tante!...Però sortivano gli ossi! Venni a casa la mattina di San Pietro, quando la mì moglie mi lavò mi tirava via dalla schiena la pelle callosa...", così narrò Elio Biagi di Gallicano... Alla faccia del "Billionaire".


Bibliografia

  • "Stasera venite a vejo Terè?" Le veglie della Garfagnana. Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria 2007  

La Garfagnana dell'immediato dopoguerra, fra mine, morti, rapine e... assassini

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Di quello che fu per la Garfagnana uno dei periodi storici più
terribili e cruenti ormai si è raccontato tutto (o quasi). La seconda guerra mondiale lasciò lutti, distruzioni e una scia di dolore che si prolungò per molti anni. La consapevolezza dell'immane tragedia che ai garfagnini era capitata fra capo e collo fu tangibile da subito, da dopo quel glorioso 25 aprile 1945. Finita l'euforia e la gioia del momento arrivò il tempo di rimboccarsi le maniche e ricostruire oltre che a case, ponti e strade, bisognava anche rimettere in piedi l'animo delle persone, bisognava ricominciare a vivere, in tutti i sensi, e affrontare da subito i primi e i più urgenti problemi dell'immediato dopoguerra. La storia garfagnina della seconda guerra mondiale ha spesso dimenticato questi fatti, sappiamo infatti quello che successe prima, durante e nessuno (o meglio pochi) hanno raccontato quello che accadde immediatamente dopo la liberazione, eppure quegli imminenti problemi, erano veramente dei grossi grattacapi da risolvere. 
Già a livello a nazionale il clima non era dei più sereni, quel 7 agosto 1946 quando la diplomazia italiana si presentò alla
La firma italiana sul
 trattato di pace di Parigi
conferenza di pace di Parigi capì da subito quali sarebbero state le conseguenze da pagare. Non importava aver portato a quel tavolo tutto quello che avevamo compiuto dopo la caduta del fascismo: l'armistizio, la dichiarazione di guerra alla Germania, il contributo dato agli anglo americani, nonostante ciò per i nuovi alleati eravamo una delle nazioni colpevoli di aver trascinato il mondo in guerra e in qualche modo si doveva pagare pegno. - Prepariamoci a bere un'amaro calice-, così disse De Gasperi di fronte all'Assemblea Costituente e amaro fu veramente. 
In termini economici all’Italia vennero imposte riparazioni per un totale di 360 milioni di dollari, da ripartirsi tra i paesi vincitori e le ex colonie italiane, con la successiva rinuncia alla propria quota di Stati Uniti e Gran Bretagna; sul piano militare le forze dell’Esercito, dell’Aviazione e della Marina vennero ridotte a 300 mila unità, limitati a 350 gli aerei e drasticamente ridimensionato il tonnellaggio navale, con l’obbligo di mettere a disposizione delle nazioni vincitrici un ingente numero di unità navali da combattimento. Clausole, queste, che verranno attenuate in seguito dall’ingresso dell’Italia nella Nato. Tutto ciò però per la Garfagnana era lontano anni luce, quello che preoccupava ancor di più dell'economia e delle sanzioni era il degrado sociale e ambientale che avevano portato sei anni di guerra, questo fu il vero problema che le amministrazioni garfagnine dovevano risolvere, si
Castelnuovo.
 La rocca ariostesca bombardata
credeva di vivere ormai in una terra di nessuno, dove tutto era concesso. A confermare questo ci fu infatti il primissimo e vergognoso caso da risolvere, il più urgente. L'odore della morte in Garfagnana era più che mai presente, ma non solo in senso metaforico, era anche la triste realtà dei fatti. La valle difatti era ormai un cimitero a cielo aperto, centinaia di morti di ogni fazione e di ogni nazione erano sparsi per tutto il territorio. Quei corpi di quei poveri soldati che gli eserciti non erano riusciti a recuperare, erano li ad attendere una degna sepoltura, a complicare poi la situazione era che buona parte di questi morti era disseminata sopra i campi minati. 

Adesso la limpida aria garfagnina era diventata aria fetida, l'odore acre dei cadaveri in decomposizione ammorbava l'aria e la terra, la salute pubblica era in pericolo e perdipiù, ospedali e dottori non erano pronti ad affrontare un eventuale emergenza sanitaria. La guerra era
I morti per le strade
finita da appena un mese e dalle pagine de "La Gazzetta del Serchio" partì il primo allarme: "Barga vive sotto la minaccia della propagazione di malattie infettive se entro quindici giorni non saranno rimossi quelle centinaia di cadaveri che giacciono insepolti sui campi minati. Il pericolo è enorme, addirittura terrificante, quando il povero medico locale non dispone di un solo chilogrammo di calce o di cloro". Gli appelli al Prefetto per bonificare l'intera valle si fecero pressanti da ogni dove, perfino gli alleati si rivolsero alla medesima autorità, dato che nei pressi di Gallicano furono rinvenuti una quindicina di morti civili parzialmente sepolti. Si scoprivano così ogni giorno nuovi morti e ogni giorno che passava la situazione diventava ancor più drammatica, vista poi anche l'inefficacia nell'affrontare la situazione delle cariche preposte:"...un grande disinfettante che non scarseggia in questa folgorante primavera, garantisce, ci aiuta e protegge come una provvidenza: il sole, eterno purificatore e distruttore degli invisibili", così sentenziò il medico provinciale, che con questa delirante giustificazione tentò di risolvere un grave problema, dicendo fra l'altro che il governo
Sminatori
centrale era già stato informato, che esisteva un rischio mine e che per il momento il rischio di epidemie non c'era. In conclusione la questione si stava "rimpallando" da un ufficio all'altro, le competenze per la mancata soluzione passavano da un'autorità all'altra e a risolvere la situazione ci pensò come sempre la povera gente. Un gruppo di ex partigiani della zona si adoperò a proprio rischio e pericolo (e gratuitamente) a recuperare questi poveri morti. Un lavoro immane fatto di sminamenti e rinvenimenti di salme putrefatte. Questi poveri morti venivano poi consegnati ai reparti brasiliani e americani, giunti a proposito sul posto. Gli altri cadaveri non identificati vennero tumulati nel cimitero di Pontardeto. 

Ma nonostante la guerra finita, la morte dai garfagnini voleva ancora il suo tributo, non bastavano quei cadaveri sparsi sulle montagne, la morte ne chiedeva di nuovi e magari ancora più giovani di quelli che aveva già preso. Ecco che allora un nuovo e stringente impiccio doveva essere prontamente risolto. Si calcola che fra il novembre 1944 e l'agosto 1945 gli addetti del nucleo artificieri di Lucca
Mine in Garfagnana
abbiano bonificato duecentomila mine, una quantità impressionante. Quei maledetti strumenti di morte portarono difatti a morte e a mutilazioni varie, sopratutto fra i contadini che accidentalmente zappando o arando il campo s'imbattevano in mine inesplose, tale sorte toccò anche a molti bambini che spinti dalla curiosità tipica di quell'età si mettevano pericolosamente a maneggiare questi pericolosi ordigni. Nonostante le bonifiche fatte i ritrovamenti di bombe continuarono ancora per diversi anni. I numeri delle vittime con il passare degli anni aumentarono in maniera importante, fra feriti permanenti e morti si conteranno più di mille persone. 
Anche da un punto di vista puramente sociale la situazione era completamente allo sbando, tutto il quadro sociale era infatti completamente da ricostruire, prima ancora dei ponti e delle strade. Eravamo di fatto quasi tornati ai tempi dell'Ariosto, bande di rapinatori e assassini vari circolavano nella valle in maniera libera ed impunita. D'altronde gli eserciti in ritirata avevano lasciato in circolazione armi di ogni tipo e foggia e chiunque, perfino i bambini se ne poteva impadronire tranquillamente, ma molte di queste armi non caddero in mano a dei bambini, di queste ne approfittarono
delinquenti di ogni risma e specie, in questa modo il rigurgito di violenza che si ebbe nella valle in quel periodo salì alle cronache di tutti i
Bambini su carro
armato abbandonato
giornali: furti, rapine e anche assassini avevano reso insicure le strade garfagnine, a fare le spese di tutto questo furono specialmente i commercianti che venivano regolarmente rapinati. A Ponteccio la rapina finì in omicidio, era il dicembre 1945 quando un uomo di Sillano uccise un venditore di Villa Minozzo (Reggio Emilia) per derubarlo di 7000 mila lire. Non ci furono purtroppo solo episodi sporadici come questo, difatti si formarono anche delle vere e proprie bande armate, fra le più famose c'era quella del Passo delle Radici specializzata a rapinare i camionisti che transitavano sul valico e su tutte aveva il predominio la cosiddetta "Banda Fabbri", le loro gesta arrivarono perfino ai media nazionali. Anche a Fornaci di Barga nei primi mesi del 1946 operava una banda che agiva in tutta la Valle del Serchio, rimasero alla memoria dei posteri svariati scontri a fuoco con i Carabinieri. Insomma, la Garfagnana era tornata ad essere terra di briganti di memoria ariostesca, tanto da essere diventata zona di rifugio per altre bande. Si parlò perfino che da queste parti avevano trovato riparo uomini facenti

parte la celeberrima "banda Giuliano",  che aveva a capo il famosissimo bandito Salvatore Giuliano, il "Re di Montelepre". Ma altri episodi di extra territorialità furono scoperti nel gennaio 1947. Al Sillico furono arrestati una donna del posto ed un prigioniero tedesco evaso, la loro attività era lo spaccio di medicinali provenienti dal deposito centrale di Livorno, dove erano stati rubati da altri membri della banda che aveva anch'essa diffusione regionale. In conclusione, come possono leggere i miei lettori, la violenza faceva da padrona e veniva perpetrata non solo dalle associazioni a delinquere, ma anche da gente comune che per questioni di scarso rilievo (come liti familiari o problemi di vicinato) non esitava a passare a vie di fatto commettendo omicidi o tentativi di omicidio.
Americani a Lucca
Le cose si risolsero gradualmente da una data precisa in poi... Era il 2 aprile 1948 quando gli Stati Uniti d'America vararono "l'European Recovery Program", meglio conosciuto come "Piano Marshall". L'America mise ha disposizione dei paesi europei qualcosa come 13 miliardi di dollari. Questi soldi permisero (anche) all'Italia di ricostruire le case, le strade, i ponti, di ripartire con le industrie e il lavoro, di comprare cibo e materie prime e di ristabilire l'ordine sociale. Dall'altra parte gli americani videro calare l'influenza comunista su tutta l'Europa e vide aprirsi una nuova finestra commerciale con i redivivi paesi europei. Finalmente grazie anche a questi aiuti tornò una certa
Manifesto dell'epoca.
Piano Marshall
prosperità, ma già all'orizzonte si prospettavano nuovi dubbi e nuove domande da rivolgere ai generosi Stati Uniti d'America: tutto ciò fu disinteressato altruismo o strategia per legare definitivamente l'Europa all'America? Dopo più di settant'anni dai fatti i cosiddetti "posteri" hanno già la risposta all'ardua sentenza...




Bibliografia

  • "La terra promessa" di Oscar Guidi. "Collana della Memoria", Unione dei Comuni della Garfagnana. Anno 2017

Quando la cronaca diventa storia: la scolaresca che rimase intrappolata nella "Tana che Urla"

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I soccorritori davanti alla Tana che urla
(foto tratta da "La Nazione")
Umberto Eco non trovò miglior definizione con cui descrivere un giornalista:-Il giornalista è uno storico del presente-. Infatti non sono rari i momenti nei quali un fatto di cronaca diventa storia. Tali notizie nel momento in cui certe vicende vengono pubblicate sui giornali sono storie personali, accadute a colui che ne è stato il protagonista e nel bagaglio personale del lettore non sono altro che fatti approfonditi di cui già magari aveva sentito parlare. Ma allora quand'è che un fatto di cronaca diventa storia? Quando storia e giornalismo s'incontrano giungendo allo stesso punto, restituendo al fatto di cronaca uno sfondo costruttivo, rifacendosi in questo caso ad uno dei principi di Sant'Agostino: "Qualsiasi evento storico per quanto nefasto possa essere, è posto su una via che porta sempre al positivo e che ha sempre un significato costruttivo".
E così è per questo fatto di cronaca che sto per narrarvi. Un'avvenimento che risale a trentaquattro anni fa, era il 25 gennaio 1986 e tutto accadde nelle selve sopra Fornovolasco. Forse molti se lo saranno dimenticato, i più giovani è probabile che nemmeno sapranno di quello che accadde ai piedi della Pania nella
(da "Il Tirreno)
celeberrima "Tana che urla". Quello che rimane di costruttivo 
in questa storia  è che la natura richiede rispetto, esperienza, non approssimazione e pressapochismo, anche perchè la sua forza e la sua eventuale violenza sono l'energia più potente del mondo. Ma veniamo ai fatti.
Come ormai è abitudine, da anni Vittorio Verole passa da quella strada ogni giorno che Dio mette in terra, d'altronde lui è il titolare della "Grotta del Vento" e le cose da fare per quell'attività sono sempre molte e come tutte le mattine eccolo transitare davanti a quello spiazzo che di solito è adibito a parcheggio macchine, proprio per quelle persone che vanno in gita sul Monte Forato o che vanno a far visita alla "Tana che urla". La Tana che urla per chi non ne avesse mai sentito parlare è una grotta carsica, orizzontalmente profonda 400 metri circa ed è famosa per le sue leggende e sopratutto per la sua valenza scientifica. Già il nome però è tutto un programma, poichè tradizione popolare vuole che mettendo le orecchie a questa grotta si ha l'impressione che una
L'ingresso della Tana che urla
 (foto di Emanuele Lotti)
moltitudine di voci provenga dalle sue profondità, talvolta sembra di udire canti melodiosi, altre volte urla strazianti, oppure bisbiglii sommessi. L'immaginazione della gente del luogo ha voluto che questa grotta fosse abitata da fantastiche fate o da terribili streghe. 
Mentre da un punto di vista scientifico "la tana" ha un notevole valore, perchè suggerì ad Antonio Vallisneri (nel 1704) la teoria del ciclo perenne delle acque, in cui lo scienziato italiano (di Trassilico) confutò la cosiddetta “teoria marina”,che  riteneva che l’acqua scaturita dalle sorgenti,fosse generata da quella marina penetrata in profondità, fatta evaporare poi dal calore interno. Dopo questa doverosa precisazione come si suol dire ritorniamo "a bomba" o meglio alla cronaca dei fatti. Infatti, la sera, quando Vittorio fa ritorno a casa nota ancora le medesime macchine nel solito parcheggio. Piove a dirotto però e
L'interno della Tana
(foto tratta da verde azzurro notizie)
ormai è buio, Vittorio non si sente tranquillo e una volta tornato a casa si cambia gli abiti e torna giù al parcheggio e sale proprio fino alla Tana che urla. Lo spettacolo è impressionante dalla bocca della grotta  migliaia di litri d'acqua vengono vomitati a tutta forza, probabilmente lo sciogliersi della neve ingrossa ancor di più il getto d'acqua, rimane il fatto, questo è il pensiero dell'uomo, che se qualcuno è entrato se non è morto è rimasto sicuramente bloccato.

Intanto la solita mattina del medesimo giorno i ragazzi della quinta D del Liceo Scientifico Vallisneri di Lucca si stanno preparando per una gita d'istruzione, d'altra parte è il fatidico anno dell'esame di maturità e gli studi vanno approfonditi, destino poi vuole che proprio quel 25 gennaio la gita ha come meta una di quelle grotte su cui ha fatto gli studi l'esimio scienziato garfagnino che ha dato il nome alla scuola dove i ragazzi studiano, fattostà che questo tipo
Lo scienziato garfagnino
 Antonio Vallisneri
di gite per un liceo scientifico sono tutto sommato all'ordine del giorno e nessuno si sarebbe immaginato che quella giornata di studio si sarebbe trasformata in 32 ore di vero inferno. L'avventura di quei ragazzi è cominciata il giovedì mattina, i giovani sono arrivati alla spicciolata, chi con il treno alla stazione di Barga-Gallicano, chi con le auto... intanto però già dalla mattina il cielo sopra la Garfagnana è
 sempre più scuro. Sono le undici del mattino ormai è tutto pronto per entrare nella grotta. Tutti presenti allora ! I dodici studenti (sette ragazze e cinque ragazzi) ci sono , il professore di scienze anche, le tre esperte guide del C.A.I idem, alla fine si aggiungono(per fortuna) ben sei speleologi. I ragazzi e gli accompagnatori quindi entrano e intanto fuori si scatena un furioso temporale di violente proporzioni. La lezione comunque sia è stata proficua ed interessante, gli speleologi hanno illustrato benissimo le caratteristiche di questa "tana", sono però le quattro del pomeriggio è l'ora di uscire, di far ritorno alla luce, anche perchè bisogna ritornare a casa, fra poco sarà buio pesto. A ogni modo per uscire dall'ampia camera della grotta, dove ora si trova la scolaresca c'è da attraversare un lungo corridoio(venti metri circa), o meglio una vera e propria strozzatura della caverna stessa, ma proprio nel momento che i gitanti stanno per affrontare il lungo corridoio si accorgono che questa strozzatura si è riempita velocemente d'acqua e ha bloccato inevitabilmente i ragazzi e gli
Sezione della tana che urla.
I punti cerchiati indicano
 il luogo dove erano
 intrappolati
i ragazzi e la strozzatura
 invasa dall'acqua

speleologi, è impossibile passare, il forte temporale che si sta abbattendo sulla valle e il conseguente aumento delle temperature che sta sciogliendo la neve della Pania sta facendo si che abbondanti fiumi d'acqua stiano per invadere in maniera inesorabile la grotta. In questo momento Vittorio Verole è davanti alla "Tana che urla", per lui non rimane che un'unica soluzione, telefonare in Prefettura e avvisare le autorità che sta per compiersi una tragedia, in concomitanza arrivano anche le prime segnalazioni dei genitori preoccupati, i loro figli non hanno fatto ancora ritorno... I soccorsi partono immediati e tutto così si trasforma in una corsa contro il tempo. Da La Spezia arrivano gli speleo-sub del Centro Luni, sono loro i primi a raggiungere la grotta, nel frattempo arriva anche il nucleo carabinieri sommozzatori di Genova, gli altri carabinieri nel contempo circoscrivono la zona, i vigili del fuoco nei pressi della "tana" piazzano luci ed idrovore. Il dubbio che rimane però è uno, saranno vivi o morti? Questo non importa ai soccorritori, loro ragionano sempre come se dovessero raggiungere persone in vita e così verso le due della notte i sommozzatori fanno il primo tentativo di recupero, si tuffano nell'ormai famosa strozzatura, niente, non ce la fanno, il primo tentativo è andato a vuoto. Si decide allora di far partire le idrovore, sono una decina, stanno funzionando a gruppi di tre, la loro forza è impressionante, stanno sputando fuori dalla grotta ottocento litri d'acqua al minuto, ma nonostante questo la strozzatura non si svuota. Intanto sono arrivati anche i genitori e i familiari dei malcapitati, anche i giornalisti sono giunti a Fornovolasco, sono tutti li al bar del paese in attesa di notizie.
Fornovolasco 
Ormai è l'alba e ancora piove a dirotto, la scenario è apocalittico, acqua e fango in ogni dove, è arrivato comunque il momento del secondo tentativo di salvataggio, nuova immersione e nuovo fallimento. Le ore passano e più passano le ore e più il pericolo di una fine infausta di questa vicenda cresce. Oramai è giorno pieno, anzi sono le dodici e trenta del 26 gennaio, un'ora e una data che questi ragazzi si ricorderanno per tutta la vita. A smesso di piovere, il sifone naturale della grotta si sta abbassando è il momento di partire con il terzo tentativo, finalmente i sub raggiungono i ragazzi nella camera della grotta, sono tutti sani e salvi, stanno tutti bene. La prima ad uscire  sarà una speleologa, sono le 17 e parte un lungo e spontaneo applauso da parte di tutti i soccorritori, parenti e giornalisti. Soltanto adesso c'è la sicurezza che la brutta avventura degli studenti finirà in modo lieto. Per far uscire tutti gli altri ci vorranno ancora tre ore, non è agevole superare quel cunicolo d'acqua, i carabinieri- sommozzatori hanno piazzato delle corde d'acciaio, una
Il momento del salvataggio
(immagine tratta da Rai news)
sorta di filo d'Arianna, che permette di fare spola, in modo così di accompagnare uno per uno tutti i componenti della scolaresca. Verso le otto di sera si potranno dichiarare chiuse le operazioni di salvataggio.

Tutto è bene quello che finisce bene e grazie a Dio e ai soccorritori tutti rimasero illesi. Quello che però stonò al tempo sulla vicenda fu l'inconsapevolezza e la superficialità di una parte dei protagonisti di questa vicenda. Così riportava il quotidiano "La Repubblica" il giorno 27 gennaio 1986: "I ragazzi sono usciti con l' aria tranquilla, sorridenti, anche se bagnati fradici e stanchi per le ore passate all'addiaccio, circondati soltanto da stalattiti. "Non abbiamo avuto problemi, tutto tranquillo", assicura con aria spavalda [omissis] che per secondo abbandona la "Tana che urla". Corre a cambiarsi in una tenda piazzata poco distante ma rifiuta, spavaldo, qualsiasi aiuto dai soccorritori" e ancora "No, non abbiamo avuto paura", ed infine, il giornalista e la gente si fecero la domanda delle domande: " In pieno inverno e con il tempo che minacciava temporali, era
Piccola cascata all'interno
della Tana
(foto tratta
da luoghidasogno.altervista.org)
proprio necessaria questa gita?"
.
 
Certe lezioni che la natura dà solitamente rimangono impresse tutta la vita e probabilmente a mente fredda così sarà stato per questi che al tempo erano dei ragazzi. Quello che è vero è che questa vicenda mi riporta alla mente un vecchio adagio che così dice "In natura non ci sono ricompense o punizioni; ci sono solo conseguenze"...


Bibliografia

  • "Bloccati nella grotta per 32 ore", "La Repubblica" 27 gennaio 1986 di Paolo Vagheggi

Viaggio nell'araldica "garfagnina". Il significato degli stemmi delle famiglie feudatarie di Garfagnana

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"Cavalieri, il sacro dono della libertà è vostro e ne avete
pieno diritto. Ma la dimora che sogniamo non è in qualche terra lontana, è in noi e nelle nostre gesta, in questo giorno. Se deve essere questo il nostro destino ebbene sia, ma che la storia non dimentichi, che come uomini liberi noi stessi lo abbiamo scelto".
Re Artù docet... 
Beh! Che dire, forse uomini liberi saranno stati i Cavalieri della Tavola Rotonda, perchè la società feudale del tempo, in barba a qualsiasi poema epico, era ben strutturata e alla libertà, alla povera gente concedeva ben poco. Per ben capire la società di quel tempo pensiamo ad una bella piramide, al vertice il re, al centro i feudatari e alla base i servi della gleba (i disgraziati...). La classe dei feudatari (quella che a noi oggi interessa) possedeva la terra ed esercitava il comando politico e militare, sostituendosi così alle funzioni dello Stato in tutto e per tutto. Il signorotto infatti amministrava la giustizia per tutti gli abitanti del villaggio, regolava le rendite dei raccolti, imponeva
tasse e pedaggi sulle strade e per non farsi mancare niente obbligava il villaggio a servirsi dei suoi mulini, dei suoi forni e delle sue taverne. Il "munifico" feudatario, onde mantenere tutti questi privilegi doveva giurare fedeltà assoluta al suo re (o imperatore o Papa che sia...), infrangere questo vincolo significava cadere nel reato di "fellonia", che era la colpa più grande che si  poteva commettere. Insomma, per mantenere sotto controllo tutto questo il micragnoso signorotto locale aveva bisogno di un segno distintivo per capire e sopratutto far capire agli altri "quello che è mio e quello che è tuo", ecco allora la nascita dello stemma. Lo stemma (detto anche "arma") ad onor del vero ha la sua genesi dall'esigenza di distinguere in maniera 
netta l'amico dal nemico in una eventuale battaglia. La sua maggior diffusione si ebbe sopratutto negli epici tornei cavallereschi e in epoca di Crociate. Il suo uso nel tempo, non servì solamente nel riconoscere una singola persona, ma si
distinse nell'identificare un'intera casata, una famiglia, trasformandosi poi in una vera espressione grafica del cognome, tant'è, rifacendosi alla suddetta regola del tempo "questo è mio", tali stemmi li possiamo trovare ancora oggi su case, palazzi, chiese, cappelle, tombe, mobili, gioielli e chi più ne ha più ne metta.
Il mondo degli stemmi d'altronde è un mondo complicato ed intricatissimo e tanto per dare un'infarinatura sull'argomento oggi affrontato, possiamo fare un veloce distinguo. Gli stemmi si dividono oggi come allora in due principali categorie: gli stemmi gentilizi, che sono quelli delle famiglie insignite di nobiltà titolata (re, principe duca, conte, Signore, Nobile e così via) e gli stemmi di cittadinanza (che in Garfagnana sono molti più di quello che si pensi), che sono posseduti da oltre cent'anni da famiglie che pur non essendo di nobili origini si sono distinte per censo, ceto o cariche ricoperte.
Dopo questo velocissimo excursus non ci rimane allora che intraprendere un viaggio negli stemmi delle famiglie feudatarie più rappresentative di tutta la Garfagnana. Erano loro che comandavano, erano loro che facevano il brutto e cattivo tempo nella valle e tutto sotto l'egida dei loro stemmi(gentilizi). Non erano stemmi creati a caso, ognuno aveva il loro significato: colori, animali, alberi, castelli, croci, ogni simbolo e ogni disegno aveva un perchè.
La famiglia dei conti Castracane degli Antelminelli aveva a capo il famoso condottiero Castruccio Castracani duca di Lucca, ebbe
possedimenti nella Media Valle del Serchio: Bagni Lucca, Ghivizzano e Castelnuovo Garfagnana, dove nel 1300 ampliò notevolmente quella che oggi è la Rocca Ariostesca. Il suo stemma è un levriero rampante, cane che simboleggia la caccia e quindi l'animo costante di seguire l'impresa, i colori invece sono l'azzurro del cielo, colore che rappresenta la gloria e l'argento a simboleggiare la purezza, l'innocenza e la giustizia.
Huscit, Teudimundo e Fraolmo, sono solo alcuni discendenti della casata dei Nobili di Corvaia, famiglia di origine longobarda che governò anche su Gallicano. Difatti prima del galletto rampante gallicanese, ai tempi di questa famiglia, lo stemma imperante in zona era un castello di rosso torricellato, fondato su un monte a tre
cime. Il castello era emblema di un'antica nobiltà, nonchè simbolo di un'arcaica podestà feudale, il monte poteva avere invece un doppio significato, poteva indicare proprietà montane o più filosoficamente parlando era simbolo di grandezza, sapienza e nobiltà.
Con poco sforzo di fantasia abbiamo anche tutta una serie di famiglie feudatarie "garfagnine" che prendono il nome proprio dal loro fondatore, una di queste è la famiglia dei Gherardinghi, casata (addirittura) di stirpe reale. Pare che le origini siano da far risalire ad Ariperto, nono re dei Longobardi, da cui sarebbe poi disceso Gherardo, vero capostipite della famiglia in questione. Già prima dell'anno mille i Gherardinghi esercitavano una solida egemonia su tutta la Garfagnana: San Romano, Sillicagnana, Naggio, Petrognano, Vibbiana, Pontecosi, il
Sillico, Bargecchia e perfino in territori più lontani come Sommocolonia e il Gragno. La loro opera delle opere rimase però la costruzione de "La Vericla Gerardenga", meglio conosciuta oggi come la Fortezza delle Verrucule. A cotanta famiglia non poteva mancare uno stemma dalle figure importanti, infatti qui è protagonista una testa di drago coronata, su fondo azzurro. Il favoloso animale rappresenta la fedeltà, la vigilanza e sopratutto il valore militare, la corona sopra la sua testa ribadisce il grado di nobiltà della stirpe.
Rodilando III non poteva che essere il patriarca dei Rolandinghi. La fortuna di questa casata si ebbe quando nel lontanissimo 935 Corrado, figlio di Rodilando fu eletto vescovo di Lucca... Vi potete immaginare quali furono i nepostici vantaggi... I possedimenti della famiglia si allargarono in buona parte della Valle del Serchio
e in Garfagnana: Vergemoli, Barga, Mologno, Coreglia, Gallicano, Ghivizzano, Bolognana e Cardoso. Il loro dominio veniva esercitato dalla "Domus Rolandinghorum de Loppia" situata nei pressi della Pieve omonima. Di fronte a tutta questa autorevolezza non poteva essere che l'aquila a padroneggiare sull'arme della casata: potenza, vittoria e fedeltà all'impero il suo senso.
"Discendenti da Suffredus", individuati nella persona di Sigifredo di Cunimondo, loro sono i Suffredinghi. Una serie di matrimoni combinati con le maggiori casate di tutto il circondario le portarono ad essere una famiglia potente e ricca. Le proprietà comprendevano la Rocca di Mozzano, Anchiano, La Cune, Chifenti Fornoli, Corsagna fino ad arrivare ai
possedimenti garfagnini di Gorfigliano e Careggine. Anche qui l'aquila imperiale fa mostra di sè sullo stemma.
Come abbiamo letto ci sono casate che prendono il nome dal loro fondatore, altre ancora, nel loro stemma richiamano il nome della propria famiglia, è il caso della stirpe dei Porcaresi che esercitava il suo dominio in buona parte dell'attuale provincia di Lucca. Infatti la loro nobile origine era nella piana di Lucca, erano comunque titolari di un notevole patrimonio terriero: oltre che a Lucca e in Versilia, la famiglia aveva un feudo anche in Garfagnana e Trassilico era la sua "capitale". Tale feudo comprendeva anche Cascio, Verni e tutte le zone limitrofe. Il nome di questa dinastia è abbastanza eloquente nel
descrivere lo stemma di lor signori: troncato di rosso e d'argento, a due cinghiali affrontati. Se al tempo i nemici di questa famiglia vedevano il nostrano animale su scudi e vessilli c'era da che preoccuparsi: caccia e coraggio, unito alla ferocia è il suo significato.
Che dire infine dei Malaspina... Qui le particolarità da analizzare nello stemma sono due: lo spino rappresentato nell'arme riporta proprio al nome della casata stessa. La seconda particolarità è da ricercare nelle numerose divisioni fra i discendenti di cotanta famiglia. La casata si divise in due feudi: il feudo dello Spino Secco e il feudo dello Spino Fiorito (quello che aveva proprietà anche in Garfagnana), di qui anche gli stemmi diventarono
due, in uno sarà  rappresentato uno spino secco, in un altro uno spino fiorito. Che significato dare a questo stemma allora? Non è facile trattare l'arme del casato Malaspina, ma se vogliamo dargli un senso possiamo dire che una pianta selvatica nel proprio stemma è simbolo d'indipendenza.
Il viaggio nei nobili stemmi garfagnini finisce qui. A me non rimane che chiedere venia agli intenditori e ai professionisti di tale materia per la mia superficialità nell'aver affrontato l'argomento. Non mi rimane che la speranza di aver stimolato l'interesse e la curiosità in qualcuno
dei miei lettori, in modo che si appassioni ad una disciplina avvincente e stimolante come l'araldica.



Bibliografia 
  •  "Blasonario della Garfagnana", Francesco Boni de Nobili, Banca dell'identità e della Memoria, anno 2007 
  • "La simbologia araldica" www.portalearaldica.it

Il mulattiere, le mulattiere, il mulo e il loro Re. Storia di un antico mestiere garfagnino

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Denigrato, offeso, screditato e spesso infamato..."Sei duro come un mulo !", così si dice quando ci si vuol riferire ad una persona cocciuta e ostinata, o sennò quando si vuol parlare di un individuo ricco caduto in disgrazia il modo di dire è "ha preso il calcio del mulo". Insomma una miriade di espressioni che da tempo immemore hanno condannato il povero mulo ad essere considerato uno fra gli esseri più stupidi e poco considerati di tutto il regno animale. Eppure il mulo ha segnato la vita dell'uomo come pochi altri esseri viventi. Già nell'antica Illiria il mulo era diffuso ed allevato dai contadini del luogo. Nello stesso tempo la sua utilità si diffuse ben presto in tutte le zone del Mediterraneo, nell'Africa e in tutti i territori circostanti, arrivando perfino a colonizzare il Nuovo Mondo. La sua

robustezza, l'adattabilità, le sue poche pretese (se non un po' di fieno e di biada) e la difficoltà con cui era vittima di malattie lo fecero diventare un compagno inseparabile dell'uomo. Il meglio di sè lo potè dare però nelle due guerre mondiali, amico indivisibile del soldato già nella I guerra mondiale, fino a dopo gli anni '40 questo animale da soma sarà parte integrante ed insostituibile di tutti gli eserciti. In ogni esercito il mulo mostrò il suo valore, ed anche per le truppe del nostro paese costituì un aiuto notevole, diventando un compagno di viaggio insostituibile per ogni soldato. "Soldato a quattro zampe" era considerato questo prezioso animale che, durante le dure battaglie era in grado di donare il cuore ai propri compagni umani i quali, a loro volta, si affezionavano a tal punto al loro mulo da piangerne la morte, come avrebbero fatto per qualsiasi altro commilitone.
D'altronde l
a sua rusticità, la resistenza e la capacità incredibile di poter affrontare con tranquillità anche i sentieri di montagna più impervi, lo avevano reso indispensabile per gli spostamenti dei soldati di montagna. Basti pensare che un solo mulo era in grado di trasportare il carico di tre uomini, lungo salite impervie ed aspre e senza mai dare un segno di cedimento. Proprio per queste sue arcaiche caratteristiche divenne il protagonista assoluto di uno dei mestieri più antichi di tutta la Garfagnana: il mestiere del mulattiere. Un'antico lavoro questo che raccoglieva svariate mansioni ed incarichi. Il lavoro primario del mulattiere consisteva nel trasportare la legna, ma non solo, il mulattiere aveva anche il compito di fare il tassista, "il postino" (recapitare lettere o messaggi da un paese ad un altro), nonchè
scambiare merci e rifornire le botteghe dei paeselli sperduti per la montagna garfagnina. Già la montagna...Ecco, un altro merito che va a coloro che intrapresero questo mestiere fu proprio quello di anticipare 
lo sviluppo delle attuali reti stradali nella valle, furono proprio i mulattieri a creare nuove strade e nuovi sentieri per le impervie montagne nostrane, seguendo stretti e ripidi percorsi, attraversando fiumi e valloni, valicando passi montani, il mulattiere arrivava dappertutto creando di fatto nuovi viottoli che con il tempo diventarono vere e proprie strade, quelli che ancora oggi sono rimasti sentieri sono ancora quei primitivi cammini che  portano ancora il nome di "strade mulattiere". Antiche, antichissime, oserei dire queste vie, tant'è che in tempo di dogane il mulattiere ne inventava e ne creava ancora di nuove,
cercando di evitare così gli esattori preposti al controllo delle strade, eludendo in questo modo il pagamento dei dazi sulla merce che trasportava. Anche da un punto di vista puramente sociale l'apporto dei mulattieri fu fondamentale nella crescita della vecchia Garfagnana di un tempo, loro era il compito di trasportare la legna che sarebbe servita poi a fare le traversine della tanto sospirata linea ferroviaria Lucca- Aulla(n.d.r:primi anni del 1900), sempre merito loro era se i forni dei nostri paesi venivano riforniti di legna da ardere per fare il pane che avrebbe sfamato i garfagnini, lavoro duro questo, l'approvvigionamento dei forni doveva essere costante, per la cottura del pane servivano una dozzina di fascine al giorno, lo sforzo del mulattiere veniva ripagato dal fornaio con quel pane. E sempre loro era il merito di trasportare neve e ghiaccio dalle Apuane per mantenere fresche le vivande dei commercianti che avevano il negozio a valle. Non da meno fu il loro apporto (quando arrivò poi la ferrovia)
nel trasportare dalla stazione i primi villeggianti nei luoghi di vacanze. Quello che poi si sobbarcava però tutti questi pesi era il mulo, che nonostante ciò veniva tenuto dallo stesso mulattiere in maniera impeccabile, costantemente ben curato, pulito e nutrito. 
Il mulattiere prestava attenzione e cura verso il mulo, quest’ultimo era una risorsa e il sostentamento per la famiglia. Quando il mulo per svariati motivi veniva a mancare era un vero e proprio dramma! L’animale veniva preparato con cura per il trasporto: si cercava di mettere la paglia sotto la sella per evitare la formazione di piaghe da decubito sul suo dorso, il pelo era sempre ben curato strigliato e pulito quotidianamente, la criniera veniva accorciata, gli zoccoli venivano curati, si poneva anche un telo impermeabile arrotolato per coprirlo in caso di pioggia. A volte poteva succedere che la bestia si azzoppava o si feriva, era compito del mulattiere
curarlo preparando una miscela di olio bollito e cenere di paglia, per cicatrizzare. Se l’animale aveva un problema alle gengive e non poteva mangiare era premura pulirle con un legno appuntito, così che l’infezione non creasse danno. D'altra parte lo sforzo che doveva fare l'animale era enorme, e la sua cura era indispensabile. Il carico per ogni bestia era circa di due quintali, e il carico dei muli era un'operazione che richiedeva una sequenza di complesse azioni, bisognava infatti valutare 
ad occhio quanta legna o quanta merce poteva trasportare un dato animale(il peso variava se l'animale era giovane o adulto), ed inoltre bisognava avere la capacità di bilanciare i pesi sui fianchi del mulo stesso, sistemare bene la legna e la merce in modo che non cadesse a terra era un'altra operazione da fare con cura. Infine, solo nel caso in cui l'animale trasportava legna, l'arte sopraffina era il modo in cui legarla sulla bestia, tale nodo infatti veniva fatto in
modo che con un semplice strattone della corda tutto il carico cadesse ai fianchi dell'animale. Insomma un mestiere antico quanto la nostra stessa valle, e a quanto pare in tutto questo lungo arco di tempo la Garfagnana ebbe fra la sua gente proprio il 
"Re dei mulattieri", così si diceva da queste parti, chi si era aggiudicato questo fittizio titolo non se l'era aggiudicato senza un valido motivo. Secondo "vox populi", lui e il suo mulo avevano compiuto(a piedi) ben quattro volte il giro del mondo. Tale calcolo venne fatto dai paesani, dal momento che, tutti i giorni che Cristo mise in terra per ben 40 anni (dal 1915 al 1955), questa persona percorse quotidianamente il tratto San Pellegrinetto- Gallicano. Tutto questo bastava ed avanzava per concedergli cotanto titolo onorifico. La sua "maestà" si chiamava Oliviero Mancini, nato nel 1905 nel suddetto paesello nel comune di Fabbriche di Vergemoli. Iniziò il lavoro di mulattiere sostituendo il fratello Modesto (che gestiva la


bottega di famiglia), morto durante la prima guerra mondiale. Al tempo a San Pellegrinetto gli abitanti erano ancora numerosi e le strade (purtroppo) ancora inesistenti, quindi toccava ad Oliviero partire prima dell'alba dal piccolo borgo e giungere a Gallicano per rifornire la bottega di famiglia e conseguentemente
Oliviero Mancini
garantire sussistenza a tutto il paese. Partiva alla testa di tre muli (ne possedeva 18), gli animali erano carichi di legna, frutti di bosco, suini macellati, panetti di burro, merce che una volta arrivato a Gallicano scambiava con altra ancora. Si raccontava che il suo arrivo, verso le dieci del mattino, era annunciato dallo schioccar di frusta, un suono di festa che faceva accorre tutti i bimbi in piazza Vittorio Emanuele II, non mancava nemmeno l'occasione che questi bimbi facessero un giro a cavalcioni del mulo. Verso le 15 del pomeriggio, dopo essere passato in trattoria, bevuto "du' bicchierotti di rosso" e fatto una partitina a briscola, Oliviero, all'ennesimo suono delle fruste salutava e ripartiva con i muli carichi di merce nuova per il lontano paesello, che raggiungeva solamente quando era già buio. 
Antichi mestieri, antichi modi di vivere. Storie che ci sembrano uscite da libri di fantasia, racconti talmente incredibili che quasi sembra che non siano mai esistiti... Provate a leggere questo articolo ad un bambino, vi guarderà negli occhi e vi ascolterà come se stesse ascoltando una favola... Ma ditegli che una favola non è, è storia vera, storia della nostra Garfagnana.


Bibliografia 

  • "Profili di uomini illustri della Valle del Serchio e della Garfagnana" di Giulio Simonini, Banca dell'identità e della memoria, anno 2009

Dalla poesia alla realtà. Ecco chi era il piccolo Valentino "pascoliano"

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Li abbiamo sempre letti, li abbiamo scrutati, ascoltati,spesso ci siamo immedesimati nelle loro gesta, nelle loro emozioni e sensazioni

Valentino
e non mancava nemmeno l'occasione di immaginarceli fisicamente: il loro viso, il corpo, gli occhi, tante volte siamo arrivati perfino ad innamorarcene. Sono loro, sono i personaggi letterari. Quei personaggi che fanno parte del mondo dei romanzi, delle poesie o anche di semplici racconti. Gli scrittori e i poeti li hanno plasmati secondo la loro fantasia e creatività, magari creandogli ad hoc tratti somatici inconfondibili e caratteristiche caratteriali particolari. Tante volte però questa fantasia intrinseca dello scrittore ha lasciato spazio alla realtà, o perlomeno la realtà stessa è stata fonte d'ispirazione. Ecco allora che il personaggio di Alice... quella del Paese delle Meraviglie per capirsi, esisteva veramente e aveva un nome ed un cognome, nella realtà si chiamava Alice Liddel, era una bambina di sette anni e viveva ad Oxford vicino Londra, l'unica licenza che si prese Lewis 
Alice Liddel...
la vera Alice
Carrol fu quella di trasformare Alice in una dolce bambina bionda, in verità era castana. Che dire sennò di Sir Arthur Conan Doyle? Il suo Sherlock Holmes fu ispirato da un certo Joseph Bell. Bell era un professore in medicina, Doyle rimase notevolmente impressionato dalle sue capacità deduttive ed investigative, infatti il professore era collaboratore con la polizia come medico forense. Lo stesso Zorro, (che non è un'invenzione cinematografica ma bensì letteraria) è un personaggio realmente esistito. Johnston Mc Culley prese spunto da Joaquin Murrieta, noto come il Robin Hood di Eldorado, salito alle cronache del tempo (1919) come un bandito in cerca di vendetta, dopo che moglie e fratello furono uccisi per la falsa accusa di aver rubato un mulo. Diverso è il discorso se si parla di poesia, il poeta prende spunto per i suoi personaggi quasi sempre da soggetti realmente vissuti e quasi mai trasfigurati nella(sua) fantasia, poichè queste persone sono per loro fonte di tutta una serie di sentimenti ed emozioni, che sono il motore trainante della poesia stessa. Nonostante che tali persone siano realmente vissute la nostra fantasia non ci ha impedito di immaginare il viso di una qualsivoglia musa ispiratrice, e allora, quante volte abbiamo pensato a come poteva essere il volto e il corpo di Silvia di leopardiana memoria?
"Slvia rimenbri ancor quel tempo della tua vita mortale quanta beltà splendea..." , chissà come sarà stata cotanta bellezza... Anche il sommo Dante ha reso per sempre immortale nel nostro immaginario una gentil donzella con un semplice verso: "Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand'ella altrui saluta...". Lei era Beatrice.
Nemmeno nella nostra valle ci siamo fatti mancare dei personaggi del genere. Il personaggio in questione è talmente noto che ormai è quasi centoventi anni che stimola la fantasia e l'immaginazione (e lo studio...) di generazioni e generazioni di scolari italiani. Al solo inizio di quella poesia, l'idea va al viso di quel bambino: "Oh
Valentino vestito di nuovo, come le brocche del biancospino..
.". Quante volte questo componimento sarà rimbalzato nelle nostre teste e quanto volte ci saremo detti... Ma Valentino chi era???... Valentino, tanto per cominciare era il vezzeggiativo del suo vero nome. Il nome Valente su un bimbetto così gracilino ed umile sarebbe stato di troppo peso. Valentino viveva a Castelvecchio con la sua famiglia, composta dal papà Giovanni detto "il Mère", la mamma Chiara e quattro fratelli: il Tonino, la Carolina, l'Amabile e l'Augusto. Valentino era il più piccolo. La famiglia Arrighi, questo era il cognome di Valentino, viveva una dura vita, era difficile tirar su cinque figli per quei genitori, ma il lavoro di mezzadro del Mère nella residenza dei Cardosi- Carrara sul
La famiglia Arrighi
nel cerchietto
rosso Valentino
colle di Caprona permetteva quanto sarebbe bastato per sfamare tutti i componenti della famiglia... ma niente di più però ! Oramai erano anche diversi anni che la famiglia Arrighi lavorava duramente la terra dei Cardosi- Carrara, gli accordi erano chiari, ogni raccolto veniva diviso equamente, con libertà di vendita dei prodotti della terra da parte del Mère, tutto sancito alla vecchia maniera, con una stretta di mano. Il 1895 portò però a Valentino e a tutta la sua famiglia una novità inattesa:-
 “Ho deciso di vendere tutto, Mére: campi e casa. C’è il professor Pascoli che sarebbe disposto a comperare. Tu, intanto, se ha bisogno di qualcosa, dagliela pure: latte, formaggio, uova. Dopo, semmai, ci rifaremo. Hai inteso?”. Così sentenziò il Carrara... Così la proprietà andrà in affitto al professore fino al 1902. Nel 1902 con i soldi ricavati dalla vendita di alcune medaglie d'oro vinte nei concorsi letterari il Pascoli acquistò la casa, portandosi dietro, così come si raccomandò l'ormai vecchio proprietario, i vecchi contadini:"considerati a Castelvecchio gente alla buona, onesta e senza chiacchiere". Da allora Valentino e la sua famiglia diventeranno parte integrante della vita del Pascoli. Il bambinetto, come tutti i suoi coetanei dell'epoca, viveva una vita grama, semplice ma felice, i suoi compiti erano quelli di aiutare il padre in quello che poteva. Ma fu nell'approssimarsi di una Pasqua che il poeta notò quel bimbetto scorrazzare per i suoi campi, il suo osservare dalla finestra dello studio ispirò i versi che renderanno immortale Valentino nella storia della letteratura italiana. Il Gian Mirola (noto giornalista garfagnino) "fotografò" con la sua fenomenale penna quei giorni.
Un giorno, dunque, il Mére disse alla moglie: “Oh Chiara, non ti sembra che quel moccioso abbia bisogno di essere rivestito?” Eh, lo so anch’io, purtroppo!” rispose, un po’ seccata la buona donna. “Qualcosa gli ci vuole, ma…” e continuò a rimestare nel paiolo la
Valentino e
la mamma Chiara Mazzarri
semola da dare alla Bianchina.
“Ma qualcosa gli ci vuole!…” ripeté il Mére tentennando il capo. Ma, lì per lì, non seppe neppure lui come risolverla. Palanche non ne aveva e bisogni in casa ce n’erano tanti da cavare gli occhi. Intanto- continuò la Chiara- non abbiamo una palanca per far cantare un cieco. Fra un mese e mezzo è Pasqua. Ed io come glieli compro una giacchetta ed un paietto di calzoni al Valentino?”. Poi ci ripensò meglio; si sa, il bisogno spinge. Ed ecco che una bella mattina, quando il Mére era già nei campi a legar viti, la Chiara spazientita spacca il salvadanaio, conta gli spiccioli, si aggiusta alla vita il pannello delle feste e, via, se ne va a Barga, dal Carrara che gestiva un negozio di pannine.“Sor padrone, ho bisogno di qualcosa”Sono contento di servirvi, Chiara. Di che cosa avete bisogno?” “Due cencetti per Pasqua. Da spendere poco, vè! Che le palanche, da casa nostra, se ne son ite!” “Ma non vi preoccupate, scegliete pure!”. La Chiara scelse e pagò fino all’ultimo centesimo. Poi andò dalla Filomena, che cuciva per  donne e anche per ragazzi. “Zitta, non lo dire, veh! E’ una sorpresa” e tirò fuori la stoffa acquistata dal Carrara. “Vorrei che tu ci facessi un vestitino al mio Valentino. Due zoccoletti, prima di Pasqua, glieli comprerò. Ho due galline: se non mi coveranno tanto presto…” (Voleva dire: se faranno delle uova, le venderò, ci comprerò gli zoccoli). Invece tutti sappiamo come andò a finire. Le galline chiocciarono e la Chiara non potè più vendere un uovo. Valentino ebbe così il vestito ma non le scarpe...

Poi, le galline chiocciarono, e venne
marzo, e tu, magro contadinello,
restasti a mezzo, così con le penne,
ma nudi i piedi, come un uccello

Venne il giorno di Pasqua. Sole meraviglioso, voli, trilli di rondini. Valentino uscì di casa, scese le scale, arrivò sulla piazzetta un po’ impacciato nei movimenti a causa del vestito nuovo.

Oh, Valentino, vestito di nuovo!” si udì esclamare.

Si arrestò di colpo. Voltò gli occhi a destra, a sinistra, in alto.Guardò verso la casa del professore: il poeta affacciato alla finestra sorrideva. Il ragazzo abbassò il capo, diventò rosso rosso. Poi, via, di corsa a rifugiarsi in casa. Il Pascoli invece, rimase a lungo a guardare dalla finestra, muto. Lungo i borri dell’Orso, trale siepi dei biancospini fioriti penduli sull’acqua trasparente, le allodole, le cince, i pettirossi cinguettavano lieti alla primavera. Proprio come il bimbo del Mére e della Chiara, proprio come

Valentino: lui pure saltava, correva, ignaro se al mondo potesse esistere una felicità più grande della sua... anche senza gli zoccoletti. Così nacque una delle poesie più delicate del Pascoli. Tutti questi personaggi, la vita campestre e questa degna miseria non furono solamente trascritte su carta, lo stesso poeta imprigionò la memoria sulla sua nuova macchina fotografica Kodak. La macchina fu un regalo dei fratelli Orvieto per ringraziarlo della sua collaborazione a "Il Marzocco". Il Pascoli rimase talmente affascinato dal suo nuovo marchingegno che iniziò a battere le campagne di Castelvecchio fotografando a destra e a manca, fra questi scatti non mancarono la Chiara e... Valentino vestito di nuovo.Purtroppo finì anche il tempo delle belle poesie e delle stupende 

Due fratellini di Valentino

fotografie e i fatti (purtroppo) presero la direzione verso i più biechi sentimenti umani. Le vicende che seguiranno, segneranno in modo indelebile la vita di Valentino. "Ora quella gente, prima amica e servizievole nella previsione di un licenziamento con conseguente sfratto, si era messa a far tutti i dispetti e tutte le minacce". I rapporti fra la famiglia di Valentino e Giovanni Pascoli con il tempo si erano deteriorati, una serie di incomprensioni avevano  portato a paventare il licenziamento del Mère, non solo, tutto ciò avrebbe causato anche la cacciata dalla "chiusa", infatti Valentino e la sua famiglia abitavano all'interno della villa stessa del poeta. Lo strappo definitivo ad ogni buon rapporto lo dette comunque l'episodio di una bicicletta danneggiata. Difatti le cronache raccontano che il Pascoli ricevette in casa l'amico Alfredo Caselli e come si conviene alla buone maniere del tempo era buon uso offrire sigari durante una piacevole conversazione fra amici, ma i sigari in casa erano terminati... Fattostà che il poeta mandò di corsa il Tonino (fratello di Valentino) a comprare i sigari all'osteria in Campia: -Prendi la mia bicicletta nuova Tonino, non perdere tempo. Vai!- esclamò il poeta. Giunto ad una curva il malcapitato Tonino per evitare un ostacolo cadde rovinosamente a terra, il bimbetto "si sgusciò" le ginocchia e la bicicletta si rovinò su un pedale. Questo bastò al Pascoli per alimentare ancor di più i suoi sospetti su eventuali dispetti ed angherie da parte famiglia Arrighi. Per placare ogni irriguardoso sospetto non fu nemmeno sufficiente che la Chiara si offrisse di riparare a sue spese la bicicletta, il Pascoli rifiutò. Insomma, con la rottura della bicicletta, avvenne la definitiva rottura del rapporto con il Mère. Arrivò così il 1903 e la famiglia di Valentino fu sfrattata in maniera irremovibile. Naturalmente gli strali di questa vicenda non terminarono con il licenziamento, il Pascoli lamentava ancora parole grosse nei confronti del Mère, d'altronde aveva dovuto sborsargli una bella sommetta per "liquidarlo" (si parla di 240 e più lire), in più le frecciatine del poeta continuarono, definendo la famiglia  Arrighi, la famiglia "Chiari", riferendosi appunto a colei che tirava le fila della gestione familiare. La questione, come è logico che fosse stato in un piccolo paese, si ripercosse anche sui paesani, che senza se e senza ma parteggiavano per il contadino. A riguardo il Pascoli ricordava così (in una lettera al Caselli) il momento della partenza dal Colle di Caprona del Mère: "Oggi una grand
Momenti di vita contadina
 a Castelvecchio

e dimostrazione con bandiere e evviva altissime è passata sotto le mie finestre accompagnando il Mère. È una dimostrazione contro di me. Sento le grida feroci che accompagnano il ladro, il birbante tagliatore d’alberi e di viti, il mascalzone, che da più di un anno avvelena l’esistenza del poeta di Castelvecchio"
. Immaginiamoci noi, in tutta questa diatriba, cosa avrà pensato Valentino? Prima musa ispiratrice ed adesso figlio dell'acerrimo nemico del poeta stesso. Purtroppo come capita in questi casi (ed in altri ancora) i bambini sono testimoni passivi delle "opere" degli adulti, dovendo poi subire inermi e senza colpa le conseguenze di ciò. Così infatti capitò a Valentino. Il Mère, ormai anziano, difficilmente avrebbe trovato un nuovo lavoro come mezzadro e così fu. La miseria quindi divenne ancora più miseria e la disperazione ancor di più disperazione. La Chiara (anche lei anziana) e i figli dovettero rimboccarsi ancor di più le maniche quando poi nel 1907 Giovanni Arrighi alias Mère morì... La situazione quindi si complicò terribilmente, le prospettive di
Valentino Arrighi a 19 anni

lavoro e sviluppo nella valle per dei ragazzi come Valentino erano pari a zero, e per lui questa non era vita. N
on rimaneva allora che un'unica soluzione, emigrare, andar in cerca di fortuna per "le lontane Meriche", destino comune a migliaia di garfagnini in quel tempo. Valentino partì e si stabilì a Cincinnati (Ohio), a quanto pare divenne un fine decoratore, non diventò però nè un magnate influente e nemmanco un ricco signore. Con il sacrificio e il duro lavoro si creò però una posizione dignitosa, quanto bastava perchè in casa sua un paio di scarpe non mancassero mai...


Bibliografia

  • "Pascoli e i Mere" BARGANEWS .com 22 febbraio 2012
  • "Lungo la vita di Giovanni Pascoli" memorie curate ed integrate da Augusto Vicinelli di Maria Pascoli , edizioni Mondadori 1961
  • Le foto riguardanti Valentino e la sua famiglia sono tratte dall'archivio Pascoli http://www.pascoli.archivi.beniculturali.it/index.php?id=106

Ricette garfagnine in tempo di guerra. Quando la fame si faceva veramente sentire...

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C'è poco da fare signori miei, facciamoci caso... Oggi tutto quello

che è moda e tendenza, una volta era pura necessità, specialmente se si parla di cucina. Di questi tempi tutti quei piatti cosiddetti gourmet e raffinati che sono tanto in voga in televisione e nei ristoranti, all'epoca facevano parte della denominata "cucina povera" e perfino la filosofia del "riciclo"è diventata un vero must nei ristoranti stellati. Adesso con del pane raffermo o con la pasta del giorno prima, per non parlare della polenta avanzata, nascono piatti prelibatissimi e sopratutto (nei suddetti ristoranti) vengono fatti pagare carissimi. Insomma, stiamo parlando della cucina dei "tempi andati". Ad onor del vero tanto tempi andati non sarebbero, perchè il periodo storico di cui voglio parlarvi le nostre nonne se lo ricordano benissimo e vi sto parlando di uno dei periodi più duri e bui della nostra storia: la seconda guerra mondiale. Fu proprio in quel periodo, dove fra un bombardamento anglo americano e una requisizione dei tedeschi che le nostre care nonne "inventarono" quei piatti oggi tanto di moda. Al tempo però della moda non fregava niente a nessuno, bisognava mangiare e fare con quel poco
che era a disposizione. I garfagnini se si vuole erano più "fortunati" di coloro che vivevano in città, molte delle loro cibarie provenivano dalla natura stessa, nonostante ciò bisognava lavorare molto di fantasia e creatività per tirare fuori dei piatti accettabili, d'altronde la guerra e la famosa necessità aguzzavano l'ingegno. Quell'ingegno stesso che era poi condizionato dalla celeberrima carta annonaria, che non era altro che quella tessera nominativa che in tempo di guerra consentiva agli italiani di prenotare il cibo da un negoziante di fiducia. Pasta, farina, riso, non più di due chili a testa ogni due mesi. Ogni volta che ci si recava dal bottegaio, il negoziante staccava la cedola di prenotazione dell'alimento ordinato, bisognava però  avere sempre bene in mente lo slogan del regime... "Se mangi troppo derubi la Patria"... In barba a queste cervellotiche propagande, il problema qui non era mangiare
troppo, il problema consisteva nel mangiare, punto e basta e di conseguenza cucinare con quel poco che si poteva rimediare, privandosi del burro, dell'olio d'oliva (a consumo ridotto), così come dello zucchero, per non parlare della carne da consumare a giorni prefissati. Eppure i garfagnini riuscivano ad ovviare alle ristrettezze alimentari con una buona dose di immaginazione, tirando fuori semplici ma sostanziosi piatti. Uno di questi piatti era la minestra di patate. Le patate e le minestre in tempo di guerra avevano due grossi pregi. Il primo era che le patate erano di facile reperibilità, di poco costo e ottimo valore nutriente. Il secondo pregio consisteva nel fatto che le minestre o le zuppe potevano essere "allungate" all'infinito. Difatti uno degli svantaggi di questo piatto era che poteva venire a noia ai commensali di turno. La Beppa di Gallicano a riguardo ricordava un episodio di quando (ri)presentava
per l'ennesima volta tale pietanza alle figliole. Le bambine entravano trafelate in casa: - Mammma, mamma ieri sera abbiamo mangiato la minestra con le patate bollite, oggi che si mangia?- e la madre:-Bimbe, oggi cucino per voi una prelibatezza unica. Vedrete che vi piacerà! Oggi per pranzo c'è la minestra con le patate lesse...- Solo questo semplice episodio racchiude tutto il pensiero di quello che significava cucinare in tempo di guerra. Fattostà che questa ricetta la si poteva (e si può) fare con quattro semplici ingredienti: farina, olio, acqua e patate. Per una persona mi si dice che servono 100 grammi di farina, tre cucchiai d'olio d'oliva e tre patate. Si metteva quindi la farina nella pentola e si accendeva il fuoco piuttosto basso, si aggiungeva l'olio e si mescolava finchè non si otteneva una crema di color brunato. Dopodichè si aggiungeva acqua e si mescolava fino a raggiungere una cremosità media. Infine una volta pelate le patate e tagliate a dadi venivano tuffate nella zuppa. Quando le patate diventavano morbide la zuppa era pronta. Come si suol dire "Ottimo e abbondante!!!". Sempre nella serie de "l'ottimo e abbondante" rientrava anche "la minestra d'erbi", ovverosia la minestra con le erbe di campo. Qui a differenza di altre minestre bisognava avere un po' di conoscenza della natura e della erbe stesse. Infatti la zuppa veniva fatta con le erbe spontanee che offrivano i prati garfagnini e saperle sceglierle era fondamentale, certe erbe potevano essere velenose o amare come il
fiele. Anche qui il costo della materia prima era praticamente zero e perdipiù non aveva bisogno di razionamento se non quello della loro inesorabile stagionalità. Comunque sia per dare un po' di sapore a tutte queste erbe raccolte si metteva insieme anche un cipollotto a rondelle e lo si lasciava riposare per qualche tempo. Si sbollentavano poi le erbe di campo, dopodichè si rosolavano in padella insieme ad una cotenna di maiale e si completava la cottura con l'acqua di lessatura. Questa ricetta rientrava nella categoria "non si butta via niente". Così come in nessuna maniera si buttava via il pane. Buttarlo via in tempo di pace era già un sacrilegio, figurarsi poi in tempo di guerra quando questo alimento era poco e preziosissimo. A conferma del suo valore assoluto è l'usanza che narra di quando i garfagnini non potevano farne a meno di gettarlo (magari perchè ammuffito) ai maiali, prima di darlo a questi animali lo baciavano tre volte, un'antica tradizione che testimoniava quanto gettare il pane facesse sentire in colpa. Difatti il pane raffermo in tempo di guerra (e anche dopo) era l'ingrediente principale per una succulenta minestra di pane. La mia mamma diceva che il suo aspetto "sembrava vomito di drago", ma il suo sapore era sublime. Un po' di patate, qualche cipolla, dei fagioli e qualche erbetta aromatica
trovata su qualche "poggetto". Tutto questo veniva fatto soffriggere 
con poco olio e sale in una capiente casseruola. Si univano poi le patate ridotte a dadini. Si aggiungevano i fagioli con un po' della loro acqua di cottura e si lasciava cuocere per una decina di minuti. Veniva poi tagliato il pane a fettine sottili che una volta sminuzzato in maniera grossolana veniva unito alla minestra, con un mestolo si mescolava il composto, lasciandolo bollire per alcuni minuti fino ad ottenere un'insieme abbastanza denso. Purtroppo (come si può leggere) molto di questa dieta "bellica" si basava su minestre e zuppe, la carne era un lontano miraggio e buona parte del sostegno energetico delle carne lo si poteva però trovare nelle polente. E' infatti è rimasta famosa ai posteri garfagnini la nota polenta con il "salacchino". Per i pochi che non ne hanno mai sentito parlare il salacchino è un'aringa affumicata e messa sotto sale. Questo sicuramente è uno dei piatti più poveri ed emblematici che fa capire bene quello che era la miseria in
tempo di guerra. Si metteva quindi il famigerato salacchino in una padella, con assai olio e si scaldava finchè il pesce non cominciava a sfarsi. Una volta che questo salacchino era stracotto il piatto era  pronto, i suoi pezzi(ma meglio ancora il suo olio) servivano a condire la polenta. L'usanza (ma sopratutto la necessità) voleva che in particolar modo le famiglie numerose (che in Garfagnana erano la maggior parte)usassero sfamarsi mettendo il salacchino così preparato in mezzo alla tavola, ognuno ci passava sopra il suo pezzo di polenta... A proposito di polenta... Signore e signori inchinatevi di fronte alla salvatrice di vite garfagnine più proficua che mai sia esistita. Ne ha salvate più lei in tempo di guerra che la Croce Rossa Internazionale. Ecco a voi la farina di neccio. Parliamoci chiaro, molte persone in Garfagnana senza di lei non ce l'avrebbero fatta a sopravvivere durante la seconda guerra mondiale. Quando il fronte si attestò da queste partì fu ancora più dura fare provvigione di beni alimentari.Il Mario di Castelnuovo così si ricorda:-Solo ed esclusivamente grazie all'enorme valore nutrizionale delle castagne che in quel periodo di guerra dal settembre 1944 all'aprile 1945 ci siamo salvati. Ogni via di comunicazione che potesse portare aiuti alimentari era chiusa. Ma il Signore Iddio volle però metterci la sua santa mano. In quel periodo maledetto si verificò una raccolta di castagne mai avvenuta prima di allora e  ancora oggi non si è vista di tali proporzioni- e così continua-Qui tra i boschi era tutto commestibile, ma per il resto non esisteva più nulla da mangiare; niente carne, niente latte, niente uova, niente farina o zucchero, nulla di nulla, si trovavano "solo" castagne, farina di neccio,
qualche patata e la tanta legna per accendere il fuoco
-. Dare quindi omaggio a questa farina per un garfagnino è più che mai doveroso e nonostante che la sue preparazioni possano essere innumerevoli la ricordiamo con la sua ricetta principe: la polenta di neccio. Portare ad ebollizione un litro e mezzo di acqua leggermente salata in una pentola grande, meglio se un paiolo, versare a pioggia un chilo di farina precedentemente stacciata mescolando continuamente con un mestolo di legno per evitare che si formino grumi, far cuocere a fuoco dolce per 45 minuti. Quando dalle pareti della pentola si staccherà in blocco vuol dire che è pronta, quindi rovesciarla su un tagliere di legno e tagliarla a fette. 

Potremmo stare qui ancora a riempire pagine e pagine e ad illustrare ricette, talmente sono tante e varie, ma oggi più che mai, quando ormai anch'io sono un adulto, riesco a capire e a dare significato ad una frase che mi diceva la mia mamma, che quando era bimbetto mi suonava come retorica e banale:-Mangia non fare storie su! Ai miei tempi quando c'era la guerra era un lusso avere queste cose in tavola!-... Meditate gente, meditate...  

Garfagnana: la nostra storia (nascosta) nei nomi delle piazze e delle vie. Viaggio nell'odonomastica garfagnina

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Schiavi di Google Maps, soggiogati dai navigatori satellitari, vi

siete già forse dimenticati quando giungevamo in una nuova città di come si faceva a cercare il nome di una via in cui dovevamo recarci? Al tempo usavamo la famosa mappa della città e se si vuole già qualcosa per orientarsi avevamo in mano. Ma prima ancora, esisteva un tempo in cui le strade non avevano un nome vero e proprio, ci si orientava in base alla vicinanza di un canale, di un ponte, magari di una chiesa o qualche piazza. Quando poi nei tempi cosiddetti moderni le città e i paesi si ingrandirono ci fu il reale bisogno di dare dei nomi "fissi" alle vie, non si poteva continuare "a brancolare nel buio". Allora ecco nascere l'odonomastica... Cavolo che parolone direte voi !!! Si, in effetti è un "parolone", ma c'è poco da fare se così si chiama l'insieme dei nomi delle strade, delle vie e delle piazze che fanno parte di un centro abitato. Dal greco odos (via, strada) e
onomastikos
(atto di denominare). Dietro questa complicato termine si nasconde però una parte di storia, di politica e di vecchia vita quotidiana e sociale di un paese o di una città. L'odonomastica è una materia che ci fa capire bene ciò che siamo stati e ciò che siamo, è una vera e propria radiografia del nostro essere comunità. Ogni paesino ha infatti le proprie icone e i propri personaggi che hanno fatto la storia locale e per questo si sono meritati una targa affissa su un muro a memoria imperitura, ma non solo, con l'odonomastica si può anche arrivare a capire (in sintesi) che tipo di influenze storico- ideologiche ci sono state (o ci sono)in un determinato luogo, esistono vie perfino intitolate a Ho Chi Min o a Che Guevara per esempio. Ma non solo questo, nelle denominazione delle vie si può anche trarre  indicazioni di evoluzioni socio-economiche, insomma tutto questo rientra nel riconoscimento di una memoria collettiva, che non è altro che lo strumento dello spirito del luogo. Qual'è allora lo spirito del luogo che aleggia in
Garfagnana? In Garfagnana, nella maggior parte dei casi, possiamo dire "aleggiava", poichè la buona parte dei nomi delle nostre strade risale ai tempi che furono. I borghi garfagnini nella quasi totalità dei casi non hanno avuto uno sviluppo (urbanistico) tale da determinare un'indagine sociale sui nuovi nomi dati alle strade, è da tempo immemore ormai che le nostre piazze e le nostre strade hanno quel determinato nome, non per questo però non possiamo fare uno studio per capire bene chi eravamo e comprendere ancora meglio le nostre radici. Perciò mi sono armato di santa pazienza e mi sono divertito a fare un censimento di (quasi) tutte le vie dei paesi della Garfagnana. Sicuramente tutto questo mio studio non ha il valore dell'esattezza assoluta, chiedo venia, ma le indicazioni che vengono fuori sono comunque a dir poco interessanti e curiose.

Prima di addentrarci nello specifico, in una prima analisi, possiamo dire che da tutto ciò viene fuori un aspetto principale e primordiale che si rifà al culto delle divinità al fine di proteggere tutto quello che riguardava il sostentamento quotidiano di una famiglia contadina. Ed è proprio in base a questa teoria che la

maggior parte di vie e strade garfagnine (addirittura ventinove) sono dedicate ai santi, gli stessi santi che poi dovranno proteggere il cosiddetto bene quotidiano (via degli Orti, via del Pozzo, via del Forno). Mi spiego meglio. Se si va a vedere nello specifico, Santa Cristina è la protettrice dei mugnai e dove nel paese esiste una via Santa Cristina esiste anche una via del Molino. Tanto per continuare negli esempi, altro connubio del genere lo possiamo trovare in Sant'Antonio che è il protettore degli animali e dove c'è una strada denominata in onore di questo santo, con buona probabilità c'è anche una via delle Stalle. Anche San Rocco rientra in questi casi, lui protegge dalla peste e dove si parla di peste e di questo pio uomo, in alcuni borghi esiste anche una strada che si chiama appunto via dell'Ospitale. Detto questo, ed entrando quindi nel dettaglio, possiamo vedere che il comune più "devoto" risulta essere Gallicano, con ben nove strade dedicate ai santi. Il santo più gettonato è San Rocco (presente in ben sei comuni) e a parte la Madonna (presente in quattro comuni), la santa preferita è Santa Cristina (anche lei quattro). Per quanto riguarda "la vita quotidiana", via del Molinoè al primo posto, sono sei i comuni che al tempo ritennero giusto intitolare una via a questa struttura. In seconda posizione ex aequo c'è via degli Orti e via delle Fontane
Gallicano dall'alto
(foto Daniele Sa
(quattro comuni per entrambi). Il comune più "contadino" risulta quindi essere Camporgiano, fra orti, forni, fontane e pozzi è la comunità che ha più vie intitolate alla ruralità. Un altro aspetto da sottolineare è il richiamo allo nostra storicità medievale: tre comuni infatti hanno nel loro stradario via Castello e via alla Rocca, mentre altre amministrazioni si rifanno ai cavalieri del tempo (Castruccio Castracani) e ai santi (ancora...) protettori dei pellegrini e dei viandanti come San Giacomo. Sempre ed a proposito di storia non poteva mancare il riferimento al Risorgimento, d'altronde la retorica del tempo in questo senso non ha lasciato scampo a nessun stradario italiano. Ecco allora il fiorire di via Garibaldi, Cavour, Vittorio Emanuele II. Il più menzionato naturalmente non poteva che essere Garibaldi (quattro comuni per lui), ma il comune più risorgimentale risulta Castiglione Garfagnana che annovera fra le sue vie anche una strada dedicata a Massimo D'Azeglio. Naturalmente fra queste strade, vie e piazze non potevano mancare personaggi illustri e poeti. Per quanto riguarda i poeti il primato lo ha Giovanni Pascoli, personaggio non garfagnino ma che tanto lustro ha dato alla valle. Lo stesso riconoscimento non è stato dato però a Lodovico Ariosto, a cui in tutta la Garfagnana è stata
Castiglione
dedicata una sola via (ovviamente a Castelnuovo). Fra questi esimi letterati spicca curiosamente un poeta di duemila anni fa: Publio Virgilio Marone, a lui Castiglione ha dedicato una via. Fra le altre illustri personalità, su tutti vince Guglielmo Marconi, sono otto i comuni della Garfagnana che al tempo pensarono di riservare una strada a cotanto scienziato, ma non furono solamente i nostrali comuni a decretargli tanto successo, infatti in tutta Italia ci sono ben 4842 via Marconi e nella classifica generale nazionale è al terzo posto. Come si può spiegare questo fatto? Guglielmo Marconi morì nel 1937, in piena era fascista, lo scienziato fin dall'inizio del regime fu sempre fortemente corteggiato da Mussolini e a questo corteggiamento Marconi aderì. Infatti accettando la corte del despota gli si offrivano svariate possibilità e agevolazioni per i suoi studi, nonchè posti di rilievo negli organi nazionali, tant'è che in un suo discorso affermò:-Rivendico l'onore di essere stato in radiotelegrafia il primo fascista-. Questa sua "fedeltà" il partito e sopratutto il duce gliela riconobbe quando il luminare passò "a miglior vita", difatti il dittatore fece raccomandazione a tutti i comuni italiani di dedicare una via all'illustre fascista. Con il tempo poi per Marconi non ci fu la "damnatio memoriae" (n.d.r: la cancellazione di qualsiasi traccia riguardante una persona)come per altri personaggi che ebbero a che fare con il regime, perchè, comunque sia, 
le sue invenzioni furono riconosciute un bene per l'umanità intera. Torniamo però come si suol dire "a bomba" e sempre a proposito di insigni uomini possiamo dire che la Garfagnana non si è dimenticata di Domenico Vandelli(a lui quattro comuni hanno
La via Vandelli
consacrato una via), l'ingegnere che per primo (era il 1751), con il progetto della sua strada, collegò la Garfagnana al mare. Fra le altre eminenti personalità, ci sono anche coloro che da tempo immemore riserviamo critiche e accuse:i nostri governanti, e fra re (Umberto I e Vittorio Emanuele II), senatori e primi ministri, va sottolineato il fatto che Castelnuovo, in epoca contemporanea non si è voluta dimenticare di quella lontana visita (era il 1967) dell'allora Presidente del Consiglio Aldo Moro, dedicandogli una strada nella località di Torrite. Nominare vie, fra le altre cose ha anche lo scopo di fissare nella mente avvenimenti, fatti, persone e...date. Quelle date maledette, sempre dimenticate a scuola quando il professore di storia interrogava. Guai a dimenticarsi del IV novembre (la data più ricordata nelle vie garfagnine), era il giorno della vittoria italiana nella I guerra mondiale. Altrettanto grave era non ricordarsi di Vittorio Veneto (l'ultima battaglia che decretò la vittoria nella suddetta guerra, a cui cinque comuni a perpetua memoria offrirono una via). A tagliare la testa a tutti questi
Piazza IV novembre Gallicano
ricordi e reminiscenze c'hanno però pensato cinque amministrazioni garfagnine... Avete mai sentito(o letto, o visto) di Parco della Rimembranza (o via, o piazza che sia)? E vi siete mai domandati... ma rimembranza di cosa???... Rimembranza, ovverosia ricordo e rievocazione della memoria di persone e situazioni del passato, insomma un ricordo generale di tutto quello che storicamente è accaduto. In tutto questo bailamme di vie strade, vicoli e piazze garfagnine, non rimane altro che esaminare tutto quello i comuni hanno voluto dedicare alle proprie 
importanti personalità  e fra vie bizzarre nostrane, come località Piscinacchio, via porta al collo, un curioso vicolo Parigi e un'altrettanta inconsueta via della tosse, guardiamo allora le vie dedicate agli illustri personaggi locali. Camporgiano ricorda lo storico locale Anselmo Micotti, così come Castelnuovo (fra gli altri) non si è dimenticata del senatore e patriota Nicola Fabrizi, altrettanto fa Fosciandora con lo storico Raffaello Raffaelli e Gallicano non dimentica quello che fu un suo importante diplomatico del 1400: Domenico Bertini. Non mancano poi nemmeno vie dedicate a Tonini Primo a Minucciano, Claudio Bechelli a Piazza al Serchio, senza dimenticarsi di Giovanni Poli a San Romano e l'eminente medico e teologo Simone Simoni di Vagli. Così come Villa Collemandina non poteva scordarsi del generale Tellini e Vergemoli del suo Don
Nicola Fabrizi
Fiorani
. A Molazzana è di recente intitolazione (2016) piazza Mamma Viola. Piazza dedicata a Viola Bertoni, eroina dell'ultima guerra mondiale, colei che dette sostentamento ai partigiani locali del Gruppo Valanga. Pieve Fosciana e Sillano invece al tempo intitolarono le proprie vie a due personaggi storici non nativi del luogo, ma personalità che comunque sia segnarono la loro storia. Pieve Fosciana pensò quindi al Beato Ercolano e Sillano al militare romano Lucio Silla. Infine, "dulcis in fundo", ecco le prime cinque posizioni delle vie garfagnine più citate nello stradario locale. Vince via Roma, sia in Italia (7870 città), che in Garfagnana (dodici comuni), segue al secondo posto la già citata via Marconi (otto comuni), segue al terzo posto a pari merito via San Rocco e via del Molino (sei comuni), chiude via Vittorio Veneto (cinque comuni). 
Del resto fu proprio quel Regio Decreto del 15 novembre 1865 che invitava di fatto tutti i municipi a regolamentare l'odonomastica delle città italiane. La legge però non fu sempre rispettata. Un'ulteriore sollecito del governo Crispi nel 1887 fece ulteriori pressioni sulle amministrazione locali perchè attuassero "la legge sulle vie", imponendo di fatto una serie di nomi che evocassero i valori del Risorgimento e de L'Unita Nazionale. A quanto pare la Garfagnana (o meglio alcuni comuni) non si piegarono nemmeno questa volta al volere
dello Stato, rivendicando il fatto che i nomi di queste strade non dovevano rappresentare solo l'identità nazionale, ma anche quella locale, poichè i posteri, a futura memoria si dovevano ricordare si la storia Patria, ma sopratutto la storia e le usanze della propria terra... 


La quotidiana vita garfagnina nei castelli medievali. Una vita divisa fra Dio, lavoro e... tanta paura

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Pensate un po' voi, di solito una giornata di cinquecento e più anni

fa cominciava così..."Confíteor Deo Omnipoténti, Beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaëli Archángelo, beáto Joánni Baptístae, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sánctis et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatíone, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa...". Nel medioevo il risveglio mattutino iniziava con il chiedere il perdono dei peccati, prima ancora di essere commessi. Fare un parallelo con la vita di allora e quella di oggi è ingiusto; al tempo quello stile di vita era la normalità e chissà, magari fra ulteriori cinquecento anni alle generazioni future parrà ridicolo ciò che stiamo facendo noi adesso. Comunque sia, ciò che rimane indubbiamente interessante è comprendere come si viveva in epoca medievale in Garfagnana, dove molti dei paesi oggi conosciuti ebbero sviluppo in questo periodo. Si è spesso parlato e scritto di battaglie fra le nobili signorie locali, ma si è sempre poco detto e poco scritto della quotidiana vita del cosiddetto popolino. Fortificazioni, mura, rocche, castelli, questo fu il momento in cui "fiorirono" tutte queste costruzioni, era l'epoca delle guerre fra pisani, lucchesi, fiorentini e modenesi, si lottava e si moriva
Castiglione Garfagnana

 per conquistare un metro quadro di terra. In tutto questo gran parapiglia cambiò anche il modo di vivere della gente comune. Il proprio borgo, il proprio paese, oltre che ospitare la propria casa diveniva anche luogo di rifugio e protezione, praticamente era come avere una casa dentro ad un'altra casa. e proprio per meglio capire il modo di vivere di questi nostri lontani avi è necessario fare una distinzione su una parola fondamentale: la  parola castello. Purtroppo questa parola ha creato spesso confusione nel lettore meno esperto. Infatti bisogna ben distinguere la differenza che esiste fra un castello feudale(il classico maniero che tutti ci immaginiamo)e i paesi dotati di mura, anch'essi detti castelli. In Garfagnana abbiamo più presenza di castelli, intesi appunto come borghi fortificati. Ebbene, all'interno di questi castelli esisteva tutto un mondo, composto dal popolo, dai notabili e dai signori. Ognuno qui, aveva il proprio ruolo e 
Trassilico
nonostante i diversi ceti sociali, esisteva molta unità fra gli abitanti che vivevano dentro le mura, una coesione dovuta più che altro dalla paura verso ciò che veniva da fuori. Il castello era infatti protezione e nella mentalità di allora coloro che non avevano bisogno di protezione erano briganti, mercenari o cavalieri che potevano essere visti come eventuali nemici. Da stime degli studiosi possiamo anche dire che in Europa in quel periodo vivevano circa trenta milioni di persone e verosimilmente, tanto per rendersi conto del numero delle persone che abitavano in un paese fortificato garfagnino, possiamo considerare che gli abitanti all'interno di un castello erano alcune centinaia. Come abbiamo potuto leggere la giornata iniziava già con il pensiero rivolto a Dio. Ci si alzava così prima dell'alba, al suono delle prime campane, si dicevano le orazioni e una volta fatto per tre volte il segno della croce ci si vestiva e ci si lavava quelle parti del corpo rimaste scoperte: mani e viso. Dopodichè ci si recava alla messa... Come abbiamo già ben capito la religione era considerata parte integrante di tutta la vita medievale, tutto girava intorno a Dio, ingraziarsi il Signore salvava da quella moltitudine di pericoli che erano proprio fuori dalle mura. Guerre, carestie, pestilenze, erano
considerate punizioni divine e opera stessa del demonio, come era da considerarsi opera del diavolo se qualche raccolto andava alla malora. Le stesse autorità locali si preoccupavano di mantenere questa 
concordia fra il divino e l'uomo, infatti non si esitava a ordinare affreschi e quadri che rappresentassero la Madonna o a mettere figure dei santi all'ingresso o sulle porte dei castelli, e all'occasione si pensava poi a far benedire le nuove campane che servivano si a scandire il tempo e a richiamare i fedeli, ma servivano anche scacciare i mali che erano opera del demonio (grandine, tempeste e fulmini). Finita la messa mattutina cominciava la vera e propria giornata. Si faceva una prima colazione e una seconda si faceva all'ora terza (verso le nove) e intanto gli artigiani aprivano le botteghe, gli ortolani rientravano dalla campagna dopo aver fatto rifornimento di merce, le massaie davano gli ordini alle serve o alle figlie per la cucina, per il bucato o per altre faccende casalinghe. Non mancava nemmeno lo strillone che andando in giro per le strade del castello annunciava a gran voce al popolo le nuove disposizioni delle autorità. Insomma le vie dei castelli garfagnini si animavano di gente indaffarata in mille lavori, gli artigiani ad esempio di solito esibivano la loro arte e la loro mercanzia all'aperto, ma gran parte di questi lavori si
svolgevano proprio all'aria aperta. Per queste strade non mancava nemmeno chi mendicava, diventare povero al tempo era molto più facile di adesso: un raccolto andato a male, una malattia o un qualsiasi altro infortunio che rendeva la persona inabile al lavoro era la strada che portava dritta all'indigenza. Anche i malati di mente vivevano di elemosine, loro erano fra quelli che nascevano in disgrazia e che spesso erano reietti dalla gente perchè considerati degli indemoniati. Fuori dalle mura venivano portati i lebbrosi e gli appestati, ai tapini veniva messa una campana al collo per segnalare la loro eventuale presenza, ciò permetteva agli altri di allontanarsi al loro arrivo. E le donne?  Per le donne (in alcuni casi) andare in miseria era ancora più facile, bastava la morte del marito o del padre per cadere in disgrazia. Il loro ruolo tuttavia era sempre quello "dell'angelo del focolare", spettava a lei la cura della casa, pensare al fuoco della cucina, nonchè di rifornire la casa del bene più prezioso: l'acqua. Quell'acqua benedetta che nelle case delle persone agiate si poteva prendere da un proprio pozzo, mentre la gente comune doveva partire con le fiasche e andare alle pubbliche fontane. Sempre alle donne spettava il compito di curare i propri figli, erano purtroppo loro che vivevano costrette
 in casa e per questo erano le uniche responsabili della salute dei pargoli. Le loro medicine venivano dalla natura, dalla conoscenza delle erbe, usanze che si tramandavano di madre in figlia...inutile dire che dalla medicina alla stregoneria il passo era breve... Molte di queste donzelle venivano accusate di malefici se un bambino non cresceva, o cresceva mingherlino o malaticcio. In Garfagnana ci furono delle povere donne
accusate di essere in combutta con il diavolo perchè avevano un figlio cosiddetto "scambiatino", cioè un bimbo che era stato sostituito dal diavolo con una creatura infernale. Ma il dolore e le pene per queste madri non si limitavano solo a questo, consideriamo infatti che la mortalità infantile era altissima (dal 10 al 20% dei bambini moriva entro il decimo anno d'età), quasi ogni donna passava prima o poi la tremenda esperienza della morte di un figlio. Teniamo anche presente,  che una considerevole parte di queste fanciulle moriva durante il parto o per le sue conseguenze. Insomma, pure la morte faceva parte dell'esperienza quotidiana di vita. Tant'è che un funerale poteva essere considerato una sorta di spettacolo pubblico. Se il defunto era una persona agiata, non sarebbero mancate le processioni sfarzose, i cavalli bardati, le bandiere, in più si potevano vedere tutte queste gran dame e questi messeri con gli abiti migliori. Però lo spettacolo che andava per la maggiore nei castelli garfagnini e che attirava molte persone più di qualsiasi altra
Esecuzioni medievali

manifestazione era la pubblica punizione dei criminali. I disgraziati difatti venivano portati nelle pubbliche piazze o in giro per il borgo, esposti agli insulti e agli sberleffi della popolazione. Se poi la sorte , o meglio ancora la giustizia, avesse decretato una qualsiasi pubblica esecuzione o una qualsivoglia tortura, per il popolo era come andare ad una festa. Ci si cambiava, si metteva l'abito della festa, si sospendevano i lavori e si andava ad assistere all'evento. Dalle varie condanne stabilite per legge e ancora oggi presenti nei "Libri delle Esecuzioni e Pene" (conservati ancora oggi in alcuni archivi storici) la scelta a cui poter assistere era ampia: si poteva assistere al rogo se erano sodomiti, ai ladri era invece riservata la gogna pubblica, la fustigazione o la marchiatura con il fuoco sulle guance, i bestemmiatori erano frustati, mentre gli assassini venivano impiccati. Finito lo spettacolo ognuno ritornava nelle proprie case e finalmente  veniva l'ora di mangiare. I ricchi naturalmente avevano un menù più vario: carne, selvaggina, insaccati, verdure fresche e dolci speziati... i poverelli mangiavano perlopiù zuppe con verdure, legumi o cereali, secondo e come potevano essere insaporite con un pezzo di lardo, non mancavano però le uova delle proprie galline, la carne del maiale e qualche pesce del Serchio. Arrivati alle sera, la fine della giornata l'annunciavano le campane della chiesa del castello. Un'ora prima del tramonto suonava la prima Ave Maria, questa indicava alla gente di lasciare il proprio lavoro e mettersi in cammino verso casa in quanto il sole cominciava a calare e il pericolo si poteva fare concreto. C'era anche un secondo scampanio, un'altra Ave Maria che
indicava l'inizio dell'oscurità, questa campana era rivolta a quei contadini che erano sempre fuori dalle mura paesane, bisognava che si affrettassero ad entrare, in segno di protezione propria questi contadini dovevano recitare "l'Angelus Domini". Per finire esisteva anche un ultimo suono, detto "Ave Maria dell'or di notte", indicava che era trascorsa già un ora dopo la notte, era pericolosissimo essere ancora al di fuori delle mura, anche perchè da quell'ora le porte del castello non sarebbero più state riaperte fino al mattino successivo, agli "scellerati" che erano rimasti fuori non rimaneva altro che recitare il "Requiem Aeternam", preghiera conosciuta al tempo come Ave Maria dei morti... Chi aveva raggiunto casa non rimaneva altro che cenare ed andare a letto, si gettavano
San Michele
così gli abiti su una pertica orizzontale per proteggerli dai topi e ci si addormentava (più o meno) beatamente. La mattina dopo sarebbe cominciata nuovamente una tipica giornata medievale garfagnina...

Segnali e simboli sulle Apuane. "Ometti", croci e quant'altro: una storia e un perchè

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Doveva essere sicuramente tutto un altro vedere... Prima della comparsa dell'uomo l'aspetto del paesaggio dipendeva esclusivamente dalle forze della natura: terremoti,inondazioni, eruzioni vulcaniche, tornado. Mutamenti bruschi, repentini e immediatamente visibili. Altri cambiamenti avvenivano in maniera graduale, lenta, impercettibile come l'acqua che erode le rocce... Poi venne lui... l'uomo. I primi segni della sua presenza sul pianeta furono i sentieri, essi servivano agli uomini per spostarsi da un luogo ad un altro, a caccia di cibo e per sfuggire più velocemente ai pericoli. Il grande cambiamento epocale ci fu quando questo benedetto (o maledetto che sia...)uomo decise di non essere più nomade, stabilì così che quel determinato luogo avrebbe fatto al caso suo e li si sarebbe fermato. Fu da quel momento che la sua azione sul territorio fu sempre più evidente, iniziò a coltivare i campi e a tagliare gli
alberi, modificando sostanzialmente tutto il paesaggio che aveva d'intorno, dando così inizio (diecimila anni or sono) a quella che gli storici chiamano 
"la prima rivoluzione agricola"(per distinguerla dalla seconda avvenuta nel 1700).Ecco, quel momento fu il cosiddetto punto di ritorno, con il passare dei millenni l'intervento dell'uomo sul pianeta Terra fu poco a poco sempre più invasivo. Anche le nostre Apuane hanno subito la stessa sorte, cambiamenti radicali sono avvenuti nel corso dei secoli, a partire dallo sfruttamento marmifero, per arrivare a quei cambiamenti più discreti, ma che in ogni caso hanno alterato il paesaggio originale. Questi piccoli interventi dell'uomo hanno comunque una storia e un perchè. Chi passeggia fra le nostre montagne quante volte si sarà imbattuto in quella stramba costruzione di pietre fatta a forma di piramide? Bene! Quello è un  "ometto", e quante volte ci saremo domandati del perchè le nostre vette sono sormontate da quelle grandi croci? E sempre a proposito di vette, anche quel libro (dove apponiamo la nostra firma o un nostro pensiero) che è posto sulla cima di una montagna non è lì per caso... e quei cippi di pietra con strane iscrizioni che troviamo qua e là per i sentieri cosa saranno? Analizziamo allora questi piccoli ma grandi interventi che l'uomo ha
fatto sulle Apuane. La presenza delle croci sulle cime delle montagne (e nelle Apuane ce ne sono molte) fu uno degli argomenti più discussi fino a qualche tempo fa, si parlava infatti della possibilità che venissero rimosse, poichè coloro che portavano avanti questa tesi dicevano che "...la montagna non poteva essere usata come un palcoscenico per imporre aggressivamente convinzioni religiose...". E pensare che è una tradizione che parte da molto lontano, si ha documentazione che la prima croce (anzi le prime tre) furono installate nel 1492 sulla sommità del Monte Aiguille in Francia per ordine del re Carlo VIII. Vai a sapere però da quanto tempo queste croci erano presenti sulle montagne, d'altronde la religione esiste da tempo immemore e se per i cattolici una croce sulle sommità delle montagne ha da sempre significato la vicinanza a Dio, anche altre antiche credenze hanno stabilito che le montagne e Dio fossero un tutt'uno. Difatti i Greci sulla cima del Monte Olimpo avevano stabilito la residenza degli Dei e così è uguale per la mitologia indiana: l'Himalaya era la dimora di Shiva, importante figura mistica del luogo e per rimanere sempre in tema anche Dio scelse il monte Sinai per comunicare agli uomini le proprie leggi. Comunque sia il grande boom delle croci ci fu verso i primi anni del secolo scorso, a conferma di questo, la storia narra che la prima croce della Pania della Croce (scusate il gioco di parole) fu eretta il 19 agosto 1900. Nel tempo poi, la sorte e le intemperie fecero si che un fulmine la piegasse. Fu così, che dopo
Inaugurazione 1956
anni  dal giorno dall'infausto incidente fu eretta proprio (un altro) 19 agosto ma del 1956 la medesima croce
 che oggi vediamo svettare nei cieli garfagnini. Queste, naturalmente non erano le prime croci che li furono erette, già dal 1830 si ha notizia della loro presenza (erano però costruite in legno). Sempre ed a proposito di vette, anche lo stesso "libro di vetta" rientra un po' in questa sfera filosofica che coinvolge le croci stesse. Si ritiene infatti che lo scopo di questo libro sia di raccogliere a caldo le impressioni e i pensieri di chi è salito sulla cima, tutto ciò (a detta degli antropologi) rientra in un inconscio rituale e religioso, espressione primordiale che esiste in ogni essere umano di lasciare traccia di sè per i posteri. Il primo messaggio scritto lasciato su una cima di una montagna sarà stato tracciato sicuramente con un carboncino o con un graffito su una pietra. Ecco allora che in tempi molto più recenti con l'avvento della carta, apparì anche il primo foglietto scribacchiato, su questo foglietto si scrivevano le proprie generalità e la data d'ascensione, ma non solo, spesso in questi foglietti venivano trovati oltre che pensieri anche delle preghiere e ringraziamenti a Dio per essere arrivati sani e salvi sulla cima. Questi piccoli scritti venivano però lasciati sulle vette e posti sotto un sasso, con la speranza che fossero letti da qualche altro escursionista. Probabilmente l'idea di un libro di vetta nacque dall'episodio che coinvolse George Winkler,
che a soli 17 anni salì sulla Torre Vajolet, era  il 17 settembre 1887. Tutto questo venne rammentato ai posteri da un foglietto recuperato sotto un sasso, quando il povero ragazzo era già morto. Il giovane alpinista
 morì in montagna l'anno successivo e il suo corpo fu rinvenuto in un ghiacciaio 69 anni dopo (era il 1956). Proprio in memoria di quel tragico fatto, si decise di raccogliere pensieri e firme sulle varie imprese alpinistiche riferite al monte scalato, così quello che era un foglietto svolazzante ben presto si trasformò nel libro di vetta che oggi tutti conosciamo, inoltre per conservare e proteggere al meglio questi libri si pensò di realizzare un contenitore metallico dove al suo interno erano depositate matite  e penne. Per arrivare a queste sospirate vette una buona mano la danno anche gli ometti... Quante volte per le Apuane (e naturalmente non solo qui) c'è capitato d'imbatterci almeno una volta in delle piccole montagnole di sassi? Sono loro gli "ometti di pietra", vere sentinelle dei sentieri di montagna. La loro funzione è quella di indicare la strada giusta nei passaggi dove perdersi rischierebbe di essere fin troppo semplice. Queste costruzioni di pietra a secco a forma di piramide è il più antico segno esistente sulle nostre montagne. La loro origine si perde nella notte dei tempi, già le popolazioni nomadi del neolitico usavano queste segnalazioni per segnare la strada di caccia, della guerra o del commercio.
Quest'opera nelle montagne assume anche un valore pratico e simbolico altissimo, è il segno tangibile della cura di qualcuno nei confronti degli altri, si ha la certezza che altre persone sono passate da lì e che si sono prese il tempo per svolgere un servizio a favore di tutti. Infatti gli ometti non sono una prerogativa esclusivamente italiana, le possiamo trovare in tutto il mondo: in Francia si chiamano bonhomme, in Mongolia ovoo, in Antartide inukshuk. Talvolta ci possiamo imbattere anche in altre pietre, queste però sono fissate saldamente al terreno e hanno tutt'altra funzione da quella degli ometti. Queste pietre si possono chiamare confinari, termini o cippi di confine. Nella nostra valle ce ne sono tantissime e servivano appunto per segnare il confine di uno Stato. La Valle del Serchio come sappiamo è stata il crocevia di tre stati: il Granducato di Toscana, il Ducato di Modena e la Repubblica di Lucca, vi potete immaginare l'intersecarsi di confini che esisteva sulle montagne (di cippi ne esistono ancora di ben conservati a San Pellegrino in Alpe, Bagni di Lucca, tratti della Via Vandelli, Colle delle Baldorie nei pressi del Monte Croce e si potrebbe continuare ancora...). D'altra parte di questi cippi l'Italia è invasa "grazie" proprio alla diffusione degli "staterelli" di memoria pre- unitaria. L'input decisivo al proliferare di queste pietre sui nostri monti fu dovuto però alla politica riformatrice legata al controllo del territorio voluta dal governo del Granducato nel XVIII secolo, che portò di fatto ad una ricognizione generale di tutti i confini dello Stato, stabilendo così in maniera netta e precisa i confini stessi. La cosiddetta "terminatione" fu stabilita in collaborazione con gli altri stati confinanti. Cosicchè, insieme agli ingegneri di Modena e Lucca si stabilirono nuovamente i confini, che dapprima vennero descritti abbondantemente su carte e mappe, dopodichè furono
fattivamente identificati sul terreno per mezzo di questi confinari, che potevano essere cilindrici o squadrati, realizzati in pietra e saldamente fissati al terreno. Quindi quando per i sentieri apuani trovate questi "pietroni" con incise le lettere GDT (Granducato di Toscana) o D.M (Ducato di Modena)o anche altre strane ed ambigue sigle con impresso F.III.D/1750 (Francesco III duca di Modena 1750), non gridiamo subito al mistero e non scomodiamo nemmeno l'occulto. Esse non sono altro che il segno del nostro passato.

Fotografia (Pania della Croce)
La fotografia di copertina è di Daniele Saisi  

1948: Cronaca di drammatiche elezioni. Democrazia Cristiana o Partito Comunista? Russia o America ? e in Garfagnana intanto...

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Finalmente !!! Anche questa volta sono (da poco) passate queste benedette (o maledette...) elezioni. Effettivamente non ne potevo più, in ogni dove vedevi spuntare un candidato, aprivi facebook e zac eccone uno, ti rilassavi sul divano per vedere un film ma anche qui fra un canale ed un altro ecco che spuntava qualche simbolo di un partito, se aprivi i giornali allora non ne parliamo...e poi... e poi come al solito alla fine di questo gran circo politico risulterà che chi ha vinto ha vinto e anche chi ha perso troverà il modo di dire che in qualche maniera ha vinto anche lui... Succede sempre così. Non successe così però nell'ormai lontano 1948, alle prime  elezioni politiche dell'Italia repubblicana. Si, perchè diciamocelo chiaramente, anche in politica esistono elezioni ed elezioni, esistono elezioni più o meno significative ed elezioni più o meno fondamentali per la vita del Paese e proprio quelle del 1948 in questo senso furono le più importanti e decisive che l'italia repubblicana abbia mai avuto. Era il 18 aprile 1948 quando gli italiani furono chiamati a votare per la prima volta dopo l'entrata in vigore della Costituzione. L'affluenza alle urne ebbe cifre esorbitanti e mai più ripetute, il 92% degli italiani (quasi 27 milioni di persone)voleva decidere del proprio futuro. La posta in
gioco era altissima e due erano le aree politiche scese in campo pronte a vincere questa partita (erano poi le medesime forze che appena qualche anno prima avevano combattuto fianco a fianco contro un unico nemico: il nazifascismo), da un lato avevamo la Democrazia Cristiana e dall'altro il Fronte Democratico Popolare, una coalizione di partiti di sinistra rappresentata dal Partito Comunista e dal Partito Socialista. I protagonisti principali erano i volti di coloro che rimarranno per sempre nella storia repubblicana italiana: Alcide De Gasperi (D.C), Pietro Nenni (P.S.I) e Palmiro Togliatti (P.C.I). Ma in fondo a tutta questa situazione, la questione che pesava più di tutto su queste elezioni era un'altra, una scelta che avrebbe segnato in maniera netta le sorti future della Nazione. I risultati della tornata elettorale del 1948 avrebbero determinato l'appartenenza politica a uno dei due schieramenti che negli anni a venire cambieranno il modo di vivere e di pensare di tutto il mondo, bisognava allora scegliere fra l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti d'America. Fu dunque una campagna elettorale senza esclusioni di colpi, in confronto quelle che noi oggi definiamo campagne elettorali vergognose nel '48 potevano essere considerate
commediole dilettantesche. Il clima era esasperato, entrambi gli schieramenti avevano impostato la loro campagna sulla sistematica denigrazione dell'avversario, ma non solo, il nemico era visto come un vero e proprio traditore. D'altronde  il clima sociale in Italia era in una situazione di crescente allarme e tutti si rendevano conto di ciò, tanto che lo stesso De Gasperi ebbe a dire di "sentire un puzzo acre di guerra civile". A rinfocolare l'inquietudine ci pensarono 
(furbescamente) gli americani, a quindici giorni dal voto fu varato il famoso Piano Marshall, un piano di aiuti all'Europa per la ricostruzione post guerra di 14 miliardi di dollari. Nemmeno Papa Pio XII cercò di stemperare le tensioni, anzi, nel suo messaggio natalizio del 1947 a proposito di queste elezioni non esitò a dire:-Essere con Cristo o contro: è tutta qui la questione. Disertore e traditore sarebbe chiunque volesse prestare la sua collaborazione materiale, i suoi servigi, le sue capacità, il suo aiuto, il suo voto a partiti e poteri che negano Dio-. Il responso delle urne comunque sia non lasciò dubbi, il risultato fu clamoroso: la Democrazia Cristina si aggiudicò la maggioranza relativa dei voti (48,5%) e quella assoluta dei seggi (305), il Fronte Democratico si fermò al 31% (183 seggi). Il che significava che l'Italia rinunciava a entrare nell'orbita
Papa Pio XII
dell'Unione Sovietica per buttarsi così nelle braccia americane. E in tutto questo trambusto, quell'angolo sperduto di mondo chiamato Garfagnana di fronte a queste epocali elezioni come si comporto? Si comportò seguendo il suo istinto conservatore di atavica memoria, dovuto in buona parte dalla sua posizione geografica: una valle chiusa fra due catene di monti non permetteva lo svilupparsi di nuove idee, come poteva accadere ad un altra zona della Toscana geograficamente più aperta e pronta a raccogliere nuove filosofie. Cosicchè qui la chiesa trovò vita facile, la tradizione cattolica garfagnina avrebbe pesato in maniera decisiva sulle sorti del voto. Di questo ne erano consapevoli anche a livello nazionale, la Garfagnana veniva additata come una di quelle zone in cui il clero si faceva sentire pesantemente, un clero ritenuto assai arretrato, un clero "medievale". A rinvigorire lo spirito cattolico dei garfagnini accaddero poi degli episodi sospetti che la D.C locale cavalcò in vista delle future elezioni. Eravamo proprio all'approssimarsi delle votazioni (dicembre 1947) quando a Gramolazzo ad una ragazza del paese (Anna Morelli) comparve la Madonna. La Vergine, con il suo tocco guarì la giovane  da una brutta ulcera, lasciandole poi sullo stomaco una croce come segno del suo passaggio (per saperne clicca sul link: http://paolomarzi.blogspot.com/2017/02/la-bernadette-di-gramolazzo-anna.html). A pochi giorni da quel fatidico 18 aprile 1948, la Madonna fece capolino dalla parte opposta della Valle: a Borgo a Mozzano, in località Mao. Una pastorella si fermò a pregare davanti ad una cappellina che conteneva una Madonnina in gesso, ebbene, la pastorella testimoniò che gli occhi della statuina si muovevano e la guardavano. La "sindrome del miracolo" si sparse così per tutta la valle, un'ondata di religiosità popolare mista a
superstizione coinvolse tutta la provincia, l'
apoteosi fu toccata quando Anna Morelli, "la miracolata di Gramolazzo" andò in visita alla "Madonna di Mao", le cronache raccontano che quel giorno migliaia di persone raggiunsero Borgo a Mozzano. Ma le apparizioni non si fermarono solamente qui, si diceva che anche la statua della Madonna, posta all'orfanotrofio di Santa Zita a Castelnuovo avesse mosso gli occhi. Stessa cosa, a quanto pare, accadde a Barga nella chiesa SS.Crocifisso. Insomma, segni della Vergine comparivano in tutta la valle, tant'è che (forse)casualmente comparirono anche Madonne trafugate tempo addietro, al Sillico infatti, fu ritrovato un quadro raffigurante un'ennesima Madonna del 1400 (il quadro era stato rubato l'anno prima...). Non solo Madonne però... Bisognava anche metter su un quadro sociale debole e precario, fu così che le forze dell'ordine cominciarono una caccia spietata alle armi, quelle stesse armi che qualche tempo prima erano servite per combattere i nazisti. La Garfagnana ne era piena, in ogni casa un qualcosa di ciò era rimasto sicuramente, qui difatti come saprete si era stabilito il fronte della Linea Gotica e nel momento del ritiro dei militari, su questa terra in tal senso fu lasciato ogni "ben di Dio". Era da anni però che i carabinieri sapevano (più o meno) chi possedeva le armi, ma si dice che dietro queste operazioni ci fosse un disegno per
dimostrare all'opinione pubblica come i comunisti fossero pronti ad imbracciare le armi in caso di una loro sconfitta alle elezioni. Per cui rinvenimenti ci furono a Barga e dintorni(fucili, mitragliatori STEN, fucili semiautomatici, munizioni e bombe a mano). A metà del mese di marzo 1948 in un fienile a Fosciandora fu ritrovato un vero e proprio arsenale: centinaia di bombe da mortaio, e un grande quantitativo di munizioni da mitragliatrice. In tutto questo caotico quadro sociale anche gli stessi industriali erano spaventati da una vittoria delle sinistre, la stessa S.M.I di Fornaci di Barga fece proiettare ai lavoratori all'interno della fabbrica un film che mostrava "il pericolo della dittatura del proletariato". Naturalmente anche la campagna elettorale di sinistra non era da meno in quanto ad accuse e sospetti e non lesinava affatto in "complimenti". Il P.C.I locale metteva in guardia tutta la popolazione della valle dicendo che: "...il governo della discordia che, favorendo la rinascita di movimenti fascisti , mette in pericolo la pace nel nostro Paese". La giunta d'intesa social-comunista di Castelnuovo andò giù ancora più pesante, in un manifesto affisso nei paesi garfagnini si faceva riferimento ai fatti di sangue avvenuti in quel periodo in Italia i quali venivano attribuiti "a sicari
prezzolati asserviti alle forze retrivie del capitale industriale e agrario
", accusando poi il governo democristiano di "parteggiare per gli oppressori del popolo". Venne infine il giorno di queste attese elezioni, elezioni che decretarono la provincia di Lucca come "un'isola bianca" in un mare rosso, proprio perchè terra in netta controtendenza al resto della Toscana che si affermò come uno dei capisaldi del Partito Comunista. I risultati a livello provinciale stabilirono un nettissimo successo della Democrazia Cristiana: 61,2% alla Camera e 61,7% al Senato. In Garfagnana l'affluenza alle urne fu dell'89%, ma altri numeri erano ancor più clamorosi. I democristiani sbaragliarono il campo: 74,1% alla Camera e 78,2% al Senato. I comuni più "bianchi" risulteranno Villa Collemandina (85,9% alla Camera),e Giuncugnano che segnava un 91,6% al Senato). Dove la sinistra si difese fu nei comuni di Gallicano, Pieve Fosciana e Vagli (percentuali intorno al 20%). D'altra parte lo spirito conservatore garfagnino si manifestò già due prima, nel 1946, nel referendum fra monarchia e repubblica, dove la monarchia stessa surclassò la repubblica ottenendo un'ottimo risultato (il 61,5%). Ma in quel 1948 ci fu un'altro risultato che confermò questo spirito tradizionalista e difatti saltò subito agli occhi di tutti: il Movimento Sociale Italiano(
partito nato dalle ceneri del fascismo), pur con un risultato contenuto (il 4,2%), ottenne in zona maggior consenso che da altre parti, dove si attestava intorno al 2%), a San Romano conquistò addirittura un clamoroso 21,1% alla Camera (un 6% a Camporgiano e un 6,7% a Trassilico, che al tempo faceva comune).
Insomma, così andarono le cose e nonostante tutte le invettive, gli alterchi e le dispute che avevano avvelenato il cuore della gente di Garfagnana a riportare tutti con i piedi per terra e con il cuore in pace ci pensò il poeta di Castiglione Giovan Battista Santini, che in vernacolo (perchè così tutti la capissero) scrisse una poesia e in un verso profetico così disse: "Se ci fai caso, vederai che questo lo promettono avanti l'elezioni; ma doppo che votando, hai fatto 'l gesto ditto sovran, di nominà i mangioni, abbadà di stà 'n guardia e d'esse lesto, sennò ti pijn a calci ni cojoni" ***


***Traduzione:

"Se ci fai caso, vedrai che molto prometteranno prima delle elezioni, ma dopo che avrai votato e hai fatto il gesto sovrano (votare) di nominare tutti quei mangioni, vai attenzione, stai in guardia, sennò ti prendono a calci nelle palle" 

Bibliografia:

"La Terra Promessa" Oscar Guidi edito Unione dei Comuni della Garfagnana, Banca dell'Identità e della Memoria anno 2017 (pp 146)

Per i risultati completi delle elezioni del 1948 consultare https://elezionistorico.interno.gov.it/index.php?tpel=C&dtel=18/04/1948&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S 

La "rivoluzione" dei cimiteri in Garfagnana. Quando il regno dei morti era sotto il pavimento delle chiese

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Per chi non lo sapesse Saint Cloud è un amena cittadina francese

situata nella regione de L'Ile de France, dista solamente una decina di chilometri da Parigi e se un giorno qualcuno di voi capitasse da quelle parti non può mancare di visitare il suo parco: 463 ettari di pura bellezza, tanto da essere considerato uno dei giardini più incantevoli d'Europa, ma non solo, se si vuole si possono anche ammirare alcuni edifici di quello che fu uno dei castelli reali di Francia. Ad onor del vero bisogna però dire che non sono queste le cose che hanno reso famosa la città, gli eventi ci narrano che questa località è rimasta nella storia per due fatti: il primo fatto ci dice che il castello sopra citato fu la reggia di Napoleone Bonaparte e il secondo ci racconta che qui (sempre da Napoleone) fu emanato un'editto di un'importanza storica notevole, che cambiò finalmente e per sempre una malsana consuetudine: il 23 giugno 1804, qui venne vergato il
Il castello di Saint Cloud
documento meglio conosciuto come "editto di Saint Cloud", ovverosia "Decret imperial sur les sepoltures". Napoleone in Italia ne combinò di tutti i colori, diciamocelo chiaramente, con le sue riforme sconvolse tutta una vita sociale che ormai aveva un secolare impianto, impose da subito un regime autoritario abolendo la libertà di stampa, revocò le assemblee locali elettive nominando di fatto prefetti governativi, perdipiù fece riforme scolastiche che incrementarono ancor di più il popolo degli analfabeti. Però, questo famigerato editto di Saint Cloud fu una mano santa, sia da un punto di vista igienico sanitario e se si vuole anche da un punto di vista sociale. Insomma (a mio avviso) debellò quella che era una vera e propria indecenza. Era infatti pratica diffusa che i morti fossero sepolti all'interno delle chiese, o meglio, sotto il pavimento delle chiese
esisteva un vero e proprio cimitero. Questo decreto composto da 
cinque titoli principali  regolamentò in  maniera definitiva questa (orrida) usanza:  

  1. Delle sepolture e dei luoghi a loro dedicati
    Si specificava il divieto di seppellire all’interno degli edifici sacri e dentro le mura delle città; i terreni dedicati alle sepolture dovevano essere situati fuori dalle città, in posizione elevata, a 35-40 metri di distanza dagli abitati, circondati da mura di cinta alte almeno 2 metri. Ogni sepoltura doveva essere individuale e di questa ne venivano date anche le dimensioni della fossa e la distanza tra questa e le altre.
  2. Dell’istituzione dei nuovi cimiteri
    Tra le altre cose, si precisava che con le nuove costruzioni, i vecchi cimiteri dovevano essere chiusi
  3. Della concessione dei terreni
    In questo titolo si affermava che potevano essere dati in concessione terreni per l’edificazione di tombe di famiglia, con annessi monumenti e cripte.
  4. Della sorveglianza dei luoghi di sepoltura
    E’ interessante notare che si prendeva in considerazione la presenza di culti differenti e che perciò all’interno dei cimiteri dovevano esserci settori dedicati con il loro ingresso separato. Si doveva inoltra vigilare affinché si evitasse qualunque atto contrario al rispetto della memoria dei morti.
  5. Delle pompe funebri
    Si regolavano infine le modalità di trasporto dei defunti, gli ornamenti, eccetera.
E per chi non lo sapesse, anche nelle chiese garfagnine e della Valle del Serchio, al di sotto dei loro pavimenti esistevano (o ancora
esistono) cripte, tombe e fosse comuni, che contenevano (e in alcuni casi contengono ancora) decine e decine di morti... Diciamo che le finalità di questo editto erano sostanzialmente due: il primo obiettivo era sanitario, si rendeva infatti necessario evitare di continuare a stipare i morti nelle chiese con la conseguente diffusione di odori tremendi e malattie. Il secondo obiettivo era politico, le tombe dovevano essere tutte uguali fra loro, nel rispetto del principio rivoluzionario di uguaglianza. Pertanto il nuovo decreto imperiale in Italia entrò in vigore il 5 settembre 1806. Così, finalmente, dopo 800 anni anche in Garfagnana (come in altre parti) questa cattiva abitudine cessò per sempre... Dalla saggezza dei romani d'altro canto non avevamo imparato niente, infatti era loro costume seppellire i propri cadaveri lontano dalle città, fuori dalle mura e lungo le strade principali, all'aria aperta, zone circondate da cipressi, pini e altre piante balsamiche. Ma la religione come si sa con il passare dei secoli impose sempre di più il suo potere e il suo prestigio, tant'è che dapprima il
Cimiteri Roma antica

privilegio di essere seppelliti sotto le chiese era un'esclusività ad appannaggio di coloro che appartenevano ad un determinato ceto sociale: le autorità ecclesiastiche, i loro familiari, le autorità civili e i ricchi disposti a generosi lasciti testamentari a favore di Santa Romana Chiesa. Ma poi i "buoni propositi" della dottrina cattolica, intorno al X secolo si allargarono anche "ai comuni mortali", secondo il principio "ad sanctos et apud aecclesiam" (vicino ai santi e presso le chiese), in pratica il presupposto fondamentale di tale pensiero era che se un corpo veniva inumato in chiesa era presumibilmente più vicino a Dio e di conseguenza alla redenzione eterna. Ma anche in queste inumazioni si attuava una certa distinzione sociale e lo si può notare nella struttura sotterranea di molte chiese della valle. I ricchi infatti venivano sepolti in prossimità degli altari (più possibile vicini a Dio...), sotto l'altare stesso era pertinenza dei prelati, lungo i fianchi delle navate e presso gli altaretti dedicati ai santi solitamente venivano seppellite le nobili famiglie (che magari in vita avevano eretto gli altaretti succitati), verso l'uscita della chiesa
c'era la fossa comune dei bambini (poveri) e in mezzo c'era un'ennesima fossa comune dedicata al misero popolo. Tanto per aver chiara l'idea è bene capire che comunque sia non si seppelliva solo nelle chiese ma anche nelle sue prossimità, a patto che fosse luogo consacrato, quindi nel cortile, nel chiostro, nei pressi dell'abside, in ogni dove insomma. In questo caso, nota curiosa, lo spazio riservato sotto la gronda della chiesa era strettamente riservato alle prostitute e ai peccatori riconosciuti di grave colpa, si credeva che l'acqua piovana scesa dal tetto sarebbe servita a pulire la loro putrida anima. Ma qui, quello che c'era di putrido non era l'anima di queste persone e basta, anche quei poveri corpi sepolti li sotto erano in queste condizioni. Infatti queste fosse erano una delle cause principali della diffusione di malattie infettive e pestilenze varie e effettivamente i topi erano i padroni incontrastati di questi sotterranei. Si racconta che nelle abitazioni vicine a questi pseudo cimiteri il latte e il brodo imputridivano, il vino inacidiva e i cibi si deterioravano facilmente a causa dei gas fetidi che emanavano i cadaveri. D'altronde c'era poco da pretendere se tutto si svolgeva in questa maniera... Di solito il procedimento di sepoltura (per i poveri) consisteva che il misero morto fosse trasportato in chiesa con una bara cosiddetta "d'apparato" (cioè, che serviva solamente per la cerimonia funebre odierna, la
Botola di una fossa comune

cassa sarebbe stata poi usata per un nuovo cadavere), dopodichè al "povero fagotto", senza bara, gli veniva cucito addosso una sorta di sudario. I seppellitori fatta questa operazione aprivano la robusta botola di legno (posta sul pavimento)e "gittavano" senza complimenti il meschino corpo sull'insano carnaio in decomposizione, un po' di calce veniva sparsa giù nella botola che dopo veniva chiusa rapidamente. Quando poi la fossa con il passar del tempo si sarebbe riempita di cadaveri, era sempre compito dei seppellitori entrare nella medesima fossa, svuotare il comparto con pale e secchi e infine raccogliere le ossa che venivano interrate nelle vicinanze delle chiese o nelle cappelle vicine. Immaginatevi allora il fetore, ogni volta che questa botola veniva dischiusa, l'aria talvolta era talmente irrespirabile da non permettere in certi casi le funzioni religiose. A tal proposito la testimonianza di un messo napoleonico in Terre di Garfagnana descriveva così nel suo rapporto mensile quella sconcezza: "...
regge ancora il costume osceno, insalutare e più che barbaro (i barbari meglio che noi dando sepoltura ai cadaveri) d'interrare nelle
fosse delle chiese, in mezzo ai paesi. E può tanto invecchiato errore, che non si tiene in pregio alzar tomba in sito ameno a corpi morti delle care persone, ma si vuole nella stessa comune lurida fossa confondere le spoglie di vergini figliuole o di pudiche consorti a quelle di ladroni, ribaldi e dissoluti. Vero è che i preti soffiano in quella ignoranza per non perdere il guadagno de' mortorii, né diminuire il raccolto del purgatorio, sempre più largo se in presenza della fossa che chiude ceneri adorate o venerande
". Il messo napoleonico mise così il dito su un'altra immoralità che non dava lustro nè alla chiesa nè ai suoi pastori, che in barba alla tanto sbandierata misericordia, pietà e compassione fece di ciò un lucroso affare. Il lucroso affare aveva un nome e si chiamava la "quarta funeraria". Già dal medioevo era pratica di pagare per ottenere degna sepoltura, e credetemi, questo interesse rappresentava una fonte di guadagno per il cosiddetto basso clero (i semplici preti) veramente notevole, tanto d'accendere varie dispute fra parrocchie e parrocchie per accaparrarsi la povera anima. La responsabilità della tumulazione dei cadaveri all'interno delle chiese spettava al parroco e rimase di sua
Un'illustre tomba
 esclusiva competenza fino al 1800, ciò rese i preti i diretti responsabili della pratiche relative alla morte e alla sepoltura che veniva così pagata in sonori quattrini. A dire il vero in origine l'inumazione sarebbe stata gratuita, così come stabiliva il Corpus Iuris Canonici (diritto canonico), ma poi le generose elargizioni che venivano dai ricchi signori per prenotarsi un posto di loro gradimento fece si che il diritto canonico andò a farsi benedire e la regola di pagarsi un posto in chiesa (attraverso doni ed elargizioni) divenne una consuetudine. In compenso rimase diritto dei poveri (ma bisognava essere poveri veramente...) di essere sepolti gratis. Fattostà che gli introiti derivanti da questa pingue faccenda iniziarono ad essere veramente significativi, tanto che nel corso dei secoli le autorità ecclesiastiche decisero di regolamentarla, stabilendo di fatto un vero e proprio tariffario. A rompere le uova nel paniere come avete letto  ci pensò lui, Napoleone, che con la chiesa cattolica non aveva un gran feeling già dai tempi in cui fece imprigionare Papa Pio VI(1797). Del resto furono sue le parole che stabilirono una grande verità: "Ci sono due modi per far muovere gli uomini: l'interesse e la paura". E difatti fu proprio l'interesse la motivazione che mosse il
clero in questa mercificazione della morte, ma fu la paura quella che la fece cessare per sempre...

Le fattucchiere garfagnine e il potere delle loro erbe

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"Esaudiscimi, ti prego, e favorisci i miei propositi; ciò che io

ti chiedo, dea, tu voglia garantirmelo. Le erbe, qualunque genera la maestà tua, per causa salutare affida a tutte le genti; ora, mi permetta la tua medicina". Ecco, nel XV secolo sarebbe bastato che qualcuno avesse udito un'evocazione del genere per finire dritti dritti sul rogo... Finire la propria esistenza nel bel mezzo delle fiamme "purificatrici" non era solo una prerogative da affliggere alle streghe, ma in tal maniera l'orrenda morte sarebbe toccata agli eretici, ai "non convertiti" (alla religione cattolica) e a coloro che di solito pronunciavano la suddetta supplica: le "herbarie". Di queste donne la Garfagnana ne ha sempre avute e sono convinto che ancora oggi ci sono, esistono e ancora esercitano. D'altronde la nostra valle è immersa nel verde, la natura la fa da padrona e a partire dagli Apuani per arrivare ai giorni nostri i malanni del corpo, della mente e del cuore si guarivano (forse...) con l'uso delle erbe nostrane e fu proprio a causa di questo sapere che queste garfagnine vissero tempi particolarmente duri, contro di loro ci fu una tremenda persecuzione che durò a lungo e che conobbe ben due significative ondate: una dal 1480 al 1520 e l'altra dal 1560 al 1650. Ma per ben capire l'immagine e la funzione di tali "donzelle" guardiamo chi erano le fantomatiche "herbarie". Queste povere donne  venivano identificate generalmente con la parola "strega". Le autorità sia civili e religiose che

dovevano giudicarle "facevano di tutta un'erba un fascio", strega era colei che faceva sortilegi in connubio con Satana e strega era anche chi attraverso l'uso delle erbe guariva, curava e alleviava il dolore a uomini ed animali, infatti il monopolio e la gestione della conoscenza delle erbe era per la stragrande maggioranza dei casi affidata al sapere delle donne. Questa simil scienza era tramandata di generazione in generazione, da madre in figlia da tempi lontanissimi e la prima regola che veniva insegnata a loro da quel remoto tempo, era quella di capire fin da subito il grande potere delle erbe e in realtà pochi lo sapevano come queste donne, che "gli erbi" avevano tre particolari peculiarità: gli erbi nutrivano, guarivano e...uccidevano e questa conoscenza spaventava moltissimo gli uomini. Con il trascorrere dei secoli queste guaritrici passarono dall'essere considerate sagge e rispettate, all'esser viste con sospetto, paura e superstizione, da "virtutes herbarum" a strega il passo sarebbe stato breve. In questo modo l'antico sapere diventò un nemico e uno strumento del diavolo. Era difatti per mano del demonio se queste guaritrici utilizzavano le loro erbe come analgesici, calmanti e medicine digestive, ed era sempre in virtù del maligno se così pure riuscivano a lenire le sofferenza degli uomini con altri preparati, e per la chiesa questo era inaccettabile, bisognava pregare  e... accettare il dolore. A contribuire alla loro fama di maliarde, ad onor del vero concorsero
anche loro stesse, solitamente queste donne erano schive, solitarie, si potevano vedere la notte nei prati a cogliere erbe e pianticelle e poi quella cantilena e quelle invocazioni incomprensibili in ogni loro intervento certamente non le aiutava a togliersi di dosso quell'aura di mistero che le ammantava. A sostenere poi la tesi di esseri malvagi collaborarono anche le livorose donne del paese, secondo loro la causa della perdita dell'innamorato era da attribuire a queste "medichesse" e alla loro "pozione amorosa". Furono queste le principali cause che portarono la loro popolarità e la loro reputazione al livello più basso mai esistito, tant'è che il loro elegante e importante nome di "herbarie" si mutò per sempre in quello perfido e maligno di "fattucchiera". L'etimologia di questa parola parla chiaro, fattucchiera da "fattura", era colei che poteva "fare" qualcosa che era in propria dote a fin di bene ma... anche a fin di male. La gente comunque sia ci si affida lo stesso, per il popolino garfagnino la medicina empirica risultava più credibile e comprensibile che della medicina ufficiale. Un'"herbaria" fra le più consultate era infatti Ida di San Pellegrino in Alpe, la più famosa "medichessa" garfagnina, nel 1587 sosteneva di essere in grado di sentire le voci delle erbe nei campi
e di coglierne i messaggi più reconditi e gli insegnamenti più segreti e nonostante che le gran signore di Modena avessero alla loro corte esimi medici e profumieri, era da lei che venivano, lassù, sul monte, per cercare la sua pozione fatta con la Belladonna.Quest'erba diluita con l'acqua (e utilizzata come collirio)provocava la dilatazione delle pupille, tanto da rendere lo sguardo di queste madonne languido, profondo e affascinante(da ciò probabilmente è derivato il nome della pianta). La Garfagnana ne aveva (e ne ha) in sovrabbondanza di queste erbe e di questo le fattucchiere ne erano ben consapevoli, difatti ne esistevamo di ogni sorta, dalle più innocue alle più letali, magari in alcune poteva ingannare il loro bell'aspetto o il loro splendido fiore, ma per alcune di esse, i loro semini se ingeriti o lavorati potevano essere letali alla salute umana. La cicuta ad esempio era una di queste. Resa famosa per aver causato la morte di Socrate, infatti si ritiene che la dose mortale per un'essere umano sia di qualche grammo di frutti verdi. La sua ingestione provoca anche
Cicuta Maggiore
problemi digestivi, cefalee e diminuzione della forza muscolare. L'altra erba "cattiva"è il Giusquiamo, erba utilizzata dalla maga Circe per trasformare in porci i compagni di Ulisse, infatti la sua caratteristica principale è quella di alterare la mente, grazie a sostanze in essa contenute come la scopolamina e la iosciamina. L'erba del diavolo per eccellenza però è lo Stramonio, pianta altamente velenosa. A Lucca nell'ormai lontano 1992 alcuni ragazzi per bravata ne provarono gli effetti, si salvarono per miracolo. La pianta infatti è allucinogena, altamente sedativa e narcotica e i suoi effetti portavano le persone (se indotte) a suicidarsi o a commettere omicidi. La Mandragola invece appartiene al regno delle piante "buone" e il suo luogo ideale è sulla cima del Monte Procinto,
Stramonio comune

sulle Apuane, lì esisteva la migliore per fare pozioni e medicinali. La pianticella veniva usata come erba afrodisiaca e utilizzata anche per curare la sterilità, era una pianta talmente magica da non essere considerata nemmeno un'erba, si riteneva infatti che fosse una via di mezzo fra una specie animale ed un vegetale, la forma antropomorfa della sua radice ne era la conferma. Fra le altre, l'erba gatta veniva usata per fare filtri d'amore, mentre la menta era perfetta per guarire dal mal di stomaco e veniva data anche alle donne in stato interessante che soffrivano di nausea, inoltre se messa sotto il cuscino, durante il sonno aveva il potere di far compiere sogni premonitori. L'ortica invece, per le fattucchiera era la pianta adatta per eliminare una maledizione e rispedirla al mittente. In compenso il biancospino aveva il potere di calmare le persone e tranquillizzarle. Insomma un mondo difficile, particolare e vastissimo, che comportava una conoscenza immensa del 
Mandragola
mondo naturale e di fatto queste fattucchiere niente lasciavano al caso. La raccolta degli "erbi" doveva avvenire sempre di notte, ma non per qualche misterioso motivo, ma perchè le piante dovevano essere raccolte in una certa fase lunare per mantenere il più possibile tutti i loro  principi attivi e perdipiù se si raccoglievano lontano dall'abitato meglio era, poichè si affermava che se cresciute nel loro ambiente naturale in equilibrio con gli altri vegetali il loro effetto sarebbe stato ben più potente, ma non solo, queste donne rammentavano che esisteva "un tempo balsamico" di raccolta che corrispondeva a quel periodo dell'anno nel quale questi "erbi" sono più ricchi di sostanza utili e in realtà non fu per caso se Paracelso (uno dei padri della chimica farmaceutica)un giorno ebbe a dire: "Ho imparato più da queste donne che dai libri di Galeno ed Ippocrate"e se lo diceva lui... 

Giacomo il mugnaio. La leggenda del più intrigante fantasma garfagnino

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Quello che è indubbio è che di leggende in Garfagnana ne abbiamo

veramente tante, è un mondo vastissimo, un'infinità di storie che si rifanno alle nostre usanze, alcune spiegano l'origine di feste, riti e costumi, altre raccontano perfino l'origine di determinate ricette, altre ancora sono invece legate al paesaggio, magari inerenti ad una casa diroccata o forse a un antico ponte. Alcune leggende infine esaltano un personaggio, a volte famoso, a volte legato al misero "popolino". Difatti quando questi racconti narrano di persone veramente esistite scopriamo che la leggenda racconta una cosa e la verità storica un'altra, ma di tanto in tanto scopriamo qualcosa che appartiene ad entrambi, fondendosi così in un unica narrazione. Questo è il caso di questa leggenda che sto per raccontarvi è una leggenda nata a Gallicano ed ha la particolarità di riferirsi ad un fantasma. I fantasmi ad onor del vero non sono molto presenti nelle leggende garfagnine, spesso le nostre leggende sono legate a personaggi fantastici come il Buffardello, la Margolfa, gli streghi, altre ancora si rifanno ai cosiddetti luoghi della paura, altre si riferiscono ai santi, ma poche sono connesse a persone morte (realmente esistite) diventate in seguito (secondo leggenda) fantasmi. La nobildonna lucchese Lucida Mansi appartiene a questo
Lucida Mansi

stretto mondo, così come il capitano della fortezza delle Verrucole Francesco Accorsini, ma il più intrigante (a mio avviso) rimane il mugnaio Giacomo. La notorietà di questo fantasma non permane tanto nelle sue gesta da ectoplasma, ma rimane alquanto emblematica in quanto questa storia nel suo contesto principale è credibile ed eventualmente lascerebbe anche un ampio margine alla ricerca storica. La leggenda in questione è stata trascritta dall'amico Piero Angelini e grazie a lui siamo riusciti a salvarla dall'oblio dei tempi e al tempo stesso a consegnarla nelle mani esperte degli studiosi. Quello che lascia stupiti di questa narrazione (a differenza di altre leggende) sono i riferimenti precisi, che in questo caso sono moltissimi: date, orari e nomi fanno pensare che non possa essere tutto frutto di immaginazione e folklore, aggiungiamoci poi che il racconto è veramente  avvincente e coinvolgente, alla stessa maniera  di un romanzo di Edgar Allan Poe, ma qui non siamo nella tenebrosa e lugubre Inghilterra vittoriana di metà XIX secolo, siamo a Gallicano, in Garfagnana, nel 1876 e ora vi racconterò quello che accadde ad un povero mugnaio garfagnino.

Il vecchio mulino di Ponte alla Villa poggia le sue fondamenta

sulle rocce che costeggiano il letto del torrente Turrite. Lì, appena sopra il pelo delle acque, è sistemata la grande ruota ruota di legno che dava il moto alle macine. Dalla vicinissima strada provinciale si scorgono però soltanto il tetto e il piano più alto dell'edificio. Nelle due stanze poste su quel piano abitava solitario, nell'anno 1876, un anziano mugnaio di nome Giacomo. Era costui un tipo di poche parole, piuttosto scontroso, ed era anche noto per la sua avarizia. Ai ragazzi incuteva un certo timore anche per il suo aspetto fisico: alto e massiccio, sempre bianco di farina da capo a piedi, risaltava in modo truce sul suo volto una benda nera che gli copriva l'occhio sinistro. Nessuno conosceva le cause di quella ferita e circolavano in proposito vecchie storie. La maggior parte dicevano che in gioventù fosse stato imbarcato su una nave pirata; e sostenevano inoltre che si fosse procurato durante un arrembaggio la larga cicatrice che gli attraversava la parte destra del petto. Per questi motivi i ragazzi del paese, quando erano ben sicuri che non li potesse sentire, parlandone sotto voce fra loro, lo chiamavano “Giacomo il pirata”. In realtà il vecchio badava silenziosamente alle sue faccende e non dava noia a una mosca. Non sarebbe però esatto dire che non aveva nemici, perchè molta gente che si rivolgeva al suo mulino se ne
tornava scontenta perchè gli sembrava troppo pignolo quando tratteneva la molenda. E, in un'epoca in cui la gente lavorava dodici ore al giorno per guadagnare un tozzo di pane, anche un chilo di farina era una benedizione del cielo. L'unica persona con la quale Giacomo si mostrava affabile era un fratello minore, di nome Cesare, che faceva il ciabattino in Campilato. Non si sarebbe detto che i due fossero fratelli tanto erano diversi: per quanto Giacomo era serio e schivo, altrettanto Cesare era allegro ed espansivo, sempre pronto alla burla. Forse proprio perchè era così diverso da lui, forse perchè ormai era l'unico familiare che avesse, il mugnaio era molto affezionato al fratello e si considerava per lui come un padre. Per questo motivo gli abitanti del Ponte alla Villa rimasero impressionati quel giorno che udirono grida fortissime nel mulino e videro uscire il ciabattino sbattendo l'uscio ed andandosene verso Campilato su tutte le furie. Il mattino successivo Brigida, una giovanetta figlia del pastore che abitava allora “Sulla Valle”, se ne partì di buon ora, come ogni giorno, per portare a pascolare le pecore. Giunta al bivio detto
“del Brillo”, alla tenue luce dell'alba, le sembrò di vedere un essere umano sdraiato all'inizio del ponticello che conduce verso Campilato. La fanciulla si avvicinò piano piano, col cuore che gli batteva forte,
Campilato
e la prima cosa che vide fu la benda nera che copriva l'occhio del mugnaio. Allora provò a chiamarlo:
-Giacomo, Giacomo ! -ma l'altro rimase immobile e in silenzio. La pastorella si fece coraggio e si avvicinò ancor di più chiamandolo con un filo di voce. Ma quale non fu il terrore che la prese quando vide un lungo coltellaccio piantato nella gola del povero mugnaio ! Brigida lanciò un urlo e corse a perdifiato verso casa, piangendo e tremando. Così riuscì balbettando a spiegare quello che aveva visto, fece si che il padre scendesse fino al Brillo e si avvicinasse cautamente al corpo disteso nella strada. Il pastore si accorse subito che per il povero mugnaio non c'era più niente da fare. Dallo squarcio aperto nella gola del malcapitato, era uscito tanto di quel sangue da tingere di rosso la strada per tutta la sua larghezza. Il Prefetto Regio di Lucca inviò immediatamente a Gallicano il Commissario di Pubblica Sicurezza con una scorta di dodici carabinieri a cavallo, perchè svolgessero le indagini. Il Commissario interrogò a lungo gli abitanti del Ponte alla Villa e tutti riferirono della tremenda lite che era sorta il giorno precedente fra i due fratelli. Dopo tre giorni di indagini, sei
Loc. Il Brillo
il cerchio giallo indica
dove fu trovato
il cadavere del mugnaio
carabinieri si recarono in Campilato e, per ordine Commissario di Pubblica Sicurezza, arrestarono Cesare e lo condussero a Lucca, nel carcere di San Giorgio. Il processo fu celebrato il mese successivo nel Palazzo della Pretura di Gallicano, dove ora si trova il Comune, e, nonostante le sue disperate invocazioni ed i giuramenti di innocenza, fu dichiarato colpevole dell'omicidio del fratello e condannato a morte mediante l'impiccagione.

In una triste mattina invernale Cesare fu portato al patibolo, la forca era stata appositamente innalzata in Piazzetta, la gente per il macabro evento si era accalcata sul luogo dell'esecuzione, perfino dalle finestre delle abitazioni si aspettava il compimento. Probabilmente a tale vista il condannato cominciò a maledire i presenti e si lanciò nel peggiore degli anatemi: il fantasma del fratello Giacomo nelle notti di luna piena avrebbe vagato per il paese di Gallicano, partendo proprio dal luogo della sua uccisione. Queste minacce però non spaventarono il boia che, alle ore 6:15 del 13 novembre 1876, eseguì la sentenza alla presenza delle autorità. L'impressione che questo fattaccio ebbe sui gallicanesi fu sconcertante, si vociferava nei mesi e negli anni seguenti di strane presenze nel castello del paese, le persone

Piazzetta San Giovanni 
luogo dell'esecuzione
avevano sentore di essere sinistramente seguite per le strette viuzze, si diceva addirittura che si sentiva bussare alle porte o alle finestre, c'era anche chi giurava di averlo visto aggirarsi nei pressi della Pretura. Rimase il fatto che nel 1884 per scongiurare ogni paura, proprio lì, al Brillo, dove fu assassinato Giacomo fu eretta una mestaina, infatti era consuetudine nei luoghi maledetti costruire una marginetta con lo scopo di esorcizzare e proteggere, ricordando al contempo l'osservanza di una preghiera.

Dopo 136 anni quella "mestaina", oggi, 2020, è ancora lì, per esorcizzare ogni turbamento, nel medesimo luogo dove fu trovato cadavere il mugnaio Giacomo, anche quel ponticello che nel 1876 era

La mestaina oggi
intriso del suo sangue e che conduce in Campilato esiste sempre... Solo il fantasma di Giacomo può essere considerato un mito, per il resto sono troppe le attinenze, i legami e i riferimenti legati alla realtà per consegnare in modo totale questa storia fra le braccia della leggenda.

Ringraziamento

Rinnovo il ringraziamento a Piero Angelini per aver riportato in vita questa bella leggenda.

Tre famosi condottieri romani che lasciarono il segno in Garfagnana...

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Condottieri, comandanti e valorosi guerrieri, erano loro i veri eroi,

gli idoli incontrastati, nonchè le autentiche leggende viventi nell'antica Roma. Oggi questi idoli ne abbiamo sparsi un po' in tutti i campi dello spettacolo: sport, cinema, musica... Un colpo di tacco di Cristiano Ronaldo non manca di mandare in visibilio uno stadio intero. A Roma 2000 anni fa lo stesso effetto lo faceva il gladiatore più famoso di tutti: Spartacus, un fendente della sua spada generava un'esplosione d'entusiasmo in tutto il Colosseo e se nei cosiddetti "peplum" il famoso attore di turno si beatifica delle sue artificiali vittorie passando sotto un posticcio arco di trionfo, al tempo Scipione l'Africano in barba a qualsiasi finzione cinematografica, non recitava, lui attraversava veramente questi possenti archi, fra la folla stipata che lo acclamava come un vero e proprio Dio. D'altronde al tempo la popolarità si misurava in base alle terre conquistate, più conquiste si facevano più notorietà si acquisiva e più notorietà si acquisiva più potere si otteneva. Di questi condottieri bramosi di potere e di fama, alcuni ne sono passati anche in Garfagnana e tre di loro hanno lasciato un segno indelebile nella storia del paese a cui (a quanto pare) hanno dato il
nome. Infatti così fu  per un discendente della "gens" Minucia, riconosciuta da tempo immemore come un'antichissima famiglia patrizia, si parlava di essa fin dai tempi della repubblica e l'importanza di questa stirpe nei secoli a venire acquisì sempre più prestigio ed importanza, tanto da dare il nome a diversi monumenti dell'antica Roma: il Pons Minucius (un ponte lungo la via Flaminia), il Porticus Minucia e perfino una strada: la via Minucia, che collegava Benevento con Brindisi. Duecento anni prima della venuta di Cristo, un'ennesimo illustre figlio di questa progenie ebbe l'onore di dare il nome a un paese garfagnino. Lui era Quinto Minucio Termo e il paese in questione era Minucciano. La storia di questo condottiero cominciò ad adornarsi di gloria quando nel 202 a.C era al servizio di Scipione come tribuno militare nella campagna d'Africa. Da li in poi fu un continuo successo: nel 201 
a.C fu nominato tribuno della plebe, nel 197 a.C "edile curule" (il magistrato che aveva cura degli edifici, delle strade, degli spettacoli e della polizia urbana), successivamente venne incaricato di fondare sei nuove colonie lungo le coste italiane. Ma fu nel 196 a.C che la sua carriera toccò l'apice, quando da pretore gli fu affidata la provincia della Spagna Citerione, in men che non si dica riuscì a
Minucciano

sedare ogni rivolta e a consolidare nuovamente il potere di Roma in quella parte di penisola iberica. L'anno dopo tornò a Roma dove gli fu tributato il trionfo... Ma con tutti questi luoghi lontani migliaia di chilometri dalla Garfagnana, Minucciano cosa c'entra? Minucciano, o meglio ancora quelle terre che diventeranno Minucciano, cominceranno a salire agli onori delle cronache verso il 193 a.C, quando da console a Quinto Minucio Termo fu affidata la Liguria come provincia, li, e in quelle vicine montagne era infatti scoppiata una rivolta, gli Apuani stavano mettendo a ferro e a fuoco ogni accampamento romano in terra di Garfagnana e anche in quei versanti che davano sul mar Ligure. Minucio Termo fu quindi inviato in questi luoghi per ripetere quello che anni prima aveva fatto in Spagna. Da subito il furbo console capì che questi "barbari" nostrali erano fatti di un'altra pasta in confronto agli spagnoli, tant'è, per paura di essere attaccato portò a Pisa il suo quartier generale, ben lontano dal centro delle rivolte. In inferiorità numerica fu costretto più volte sulla difensiva e 
nei boschi garfagnini in più di un'occasione  fu amaramente sconfitto. Nonostante le sconfitte il suo "imperium" fu rinnovato, furono inviati finalmente (per lui) dei rinforzi e l'anno successivo (192 a.C) grazie a questo ottenne delle vittorie decisive contro gli Apuani. A quanto pare, da fonti non documentate, fu proprio dove oggi sorge il borgo garfagnino che Quinto Minucio Termo, malgrado la vittoriosa battaglia, rischiò di veder distruggere le sue legioni. Il notturno e improvviso agguato perpetrato dagli Apuani
all'accampamento del celeberrimo condottiero fece seriamente vacillare i legionari romani, tuttavia i militi dell'Urbe seppero reagire e fecero propria la vittoria. Sembra proprio grazie a questo successo che il nome di Minucio Termo rimase legato a questa terra a perpetua memoria. Ma come spesso succede a una luminosa "stella", dopo anni di successi ed acclamazioni arriva anche il periodo ed il tempo in cui questa stella si oscura. Gelosie ed invidie furono le motivazioni principali per cui la stella di Minucio si smorzò definitivamente. Rientrato a Roma nel 190 a.C il console "garfagnino" chiese il trionfo per le vittorie ottenute, ma gli fu negato per la forte opposizione di Catone che lo accusava (si dice ingiustamente)di aver ucciso dieci uomini liberi in Liguria, di aver inventato false battaglie e di aver esagerato con il numero di nemici uccisi. Oltre a spegnersi la buona stella, nel 189 a.C si spense anche la vita di Minucio, morto in battaglia nella guerra contro i Galati.

Invece a questo generale romano bastarono alcuni mesi di sosta in Garfagnana, senza combattere nessuna battaglia o uccidere

chicchessia per dare il suo nome a ben quattro paesi. Ma, ad onor del vero, meno si aveva a che fare con questo personaggio e meglio era. In fatto a desiderio di potere e di fama (buona o cattiva che fosse non gli importava), Lucio Cornelio Silla non lo batteva nessuno. Tra i condottieri romani di epoca repubblicana fu quello che si avvicinò di più all'accecante bagliore del potere senza confini. Gli antichi lo descrivevano come uomo senza scrupoli, questa mancanza lo portava a tradire amici e ad eliminare chi, forse un giorno lo avrebbe potuto tradire. Rimase comunque un abilissimo generale, anche se il suo esercito non lo seguiva per fedeltà, ma solo per le laute ricompense che gli offriva. La vita di Silla fu segnata da una continua scalata alla gerarchia sociale, fin da piccolo, quando nacque da una famiglia nobile decaduta. La sua gioventù fu poi molto "chiacchierata", si diceva che si faceva mantenere da una prostituta greca che, a quanto pare gli lasciò in avere una cospicua eredità. I destini suoi e della Garfagnana s'incrociarono nel 102 a.C, quando partì da Roma con le sue legioni per aiutare Gaio Mario e i suoi legionari a sconfiggere nella lontana Gallia i Cimbri e Teutoni. Nel suo tragitto per arrivare nell'attuale Francia passò anche in prossimità dell'attuale borgo di Sillano e li si fermò. Il rigido inverno garfagnino e le abbondanti nevicate non permetteva all'esercito di Silla di attraversare le montagne, perciò il generale decise di svernare su questi monti in attesa di tempi migliori. Furono costruite così delle robuste capanne di legno per ripararsi dai rigori del freddo, in attesa della primavera. All'arrivo della buona stagione questa capanne furono abbandonate, l'esercito riprese la marcia verso la Gallia e coloro che abitavano quelle zone s'insediarono in queste baracche lasciate dai soldati. Non a caso un detto popolare dice che:"Sillano, Sillico, Sillicano e Sillicagnana sono i paesi più vecchi della Garfagnana". Fattostà che una volta giunto a destinazione, 
Silla sconfisse i nemici presso Acquae Sextie(oggi Aix en Provnce). Una volta tornato a Roma cominciò veramente a fare piazza pulita di tutti i suoi nemici e nell' 82 a.C, dopo la battaglia di Porta Collina entrava a Roma e assumeva pieni poteri, consacrandosi dittatore. 
Quando la sua figura sembrava ormai assimilata a quella di un monarca assoluto, Silla sorprese tutti e abbandonò il potere, ritirandosi a vita privata. Le ragioni di questa sua scelta non sono chiare: forse l'effetto della grave malattia alla pelle che lo portò alla morte nel giro di un anno, forse la voglia di godersi la vita al fianco di Valeria, la sua quinta moglie.

Il prossimo personaggio che vado a raccontarvi non raggiunse mai la celebrità dei suoi colleghi qui sopra citati e se si vuole la sua fama non è legata a conquiste, vittorie o a chissà quale epiche

imprese. Anzi, la sua notorietà assunse agli altari della gloria ben 1700 anni dopo la sua morte, quando nel 1747 nell'odierno comune piacentino di Lugagnano fu rinvenuta una gigantesca tavola di bronzo dalle misure stratosferiche: un metro e trentotto di altezza, due metri e ottantasei di larghezza, pari ad un peso di circa duecento chili. Questo ritrovato di epoca traianea (96 d.C-117 d.C) prese il nome di "Tabula alimentaria di Veleia". Il documento testimoniava un'antica forma di quello che oggi i politologi chiamerebbero "welfare", che non è altro che la fruizione dei servizi sociali ritenuti indispensabili al cittadino. L'imperatore Traiano difatti fondò "l'istituto degli Alimenta", questo istituto prevedeva un prestito ai cittadini da parte dello Stato per acquistare terreni o grandi appezzamenti di terra, dietro garanzia ipotecaria, i cui interessi venivano esclusivamente destinati al mantenimento dei giovani in situazione di difficoltà. L'iniziativa puntava ad un duplice scopo: sostenere e rilanciare l'agricoltura nell'Italia settentrionale e assicurare un futuro degno di tale nome a quelle
generazioni di giovani che non avevano i mezzi per sostenersi. Rimane il fatto che in questo vasto elenco di nomi trovati nella lastra bronzea spuntava anche un certo Cornelius Gallicanus, che come sembra, grazie a ciò, acquistò il suo appezzamento di terra nella futura Gallicano. Caio Cornelius Gallicanus a quanto pare non fu mai un militare, ma un solerte funzionario dello Stato, ricoprì molti ed importanti ruoli amministrativi nelle varie provincie dell'impero fino a che arrivò il giorno della meritata pensione... L'imperatore Traiano gli affidò però un ultimo compito quello di "curatore rei alimenta", un'ennesimo programma di fondi pubblici per la sussistenza ai bambini poveri. Fatto questo, Cornelius prese possesso da colono romano delle sue nuove terre in Garfagnana, le stesse terre che Roma incentivava a colonizzare attraverso forti sgravi fiscali, dopo che gli Apuani furono sconfitti e cacciati per sempre.
Gallicano

Ma la vita anche anche al tempo era effimera, breve e fuggevole e se per molti come concetto principale della propria esistenza valeva il successo e la bramosia di potere, altri ancora ricordavano a questi quanto era difficile vivere con questo pensiero fisso nella testa, perchè bene o male i filosofi latini ricordavano a tutti il riassunto universale della vita del "Veni, vide, vale"... "vieni, guarda e...saluta".


Bibliografia

  • - Mario Enzo Migliori - L’Origo Gentis Romanae. Ianiculum e Saturnia 2015
  • - Dionigi di Alicarnasso - Antichità romane - Libro VIII
  •  - Jérôme Carcopino - Silla o la monarchia mancata - trad. Alberto Consiglio - Roma - Longanesi - 1943 
Sitografia

  • https://wsimag.com/it/cultura/49982-la-tabula-alimentaria-di-veleia


Quello che fu il "vero" coprifuoco: Garfagnana 1943

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Maledetta pandemia!!! Oltre al fatto principale di aver prodotto

oltre un milione di morti ed aver fatto ammalare una cospicua fetta della popolazione mondiale, hai infettato, oltre che noi poveri mortali, anche la nostra bella lingua: l'italiano. Hai introdotto nelle nostre bocche delle strane parole anglofone che fino a pochi mesi fa non ne conoscevamo l'esistenza e ne tanto meno il significato. Al posto della parola "chiusura" c'hai imposto quella strana parola: "lockdown". Il lavoro da casa si è invece trasformato in "smart working", le goccioline di saliva si sono trasfigurate nella parola "droplet" e qualcuno, non contento dello scempio linguistico in atto ha voluto deformare anche il "nobil parlare", trasformando la parola latina "virus" in un terrifico anglicismo che nel parlato comune l'ha portata a mutarsi nel termine "vairus"... Tale deturpamento lessicale non finisce però qui. Infatti come spesso accade (anche e soprattutto in questo periodo di emergenza sanitaria) usiamo determinate parole (stavolta italianissime) dandogli un significato non proprio consono al reale
contenuto della parola stessa. Il riferimento non è puramente casuale ed è attinente al termine più in voga in questa stagione autunno-inverno 2020, il vocabolo in questione è..:"coprifuoco". A certe parole, oltre che dargli il giusto significato, bisogna portargli il giusto rispetto, e noi, in Garfagnana, sappiamo bene cosa voleva dire "coprifuoco". Se si vuole capisco pure i signori politici, che questa parola incute paura e sgomento e lo sgomento di conseguenza porta al rispetto delle regole, però il riguardo a chi il vero coprifuoco l'ha patito sulla propria pelle direi che è a dir poco doveroso. La seconda guerra mondiale nella valle ha lasciato segni indelebili e seppur nel rispetto dell'attuale pericolo che stiamo correndo non è paragonabile a quello che per lunghi cinque anni accadde ai nostri nonni. Rimanere adesso chiusi in casa è un gioco da ragazzi: televisione, play station, termosifoni "a palla"... ma un coprifuoco in Garfagnana nel 1943 non era questo... Adesso vi spiego quello che succedeva...poi ditemi voi se è la solita cosa...

Prima di andare al nocciolo della questione è giusto però chiarire la genesi di questo termine, che non è figlia di quel tremendo periodico bellico, ma la sua nascita avvenne molto, ma molto tempo prima. Fu Guglielmo il Conquistatore, il primo re inglese che nel 1068 impose  lo spegnimento di tutti i fuochi del regno dopo il rintocco delle campane delle otto di sera. La maniera più usuale di smorzare queste fiamme era quella di "coprire il fuoco" con della cenere e il motivo ufficiale di ciò fu quello di prevenire ogni tipo d'incendio causale. Al tempo stesso però, non essendoci più luce nelle strade, costrinse i cittadini a rimanere chiusi in casa, vista la palese difficoltà che poteva esserci a camminare nel buio. Il termine fu "riesumato" e poi riutilizzato nuovamente (e stavolta con cognizione di causa) anche nella seconda guerra mondiale.

Era la mattina del 26 luglio 1943, il risveglio per gli italiani fu brusco e confuso. Il giorno prima era caduto il fascismo, lo stesso Mussolini era stato arrestato. La confusione e il subbuglio regnava in tutto il Paese. A riportare l'ordine, lo stesso giorno, fu un brevissimo comunicato stampa di sole due righe: "Il ministro Badoglio, succeduto a Mussolini ha indetto per l'Italia lo stato d'assedio con la legge del coprifuoco. In tutte le città viene creato il Commissariato Militare". Pertanto dalle otto di sera alle sei del mattino, tutti dovevano rimanere in casa e come se non bastasse, così come sottolineava il comunicato del Maresciallo Badoglio, vigeva anche lo stato d'assedio. Per quelli che non sapevano cosa fosse o come comportarsi dissipò ogni dubbio la circolare Roatta (Capo di Stato Maggiore): "Muovendo contro gruppi d'individui che perturbino ordine et non si attengono a prescrizioni autorità militare, si proceda in formazione di combattimento et si apra il fuoco a distanza anche con mortai et artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche. Medesimo procedimento venga usato dai reparti in posizione contro gruppi di individui avanzati. Non è ammesso tiro nell'aria, si tira sempre a colpire come in combattimento. Apertura immediata del fuoco contro automezzi che non si fermano all'intimazione. I caporioni e gli istigatori di disordini, riconosciuti come tali, siano senz'altro fucilati se colti sul fatto, altrimenti siano giudicati immediatamente dal Tribunale di Guerra sedente in veste di Tribunale straordinario"... Alla faccia di qualsiasi d.p.c.m !!! Per farla breve i militari avevano l'ordine di sparare a chiunque fosse sorpreso nell'atto di violare il coprifuoco. Contestualmente furono vietati gli assembramenti di varia natura, inclusi gli spettacoli teatrali. Tutte queste prudenze e precauzioni erano messe in atto allo scopo di fronteggiare una temuta sollevazione dei fascisti. Ma in Garfagnana delle sollevazioni e degli spettacoli teatrali in tutta sincerità non importava un baffo, quello che ai

garfagnini importava era il lavoro nei campi, quel lavoro che poi avrebbe portato il pane in tavola, per cui quello che non tornava ai nostri nonni di questo coprifuoco era l'orario. Si, perchè cominciare a lavorare alle sei del mattino per buona parte dei contadini voleva dire ritardare su tutte quelle mansioni quotidiane che servivano al buon andamento dell'attività. Ad esempio gli animali si dovevano accudire ben prima delle sei del mattino, bisognava poi pulire la stalla, preparare il fieno, dargli da mangiare, mungerli e preparare gli attrezzi per affrontare il duro lavoro nei campi che cominciava proprio quando iniziava a fare giorno, per di più eravamo anche in estate e ogni ora di luce in più  era preziosissima. Fortuna volle che buona parte di discrezionalità sugli orari il governo centrale la affidò ai prefetti, era chiaro che le esigenze della popolazione variavano in base al luogo in cui si abitava, in città si poteva anche rispettare l'orario imposto dal governo, ma in Garfagnana sicuramente no. Perciò il commissario prefettizio di Lucca


Martinelli, decise (in maniera anche piuttosto tardiva)di accogliere le rimostranze dei sindaci garfagnini, portando l'orario di fine coprifuoco alle 4 del mattino, nell'ordinanza veniva comunque ribadita una norma fondamentale e a dir poco basilare...: "Sarà 
fucilato senza preavviso chiunque si trovi a transitare durante le predette ore". Ma questa non era l'unica paura per i garfagnini. Come ben si sa nella nostra bella valle proprio in quel periodo si attestò per lunghissimi mesi il fronte (Linea Gotica), gli alleati da una parte e i tedeschi dall'altra, eravamo quindi in piena zona di guerra e i bombardamenti se non erano all'ordine del giorno poco ci mancava e fu proprio per ovviare a questo pericolo che ai garfagnini (e agli italiani) capitò fra capo e collo una nuova ed urgente norma: l'oscuramento. Nelle ore notturne qualsiasi fonte di luce non doveva essere accesa in nessuna casa, bisognava "stompare" (chiudere in dialetto garfagnino) ogni porta e ogni finestra per evitare così di far uscire il benchè minimo filo di luce, facendo in questo modo s'impediva di essere bersaglio per eventuali aerei nemici che giravano la notte. Insomma, tanto per rendere  chiaro il quadro della situazione bisognava essere in casa alle otto di sera, al buio e poi anche al freddo (i termosifoni ancora non esistevano...), eventuali trasgressori sarebbero stati immediatamente passati per le armi. Questo se lo ricordava bene la Beppa di Gallicano, quando la notte si alzava per andare in bagno alla luce di una flebile fiamma di una consumata candela. Il ricordo del Mario di Castelnuovo è invece un altro e la memoria va a quelle notti insonni insieme al suo babbo, quando facevano a turno per dormire,
pronti a scappare e a svegliare tutta la famiglia in caso di attacco aereo. Era quella infatti l'unica eccezione che si poteva fare alla regola del coprifuoco, solo in occasione di un bombardamento si poteva fuggire di casa per arrivare a ripararsi alla più vicina cantina o al prossimo rifugio anti aereo. Non mancava nemmeno, chi come al solito, approfittava della situazione, rischiando veramente come non mai la propria pelle, difatti il buio totale e l'assenza dalle strade di persone e mezzi faceva si che coraggiosissimi ladruncoli entrassero a rubare nei negozi di alimentari. D'altronde le lontane memorie degli anziani garfagnini ricordano di altre persone che sfidavano la dura legge del coprifuoco, erano le loro mamme, che come topi uscivano di casa, svicolando da un cortile ad un altro e da un portone ad un altro ancora, quell'affannosa corsa "solo" per recapitare qualcosa di urgente o di necessario ad un vicino bisognoso. Tutto ciò andò avanti ancora fino al 1944. Più di un anno durò il coprifuoco. Nel corso di quel tempo anche il governo di Badoglio modificò più volte gli orari di inizio e fine, poi finalmente qualcuno capì che prolungando ancora questa disgraziata regola si rischiava di far morire 
sotto i bombardamenti centinaia di persone, così terminò e i garfagnini poterono allontanarsi dal pericolo, cominciando di fatto una nuova esperienza: lo sfollamento.

In conclusione, non rimane che ricordare a chi usa le parole a vanvera, cosa si nasconde dietro ad un singolo vocabolo. Ogni termine ha il suo peso, il suo specifico significato e soprattutto la sua storia. Il sociologo francese Gustave Le Bon rammentava ai suoi alunni:" Certe parole sembrano possedere un potere magico formidabile. Migliaia di uomini si son fatti uccidere per le parole di cui non hanno mai compreso il significato..." . 

 

Bibliografia

  • "Coprifuoco. Vita quotidiana degli italiani nella guerra civile" di Gian Franco Venè. Mondadori Editore
  • Testimonianze dirette da me raccolte 

Cronaca di un'assedio in terra di Garfagnana. Correva l'anno 1613...

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E' anche grazie a  Miguel De Cervantes, Ludovico Ariosto e Chretien de Troyes che fin da bambini ci siamo innamorati di quei valorosi cavalieri medievali e delle loro epiche imprese. Sono questi autori fra i principali alfieri del "romanzo cavalleresco". Guerre e imprese militari sono sempre presenti in questo tipo di letteratura, dove il protagonista diventa il cavaliere senza macchia e senza peccato. Ma una cosa è leggere un romanzo e un'altra cosa ancora è leggere le reali cronache di quei lontani tempi. Per dirla tutta, talvolta, anche i libri di storia che studiavamo a scuola c'hanno stimolato questa curiosità, ma poi questo desiderio di sapere veniva ucciso da date, luoghi e nomi a dir poco noiosi e pesanti, non permettendoci mai di entrare nel cuore di quello che potevano essere le vicende e gli aneddoti che si celavano dietro a un'assedio o a una battaglia, non dandoci fra altro l'essenza, la percezione e il sentimento che passava per "il cor umano". Leggere oggi di queste battaglie accadute secoli fa è come leggere su un giornale un fatto di cronaca successo il giorno prima, con la differenza che questi antichi scritti hanno il potere di catapultarci in un mondo fiabesco, completamente diverso dal nostro, un mondo quasi irreale, ma che nella realtà dei tempi remoti era veramente fatto da epici cavalieri, sanguinosi combattimenti e da valorosi personaggi, cose queste che avevamo solamente visto

nei cinema o letto nei racconti d'avventura. Ecco allora, nella drammaticità di quei fatti quello che accadde in terra di Garfagnana, molto, ma molto tempo fa. Correva l'anno 1613 e quello che andremo  fedelmente a raccontare dai resoconti dell'epoca ci riporta  a quella che fu l'ultima guerra e una delle ultimissime battaglie fra il Ducato di Modena e la Repubblica di Lucca.

Antefatto 

La pace in Garfagnana regnava già da molto tempo, il re di Spagna era riuscito fra mille difficoltà a "mettere la briglia" sia ai lucchesi che hai modenesi, ma nonostante ciò ai lucchesi stessi non andava proprio giù il fatto che il ducato estense avesse in suo possesso una larga porzione della valle e difatti era secoli che la città della pantera rivendicava in questi luoghi svariati domini. Infatti ogni scusa era buona per rinfocolare smanie di guerra e minacce di occupazione di terre sotto il controllo di Modena. Destino volle, che di li a poco l'occasione capitò propizia. Come infatti avviene spesso ad accendere la miccia per il "casus belli" fu un'insulsa questione di confine: quattro stolte pecore "modenesi" che erano al pascolo avevano impunemente "invaso" i territori lucchesi in quel di Motrone. Questo bastò (e sottolineerei, avanzò...) per riattizzare quei fuochi che da anni erano sopiti sotto la cenere. Rimane il fatto che un branco di pecore ebbe la forza di smuovere migliaia di soldati e di dare il via a sanguinose e violente lotte.

La vicenda

Era il 22 di maggio 1613 quando i lucchesi entrarono nei territori modenesi e precisamente nel borgo di Vallico, luogo di provenienza delle ignare pecore. Lì, misero a ferro e fuoco tutta la campagna, questi nefasti soldati arrivarono perfino a scortecciare i castagni affinchè seccassero e a tagliare tutti gli alberi da frutto. Il probo conte modenese Tiberio Ricci insieme agli abitanti del paese convinse gli assalitori a rinunciare a ulteriori e violente "imprese". Nello stesso tempo a Modena visto il pericolo che correva la provincia garfagnina stavano celermente riunendo le guarnigioni, pronte ad entrare nella valle a protezione delle loro terre: "Il duca spedì colà con grosso nerbo di gente il Marchese Ippolito Bentivoglio suo generale. Poco tempo dopo gli tenner dietro il Principe Alfonso primogenito del Duca e susseguentemente Luigi suo fratello per assistere a quella guerra. Condusse quelli seco fra le altre milizie altre quattro compagnie di cavalleria, composta la maggior parte di gente nobile, e gente che al foco d'altre più riguardevoli guerre avea data prova del suo valore. Sfilarono poi a quella volta migliaia di fanterie lombarde con artiglierie e gran salmerie di vettovaglie" . Dal canto suo anche il generale lucchese Lucchesini (così destino volle che si chiamasse...)fece altrettanto, riunì un gran numero di soldati a Gallicano e un'altra parte di essi (ben ottocento) fu destinato a rafforzare la già lucchese Castiglione. Fra una schermaglia e l'altra arrivò così il 22 luglio e i lucchesi decisero di sferrare un perentorio e forse decisivo attacco a Monte Perpoli, luogo di fondamentale importanza strategica. Da q
Monte Perpoli
uella sommità, infatti si apriva la strada per Castelnuovo e per il cuore della Garfagnana. Di questa eventuale conquista il primo paese a farne le spese fu Cascio. Il fato volle che quel borgo si trovasse proprio sulla medesima strada che portava all'agognata meta: "Giunto a Cascio, distrutta e senza alcun presidio, fu dagli abitanti, presi di sorpresa e col timore di essere uccisi, a persuasione del curato loro, che era anche lucchese, incontrato in processione con la Croce, il clero vilmente cedette la terra". Senza ormai più nessun ostacolo davanti, la strada per la conquista della collina di Monte Perpoli si spalancava alle orde lucchesi e Castelnuovo, capitale estense in Garfagnana, tremava dalla paura. Gli scontri continuarono violentissimi per giorni e giorni, perdere Castelnuovo avrebbe significato una sconfitta politica e militare senza uguali, perciò bisognava difendere con ogni mezzo e con ogni soldato il potenziale attacco alla cittadina. Con grande sorpresa a un certo punto della battaglia, Dio volle per gli Estensi, che i lucchesi forse soddisfatti delle vendette avute decisero di rinunciare nell'impresa, ritirandosi in men che non si dica nei loro forti, ma un fatto a dir poco curioso e casuale dette il "la" al contrattacco modenese:"Nel medesimo tempo della ritirata, una torricella, piena di polvere d'archibugio, inserita nel muro della fortezza di Gallicano (n.d.r: paese già sotto Lucca), prese fuoco esplodendo con grande rumore. Tutti furono convinti che Gallicano fosse stato tradito e preso. Da 
Mappa di Gallicano
con torri e mura

tutti fu creduto che tal fuoco fosse opera di una donna di Molazzana, maritata in Gallicano, che fu quella che avvisò li medesimi modenesi all'assalto di Gallicano con dirgli che non c'era chi lo difendesse, come in effetti era vero perchè infatti il primo assalto, lo sostennero i vecchi, i preti e le donne e se non fosse stato per le donne di Gallicano, le quali di tanto in tanto portavano qualche cosa da bere, risultando di grande aiuto rinfrancando gli assediati e caricandoli i loro moschetti".
Per ben capirsi, quattrocento "valorosi" soldati lucchesi messi a difesa del paese di Gallicano, al sentir lo scoppio casuale di una torre e credendo di conseguenza di essere attaccati, si dettero a precipitosa fuga, abbandonando così i gallicanesi al loro amaro destino. Detto fatto, di fronte a ciò il principe Alfonso d'Este, grazie anche anche alla soffiata della suddetta "signora" di Molazzana ottenne grande speranza di conquistare Gallicano, la presa del paese sarebbe stata decisiva per le sorti della guerra. In quel castello c'erano tutti gli armamenti lucchesi, nonchè tutte le provviste che avrebbero consentito il proseguimento di quella maledetta guerra. Ma come abbiamo letto l'intrepido popolo di Gallicano riuscì a resistere, intanto i lucchesi rinvennero e i modenesi furono costretti a ritirarsi dall'assedio in attesa anch'essi di rinforzi. Gli Estensi comunque sia non demorsero e una volta giunti a destinazione i suddetti rinforzi, nella stessa notte conquistarono il Monte Termina, posto proprio sopra Gallicano: "Nell'ardore della battaglia essendo sopraggiunta la notte riuscì ai soldati estensi d'impadronirsi d'un forte soprastante quel castello, dal quale con tiri di moschetto e più di cannoni cominciarono nel dì seguente a infestar cotanto la guarnigione di Gallicano, che non potevano nè guardar le mura, nè passar per le strade essendo troppo scoperti. Allora i lucchesi per riparar a questo disordine, con celerità mirabile piantarono in sito più
eminente un altro forte, chiamato Lo Zingaro, perchè fabbricato dal colonnello del borgo, che portava quello cognome, e soprannome, Soldato di molto valore
". Ecco che, come vuole la regola del romanzo cavalleresco, comparire nella nostra storia l'ardito cavaliere di turno: messer Giovanni Vitali da Pavia, colonnello nel borgo di Gallicano, da tutti semplicemente conosciuto come lo Zingaro... C'era poco da fare, se si voleva salvare Gallicano il forte dello "Zingaro"(posto in un'altura ancora superiore al forte del Monte Termina), avrebbe dovuto resistere fino all'estremo sacrificio di tutti i suoi uomini e questo lo sapevano bene anche i modenesi. Pertanto, al sorgere del nuovo giorno gli Estensi radunate tutte le forze investirono quel forte con tremendo assalto: "Durò il conflitto per quattro ore con grande ardore, e sprezzo della vita da ambedue le parti. Entrarono anche molti dentro arrampicandosi per l'erto monte fin sui bastioni, e si venne alle spade, ma furono ributtati e costretti finalmente gli assalitori a ritirarsi. Vi perirono molti de' lucchesi, ma molti più de' modenesi, perchè esposti alle grandine delle moschetterie, e tra i non pochi feriti vi fu Alberto Balugoli con due altri Nobili di Modena". 
Lo stesso Zingaro, seppur colonello, non rimase a guardare e si buttò impavido ed indomito a capofitto nei sanguinosi scontri: "Ci fu uno dei modenesi, che per
mostrare maggiore coraggio degli altri, azzardò di saltare sul bastione e metter la mano sopra un moschetto, per poi fuggire, ma Zingaro, afferrandolo per il collo, con il suo pugnale gli tagliò la gola".
Dall'altra parte stessa fortuna non ebbe l'altrettanto ardimentoso capitano estense Nicolò Ponticelli: "...e fra questi perirono il Capitano Nicolò Ponticelli da Castelnuovo colpito al collo da un tiro di moschetto". Viste le gravi perdite il morale dei modenesi era ormai sotto i tacchi, c'era da ricompattare le file e riorganizzare l'esercito, quello che però era ormai chiaro nelle teste degli estensi che ogni piano e ogni progetto di conquistare Gallicano era definitivamente fallito. Quello che invece non si era perso era il desiderio di fargliela pagare cara ai lucchesi e le mire modenesi si spostarono clamorosamente sull'obbiettivo più grosso: sull'enclave lucchese di Castiglione Garfagnana: "Pertanto veggendosi troppo difficile l'acquisto di Gallicano, di li a pochi giorni il Principe Luigi e il Bentivoglio determinarono di portarli all'assedio della forte Terra, e Rocca di Castiglione". Prima di
Castiglione

abbandonare la zona, i modenesi a ricordo di quello che i lucchesi fecero a Vallico mesi prima, decisero di lasciare anch'essi il medesimo "regalo", cosicchè tutti i castagni furono miseramente scorticati, in questo modo il prossimo autunno non avrebbero dato i loro preziosi frutti.

I giorni della gloria 

Furono due gli eroi di questa guerra a salire sugli altari della gloria: il generale Iacopo Lucchesini, che grazie a questo conflitto fu nominato Magistrato dell'Anzianato e il leggendario Zingaro, il vero e assoluto protagonista di tutta questa vicenda: "Consiglio generale del 7 novembre 1613. Dal consiglio generale fu decreto: che visto il valore dimostrato dal colonnello Giovanni Vitali da Pavia, detto lo Zingaro nell'ultima guerra di Garfagnana, contro il duca di Modena, si intenda costituita dote alle due sue figlie nate, di scudi duegento per ciascuna, da pagarseli dall'Uffizio delle entrate quando si mariteranno o si monacheranno, e a esso per aiuto di costà, si intenda fatto di donazione di scudi cento da pagarseli come sopra". 

Epilogo

La guerra come scritto continuò con altrettanti violenti scontri in altri lidi garfagnini, finchè un  bel giorno qualcuno si rinvenne che era arrivato il momento di chiudere questa inutile guerra e allora come due bambini capricciosi Modena e Lucca furono presi per le orecchie dalle potentissime autorità milanesi e spagnole che così decretarono: "Che i sudditi del Signor Duca di Modena continuino la possessione di tutti i loro beni che furono loro aggiudicati per il lodo del Signor Conte Fuentes, cioè quelli che possedevano prima della guerra. Che i lucchesi lascino i luoghi i posti occupati sul territorio estense, demoliscano tutti i loro forti fabbricati in questa occasione. Che il Duca Cesare anch'egli faccia demolire i posti che tiene in territorio lucchese"... Come si suole dire: tanto rumore per nulla... Dopo tutto lo spargimento di sangue, le lotte e i morti innocenti, ognuno dei contendenti si riprese le solite terre che aveva prima della guerra. Ringraziando Dio, però, per oltre tre secoli in Garfagnana non si parlò e non si fece più guerra. Tutto ricominciò un giorno di primavera inoltrata. Era il 10 giugno 1940, e qualcuno gridò: "Vincere e vinceremo"...


Bibliografia

  • Biblioteca Statale di Lucca: Manoscritto 754, 856
  • Archivio di Stato di Lucca Offizio Sopra le Differenze dei Confini n°454
  • "Ricerche Istoriche sulla Provincia della Garfagnana" di Domenico Pacchi, anno 1785

Quello che (forse) non si è mai saputo sulla I guerra mondiale in Garfagnana (e non solo)

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Perdonatemi... Non vorrei essere accusato di vilipendio alla Patria... ma quel 4 novembre 1918 non fu vera gloria. Quel lontano 4 novembre il generale Armando Diaz nel celeberrimo "Bollettino della Vittoria" annunciò agli italiani il trionfo dell'Italia nella I guerra mondiale: "...l'esercito austro- ungarico è annientato, esso ha subito perdite gravissime...". Ma le perdite gravissime non le subì solamente il nostro "nemico". Seicentocinquantamila soldati morti, 950 mila feriti, 345 mila orfani e 546 mila vittime fra i civili, questi erano i numeri italiani riguardanti la Grande Guerra. Forse una qualsiasi vittoria di una qualsiasi guerra vale questo sacrificio? Credo proprio di no. Ma che ci volete fare, c'era da celebrare una vittoria, c'era da glorificare con ogni enfasi possibile il compimento dell'unità nazionale e la realizzazione degli ideali risorgimentali, per il resto, per le bruttezze, le nefandezze e le ingiustizie che avevano generato questa scellerata guerra i governanti del tempo adottarono la medesima difesa che attua lo
struzzo contro i predatori: mettere la testa sotto la sabbia, o meglio ancora buttare la polvere sotto il tappeto, facendo in modo che nessuno sapesse  degli strascichi che portava dietro di sè questa guerra. Strascichi non solo legati ai numeri sopra citati (che già basterebbero)ma anche a tutta una serie di risvolti poco chiari e poco noti, accaduti prima, durante e dopo il conflitto e che purtroppo si rifletterono su tutto il territorio nazionale e in quella piccola porzione d'Italia che si chiamava (e si chiama ancora) Garfagnana. Tutto quello che andremo a raccontare è supportato da vecchie testimonianze di coloro che combatterono questa Grande Guerra, che di grande ebbe poco. 

Tutta questa brutta storia cominciò ben prima che la nostra nazione decidesse di entrare in guerra. L'Italia era infatti divisa fra interventisti (coloro che volevano la guerra) e neutralisti (coloro che non la volevano). Ma fra la fine del 1914 e il maggio 1915 tutto cambiò, si passò da un convinto neutralismo al più acceso nazionalismo, trascinando di fatto gran parte dell'opinione pubblica su posizioni belligeranti. Un risultato ottenuto attraverso una capillare organizzazione del consenso, una delle prime attuate in maniera così minuziosa in Italia, che avrebbe coinvolto scrittori, testate giornalistiche e intellettuali. La stessa cosa accadde anche in Garfagnana. La stampa locale non aveva più dubbi, dalle posizioni attendiste passò in men che non si dica ad un convinto si alla guerra: "...è l'occasione per la Garfagnana di inserirsi nella storia nazionale e prendere parte alla nascita della nuova società...", così scriveva "La Squilla Apuana". Dello stesso avviso "La Garfagnana" che

a tambur battente pubblicava poesie ed articoli interventisti. Ma chi era che spingeva un'intera nazione verso la guerra? Cosa c'era dietro a questo mutamento? L'industria italiana dalla guerra trasse profitti enormi. Qualche esempio? Fra le industrie più note l'Ansaldo fatturò due volte e si fece pagare due volte un'intera fornitura di cannoni o l'Ilva che al tempo investì una cospicua somma di denaro per finanziare la stampa nazionale e locale perchè creasse nell'opinione pubblica un clima complessivo di consenso alla guerra. Anche la S.M.I prese la palla al balzo e fiutando l'affare convertì la sua produzione in prodotti finiti per l'industria militare e in soli undici mesi (nel 1916) aprì una fabbrica di munizioni a Fornaci di Barga (l'attuale K.M.E). In barba a qualsiasi forma di malcostume da parte dei potentati del tempo "Il Camporgiano" rimase voce libera e rivolgendosi proprio ai ricchi industriali cosi scrisse: "...gli uomini garfagnini ignari nelle loro campagne non vogliono la guerra. Il popolo che lavora, dolora per avere un tozzo di pane da sfamare si e no i propri figli, la vita gli si presenta sotto un altro punto di vista, ha tutt'altro che per il capo i vostri grilli, le vostre chimere, le vostre utopie che l'oziosaggine vi fa passare per fantasia durante il chilo dei vostri lauti pranzi. Se c'è invero una guerra che va combattuta è una guerra interna: all'analfabetismo, alle terre incolte, alle zone malariche, che sono la causa prima della delinquenza". Nonostante questo il 24 maggio 1915 l'Italia entrò in guerra. Nei nostri libri di storia e nella maggior parte della letteratura che parla di questo conflitto si è sempre raccontato di battaglie, di soldati, del Piave che mormorava, di Caporetto e così via, tralasciando di fatto altre incredibili tragedie che i soldati italiani subirono. Infatti non era sufficiente combattere e vincere il nemico per portare a casa la pelle, bisognava salvarsi anche dal proprio esercito... Si, avete capito bene... Si aggiungeva così tragedia nella tragedia. Ma facciamo parlare ancora una volta i numeri: 870 mila militari denunciati, 470 per renitenza, 350 mila il numero dei processi
celebrati, 170 mila le condanne di cui 111 mila per diserzione, 220 mila pene detentive, tra le quali 15 mila ergastoli e infine ciliegina sulla torta, oltre 4 mila condanne a morte, 750 eseguite. Luigi Cadorna (Capo di Stato maggiore dell'esercito) era stato chiaro con i suoi ufficiali, aveva ordinato la massima severità onde mantenere rispetto e disciplina. Di questo se ne rese subito conto Mario di Castelnuovo Garfagnana(classe 1895): "I soldati che si rifiutavano di uscire dalle trincee durante un'assalto potevano essere colpiti alle spalle dai plotoni dei carabinieri". Il motto del generalissimo Cadorna d'altronde non lasciava dubbi: "Morire, non ripiegare". "Perdipiù le lettere che scrivevo a casa -
 continua Mario- mi venivano aperte e lette dagli addetti". Difatti se la lettera del soldato conteneva qualcosa di non pertinente si rischiava seriamente il carcere militare. L'aspetto più tragico furono comunque le condanne a morte. Fra l'ottobre 1915 e l'ottobre 1917 furono eseguite dall'esercito italiano 140 esecuzioni capitali contro i propri soldati. I motivi di ciò erano fra i più assurdi e disparati, si poteva essere fucilati per un ritardo dopo una licenza o per essere stato sorpreso a scrivere una frase ingiuriosa contro un superiore. Si può così anche capire i motivi per cui molti soldati disertavano. Anche perchè se non morivi durante un'assalto alla trincea nemica, rischiavi seriamente che il cervello partisse... La nota offesa "scemo di guerra" nacque proprio durante la I guerra
mondiale. Salvarsi da un assalto ad una trincea nemica lasciava segni psichici indelebili nella testa del povero soldato, altrettanto effetto lo facevano i bombardamenti. Per questi uomini parlavano le cartelle cliniche: "tremori irrefrenabili, ipersensibilità ai rumori, uomini inespressivi, che volgono intorno a sè lo sguardo come uccelli chiusi in gabbia, che camminano con le braccia a penzoloni e piangono in silenzio". Per 40 mila di loro si sarebbero aperte le porte dei manicomi e alcuni di loro erano garfagnini. Al loro rientro in Garfagnana buona parte delle loro famiglie preferì non farle ricoverare, sobbarcandosi di fatto tutte le difficoltà che comportava una persona del genere, ma l'onta non finì li, le autorità (militari)locali fecero visita a queste famiglie, ma non per una parola di conforto o per qualche aiuto, per loro questi uomini erano motivo di vergogna, qualcosa che andava nascosto, era meglio se non facevano vita di paese, erano persone da occultare alla vista dei civili e degli altri soldati che ancora combattevano. Quello che è certo, che alternative per questi soldati ce n'erano poche, quelli che non morivano o non diventavano pazzi venivano fatti prigionieri dagli austriaci. Erano 600 mila i prigionieri italiani, molti di loro (fra i quali anche garfagnini che non fecero più ritorno a casa) furono inviati nei campi di prigionia di Mauthausen (tristemente noto anche nella II seconda guerra mondiale) Theresienstadt (Boemia), Rastatt e Celle (Germania). E' giusto altresì chiarire che tutti questi italiani non furono catturati durante azioni militari, molti di loro si lasciarono catturare, sfuggendo in questo modo alla prima linea. Era una scelta
disperata, dettata dalla speranza di trovare nei campi di prigionia delle condizioni migliori rispetto a quella delle trincee. Ma così non sarà. Terribile fu il loro destino, reso ancor più crudele e beffardo dal nostro governo. Il trattato stipulato all'Aja nel 1907 all'articolo 7 così diceva: "... ai prigionieri deve essere garantito un trattamento alimentare equivalente a quello riservato alle truppe del Paese che li ha catturati". La situazione però anche da un punto di vista alimentare era drammatica. Le nazioni europee non avevano abbastanza cibo per sfamare la propria gente, figurarsi se lo avevano da dare ai prigionieri di un'altra nazione. Fattostà che questo famigerato articolo 7 andò eluso, ma per ovviare a ciò, grazie agli osservatori svizzeri fu deciso che ogni nazione doveva provvedere ai propri prigionieri nei campi di prigionia dove erano reclusi e così fecero Francia, Germania ed Inghilterra. E l'Italia? Il governo italiano in perfetta sintonia con il comando supremo dell'esercito, rifiutò sempre ogni tipo d'intervento statale per i prigionieri italiani, tollerando appena l'invio d'aiuti da parte dei privati cittadini. Questo mancato sostegno secondo le distorte menti dei governanti italiani doveva servire come deterrente per coloro che avessero intenzione di sfuggire alla durezza della vita al fronte con la resa al nemico. Questo "giochino" costò la vita a 100 mila nostri
connazionali, che da quei campi di prigionia non fecero più ritorno. Dall'altra parte, anche gli austriaci (legati dalla medesima motivazione) si lasciavano catturare dagli italiani e ben 500 di questi trovarono il loro luogo di detenzione a Castelnuovo. La loro prigione era nelle scuola "Giovanni Pascoli" e in località Carbonia presso la sede della S.E.L.T Valdarno. In Garfagnana vennero impiegati: "nel rimediare la deficienza delle braccia, dove questa minacci il buon andamento delle opere pubbliche e dei raccolti agricoli". 

Arrivò anche quel fatidico 4 novembre 1918 e la guerra finì. Non finirono però i dolori, le pene e le sofferenze. I soldati garfagnini che persero la vita in quella carneficina furono centinaia: nel comune di Castelnuovo 101 giovani non fecero ritorno, 42 a Piazza al Serchio, ma le salme continuarono ad affluire nella valle anche anni dopo la fine del conflitto, la continuazione del patimento andò avanti ancora per molto tempo. Tutta la Garfagnana si strinse intorno ai propri reduci, molti di questi tornarono a casa sfigurati e mutilati. Quasi un milione furono infatti i feriti gravi: 500 mila mutilati, 74 mila storpi, 21 mila rimasti senza un occhio, quasi duemila completamente ciechi, centoventi senza mani, quasi diecimila fra sordi e muti e oltre cinquemila sfigurati nel viso... Tutti ragazzi di vent'anni o poco più. Questi diventarono i cosiddetti "i grandi mutilati", che pretendevano (giustamente) dallo Stato una contropartita per il loro sacrificio: posti di lavoro, pensioni, assistenza alle vedove, agli orfani. Dopo anni di vita al fronte questi uomini non intendevano riprendere la vita di prima. Fu una speranza ben presto disillusa dal governo. Una delusione che aprirà le porte ad un'altra sventura: il fascismo, che furbescamente fece leva sul patriottismo e la rivincita sociale di queste persone. Rimane il fatto che i garfagnini e gli italiani in genere si resero conto dell'immane disgrazia accaduta quando tutto ormai era finito. Infarciti di propaganda bellica e di proclami interventisti la gente capì troppo tardi che la guerra,
quella vera non era affatto come la raccontavano i giornali e i manuali militari. Nemmeno l'ombra di grandi manovre, di generali paterni, di eroici combattimenti. Quello che rimase di questa assurda chimera furono orfani, vedove, mutilati, prigionieri e tanti morti.


Bibliografia    

  • "Gli ammutinati delle trincee" di Marco Rossi BFS Edizioni 2014
  • "La Grande menzogna" di Valerio Gigante, Luca Kocci, Sergio Tanzarella, editore Dissensi anno 2015
  • "Dal fascismo alla Resistenza, la Garfagnana fra le due guerre mondiali" di Oscar Guidi. Banca dell'identità e della Memoria anno 2014
  • Appunti personali della maestra Moni Albertina
Sitografia

Chi l'avrebbe mai detto della presenza di una (simil) Stonehenge nel cuore della Valle del Serchio?

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Stonehenge, le piramidi di Giza, il sepolcro di Maeshowe nelle Orcadi, non dimenticandoci nemmeno il complesso megalitico di Carnac in Francia o la tomba corridoio di Newgrange nella Repubblica d'Irlanda. Cosa hanno in comune tutte questi costruzioni? Innanzitutto l'età, la loro realizzazione risale intorno al 3000 a.C e analizzando bene vediamo che, chi li ha costruiti (egiziani o antiche popolazione nordiche) erano tutti popoli a stretto contatto con gli elementi della natura. Inoltre si è scoperto che tutte queste edificazioni avevano uno funzione fondamentale, quasi incredibile per l'epoca, erano monumenti connessi alle conoscenze astronomiche. Naturalmente questa teoria non è una teoria che si basa sulle loro leggende, tutt'altro, infatti tutto questo è avvalorato da uno studio scientifico moderno che rientra di fatto nella complessa disciplina dell'archeoastronomia: la cosiddetta scienza delle stelle e delle pietre. Spieghiamoci meglio, e vediamo qual'è la sua esatta definizione: "l'archeoastronomia si occupa di studiare gli avvenimenti celesti in rapporto alle civiltà del passato, cioè di comprendere le conoscenze astronomiche dei popoli antichi e le eventuali applicazioni che essi ne hanno ricavato". Insomma un campo difficilissimo e complicato, per veri esperti, ma comunque sia vale la pena di affrontare visto che ci tocca da vicino... Per meglio capire questo argomento facciamo subito degli esempi pratici. Guardiamo Stonehenge (nella pianura di
Stonehenge

Salisbury, Inghilterra), un sito ritenuto magico soprattutto nel momento del solstizio d'estate, quando il sole attraversa Hell Stone (uno dei famosi triliti a porta li presenti)e cade sull'altare centrale offrendo "il segno celeste" del passaggio stagionale. L'archeoastronomia ha visto che in tutto questo di magico non c'è un bel niente, anzi, questo sottolineava quello che fu lo straordinario investimento di tempo e sforzo umano fatto da queste arcaiche popolazioni per creare una sorta di osservatorio astronomico allineato con il movimento del sole, per regolare in questo modo il ciclo delle stagioni. D'altro canto le prime comunità agricole dipendevano interamente da questo ciclo, il cui corso implicava periodi di abbondanza di cibo (come in estate) e altri di carenza (come l'inverno). Altro esempio pratico lo possiamo notare anche nelle tre piramidi di Giza (Il Cairo): Cheope, Chefrem e Micerino. Ebbene, le tre piramidi pare che siano accuratamente allineate con le stelle che formano la cintura di Orione, creando di fatto una sorta di mappa stellare che farebbe parte di un progetto
astronomico realizzato dai faraoni nel corso del tempo, avanzando così l'ipotesi che gli antichi egizi conoscessero bene il fenomeno astronomico chiamato processione degli equinozi(n.d.r: movimento della Terra che fa cambiare in modo lento ma continuo l'orientamento del suo asse di rotazione rispetto al sfera ideale delle stelle fisse). Insomma, come potete leggere questa è una materia veramente ostica, difficoltosa ad esser compresa a noi uomini del 2020, infatti quello che sorprende ancor di più è pensare come civiltà tanto antiche abbiano avuto conoscenze così sofisticate, che spesso sfuggono alla comprensione dell'uomo moderno.


Questi affascinanti insegnamenti come abbiamo potuto leggere ci trasportano magicamente in luoghi remoti, fra popolazioni primitive e in teorie fantastiche, quasi irreali, non pensiamo però che queste lontane realtà facciano parte di un mondo a noi distante... Anzi, direi proprio che sono a due passi da casa. Gli studi che si sono incentrati su questa tesi "garfagnina" fanno perno su tre protagonisti in particolare: i Liguri Apuani, il Monte Forato e 
quattro chiese medievali della valle. Difatti si presume che il Monte Forato o meglio ancora il profilo di quello che è conosciuto come "l'Omo Morto"(nella foto qui sopra) fosse tenuto a riferimento dagli antichi Apuani per il calcolo dei giorni, a dimostrazione di questo c'è la singolare posizione di quattro chiese della Valle del Serchio, queste chiese (posizionate su delle sommità)sarebbero state
Il Monte Forato

poi costruite su quello che prima della nascita di Cristo era un vero e proprio osservatorio astronomico. Quello che vorrei sottolineare, prima di addentrarmi nell'argomento è nel dire che questo studio non è uno studio fondato su teorie cervellotiche, fatto da dei ciarlatani del momento, la ricerca è seria e concreta e nel caso specifico è stata analizzata dall'archeoastronomo Mauro Peppino Zedda, esperto di fama europea che proprio sull'argomento trattato ha scritto nel 2013 il libro
"Monte Forato e il Duomo di Barga. Tracce di un antico osservatorio dei Liguri Apuani"

Dunque fu proprio quel curioso monte che destò l'attenzione dei nostri antichi avi. Quel foro in quella montagna non era li a caso
ed infatti gli Apuani lo usavano come una sorta di "gnomone". Lo "gnomone", per chi come me non è esperto in materia è quell'asticella presente sulle antiche meridiane, la cui ombra proiettata su un piano serviva per segnare le ore. Il Monte Forato per questa antica popolazione nostrale aveva più o meno la solita funzione, questa funzione permetteva lo studio dei moti della luna e del sole, creando, secondo le loro elaborazioni una tipologia di calendario arcaico. Nella vita degli Apuani il sole e luna erano importantissimi, erano difatti gli artefici del mondo agricolo e la loro osservazione per chi viveva dei frutti della
San Frediano Sommocolonia

natura diventava vitale. Questo metodo consentiva così di contare il tempo e di conoscere il ciclo degli astri, aver nozione di questi elementi aveva un'importanza fondamentale, significava prevedere o programmare i lavori nei campi. Tutto ciò poteva essere permesso da determinati punti d'osservazione, luoghi che Zedda ha identificato nel duomo di Barga, nella chiesa di San Frediano a Sommocolonia e 
nella chiesa di San Michele a Perpoli. Erano questi tre gli osservatori astronomici degli Apuani. Pertanto è da questi studi che si deduce che l'asse d'orientamento del duomo di Barga coincide con il mento dell'Omo Morto, stessa cosa con la chiesa di San Frediano di Sommocolonia, anche il suo asse d'orientamento è rivolto proprio sul medesimo mento. Ed è proprio da lì, da questi punti, che da dietro quel foro situato in quel monte che il sole tramonta perfettamente in determinati periodi dell'anno, è in quel momento che si può ammirare il celebre doppio tramonto, che per noi uomini moderni è un evento puramente
San Michele Perpoli

folcloristico, ma per gli Apuani aveva un valore diverso, questo avvenimento gli permetteva dei calcoli astronomici da applicare nell'agricoltura. Come si sa altrettanta importanza in questo campo lo avevamo i moti lunari e sempre in relazione al Monte Forato questa funzione la faceva la collina dove ora è situata la chiesa di San Michele a Perpoli, lo studio ci dice che da quel punto d'osservazione il tramonto della luna coincide con la fronte dell'Omo Morto. Un'ultima costruzione è stata presa in considerazione ed è la chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Fiattone (comune di Gallicano), essa guarda al tramonto di Venere, pianeta conosciuto dagli antichi popoli come Stella del Mattino.

Santi Pietro e Paolo
Fiattone

Un'ultima curiosità da trarre da tale studio è capire come da questi antichi punti d'osservazione astronomici siano nate poi delle chiese e questo trova risposta nelle cosiddette eredità culturali. Questo fenomeno si ha infatti quando una cultura si sovrappone ad un'altra. L'avvento del cristianesimo in particolare ha integrato dentro di se questi antichi luoghi di culti pagani, in quella continuazione di devozione di quei luoghi che già erano frequentati per l'adorazione di altre divinità. Tanto per essere chiari, i Santi e le Madonne si sono sostituiti in men che non dica agli antichi Dei, ma i luoghi di culto sono spesso rimasti invariati. Non rimane allora che stupirci ancora di tutti i segreti che la nostra terra ancora ci nasconde. Possiamo dire grazie a questi studiosi se ancora oggi continuiamo ad apprendere cose nuove e sorprendenti sulla nostra bella valle. Da parte mia mi scuso con questi ricercatori se in questo mio articolo non sono stato abbastanza meticoloso e diligente nel descrivere accuratamente e con i suoi precisi termini queste scoperte, ma non mi potevo esimere dal raccontare ancora una volta le meraviglie dei nostri luoghi.

Fotografie

  • Doppio tramonto sul Forato foto tratta da Daniele Saisi blog realizzata da "Barga in Fotografia"
  • Monte Forato foto tratta da https://finoincima.altervista.org/
  • L'oMo Morto foto tratta dalla testata giornalistica Serchio in Diretta
  • Chiesa di San Michele a Perpoli foto tratta da https://www.amalaspezia.eu/index.htm

Bibliografia

  • Per saperne di più e avere maggiori delucidazioni: "Monte Forato e il duomo di Barga-Tracce di un antico osservatorio dei Liguri Apuani" di Mauro Peppino Zedda, edito Agorà Nuragica, anno 2013

I nostri fiumi e il significato dei loro nomi

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Dal fiume al rubinetto... Quello che è certo che per i nostri nonni
fu un salto epocale. Per noi oggi è un gesto banale aprire quel rubinetto ed è altrettanto naturale che l'acqua arrivi ogni giorno a casa nostra pulita e potabile. Una volta in Garfagnana quando si era costretti a bere nei fiumi o nei torrenti, per scongiurare proprio il pericolo che quest'acqua non fosse buona da bere non ci si affidava alle sofisticate analisi di laboratorio, ma bensì si dava fiducia ad uno scongiuro in particolare, da ripetere per ben tre volte: "Acqua corrente ci beve il serpente, ci beve Iddio, ci bevo anch'io". Erano infatti quei fiumi e quei torrenti che fornivano acqua alle case quando ancora gli acquedotti non esistevano. I fiumi diventarono così un centro di vita sociale, al fiume ci si lavava, ci si giocava e le donne ci lavavano i panni. La situazione nei paesi migliorò con l'avvento delle fontane
pubbliche e l'arrivo dei pozzi dove lavare i vestiti. Fattostà che anche quest'acqua proveniva dai medesimi torrenti. Arrivò poi la fine degli anni 50 e gli inizi degli anni 60 (del 1900) e in buona parte delle case garfagnine giunse l'acqua corrente, ma il rapporto fra questa terra e i suoi fiumi(torrenti o canali che fossero)rimase per sempre speciale, un legame unico, fraterno, una sorta di ringraziamento quasi devozionale per quei lontani tempi. Per di più la ricchezza d'acqua che ha la nostra zona è fra le più alte in Italia, basta pensare che nella provincia di Lucca i corsi d'acqua contanti dal S.I.R.A (sistema informativo regionale ambientale)sono 1636. Insomma, una simbiosi unica, difficilmente riscontrabile da altre parti, tant'è che questa particolarità si può ravvisare nel nome che nei secoli e nei millenni è stato attribuito a questi corsi d'acqua. I nomi di questi fiumi è legato alle più svariate motivazioni e la maggior parte di queste denominazioni sono legate alla vita quotidiana della valle, quindi possiamo trovare torrenti il cui nome deriva da nomi propri di persona, magari si possono trovare dei fiumi il cui
appellativo è legato al nome di piante o di animali, esistono perfino dei nomi legati ai confini dei terreni e altri ancora ai mestieri e alle opere o addirittura al folklore. Naturalmente non poteva mancare una disciplina che analizzasse tali denominazioni e questa si chiama idronimia e l'idronomo è il vocabolo riferito al nome proprio del fiume. Bando a questo tecnicismi direi di andare ad analizzare il significato dei nomi dei nostri corsi d'acqua. Di questi 1636 ne analizzeremo... i più importanti e i più curiosi. Cominciamo con l'approfondire il contenuto della parola riferita al fiume principe della Garfagnana e della provincia in genere. 

Il Serchio è il terzo fiume per lunghezza della Toscana, il suo ramo principale scende dalle pendici del Monte Sillano e si riunisce poi al ramo denominato "Serchio di Gramolazzo". In antichità il suo nome era Auser. Una volta che però arrivava nei pressi di Lucca si biforcava nuovamente, creando un ramo minore denominato Auserculus (piccolo Serchio). Purtroppo il Serchio era un fiume capriccioso, le sue alluvioni creavano parecchi problemi alla città di Lucca e nel 561 il vescovo Frediano, esperto in idraulica fece convogliare le acque del corso principale nel ramo più piccolo: l'Auserculus. Da li in poi, il nome del corso d'acqua sarà Serchio, derivato dunque della suddetta parola. L'origine di tale vocabolo non è ben definita, lo storico latino Svetonio dichiarò che la parola Auser deriva dall'etrusco e significa Dio o divinità, alcuni glottologi moderni asseriscono che il nome deriva da una parola pre-ligure che significa sorgente.

"...Dove da diversi fonti/ con eterno rumor confondon l'acque/ la Turrita col Serchio fra due ponti". Nella V satira l'Ariosto nomina quello che forse è il fiume più caro ad una buona parte di garfagnini: la Turrite. Nella valle ce ne sono addirittura tre, ben distinte e tutte sono affluenti del Serchio: la Turrite Secca, che è quella che forma il lago dell'Isola Santa e che passa da Castelnuovo. La Turrite di Gallicano(o di Petrosciana)che nasce dalle pendici apuane per attraversare Fornovolasco e arrivare appunto a Gallicano. Infine c'è la Turrite Cava, il torrente attraversa tutta la Val di Turrite, formando il bacino idroelettrico del lago di Turrite Cava, per anni questo corso d'acqua segnò il confine di stato fra Modena e Lucca. Il termine Turrite si ritiene che sia fra i più antichi della lucchesia e apparterrebbe a uno strato pre romano che troverebbe radice nella parola latina "torrent", "torrente", riferito proprio alle caratteristiche particolari dei tre corsi d'acqua: corso breve di forte pendenza con variazioni di portata delle acque. Nello specifico, per quanto riguarda il vocabolo "cava" riferito alla Turrite posizionata più a sud nella valle, non significherebbe "vuota", ma bensì "che scava", come un corso d'acqua impetuoso che scava il terreno in profondità. 

Sempre e a proposito di Serchio esiste un altro fiume garfagnino che il suo nome potrebbe significare "piccolo Serchio", ed è l'Esarulo, il fiume di Castiglione. Un'altra ipotesi ci dice anche che questa denominazione deriverebbe da un nome proprio: Sauro, forse un contadino che aveva possedimenti proprio su quel fiume. Ad onor del vero questo corso d'acqua ha preso poi svariati nomi in base al territorio che attraversava: "fiume dell'Isola", "fiume di Valbona", "fiume di Pontardeto". Un'ulteriore torrente che troverebbe denominazione da un nome proprio di persona è il Ceserano(Fosciandora), da Cesare, Cesarino. L'alternativa si potrebbe trovare nella parola latina "Caesa", ossia "tagliato", in riferimento a un fiume dove nelle vicinanze si possono tagliare piante.

La curiosità poi ci spinge a trovare il significato di un nome che parrebbe quasi ebraico: Edron. Gli esperti dicono che la parola sia di difficilissima interpretazione. E' ragionevole pensare che vista la collocazione del fiume in piena zona ligure apuana (Vagli), possa trattarsi di un idronimo che ha avuto nascita da questa antica popolazione. La parola potrebbe anche avere una matrice greca: "hidor", ovverosia acqua. Un' ennesima interpretazione, la più bella, ma non so quanto vera ce la da una leggenda. Si racconta che un giovane pastore un giorno incontrò una giovane bellissima che si bagnava nelle acque di questo fiume. In paese già si sapeva che lassù vivevano gli spiriti delle acque che dovevano star lontani dagli esseri umani e rimanere invisibili al loro sguardo. Ma il pastore nonostante ciò s'innamorò della bella ninfa e gli chiese il nome: -Edron- rispose la ninfa e subito rimase silenziosa, si rese ormai conto di aver infranto una legge del bosco che non permetteva di rivolgere parola agli uomini. Il Dio del bosco accortosi del misfatto lanciò una folgore che pietrificò gli innamorati. Oggi quelle due grosse pietre esistono sempre, una accanto all'altra, si possono vedere proprio li, dove sgorga la sorgente.

Certe volte invece la poesia e il mito si fanno da parte lasciando spazio ad altri nomi più "tecnici"è il caso di quei torrenti la cui denominazione si rifà alla morfologia del corso d'acqua. Parliamo infatti della Covezza (San Romano), la parola deriverebbe dall'italiano "covo", nel senso di cavità, tana, rifugio sotterraneo. Altri fiumi o fiumiciattoli che traggono il proprio nome dalla loro geomorfologia sono la Corsonna e il fosso del Chitarrino(Barga). Il primo idronimo farebbe un possibile riferimento a Cursus (currere), corso, nel significato di acqua corrente, corso d'acqua che scorre veloce. Nel secondo caso (il Chitarrino) potrebbe essere riconducibile ad un idronimo metaforico sul particolare rumore emesso dall'acqua. Secondo gli esperti ad un cosiddetto idronimo metaforico è attinente anche il nome del fiume Lima (comune di Bagni di Lucca), la relazione sarebbe da attribuire al suo corso impetuoso che porta a molto consumo di suolo, nello specifico, limare.

Come abbiamo visto sono molteplici le ragioni per cui si da un nome ad un fiume e fra questi uno dei più consueti ha attinenza con i confini. I confini in Garfagnana sono sempre stati importanti, per cui il Fosso del Termine lo troviamo sia nel comune di Fabbriche Vergemoli che in quello di Camporgiano. Quel determinato fosso probabilmente segnava il preciso confine fra una proprietà o uno stato. Invece il Fosso della Bandita (Piazza al Serchio e Villa Collemandina) delimitava un'area dove era "bandita" la caccia, la pesca o magari un pascolo. Sempre ed a proposito di confini rimane curiosa l'ipotesi di alcuni ricercatori sulla genesi del vocabolo inerente al torrente Corfino. Dapprima si pensava infatti che l'origine derivasse da un nome proprio di persona, tale colono romano Corfinius, ma poi si è visto che la provenienza potrebbe avere un legame con "quadrifines", ossia "confine tra quattro possedimenti". Ma non solo confini e nomi delle persone sono all'origine degli
appellativi dei fiumi, anche i mestieri del tempo che fu fecero si che questi torrenti fossero battezzati con il nome delle attività lavorative che erano li vicine. Il Fosso del Battiferro (Fabbriche di Vergemoli) ne è l'esempio più pratico. Già da tempi lontanissimi(XIII secolo) la zona intorno Fornovolasco era luogo dedito alle attività siderurgiche vista la presenza in quei luoghi proprio di molte miniere di ferro. Stesso concetto vale per il torrente Acquabianca (Gorfigliano), la colorazione chiara di questo corso d'acqua è infatti dovuta dalle vicine cave di marmo, con particolare riferimento agli scarti di lavorazione presenti nel rio.

I termini con cui sono stati battezzati i nostri fiumi sono bizzarri curiosi e strani, ma credo che l'Oscar della bizzarria vada attribuito al Canale del Becchino (Molazzana), forse, chissà, li nei pressi esisteva la casa di qualcuno il cui mestiere era quello di seppellire i morti. Anche il Fosso della Cuccagna (Fabbriche di Vallico) rientra fra questi termini originali. In tutta questa lunga lista naturalmente non ci si poteva dimenticare degli animali, e qui ne abbiamo di tutte le specie: Fosso del Cane (Barga), Fosso della Granchia (Casabasciana), Rio Volpino (Piano della Rocca), Fosso dei Topi (Piazza al Serchio) e dulcis in fundo, il Fosso del Boddone (Fabbriche di Vergemoli).

Nonostante tutti questi nomi maschili o femminili che fossero, i vecchi dicevano che di un fiume si può riconoscere il suo sesso dal suo andamento. Ci sono fiumi maschi, nervosi e irruenti. E ci sono fiumi donna, che amano le curve e la varietà del paesaggio. Quello che le accomuna però è il solito destino, fra mille difficoltà il loro arrivo è ugualmente il mare... Sarà per questo che noi uomini siamo così legati ai fiumi: sono la metafora della vita...


Bibliografia

  • Tesi di Laurea in Linguistica Generale  Corso di Laurea Specialistica in Lingua e Letteratura Italiana  "Gli idronimi della Lucchesia Analisi dei nomi dei corsi d’acqua della provincia di Lucca" di Gabriele Panigada Relatore Anno Accademico 2012/2013
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi edizioni Le Lettere
Fotografie

  • La foto di copertina (Isola Santa) è tratta da trekking.it
  • La foto del Serchio è tratta dal quotidiano on line Serchio in Diretta
  • La foto del Fiume Esarulo in località Valbona è tratta dal sito amalaspezia.eu
  • La foto del torrente Edron è tratta mulinoisola.it
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