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Channel: La Nostra Storia
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Curiosità sullo "striscino" e storia di un'antico male garfagnino: l'alcolismo

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In Garfagnana è conosciuto essenzialmente con due parole dialettali:
"lo striscino" o lo "zezzoron", che in effetti esprimono in maniera sinteticamente perfetta le qualità di questo nostro prodotto che la natura ci offre: il vino garfagnino. Non sono assolutamente un'intenditore, ma a quanto ne so, la vite perchè produca un vino che sia un buon vino ha bisogno essenzialmente di sole, di bassi livelli di piovosità e di poca umidità, caratteristiche climatiche che la nostra valle non ha... Ecco allora la genesi delle due parole suddette, che ci riporta a tempi lontani, di quando le viti dovevano produrre più uva possibile, d'altronde la mezzadria garfagnina non badava alla qualità ma alla quantità, dal momento che il contadino doveva spartire metà del prodotto con il padrone della terra. Allora ecco che nasceva un vino di gradazione bassissima, addirittura di 6 o 8 gradi, per questo che veniva chiamato "striscino", la sua qualità era terra, terra, tanto da strisciarvi. Ma di questo i nostri contadini ne erano consapevoli, come erano altrettanto consapevoli di un'altra "qualità" di questo vino: l'asprezza e l'acidità, infatti la definizione "zezzoron" viene da queste caratteristiche e prende proprio il nome da quell'"erbo" che in Garfagnana è conosciuto dialettalmente parlando come "zezzora" e in italiano come erba acetosa e questo la dice lunga su questa particolarità del vino
nostrale. Il Santini, poeta dialettale, sottolineava nei suoi versi, che per bere un bicchiere di questo vino bisognava essere in tre persone, uno che lo beveva e due che  tenevano fermo lo stesso bevitore per non farlo sobbalzare sulla sedia. Sempre a proposito di vino e poeti, anche il sommo Pascoli, ottimo bevitore, non amava troppo il vino casalingo (anche se assolutamente non lo disdegnava), in una lettera all'amico Caselli così scriveva: "Va a vedere il vino, tutto. Se le cose vanno bene, potrai dire allo Zì Meo che a giorni gli mando un caratello (n.d.r: vaso da vino o da liquore) di Marsala e gli farò mandare un dodici bottiglie di vino delle Cinque Terre da Spezia- ma per me, per essere messi in cantina- le berremo poi insieme". Sempre a proposito rimane sospesa fra verità e leggenda la visita del Vescovo a Sassi (comune di Molazzana), quando dopo aver ispezionato la parrocchia si fermò nel paese a mangiare i manicaretti offerti dal comitato d'accoglienza, il religioso apprezzò molto, mangiò di tutto e di più, però beveva acqua...gli fu chiesto il perchè, eppure c'era vino prodotto in maniera genuina: "Guardi Eminenza, che è vino di Sassi!!!" al che il prelato furbescamente rispose: " Per essere di
sassi non sarebbe neanche male, anche perchè se fosse fatto d'uva le viti bisognerebbe tagliarle al calcio". Non mancarono giustamente fra i contadini questioni più seriose da affrontare e puramente economiche, come quando i comuni imposero tasse sul vino, pari a quelle di chi produceva Chianti o altri vini pregiati toscani. Insomma la storia del vino in Garfagnana è una storia antica, qui viene prodotto da secoli e secoli, dalle parti più basse della valle, lungo il Serchio, fino ad arrivare agli ottocento metri d'altezza. Documenti storici riportano la sua produzione già presente nell'anno mille da uve di tipo selvatico, ma il suo vero e proprio sviluppo si ebbe agli inizi del 1800, con tutte le conseguenze negative che il vino si porterà dietro e se fino adesso con il mio caro lettore ho potuto scherzare raccontando aneddoti o curiosità più o meno stravaganti, da questo momento la cosa si fa più seria, dal momento che racconterò quella che fu una vera piaga garfagnina: l'alcolismo. 
Siamo nel 1911 era il 13 gennaio, allora a Castelnuovo esisteva sempre la Regia Sottoprefettura e come ogni anno il sottoprefetto Rossi inviava alla Prefettura competente, che all'epoca era Massa,
un resoconto sociale sulle condizioni di vita della popolazione: "Colla emigrazione abbonda nei comuni del Circondario ciò che ne è una delle conseguenze più frequenti, l'abuso dell'alcolismo, essendo la bettola il ritrovo abituale dei contadini e operai che ritornano nell'inverno nel loro paese a consumarvi nell'unico modo che per loro è possibile, gli scarsi guadagni accumulati. E non è infrequente che chi accumuli qualcosa più degli altri, creda di non poterne fare uso migliore che aprendo un'osteria, che si aggiunge alle tante altre esistenti nei Comuni onde si verifica in alcuni di essi (come a Castelnuovo) salga al 20 per mille della popolazione, che è il doppio della cifra che fu deplorata alla Camera come esiziale per la popolazione. A ciò lo scrivente tentò di porre un freno col vietare (salvo casi eccezionali di interesse del pubblico per speciali condizioni locali) l'apertura di nuovi esercizi nei comuni che più ne abbondano, se non in sostituzione di quelli che vengono a cessare; opera questa che più autorevolmente costituita presso codesto ufficio". L'allarme alcolismo in Garfagnana arrivò così sul tavolo del Prefetto, bisognava porre rimedio, era diventato veramente un problema sociale serio che sfociava in frequenti scazzottate fuori
dalle osterie, anche per futili motivi e quello che era più grave che l'abuso d'alcol a questi uomini faceva dare  il peggio di sè fra le quattro mura di casa, non era difficile (anzi era piuttosto frequente)che il marito una volta tornato a casa ubriaco sfogasse il suo malessere contro la moglie e i figli. D'altra parte,in proporzione, in Garfagnana erano più osterie che abitanti, una media ben al di sopra di quella consentita da un vecchio regolamento regio, non rimaneva altro che non concedere altre licenze. Consideriamo poi che il vino non mancava nemmeno a casa e il suo stretto rapporto con il garfagnino cominciava la mattina presto, quando iniziava il lavoro nei campi, un paio di "bicchierotti" di buon'ora sarebbero stati il sostentamento per affrontare una dura giornata, se poi le mattinate erano fredde e gelide un po' di grappa avrebbe scaldato il corpo; tutti falsi luoghi comuni associati a questa bevanda. Insomma l'alcol era il fedele compagno del garfagnino che lo seguiva in tutto l'arco del giorno: colazione, pranzo, merenda, cena e la sera
all'osteria. Il vino in questo senso è sempre stato "subdolo" nella nostra cultura, gli è sempre stato dato un valore d'uso sostanzialmente alimentare, alla stregua di un piatto di pasta o di polenta, una familiarità tale che bere tanto o poco vino non faceva differenza e nella maggior parte dei casi l'abuso era maggiore dell'uso. Spesso anche il "povero Cristo" che  magari non era un gran bevitore o addirittura non beveva per niente veniva sottoposto ad involontarie pressioni psicologiche: - Ma come!? Bevi così poco? Dai bevi ancora!- e se non beveva era addirittura guardato con sospetto e diffidenza, sarebbe diventato "un fuori dal coro", un asociale, quasi indesiderato. Insomma gli aspetti sociali che toccava questa piaga erano molteplici. Si può dire però che queste persone erano perle rare, dato che il sapore del vino in Garfagnana c'accompagnava fin dalla culla, quando si diceva che per far addormentare un neonato che non ne voleva sapere bastava inzuppare un "cencino" con un po'di vino e farglielo succhiare e il gioco era fatto.... (e ci credo !!!). Le donne sotto questo punto di vista, erano preservate, l'alcol una volta era considerato prerogativa maschile, una donna ubriaca era un'indecenza, una vergogna, una madre ubriacona era disonore per la famiglia, perdipiù i vecchi contadini garfagnini credevano che far toccare o addirittura far avvicinare una donna in periodo di mestruazioni alle botti dove il vino era in fermentazione avrebbe mandato alla malora tutto il prodotto. Non crediamo però che l'abuso d'alcol sia stata  una prerogativa soltanto delle classi sociali più povere garfagnine, questo male prendeva tutti, dal più ricco al più misero: "I pochi individui che vivono sugli 8-10 poderi che hanno, in generale menano una vita oziosissima: si annoiano tutto il giorno, sbadigliano, stanno colle gambe a cavalcioni, sul muricciolo della piazza a ciarlare con quelli che passano. Se trovano i
compagni, giocano a carte, bevono, e per ingannar meglio il tempo passano la misura del bere ubriacandosi, Ad essi si unisce spesso anche il parroco, sia nel far due chiacchiere sulle novità del giorno, sia nel far la partita a carte, sia nel bere un litro di vino". Ma dove ricercare le cause di questa piaga nella società garfagnina? Difficile rispondere, rimane il fatto che non fu un fenomeno temporaneo, ma fu un fenomeno che durò per molti decenni e che vide il suo mitigarsi verso gli anni '50 del 1900, quando le nuove generazioni cominciarono ad acculturarsi, ad emanciparsi, quando finalmente lo Stato si accorse della Garfagnana e riuscì con investimenti infrastrutturali, industriali a far uscire dalla povertà e dall'emarginazione una valle che per secoli era stata dimenticata.  
Erano proprio così le condizioni in cui versava la società garfagnina, naturalmente non si può ora e non si poteva allora fare di tutta un'erba un fascio, ci mancherebbe altro, ma rimane il fatto che anche oggi questo mostro dell'alcolismo si ripropone con tutta la sua gravità e anche in questo caso la storia ci mostra le sue incredibili sfaccettature. Se una volta il principale motivo
dell'abuso di alcol era l'ignoranza e la povertà, oggi ci dice che il motivo principale dei giovani che abusano è per avere "lo sballo", per provare un qualcosa di diverso, al di fuori della routine quotidiana, diventata noiosa e monotona per chi ha tutto a disposizione.   



Bibliografia:
  • Rapporto del Sottoprefetto Rossi alla Prefettura di Massa 13 gennaio 1911
  • "Come la storia dell'alcol, anche la storia della sua regolamentazione è antichissima" di A. Culotta , tesi di laurea. Vittimedellastrada.org


Quando Hollywood arrivò nella Valle del Serchio...

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Sei nomination all'Oscar, un Oscar alla carriera nel 2015,
Una scena del film:
 "l'Omo Morto sullo sfondo"
un'ennesimo nel 2019 per il film "Blackklansman" consegnato per la miglior sceneggiatura non originale, altri film pluripremiati come: 
"Malcom X", "Jungle Fever", "La 25a ora", "Inside Man". Nel 2020 sarà presidente della giuria del Festival di Cannes, eppure... quando il regista Spike Lee venne in Garfagnana e nella Valle del Serchio arrivò certamente con tutti gli onori, ma se ne andò fra mille polemiche. Una storia complicata questa, di quando Hollywood, con l'H maiuscola giunse dalle nostre parti. Sono già passati dodici anni dall'uscita del film "Miracolo a Sant'Anna" e
La locandina del film
tutto cominciò sotto i migliori auspici. Nel 2007 già erano state scelte le location e le date per le riprese del film, le lettere per i vari permessi erano state già inviate ai comuni interessati: Borgo a Mozzano, Careggine, Stazzema, Camaiore, e Pescaglia e per quanto riguarda la Garfagnana il film sarebbe stato girato dal 15 ottobre al 15 dicembre del solito anno e in ogni caso la produzione rassicurava gli amministratori che l'uso che veniva fatto di ambienti e locali sarebbe stato ripristinato come in origine e sopratutto si diceva che sarebbe stata garantita la massima sensibilità nei confronti del dramma subito dalla gente, questo è quanto di più bello era nelle intenzioni. 
L'occasione poi sarebbe stata perfetta, finalmente la Valle del Serchio avrebbe avuto la sua opportunità di farsi conoscere al mondo attraverso uno dei mezzi di comunicazione più potenti: il cinema americano. La nostra storia, i nostri paesaggi e la nostra cultura sarebbero stati veicolati in tutto il pianeta. Una circostanza accolta con tutti i buoni propositi da amministratori locali e popolazione, ma purtroppo non è tutto oro quello che riluce...
Ma partiamo dall'inizio e analizziamo gli eventi dalla loro nascita.  Il film "Miracolo a Sant'Anna" fu tratto dall'omonimo
Lo scrittore James Mc Bride
libro di James Mc Bride che uscì nel 2000. James Mc Bride, scrittore di fama, già era stato nella Valle del Serchio quando all'epoca il sindaco di Barga Umberto Sereni ebbe l'occasione di invitare a Sommocolonia i reduci afro americani della 92a Divisione Buffalo, che nel paese, durante la seconda guerra mondiale, nella famosa battaglia di Natale del dicembre 1944 si misero in luce con atti eroici. Fu qui, che lo scrittore prese ispirazione per scrivere il suo romanzo, in quei luoghi che videro lo zio di Mc Bride combattere per la liberazione della Garfagnana:"E' stato Enrico Tognarelli, il figlio di un partigiano che ha combattuto a fianco di mio zio Henry su quella montagna, il primo a farmi conoscere Sant'Anna di Stazzema. Ci incontrammo a Sommocolonia nel 2000, io ero venuto in Italia con alcuni veterani della Buffalo. Sono molte le persone, partigiani, soldati, civili ad aver ispirato il mio lavoro. Non solo, ma i campi, i castagni, i boschi, i crinali, le montagne che descrivo nel libro sono quelli
Sommocolonia
che ho visto a Sommocolonia"
. Lo stesso Tognarelli raccontò come nacque l'incontro: "Alcuni rami della mia famiglia emigrarono in Inghilterra e negli Stati Uniti. La gente di Barga sapeva che parlavo inglese e allora mi presentò Mc Bride. Gli parlai così di mio padre Franco, partigiano nella brigata Pippo (n.d.r: gruppo partigiano comandato da Manrico Ducceschi, alias Pippo) e di mio zio Gianni e anche dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema". Rimase il fatto che una volta uscito questo libro fece breccia su un altro amico di James: il regista Spike Lee, che ne volle fare un film, sarebbe stata l'ennesima occasione di mettere in risalto un tema a lui caro, la condizione sociale dei negri d'America. Il film tratta infatti le vicende di una pattuglia di soldati afro americani della 92a Divisione Buffalo, dispersi nelle montagne della Garfagnana nell'autunno del '44. Il razzismo diffuso fra le truppe
Spike Lee
statunitensi, l'incontro fra culture diverse e il rapporto fra questi soldati e un bambino sopravvissuto alla strage di Sant'Anna di Stazzema è il filo conduttore della pellicola. Le riprese cominciarono così il 15 ottobre del 2007 e durarono undici settimane. Un periodo di tempo in cui Pian di Gioviano e il fiume Serchio diventeranno scene di battaglia fra americani e tedeschi, dove le montagne che compongono "L'Omo Morto" vigileranno su questi soldati come un attento osservatore e la brulla strada di Arni vedrà il radunarsi delle truppe naziste per prepararsi all'efferata strage, mentre il paese di Colognora di Pescaglia sarà la location dove si svolgerà tutta la triste vicenda, ma non solo, naturalmente anche Sant'Anna di Stazzema, la sua piazza e la sua chiesa dove ci fu il triste epilogo dei tragici fatti diventerà protagonista della pellicola, anche la villa che fu della duchessa Maria Teresa di Savoia a Capezzano Pianore si trasformerà nel quartier generale americano. Insomma, tutto era bello ed interessante, ma la cosa cambiò quando il film uscì nella sale
Scene di guerra sul fiume Serchio
nei pressi di Pian di Gioviano
cinematografiche, il 26 settembre 2008 negli Stati Uniti e il 3 ottobre in Italia. La critica lo stroncò inesorabilmente, ma altre diatribe, polemiche e accuse furono mosse dall'A.N.P.I (associazione nazionale partigiani d'Italia), dagli storici, dalla popolazione e dai sopravvissuti dalla strage di Sant'Anna di Stazzema. Ma andiamo per ordine ed analizziamo tutto. Partiamo da cose puramente di stile e di pronuncia delle nostre località, che d'accordo, saranno pure poca cosa, ma se ciò non viene fatto correttamente significa non aver rispetto del territorio e conoscenza dei luoghi: il Serchio viene menzionato la e chiusa, mentre il paese di Torrite, viene pronunciato con la I accentata, inoltre Valentina Cervi (che nel film interpreta la bella paesana Renata) nel film parla di Castelnuovo, Vergemoli, Torrite, Rontano, Barga e Pietrasanta come se fossero paesi a poca distanza fra di loro, raggiungibili in poco tempo e non eventualmente con ore e ore di cammino. Anche la tradizione e la leggenda garfagnina vengono usurpati nel buon nome del cinema americano, infatti si racconta la leggenda de "L'Omo Morto" (nel film è chiamato "l'Uomo che Dorme"!!!), 
una storia tutta diversa da quella che è, e poi, in una nota di colore non si è
Sul set del film
(foto gentilmente concessa
 da Graziano Salotti)
voluto nemmeno far mancare "un omaggio" a Giovanni Pascoli, dando un tocco di umanità ad un ufficiale tedesco che legge le poesie del poeta. Insomma, quello che ne esce è un calderone di argomenti mai approfonditi e trattati con superficialità, tanto che, anche gli storici a suo tempo ebbero da ridire: mai è esistito a Gallicano il comando generale della Divisione Buffalo e più che altro quello che ha fece sobbalzare sulla sedia gli studiosi fu l'intrecciarsi scollegato e confuso di due vicende di guerra locale distanti nel tempo e ben diverse per svolgimento dei fatti, come la Battaglia di Natale del dicembre 1944 avvenuta in Garfagnana e l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema che accadde il 12 agosto 1944. Non mancano nemmeno curiosità ed errori sui personaggi del film, che sono d'ispirazione a personaggi realmente esistiti, Peppi infatti non è altro che il capo partigiano Manrico Ducceschi, comandante dell'XI Zona Patrioti, ma a Sant'Anna non è mai stato, lo ribadì a suo tempo Tognarelli: "
Nel libro tante cose sono inventate di sana pianta.Ho raccontato io a McBride di
Pierfrancesco Favino
nel film interpreta
Peppi 
Pippo. La sua storia. Lui l’ha messo nel libro chiamandolo Peppi, su questo non ci sono dubbi. Ma non è mai stato a Sant’Anna. Da dov’era ci avrebbe messo giorni per arrivarci, mentre nel libro c’è un sentiero che non si sa come attraversa l’Uomo morto. Non so se ci fossero partigiani a Sant’Anna, non credo. Di certo non c’erano quelli dell’XI, non era zona nostra. Così come è fantasia il tradimento del suo braccio destro. Non so perché se lo sia inventato, però non ci sono rimasto così male. So benissimo che si tratta di un romanzo di fantasia".
A quante pare sembra realmente vissuto anche Angelo, il bambino protagonista del film, che nella pellicola una volta diventato adulto paga la cauzione ad uno dei reduci della Buffalo, infatti così affermò l'ex Sindaco di Barga Sereni:
"L’ho riconosciuto leggendo il libro, si tratta di Mario Ricci. Era un grande imprenditore, adesso è morto, per qualche anno ha vissuto alle Seychelles. Nel romanzo la scena si svolge alle
Matteo Sciabordi,
nel film è Angelo
Bahamas, ma non ho dubbi che sia lui
". Ma l'accusa più pesante venne dall'A.N.P.I, a suscitare le polemiche fu il modo in cui vennero descritti i partigiani e il fatto che fu uno di loro, con il tradimento, a determinare la carneficina di Sant'Anna, un episodio mai avvenuto nella realtà come sentenziato dal Tribunale militare di La Spezia nel 2005:"Non si trattò di rappresaglia (ovvero di un crimine compiuto in risposta a una determinata azione del nemico), si trattò di un atto terroristico premeditato e curato in ogni dettaglio per annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona". Nei superstiti della strage fu forte la sensazione che il loro dramma fu usato nel film
La vera strage
di Sant'Anna di Stazzema
come un pretesto, perchè ciò che veramente interessava a Lee e a Mc Bride era mostrare il ruolo che ebbe un battaglione di soldati afro americani nella guerra di liberazione. 

Ma come è giusto che sia anche Spike Lee e James Mc Bride all'epoca dissero la sua sulla squallida vicenda:"Mi sono chiesto se era più giusto scrivere un libro di storia o un romanzo- così disse lo scrittore-, poi ho optato per quest'ultimo perché volevo che la storia si trasformasse in una rivelazione. Mi interessava parlare non solo della guerra, ma anche di tutte le difficoltà che questa comportava per gli italiani. Avevo uno spazio limitato e ho trovato nei due personaggi dei partigiani dei simboli per far vedere come la guerra poteva distruggere anche i rapporti di amicizia. Mi dispiace
Veri soldati
della Divisione Buffalo...
se ho offeso in qualche modo la sensibilità dei partigiani e degli italiani e chiedo scusa. Noi come persone di colore ci sentiamo ancora più vicine a questa situazione e sappiamo come sia difficile avere a che fare con libri su di te scritti da altre persone, ma bisogna dire che anche noi abbiamo partecipato a quella guerra, non stiamo parlando di cose lontane da noi. La mia missione era portare questa vicenda al pubblico, poi le cose sbagliate si possono correggere ed è già una cosa buona se oggi le persone parlano di questo e non del Grande Fratello". 

Il regista fu molto meno accondiscendente dello scrittore: "Come regista del film non chiedo scusa a nessuno. Ci sono tante questioni ancora aperte, c'è un capitolo della storia italiana che non è stato ancora risolto e se vengono fuori queste polemiche significa che il periodo della resistenza è una ferita ancora aperta in Italia.
...e quelli del film
All'epoca i partigiani non erano amati da tutta la popolazione, come era anche per quelli francesi, che facevano quello che dovevano fare e poi si rifugiavano sulle montagne, lasciando la popolazione in balia delle rappresaglie tedesche. Ci sono diverse interpretazioni su ciò che è successo a Sant'Anna, ma la storia è che per un tedesco ucciso, dieci civili italiani dovevano morire, e nel mio film è chiaro il mio punto di vista sulla questione e non ci possono essere fraintendimenti in proposito".

Nonostante il titolo del film non fu un miracolo quello fra la Valle del Serchio (i nostri vicini) e Hollywood, anzi. Alcuni moderni benpensanti ci accusarono di provincialismo e di essere dei poveri illusi: "la legge del cinema
americano guarda solo al businnes, a loro non importa niente della storia e della tradizioni" così dissero. Ma d'altronde c'era e c'è poco da fare, in Garfagnana e nella Valle del Serchio alle nostre memorie e alle nostre usanze pretendiamo rispetto...in barba ai milioni di dollari Hollywood.



Bibliografia

  • "Il Tirreno" mercoledì 1 ottobre 2008 pagina 4 "Ecco il vero miracolo" Le stoie dei partigiani che hanno ispirato Lee

Soprannomi garfagnini. La loro nascita, il loro perchè

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Un soprannome è come un diamante... lo è per sempre. Il soprannome
non è cosa di origine moderna, nemmanco antica, i nomignoli hanno genesi millenaria. Questa consuetudine non risparmia nessuno, nè il povero, nè il ricco, tantomeno il regnante di turno o il personaggio famoso. Alcuni esempi? Partiamo da lontanissimo, da due millenni fa... probabilmente se dico il nome di Gaio Giulio Cesare Germanico non dirà niente a nessuno, ma se dico Caligola la cosa cambia. L'imperatore romano rimase noto alla storia come un sovrano eccentrico e stravagante, ma il suo nomignolo risale a quand'era un bambino e viveva insieme al padre negli accampamenti dei soldati indossando le alte e robuste calzature dei militari dette "caligae", proprio per questo motivo le truppe chiamarono bonariamente il bambino Caligola, cioè "piccola scarpa". Risalendo nel tempo, che dire di Riccardo d'Inghilterra? La sua folta
Caligola
capigliatura rossa e il suo coraggio gli varranno il soprannome di Riccardo Cuor di Leone. Anche in tempi moderni, per citare altri casi, i soprannomi attribuiti ai potenti abbondarono: "Wustenfuchs" ovverosia "la Volpe del Deserto" non era altro che Erwin Rommel, feldmaresciallo tedesco, divenuto noto 
nella seconda guerra mondiale per la sua astuzia e temerarietà. In terra italica, sempre nello stesso periodo che visse Rommel, nessuno potrà dimenticare "Sciaboletta", alias Vittorio Emanuele III re d'Italia, così detto per la sua bassa statura (un metro e 53 centimetri), per la quale si rese necessario forgiare una sciabola particolarmente corta, che evitasse di strisciare in terra. Restringendo il campo, o meglio il territorio, si arriva nella nostra Toscana, patria dei soprannomi, e per rimanere nell'ambito delle personalità importanti ecco che svetta lui: Lorenzo de' Medici detto il Magnifico, definito così per la sua cultura e raffinatezza. Anche il giornalista e scrittore Carlo Lorenzini (l'autore di
Carlo Lorenzini detto
"Il Collodi"
Pinocchio) aveva il suo soprannome, dovuto al suo paese di origine: Collodi. Sempre in ambito toscano e letterario pure Luigi Bertelli avrà il suo nomignolo, per tutti lui sarà "Il Vamba" (pseudonimo tratto da uno dei protagonisti del romanzo Ivanhoe), con il suo soprannome firmerà la sua opera più famosa: "Il giornalino di Gianburrasca". Che dire della Garfagnana allora? Statistiche in questo ambito non ne esistono, ma credo che facendo un calcolo sommario, considerando quello che mi circonda, penso senza esagerare che il novanta percento della popolazione locale abbia un soprannome, anche perchè mi sono reso conto di conoscere molte persone solo per il loro soprannome e il nome... non lo ricordo. Non crediamo però che questo usanza abbia avuto un valore marginale nella nostra società, tutt'altro, un nomignolo aveva una valenza popolare notevole e non solo, ebbe la funzione di riconoscimento immediato delle persone ai tempi in cui le fotografie non c'erano. Negli archivi storici garfagnini, in documenti riguardanti proprietà di terre, di case e addirittura in processi penali viene riportato oltre che al nome e al cognome anche il soprannome come certezza assoluta d'identità. La sua funzione
Un soprannome sopra
 un atto ufficiale
maggiore era infatti quella di riconoscere le persone, ad esempio il soprannome serviva per distinguere i figli di due fratelli con lo stesso cognome e con lo stesso nome (dato che, come d'uso tipico garfagnino, ai figli maschi veniva attribuito il solito nome del nonno). Altre necessità pratiche erano dovute al fatto che il patrimonio dei cognomi nei nostri borghi era ristretto, buona parte delle famiglie nei paesi garfagnini portava il solito cognome, si vide quindi la naturale necessità di distinguere queste persone con un'appellativo. 

Altre ragioni storiche del perchè nella nostra terra sia così diffusa l'attribuzione del soprannome la si può ricercare semplicemente nel poco numero di abitanti che ha la valle. I nostri paesi sono piccoli, comunità quasi autonome, dove ognuno conosce del prossimo l'intero "curriculum", vizi, virtù, abitudini e hobby.
Viviamo in case di vetro, dove la vita privata ha limiti ristretti: azioni, comportamenti, modi di essere, difetti fisici, qualità morali, insomma tutto è notato e tutto ciò da occasioni infinite e le più impensate per attribuire un soprannome. Tali nomignoli nella cultura popolare garfagnina hanno radici antiche, ci sono alcuni soprannomi che addirittura vanno per diritto ereditario, da generazione in generazione, come se fosse una vera e propria scala dinastica, tanto antico può essere questo soprannome che il suo significato originario si può perdere nei meandri del tempo. Figuriamoci, talmente radicato è questo uso che non è difficile vedere nei manifesti mortuari delle nostre zone oltre al nome e al cognome anche il soprannome che ha accompagnato il defunto per tutta la sua vita terrena . Come rovescio della medaglia bisogna anche dire che esistono nomignoli talvolta crudeli, che la stessa persona a cui è rivolto nemmeno sa di avere, sono nomignoli derivanti spesso da credenze popolari, legate al fatto che una determinata persona porti sfortuna, altresì possono anche essere riferiti a gravi difetti fisici. Invece, da un punto di vista linguistico tutto ciò è accentuato dai vocaboli dialettali che portano la fantasia popolare al potere, creando fantasiosi e variopinti appellativi, talvolta comprensibili solo all'interno della comunità stessa. Alcuni casi ci dicono che "il Chioccoron", cioè il testone può essere dato alle persone per due motivi, o perchè tale persona ha la testa grossa o perchè sempre questa 
Un libro sui soprannomi
gallicanesi dell'amico
Daniele Saisi
persona risulta che abbia un po' di difficoltà nel comprendere. Esiste anche "l'Acciarin", riferito ad individuo che si arrabbia facilmente, infatti l'acciarino è quello strumento che provoca un'accensione tramite scintilla. O sennò c'è anche "il Mestaina", questo soprannome può essere dato ad una persona pia, che ad ogni immagine sacra che trova per la strada si ferma a pregare. Che dire poi dell'"Affuffigna"? Nomignolo dato a quelle persone "maneggione" e trafficone. Esistono persone a cui viene attribuito un soprannome perfino per i prevalenti stati d'animo che hanno: "il Logora", uno che se la prende troppo per le cose, "il Loffaro" persona particolarmente indolente, "lo Sconturba", un individuo sempre turbato, "Lo Stragina", persona sempre stanca, che struscia (straginare) i piedi in terra, "Lo Sciagatton", persona pigra e disordinata. Altri soprannomi vengono attribuiti alle diverse parti del corpo: "Il Culon", "Il Nappa" (naso grande), "Il Bazza" (mento pronunciato, "Il Tarpon"(piede grande), "Il Gambilon"(gambe lunghe). 

A ognuno quindi il suo soprannome e a conforto di quanti, leggendo il proprio soprannome dovessero sdegnarsi, premetto una
considerazione. I soprannomi sono sempre esistiti presso tutti i popoli. In tempi antichi avevano la validità del nostro cognome e quindi (se dati con rispetto), andiamone orgogliosi.

Il mistero dei "bagni di Torrite". La loro storia e l'enigmatico arcano della nascita

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Erano una vera e propria goduria... i romani frequentavano le terme


per lavarsi e per rilassarsi, queste furono un vero e proprio centro di socializzazione, di divertimento e anche di sviluppo di attività. Il loro incremento ci fu verso il II secolo a.C e con il passar dei tempi diventò uno dei principali luoghi di ritrovo, dal momento che la loro entrata era libera e potevano essere frequentate da persone di qualsiasi ceto sociale. I "balneum" pubblici furono talmente amati che gli imperatori che si succedevano facevano a gara a superare i propri predecessori nel costruire terme più grandi e più belle. Tanto per rendere chiara l'idea, all'interno di esse si potevano trovare centri sportivi, piccoli teatri, locande, ristoranti e saloni per feste, insomma una struttura antesignana delle attuali e modernissime Spa. Anche la tanto rinomata ingegneria romana qui trovava la sua esaltazione, difatti le acque venivano scaldate da un'ingegnoso impianto idraulico, giacchè il calore veniva prodotto nel "praefornium", un forno dal quale l'aria calda si diffondeva nelle camere d'aria lasciate sotto i pavimenti
rialzati (detti "ipocausti"), o si diramava attraverso un reticolo di tubi in terracotta ("i tubuli") nascosti lungo le pareti.  Esistevano poi, come nell'argomento di cui ci interesseremo, impianti termali nati da sorgenti naturali di acque calde. In ogni suo dove Roma cercava sempre di individuare eventuali sorgenti naturali: nei villaggi, negli scali marittimi e perfino nelle vicinanze dei castra, così, forse, potrebbe essere avvenuta l'eventuale scoperta dei "Bagni di Torrite". I vecchi abitanti del paese di Torrite li hanno sempre chiamati così: "i bagni romani", quella zona posta tra il mulino del Campatello e la centrale Enel, dove da tempo immemore sgorgavano abbondanti acque calde. Cominciamo subito con il dire che la loro origine romana non è suffragata da nessun documento, esistono solamente alcune ipotesi che potrebbero lasciare qualche sospetto, ad esempio la loro ubicazione. Alcuni studiosi infatti vedono nel termalismo un'impulso alla viabilità, i romani nel costruire le loro strade tenevano (anche) conto di poter sfruttare eventuali sorgenti termali presenti nelle vicinanze, infatti la funzione dei "balneum" era quella di far riposare i viandanti in godevolissime vasche di acqua calda dopo le dure
fatiche del viaggio. Anche per questo motivo tali studiosi vedono un filo conduttore nelle sorgenti termali di Bagni di Lucca, Gallicano, Torrite e Pieve Fosciana, queste terme farebbero parte di un tracciato viario prestabilito e di un servizio nato sopratutto per
Torrite
quei  mercanti che provenivano dal nord Italia e che volevano raggiungere Lucca per i loro affari. Un'altra prova a favore dell'ipotetica genesi romana fu il rinvenimento da parte degli archeologi di quello che i romani chiamavano "opus signinum", ovverosia il cocciopesto, il materiale fu rinvenuto sulle pareti laterali di una grande vasca, 
anche questo rinvenimento però dava  possibilità a svariate supposizioni e a nessuna sicurezza, dato che il cocciopesto fu usato anche in epoca più tarda. Allora visti tutti questi dubbi, a quale epoca risalirebbero queste benedette terme? Domenico Pacchi, esimio storico garfagnino così scriveva nel 1785:"Lontano da Castelnovo un miglio lungo il fiume Torrita è situato il Villaggio chiamato Torrite, o Torriti, che prende il nome dal fiume istesso. Dugento passi, o poco più distante da questo villaggio, alla riva del suddetto fiume si vedono i diroccati avanzi degli antichi Bagni. Benchè al dì d'oggi corra voce che siano stati fatti fabbricare dalla contessa Matilde, non v'è peraltro fondamento alcuno, su cui possa appoggiare simil credenza" e in effetti il Pacchi aveva ragione da vendere, neanche per Matilde di Canossa esiste la
Matilde di Canossa
certezza documentale che abbia dato mandato di edificazione e quindi nemmeno a lei possiamo dare il merito di questo.
Comunque sia, a dimostrazione della loro importanza, furono molti gli studiosi che s'interessarono a questo sito e a conferma di questo anche lo scienziato Antonio Vallisneri scriveva in una lettera di queste terme e anche all'epoca (1707) parlava già di "antichissime terme". Fra l'altro pure lui denunciava il loro stato d'abbandono e se da una parte lodava "la diligenza degli antichi", dall'altra (visto il deprecabile sconquasso che gli si mostrava davanti) criticava "la negligenza dei moderni", lamentando poi che una vasca di quei bagni termali "di bella struttura" sarebbe stata piena di sassi"con degli avanzi di una casa caduta", mentre miserevolmente le acque termali"trapelando per altra via si univano a quelle del vicino fiume". L'altro bagno caldo era invece conservato in maniera accettabile, così scriveva ancora il Vallisneri, i suoi  sedili di marmo erano ancora presenti, come era intatta la sua volta di mattoni. Nelle immediate vicinanze, sottolineava lo scienziato, scorrevano ancora da due rubinetti, due acquedotti, uno versava acqua caldissima e uno acqua limpida e freschissima.
Dei cadenti resti del bagno, nel 1600 ne parlò anche un' eminente
bagni romani di Bormio
storico garfagnino, Sigismondo Bertacchi, che lanciò pesanti accuse e amare colpe ai confinanti fiorentini e lucchesi, la distruzione delle terme di Torrite fu causa loro, l'invidia fu il motivo trainante di tale misfatto: 
"Vi sono le vestigie d’un bagno d’acqua calda, che per memorie di vecchi era tenuto celebre, che si dice, che per l’invidia fosse guasto da’ Fiorentini, o Lucchesi, quando presero la Garfagnana, perché gli levava tutto il concorso dalli loro", niente però fu mai provato.
Visto allora tutto questo disfacimento, come potrebbe essere stata la loro struttura e composizione? Partiamo parlando delle acque. A quanto pare quest'acqua raggiungeva i 34 gradi e in realtà le sorgenti sarebbero state ben tre: due calde e una fredda, così come tre sarebbero state le stanze, divise per reparti, con distinzione fra uomini e donne. 
Rimane il fatto, tanto per dare dati finalmente certi, che il primo documento che parla dei bagni di Torrite è un atto notarile datato 1525. Fra gli altri dati sicuri ci fu pure la visita del Duca d'Este Alfonso II, era il 1580 e così l'accademico Vandelli ci
Alfonso II d'Este
raccontava:"...
dove rilevò le qualità delle acque termali di Turrita, e trasferitovisi in persona vi riconobbe i cisternini, ed i vestigj d’antiche non meno, che vaghe fabbriche; e quantunque con animo generoso vi spendesse molte migliaja di scudi per ristabilire, ed assicurare i bagni dalla mescolanza delle acque della Turrita...". Il duca generosamente donò migliaia di scudi per ristrutturare e restaurare i bagni e dargli quindi nuova linfa. 
Quello che fece il duca probabilmente più nessuno lo fece, un colpo di grazia mortale alle già presenti rovine lo dette il terremoto del 1747, che portò tutto allo sfacelo totale. In tempi moderni le terme si resero nuovamente utili, ma non per fare refrigeranti bagni, stavolta furono usate durante la seconda guerra mondiale come rifugio antiaereo. Poco dopo, nell'immediato dopoguerra, Enel iniziò i lavori sotterranei per realizzare la nuova centrale... la sorgente delle acque termali sparì così per sempre...


Bibliografia:

  • "Descrizione Istorica della provincia di Garfagnana" Sigismodo Bertacchi, a cura del Centro studio Carfaniana Antiqua Lucca 1973
  • Domenico Vandelli 1724 "Carta del modenese"
  • Domenico Pacchi "Ricerche istoriche  sulla provincia della Garfagnana" 1785
  • "Le origine dei bagni di Torrite" di Andrea Giannasi, "Lo Schermo" giugno 2013

La storia della Garfagnana nelle pagine della gloriosa "Domenica del Corriere"

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"Un giornale non può prosperare se pensato e composto tutto quanto
nell'intimità di una redazione, da taluni pochi individui. Anch'esso come le piante non fatte pei languori delle serre chiuse, ha bisogno d'aria e di sole, di correnti vive di simpatia, della larga e spontanea collaborazione di molti. Un giornale specialmente se illustrato, deve risultare specchio, riflesso della multiforme complessa vita pubblica. Domandiamo quindi la collaborazione dei nostri lettori: desideriamo che il Signor Tutti sia il nostro principale redattore, che una continua corrente spirituale unisca il giornale al pubblico, il pubblico al giornale". Così il direttore Attilio Centelli presentava questa nuova creatura editoriale, era il 1899, di li a poco questo giornale illustrato a colori sarebbe divenuto il più popolare e diffuso settimanale in Italia. Nasceva la "Domenica del Corriere". Il periodico fu fortemente voluto dal direttore de "Il Corriere della Sera" Luigi Albertini e uscì per la prima volta l'8 gennaio 1899 come supplemento del già famoso quotidiano. La domenica era il giorno della sua uscita nelle edicole, era stampato in grande formato, aveva dodici pagine e veniva distribuito gratuitamente agli abbonati del Corriere o poteva essere acquistato anche singolarmente per 10 centesimi. Come può certamente sembrare il giornale non nacque come periodico di informazione, non doveva risultare un doppione del quotidiano, venne pensato proprio come "un settimanale degli italiani", doveva dettare i tempi come un calendario, fra le
giornate liete, gli avvenimenti e le sciagure, insomma doveva essere un viaggio fra piccoli e grandi fatti. Il suo grande successo lo si può comunque sintetizzare in due motivi: il primo fu proprio dovuto alla sua caratteristica nazional-popolare, il settimanale era rivolto sopratutto a quel "Signor Tutti" a cui si riferiva Centelli. Esistevano già giornali simili, era loro il monopolio di questa tipologia editoriale, ma le varie "L'Illustrazione Italiana" o "La Tribuna Illustrata della Domenica" erano rivolte sopratutto ad un pubblico alto borghese. Finalmente con questo giornale anche il "popolino" ebbe il suo settimanale, finalmente anche la gente comune, dall'operaio, all'artigiano potè farsi una propria opinione su quanto accadesse loro intorno. Il secondo motivo fu espressione di un preciso orientamento strategico, il direttore optò per quella che fu ritenuta la miglior forma giornalistica con cui s'intendesse comunicare visivamente i fatti di cronaca, in altre parole il vero successo fu dovuto ai disegni, la prima pagina e l'ultima erano sempre disegnate:"il disegnatore e la sua vena narrativa c'erano là dove i limiti della tecnologia e dei mezzi di trasporto impedivano ai fotografi di essere presenti di
Achille Beltrame
persona e nei giusti tempi".
Tutto questo usciva dalla matita magica di due grandi artisti: Achille Beltrame, il primo disegnatore (dal 1899-al 1945)e Walter Molino (dal 1945 al 1966). A queste copertine veniva affidata una funzione d'impatto mai osata prima, il meglio del giornale veniva offerto tutto e subito, perchè attirasse l'attenzione del lettore già sul banco dell'edicola. Ben presto la diffusione di questo giornale raggiunse vendite mai viste prima, si calcolava che di media fossero settecentomila le copie vendute, un'infinita per un'Italia che sapeva appena leggere e scrivere e quando accadeva che la zona in cui abitavi era sulla copertina de "La Domenica del Corriere", c'era una corsa per accaparrarsi il tanto sospirato numero e così succedeva anche in Garfagnana... Purtroppo però, le rare volte che la valle comparì su queste pagine non fu sempre per fatti allegri. Ma non per questo mi posso esentare nel fare un viaggio esclusivamente garfagnino ne "La Domenica del Corriere", il settimanale più famoso d'Italia.

La prima volta fu il 22 gennaio 1902, e salimmo alla ribalta delle cronache nazionali per una delle tante nostre bellissime tradizioni. Così titolava l'articolo: "La forza delle tradizioni-Il giro del diavolo". L'usanza voleva (e vuole anche adesso) che in quel di San Pellegrino in Alpe vi fosse un luogo deputato alla remissione dei peccati, la consuetudine diceva che per espiare i propri peccati
bisognava caricarsi un sasso sulle spalle per depositarlo poi al centro di un campo, dopo aver compiuto tre giri del luogo. La grandezza del masso era direttamente proporzionale alla gravità del peccato commesso: "...lo spettacolo di uomini e donne in età avanzata con in sul capo rudi macigni è veramente penoso...". (per saperne di più clicca:http://paolomarzi.blogspot.com/2016/09/il-giro-del-diavolo-un-rito-millenario.html)
Passarono alcuni anni prima che la Garfagnana avesse nuovamente menzione sul giornale e il 22 gennaio 1914 una sensazionale notizia ci volle nuovamente protagonisti. La notizia era all'interno del giornale e parlava di un'importante opera infrastrutturale:"La diga di Villa nella Garfagnana". Eravamo alla vigilia della prima guerra mondiale e nonostante i venti di guerra questa diga fu la prima costruita in Valle del Serchio per lo sfruttamento delle acque per la produzione
di energia elettrica e la "Domenica del Corriere" così scriveva: "Per raccogliere le acque del torrente Corfino e affluenti a scopo industriale, la società idroelettrica toscana ha fatto costruire nel pittoresco comune di Villa, nella Garfagnana, una diga in calcestruzzo. Lunga 70 metri essa raggiunge l'altezza di oltre 40. Questa poderosa barriere che è ancora ricinta di armature può rappresentare un miracolo di sollecitudine se si pensa che la sua costruzione non esigè che 67 giorni". Ebbene, 67 giorni e non si può dire che fu costruita in fretta, furia e male, il grande invaso resistette perfino al devastante terremoto del 1920, l'epicentro era proprio lì, a Villa Collemandina.
Altri dieci anni esatti passarono prima di comparire nuovamente sul noto periodico e quando la Valle riapparse su quelle pagine gli fece onore la copertina principale con il magnifico disegno di Beltrame. Il fatto accadde sulle Apuane, era il 27 gennaio 1924, l'argomento trattava di un episodio marginale ma altresì molto curioso: "Un aquila gigantesca contro due cacciatori, l'altro riusciva ad ucciderla schiacciandole la testa con il calcio del fucile". Un ennesimo fatto bizzarro salì agli onori delle cronache alcuni anni più tardi, nell'ottobre del 1939. Il disegno anche questa volta uscì dalla matita di Beltrame, stavolta però occupava l'ultima pagina: "Un ciclista della Garfagnana correva veloce sulla carrozzabile di Ponte di Campia, quando nell'evitare un grosso autocarro, batteva violentemente contro il parapetto della strada, precipitando nel sottostante binario ferroviario, proprio mentre
transitava un treno. Egli andava così a finire sul tetto del vagone, riuscendo a mantenersi supino sino alla prossima stazione, dove, fermatosi il treno poteva discendere senz'altre conseguenze". Come possiamo leggere, tutto era condito dalle retoriche parole del tempo che enfatizzavano ogni accadimento come se fosse una cosa eccezionale. Non ci fu nessuna enfasi però sulle copertine che verranno negli anni successivi. Era scoppiata la seconda guerra mondiale e gli avvenimenti rappresentavano la triste realtà dei fatti. Nei due casi che la Garfagnana apparve sulle pagine de "La Domenica del Corriere" per il conflitto in corso fu menzionato Gallicano. Sette gennaio 1945, la prima pagina fu disegnata da Walter Molino. Era lui il discepolo prediletto di Achille Beltrame. Al tempo di questa prima pagina il vecchio disegnatore era sofferente, dopo un mese morì, lasciando il compito di realizzare le tavole del giornale al giovane Molino. Fu questa infatti una delle sue prime memorabili copertine, in questa rappresentava una battaglia che imperversava in ogni dove, da una parte c'erano italiani della
Repubblica Sociale e tedeschi e dall'altra gli americani, gli alleati però sembravano avere la peggio:"La guerra sul fronte dell'Italia centrale: nel settore di Gallicano (Lucca),le truppe italiane e germaniche con improvviso attacco hanno sfondato le posizioni nemiche e ricacciato i reparti statunitensi parecchi chilometri verso sud, mantenendo poi le località liberate". Qui probabilmente si faceva riferimento ad accadimenti che avvennero nel dicembre '44, con particolare riferimento alla celeberrima "Battaglia di Natale".I fatti però non andarono proprio come quelli descritti nella didascalia, nella realtà da lì a poco i reparti tedeschi si ritirarono nelle posizioni di partenza. D'altronde era da ben capire la faziosità del giornale che aveva sede proprio in quella Milano assoggettata dalla regole e dalle leggi del neonato stato fantoccio della Repubblica di Salò. Ne fu conferma la copertina di alcuni mesi dopo, questa volta il disegno fu di Albertarelli e mostrava dei bersaglieri italiani che catturavano dei soldati americani: "Audace colpo di mano dei
bersaglieri della divisione "Italia" nella zona di Gallicano in Garfagnana: un reparto da ricognizione assalta un avamposto nemico, distruggendolo, catturando numerosi prigionieri e consolidando poi le posizioni conquistate".
La guerra finalmente finì e gli argomenti del periodico riflettevano la voglia di evasione e spensieratezza di una nazione intera. Singolare fu infatti il tema dell'articolo del 3 novembre 1946 che parlava della Garfagnana. Il pezzo era all'interno del giornale e così titolava "Garfagnana, terra sconosciuta", portava la firma di un garfagnino doc: il Gian Mirola, ovverosia Alfezio Giannotti, grandissimo giornalista, che fece pubblicità alla sua terra in un insolito articolo per quel tempo, si parlava infatti di turismo. All'epoca i viaggi erano alla portata di pochi individui, figuriamoci poi dopo una guerra mondiale, ma lui volle dare una mano alla sua terra, facendo conoscere le sue bellezze e le sue tradizioni ad una nazione intera. Stupendo è l'inizio del servizio: "La Garfagnana non è una delle
misteriose province dell'Asia, nè uno sperduto villaggio della Patagonia. Se qualcuno leggendo il titolo di questo articolo, lo avesse immaginato, si ricreda...". Era il 1947, esattamente il 21 dicembre, quando la Garfagnana e la sua gente apparvero per l'ultima volta su "La Domenica del Corriere", la penna era sempre quella del Gian Mirola e la devozione stavolta fu la protagonista del pezzo: "La miracolata della Garfagnana". Eravamo a Gramolazzo, Anna Morelli era una paesana che a quanto pare vedeva la Madonna: "La folla s'inginocchia, piange sommessamente. Anna, la miracolata con lo sguardo fisso in avanti, sorride e mormora parole incomprensibili. E' in estasi. Riesco a percepire alcuni monosillabi privi di senso:-si...no...-. Per accertarmi del suo stato di sensibilità la pungo per due volte inaspettatamente, con uno spillo. Due goccioline di sangue, la ragazza non sente e non fa un movimento. Gli occhi sbarrati, fissi nel vuoto
vedono...sviene...". (per saperne di più clicca:http://paolomarzi.blogspot.com/la-bernadette-di-gramolazzo-anna.html)
Stavano comunque per finire gli anni d'oro del giornale, nel corso degli anni cinquanta e sessanta, l'avvento della televisione e di nuovi settimanali (come L'Europeo, Panorama, L'Espresso) portò a un graduale ed inarrestabile crisi di copie. Alla Garfagnana non rimase che l'onore di essere più volte apparsa sulle tavole e sugli scritti del periodico più famoso in Italia. Per chi come me ha queste straordinarie copie, le conserverà come uno dei beni più preziosi. 

Il Ciarlatano, il vero protagonista dei mercati in Garfagnana: storie di truffe e speranze mancate nei secoli passati

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Ciarlare...,  discorrere in modo prolisso, vivace e sconclusionato
di argomenti leggeri o futili. La nostra lingua è bellissima, ogni parola ha un suo perchè ed una etimologia ben precisa, legata anche a dei fatti, a storie o a dei personaggi, proprio come questo vocabolo, nato da una figura antica, ambigua, ingannatrice e truffaldina: il ciarlatano. Il ciarlatano era uno spacciatore di certezze che non erano altro che menzogne ben vendute, insomma un venditore del nulla che faceva leva sui poveri creduloni a cui vendeva medicamenti portentosi promettendo guarigioni miracolose. Il losco figuro traeva da ciò lauti guadagni, era difatti un'imbonitore sopraffino, dotato di un forte carisma che lo portava ad avere un successo e una popolarità strepitosa. La loro fama, ad onor del vero, era anche dovuta dagli scarsi successi che la medicina ufficiale aveva, la scienza medica di quel tempo era infatti basata su principi empirici e sperimentali e come si suol dire "non levava un ragno dal buco". A dare un significativo suggello a questi manigoldi ci pensarono pure alcuni regnanti del tempo. Luigi XIII, re di Francia dal 1610 al 1643, dedicò molta attenzione a questi "signori", investendo somme ingentissime allo scopo di acquistare "il segreto dei medicamenti preziosi per divulgarli a pubblico vantaggio". Naturalmente, nonostante il loro alto lignaggio, gli illuminati sovrani venivano regolarmente
Pietro Leopoldo di Toscana
truffati, così come capitò al granduca Pietro Leopoldo di Toscana (fratello della più celebre Maria Antonietta), quando su consiglio del medico di corte e dell'intero collegio medico di Firenze, comprò da un ciarlatano "il medicamento contro ogni male":
"...Si prendano rospi vivi, si mettano in una pentola bene invetriata, ed il copercio sia ben turato con loto sapiente, acciò non svapori lo spirito. Si metta in un forno rovente la pentola più volte, acciò si secchino bene i detti rospi. Seccati e freddi che saranno, si faccia polvere con macinino, si unga bene il capo del paziente con lardo di porco, e s’impolveri il capo con detta polvere, si ponga sopra una vescica compressa di porco, si copra il capo con pezzuola e fasce, acciò stia e rimanga applicata la polvere al capo, si tenga il medicamento per 24 ore, di poi si sfascia, si leva detta vescica, e resterà il paziente pulito senza verun nocumento e dolore”... Ma chi erano i ciarlatani più famosi? Due nomi, talmente noti che la loro fama è perfino giunta ai giorni nostri: Cagliostro, che si serviva di pratiche magnetiche per ottenere guarigioni straordinarie e Giacomo Casanova, rinomato da tutti come un vero e proprio "tombeur de femmes", ma altresì celebre per la sua "acqua di gioventù", un'elisir di lunga vita famoso in tutta l'Europa del 1700.
Figuriamoci, se nella rete di questi furfanti cadevano cotante teste coronate, il popolino ignorante, incolto e povero, che faceva? Ci
Giacomo Casanova
cadeva nella solita maniera ma a prezzi alla portata della povera gente e fra questa povera gente ci furono molti, ma molti garfagnini.

Questi imbroglioni, capirono fin da subito che per perpetrare le loro truffe dovevano seguire le rotte e gli spostamenti delle persone e dalla Garfagnana passava proprio una delle vie più famose e frequentate di quei tempi. Infatti la via Francigena generava un notevole afflusso di pellegrini per la valle, che portò negli anni a venire alla nascita dei mercati che ancora oggi conosciamo. Lì, ognuno poteva vendere la propria merce, i prodotti del campo e i propri manufatti, si potevano anche offrire i più svariati servizi come piccole riparazioni o la vendita di attrezzi. Ben presto, il duca di Modena Niccolò III(XV secolo),  visto il successo ottenuto da questi mercati, decise di distribuire
Via Francigena
equamente l'opportunità  di guadagnare qualche soldo a tutti quei paesi che erano sul percorso di questa santa strada, così si dispose che ognuno di questi borghi "ivi posto", un giorno alla settimana, alternativamente, potesse godere di questi scambi commerciali, ecco allora che il giovedì sarebbe toccato a Castelnuovo, il mercoledì a Gallicano, il martedì a Piazza al Serchio e così via... In men che non si dica i ciarlatani diventarono però i veri protagonisti di questi mercati. Erano veramente degli instancabili malfattori, percorrevano tutta l'Italia, dalle Alpi alla Sicilia, scaltri, furbi, sapevano stuzzicare la curiosità delle persone con mezzi sagaci che stimolavano una morbosa curiosità nel popolo. Il loro arrivo in paese era difatti sempre annunciato giorni prima, facendo uso di bercianti araldi o di ampollose affissioni. Appena arrivavano nei mercati garfagnini sapevano rubare subito la scena, montavano

in men che non si dica il loro palchetto e subito vi salivano sopra(proprio per questo modo di fare furono chiamati anche saltimbanchi), e da quei banchi facevano sfoggio di grandi e presunte conoscenze, accompagnandole talvolta con declamazioni di storielle e filastrocche, insomma, il successo era garantito, tant'è che a Castelnuovo gli fu riservato(nell'attuale Piazza Umberto I)lo spazio migliore, quello dover poter accogliere più gente. Naturalmente la maggior parte di questi ciarlatani erano persone prive d'istruzione, che vendevano medicamenti di ogni genere: unguenti fenomenali, antidoti potentissimi, nonchè scatolette contenenti polveri segrete per guarire dai più svariati malanni: mal di denti, mal di testa, febbri, ferite, vere e proprie panacee supportate da un (falso) certificato ottenuto dalle autorità sanitarie e politiche. Fra i "dotti" impostori che bazzicavano i mercati della Garfagnana si ha notizie di due infingardi, non sappiamo se le generalità fornite siano vere, ne dubito, ma dai registri delle autorità si ha notizia del dottor Salvadori, medico tirolese... che vendeva "vino amaro", approvato nientedimeno dal sigillo del medico di corte del Regno di Napoli, un vero toccasana "per la febbre alta, o per le febbri periodiche putride o tisi, nelle ostruzioni di fegato e milza, e nelle digestioni depravate", la bottiglia era sigillata con tanto di ceralacca, a scanso di frodi ed
adulteramento...non si sa mai...Fra i medicamenti più richiesti in Garfagnana, a quanto pare, esisteva un olio benefico, detto olio di Sasso, un prodotto che veniva direttamente dalle nostrane(al tempo)terre del Ducato di Modena, tale portento scaturiva da alcune sorgenti del Monte Giglio, nei pressi di Sassuolo. Sicuramente questa "medicina" non mancava al più famoso di tutti i ciarlatani che in Garfagnana andavano di mercato in mercato: Luigi Gambarotta di Pistoia, possessore inoltre del vero ed unico "salutifero balsamo antiermintico": Modo di adoperare il salutifero Balsamo antermintico, o sia antiverminoso dispensato da me Luigi Gambacorta di Pistoia, solo possessore di detto segreto, con privilegio. Primieramente serve per dolor di capo causato da freddo, ungendo le narici, le tempie, la fronte. Per doglie frigide in qualsivoglia parte della vita, ungendo la parte offesa con detto balsamo, e facendo strofinazione sopra, sempre all’ingiù con panni caldi sana. Per sordità d’orecchie, piglia una fasta di bambagia bagnala in detto segreto, porla dentro l’orecchio,
untandoti anche fuori, ricupera l’udito. 
Per quelli che patiscono retenzione d’orina, e renella, calcoli, e viscosità usi con detto segreto tra un sesso, e l’altro, sopra il petenecchio e i fianchi, allarga i meati, stacca i calcoli, fa orinare la renella portata nella vescica, e subito guarirai. Ai vermi delle creature si scalda detto segreto, e poi ungendo i petti e le tempie, le narici del naso, la fontanella della gola la bocca dello stomaco, e l’ombellico, che subito gli manderà fuori.Per ferite è noto perché leva il dolore, stagna il sangue in 48 ore, salda la ferita, ma caldo con filacci sopra. Alle doglie, catarri, freddore, e umidità di qualsivoglia parte della vita untati dov’è il dolore con panni caldi. Risolve i tumori che provengono da calcare e le contusioni dissolve, e il sangue congelato col suo caldo impedisce la putrefazione, per le sciatiche nove, e vecchie, untando sette volte sana. Giova per le cascate, percosse, maccature, calci di cavalli e morsicature di cani, con taffa di roba sottile posta dentro la morsicatura, e per tagli e
ferite si adopra senza chiarata
 per non incitare la contusione"... poi, eventualmente, chi non voleva acquistare la pozione, il buon Luigi vendeva anche cinghie, cinture per uomo, per donna e cerotti.

Sono trascorsi i secoli e il ciarlatano non si è estinto... sono passate guerre, re, regine, cataclismi sconvolgenti... ma il ciarlatano nel 2020 è sempre vivo e vegeto, anzi ha fatto di meglio, si è evoluto e si è adattato ai tempi moderni, adesso non salta più sul banco ad arringare gente, adesso lo troviamo in televisione o sul nostro computer, il loro intento è però rimasto invariato da secoli: fare soldi sulle speranze e sulle sofferenze della povera gente... 



Bibliografia:

  • "Ciarlatani nei secoli" di Ugo Gabriele Becciani, Pistoia 2005
  • "Corriere della Garfagnana" n°4 aprile 2015, "I nuovi articoli sul dazio" di Guido Rossi

La misteriosa origine del nome delle 33 vette delle Apuane

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“Da essi monti si diramano vari contrafforti, che portano sui loro
ciglioni acute prominenze ed una criniera dentellata e discoscesa tanto, che un uomo che non abbia le ali di Dedalo o di Gerione difficilmente può su quelle balze passeggiare. Essendo che simili creste, dove solo allignano piante alpine e annidiano aquile, sono fiancheggiate da profondi burroni pietrosi di color grigio, i quali si succedono gli uni appresso gli altri in direzione quasi uniforme, in guisa che visti dall’alto offrono all’immagine la figura di un mare tempestoso istantaneamente pietrificato". 
Nel 1883 lo storico e geografo Emanuele Repetti descriveva le Apuane con una similitudine fra le più belle ed espressive che siano mai state scritte su queste montagne, eppure di questi luoghi avevano scritto letterati sublimi come Dante, Ariosto e Boccaccio, tuttavia la definizione "di un mare in tempesta istantaneamente pietrificato", rende chiara l'immagine e la natura delle Apuane.
"un mare in tempesta pietrificato"
 Borra Canala
(Foto Paolo Marzi)
D'altronde le Apuane sono sempre state montagne quasi magiche, a partire proprio dal loro aspetto, dalla loro storia, dalle leggende e dalle "fole" che una volta si raccontavano la sera a "veglio". Erano narrazioni che vedevano un intrecciarsi di vicende sacre e profane: diavoli, santi, streghi, buffardelli, "omini" selvatici, erano i protagonisti di queste leggende, trame che avevano radici antichissime e che si rifacevano a coloro che dettero il nome a queste antiche vette: gli Apuani. Erano loro gli antichi abitanti di questi monti, fieri, indomiti e cocciuti, proprio come sono oggi quelli che vivono da queste parti. La denominazione Alpi Apuane compare, forse, la prima volta nel 1804 al nuovo dipartimento del Regno italico: "
L'aspetto frastagliato delle creste montuose, che ricordano quelle delle Dolomiti, e il biancheggiare quasi niveo dei detriti marmorei delle celebri cave, giustifica il nome di Alpi". A proposito di nomi ci siamo mai chiesti il significato del toponimo delle trentatrè maggiori cime delle Apuane? Chi è appassionato di passeggiate o
(Foto Paolo Marzi)
scalate sarà salito su quelle cime decine e decine di volte... e fra sè e sè non si sarà mai chiesto... ma perchè il Monte Cavallo si chiama così?...e la Pania Secca?... e il Sagro? Una buona parte di questi nomi si rifà proprio a quelle leggende narrate al caldo di un camino, o anche alle 
millenarie tradizioni di popoli remoti, altre ancora alla conformazione del monte stesso...Proviamo allora, a fare un viaggio nel misterioso mondo dei loro toponimi.

Prima di cominciare però, se mi consentite vorrei chiedere il vostro aiuto, nonostante le mie varie ricerche non sono riuscito a dare un significato ed un perchè a tutti i nomi delle vette apuane, chiedo per questo la vostra assistenza per completare la definizione delle otto cime che mancano all'appello.
L'elenco non sarà alfabetico, ma andremo per ordine di altezza, dalla cima più alta a quella più bassa.
Il Pisanino 
La vetta più alta di tutte le Apuane, che nome curioso...il rimando
Il Pisanino
(foto di Emanuele Lotti)
va subito alla città di Pisa...e così in effetti è. Eravamo ai tempi delle confederazioni etrusche e i centri urbani più ricchi come Pisa venivano regolarmente depredati. In una di queste scorribande il popolo spaventato per sfuggire alle persecuzioni scappò verso nord e uno di questi spaventati soldati arrivò fino in alta Garfagnana. Trovò rifugio presso un pastore che aveva il suo gregge su questo alto monte. Lo sventurato per paura però non rivelò mai il suo vero nome a nessuno e per gli abitanti del luogo era conosciuto semplicemente con l'appellativo di "Pisanino", al momento della sua morte quel monte dove aveva trovato riparo prese il suo nomignolo. (Per saperne di più clicca qui: http://paolomarzi.blogspot.com/2014/05/una-leggenda-struggentela-leggenda-del.html)

Monte Cavallo
L'etimologia del Monte Cavallo prende l'appellativo dalla sua conformazione, quattro sono le sue gobbe tondeggianti.
La Tambura
Il geologo Carlo De Stefani nel 1881 così scriveva: "...la chiamano
Il Sumbra

la Tambura o le Tambure, sebbene poi il nome di Tambura sia dato in special modo alla regione situata a nord del passo omonimo, comprendente anche il Monte Prispole, che, siccome dicevo, viene spesso chiamato, sebbene un poco impropriamente, Tambura. Si chiama Fosso Tambura il canale che scorre nella Valle di Arnetola e raccoglie le acque del versante est della Tambura e dalla Roccandagia e dalle pendici sud del Monte Fiocca e, probabilmente, il nome al fosso precede l'attribuzione del nome al monte"

Pania della Croce
La regina delle Apuane, conosciuta in antichità come "Pietrapana" , ovvero Monte degli Apuani. Agli inizi del 1800 si pensò però di fare
La Pania della Croce
di questa vetta l'altare delle Apuane. Dalla sua sommità si poteva ammirare, quasi toccare i tre elementi di vita terrena: acqua (il mare della Versilia), la terra (i monti garfagnini) e il cielo. Tale era la magnificenza che lassù ci si sentiva a stretto contatto con Dio e in segno di devozione fu eretta la sua prima croce che era in legno.(Per saperne di più clicca qui:http://paolomarzi.blogspot.com/2014/04/la-pania-della-crocee-la-problematica.html)

Monte Contrario
Veramente bizzarro il nome di questo monte. Questo appellativo fu usato per la prima volta in un documento ufficiale nel 1899 da Axel Chun (noto industriale ed appassionato di montagna). Già così era comunque chiamato dai pastori locali, poichè tale denominazione ha origine dal fatto di essere inserito nella linea di spartiacque apuana con andamento diverso da quello delle altre montagne, ma, naturalmente, anche per l'aspetto completamente diverso che offre all'osservatore se visto dall'Orto di Donna o dalle valli massesi.
Pizzo d'Uccello
La presenza dei corvi che li nidificano e in passato la maestosa
Pizzo d'Uccello
(Foto Daniele Saisi)
aquila reale che su quella cima aveva la sua casa gli attribuirono il nome

Monte Sumbra
Molte leggende ci sono su questa montagna nella zona di Vagli, dove il Sumbra incombe con la sua imponente mole. Il nome a quanto pare deriva dall'aspetto di un animale accovacciato sulla sua ombra.
Monte Sagro
I Liguri Apuani raccontavano che sulla cima vivesse un Dio pietoso elargitore di piogge, un monte sacro quindi, legato proprio al culto delle vette.
Monte Sella
Il toponimo nasce dalla sua forma a schienale d'asino
Pizzo delle Saette
Proprio lì, cadono tutti lì: lampi, fulmini e folgori. Sarà perchè il monte ha vene minerarie ferrose? Probabile.
Pania Secca
Verrà forse chiamata così per il suo aspetto brullo e spoglio? Ma
Pania Secca
(foto Paolo Marzi)
anche altre montagne apuane hanno il solito aspetto..Infatti la sua storia, o meglio il perchè di questo nome affonda le radici nella tradizione popolare e racconta che Gesù venne a far visita ad un pastore che li abitava. Il Signore bisognoso d'acqua la chiese all'uomo che malamente gliela rifiutò. Il gesto richiamò la collera di Dio su quel luogo e quando le nubi si addensarono sul monte e cominciò a piovere ogni goccia che cadeva si trasformò in una pietra, rendendo il monte spoglio e arido così come oggi lo conosciamo.(Per saperne di più clicca qui: http://paolomarzi.blogspot.com/2014/07/la-leggenda-della-pania-seccavoluta.html)

Monte Corchia
Per Corchia si può intendere conchiglia, riferito alla
Monte Corchia
caratteristica del monte che vede il suo interno vuoto e dove esistono numerose cavità.

Monte Altissimo
Il suo aspetto inganna, visto che altissimo non è, ma se visto dal mare la sua imponenza fa impressione.
Monte Croce
Più che altro famoso per la fioritura delle giunchiglie, ma il suo nome lo deve alle sue quattro creste, che in pianta formano una croce.
Monte Freddone
Nel suo nome c'è il suo perchè... Il luogo deve il suo appellativo all'ambiente umido di torbiera che lo contraddistingue.    
Monte Borla
Probabilmente dal greco bothros, che significa fosso, cavità, buca. Da lì anche il nome Borra Canala, zona situata ai piedi delle Panie.
Monte Maggiore
Visto da Carrara è il più grande, inevitabile che si chiamasse così
Monte Matanna
Qui facciamo nuovamente riferimento alle antiche divinità apuane: Thana, era la dea della luce lunare.
Monte Forato:
Credo che il suo toponimo non abbia bisogno di spiegazioni. L'arco
Monte Forato
(foto Daniele Saisi)
naturale si è formato per l'erosione di acqua e vento. Ha una campata di 32 metri e una altezza massima di 25 m, lo spessore della roccia che forma l'arco è circa 8 metri mentre l'altezza è circa 12 metri, queste misure ne fanno uno dei più grandi archi naturali italiani.

Monte Gabberi
In tempi lontani detto anche monte Gabbaro, da gabbro, glabro: liscio, pelato.
Monte Lieto
Che bel nome questo. In questo luogo sono stati trovati reperti dell'età del ferro che documentano l'occupazione da parte dei Liguri Apuani tra il 300 e il 200 a.C. Probabilmente anche questa era una montagna sacra a queste antiche popolazioni. Il suo toponimo è possibile che derivi da Leto parola legata al passaggio dalla vita terrena all'aldilà.
Montalto
La sua altezza era sfruttata dai Liguri Apuani, dove li insediarono torri di vedetta. L'ampia visuale sulla vallata e sul Mar Tirreno faceva si, che si potessero avvistare i nemici in lontananza.

Questa era l'ultima montagna da me studiata e analizzata. Come avete letto all'appello mancano alcune cime a cui non sono riuscito a
Foto Paolo Marzi
trovare il certo significato etimologico. A questo elenco mancano: il Grondilice, Roccandagia, Fiocca, Macina, Nona, Piglione, Prana e Procinto. Questo articolo perciò rimane incompiuto... Chiunque volesse darmi una mano a completare questo pezzo ne sarò ben lieto.

Spero comunque di aver fatto cosa gradita a tutti i miei lettori, agli amanti della montagna e ai suoi abitanti.

Bibliografia:

Quarantena e lazzaretti in Garfagnana

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Il mondo dei numeri ha mille aspetti e uno di questi ci racconta del
misterioso legame che ha con l'uomo. Una moltitudine di numeri sono legati a svariate simbologie o a dei significati nascosti, fra quelli a noi più noti ci sono il 13 e il 17... Ma c'è un numero che oggi (a malincuore) è tornato più che mai di "moda": il quaranta. Quaranta è un numero speciale, considerato in senso biblico un numero che indica una situazione di attesa e di provvisorietà. Scorrendo la Bibbia infatti, tale numero ci si presenta davanti un'infinità di volte. Vediamo così che nella Sacra Scrittura con 40 si indica la durata della vita media dell'uomo. Quaranta sono gli anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto, così come 40 giorni e 40 notti durò il diluvio universale. Nel Nuovo Testamento questo numero si trova ben ventidue volte, cosicchè 40 giorni fu il digiuno di Gesù nel deserto e quaranta furono i giorni che il Signore si manifestò ai discepoli dopo la resurrezione, così come sono quaranta i giorni della Quaresima pasquale. Insomma, a quanto pare anche la parola quarantena, che in questi disgraziati giorni sentiamo in ogni dove è legata anche a questi biblici fatti. La quarantena è un'invenzione tutta italiana, o meglio veneziana. Già
1400 le navi in quarantena a Venezia
dai primi del 1400 si riteneva che in questo lasso di tempo un ammalato di peste non fosse più contagioso... Tutto nacque proprio quando nel porto della città lagunare attraccavano le navi provenienti dai possedimenti dalmati ed erano sospettate di trasportare persone o animali contagiosi. Era difatti ancora vivo il ricordo della peste nera e per questo si riteneva opportuno trattenere 
per quaranta giorni tutto l'equipaggio sulla nave, merci comprese. Erroneamente si pensava che dopo questo periodo di tempo un ammalato di peste non potesse più infettare, in realtà la malattia era vivissima e diffusa più che mai da pulci e topi. Nonostante ciò, il numero ebbe comunque successo, proprio perchè legato a tradizioni popolari (e come abbiamo visto), legato a passi della Bibbia e alle liturgie religiose. Un altro vocabolo che si unisce indissolubilmente alla parola quarantena è lazzaretto. Forse i più giovani non sapranno il significato di questo termine se non hanno studiato "I Promessi Sposi"... Oggi i lazzaretti non esistono più (grazie a Dio), erano luoghi di
La peste a Milano. Promessi Sposi
sofferenza, reclusione ed isolamento, dove venivano portati tutti i malati di patologie contagiose, in particolar modo quelli affetti da lebbra e peste. Anche la parola lazzaretto trae origine da accadimenti collegati alla sfera religiosa:
"C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco...". Questa è una parabola di Gesù, sul ricco Epulone e il lebbroso Lazzaro e pare che proprio dal protagonista di questa parabola nasca la parola lazzaretto, in alternativa si pensa anche che prenda nome dal primo lazzaretto veneziano: Santa Maria da
Santa Maria di Nazareth oggi,
lazzaretto veneziano
Nazareth, da li, il nome venne poi distorto in nazaretto e poi a lazzaretto. Purtroppo questo nefasto binomio con tutte le sue funeste conseguenze non si manifestò solo nella lontana Venezia, ma fu presente più volte nel corso dei secoli anche in Garfagnana. 

Da immemore tempo le strade che hanno attraversato la valle, sono state "croce e delizia" dei suoi abitanti. Durante e dopo il medioevo proprio queste vie furono il passaggio obbligato per tutti quelle persone che si volevano recare a Roma dal nord Italia, da li infatti transitavano pellegrini, mercanti e soldati, questo grande afflusso di gente portò il grande sviluppo del commercio in tutta la Garfagnana...ma quando nel tempo ciclicamente scoppiava un'epidemia questa strada diventa la porta d'accesso della morte stessa... D'altronde per scongiurare ogni pericolo anche all'epoca se ne studiavano di tutte. Fu il Granduca di Toscana per la peste del 1630 a vietare la transumanza dei greggi provenienti dalla Garfagnana
diretti in terra di Maremma. Il colpo fu duro per l'economia garfagnina, circa quarantamila capi con l'arrivo dell'inverno avrebbero rischiato di morire di freddo e fame. Il Duca di Modena perorò allora la causa dei pastori garfagnini presso lo stesso Granduca, che accettò l'idea del regnante modenese: sia i greggi che i pastori sarebbero stati visitati dai medici ducali, se sani sarebbero stati lasciati passare, assoggentandoli però alla quarantena. 
In Garfagnana non ci siamo mai fatti mancare niente, con il passare dei lustri, dei decenni e dei secoli, lebbra, peste e colera non sono mancati. Juan Antonio Quiros Castillo ci racconta (nel suo libro dedicato all'ospedale di Tea)che fra l'VIII e il XVI secolo fra Garfagnana e Lunigiana furono fondati oltre duecento ospedali e fra questi erano contati numerosi lazzaretti. Loppia, Torrite,
Santa Lucia a Gallicano
Gallicano (Santa Lucia), erano fra i più capienti e i più importanti. Questi luoghi di sofferenza erano perfino dislocati anche nelle zone più impervie e disagiate, come l'oratorio di Sant'Ansano nei pressi di Trassilico. Situati principalmente fuori dai paesi e nati sopratutto nei pressi dei luoghi di culto, erano i religiosi che si preoccupavano di ricevere i malati, essi però si occupavano più che altro di alleviare le pene dell'anima più che quelle del corpo, la persona che in quarantena entrava in un lazzaretto probabilmente non ne sarebbe più uscita viva. Le condizioni igieniche erano precarie, per esempio si sapeva bene che quando un appestato moriva si sarebbero dovute bruciare tutte le sue cose, come gli abiti, il giaciglio, ma in condizioni di estrema urgenza, era impossibile procurarsi solo la paglia fresca dove far stendere i malati. Il sovraffollamento e la promiscuità facevano il resto, favorendo di fatto il già alto tasso di mortalità.
Il monatto

Consideriamo poi che la sorveglianza era altissima e tutto il complesso era circondato da muri invalicabili che potevano oltrepassare solo due persone: il contagiato e il monatto. Il monatto era un addetto comunale, che coperto da una caratteristica maschera (per non farsi riconoscere) girava nel paese, incaricato di trasportare i malati al lazzaretto o di scovare i contagiati che provavano a farsi curare in casa, consapevoli del fatto che se fossero finiti dentro un lazzaretto per loro sarebbe stata morte sicura. Pertanto le misure di sicurezza e prevenzione non erano una prerogativa di questi sciagurati tempi, anche all'epoca una delle paure più grandi era quella che una volta sparito il morbo si potesse ripresentare con tutta la sua virulenza. Parlando della peste del 1630 si ha infatti notizia che disposizioni sanitarie ed isolamento rimasero in vigore fino al 1632... Alcuni casi di peste in quei due anni purtroppo si ripresentarono. Si narra(sempre in riferimento a quel periodo) di un episodio di altissimo senso civico che merita di essere raccontato e
Tipica conformazione
di un lazzaretto
da prendere come esempio anche oggi, in tempi di Coronavirus. Era un 2 giugno di quattrocento anni fa...: 
"Uno di Castelnuovo di ritorno da Buti nel pisano ave infieriva il contagio, per quale eragli colà morto un figliolo, con saggio ed onesto pensiero non volle entrare in paese per non importarvi il malore, ma si fece sequestrare in luogo lontano dalle case a subirvi la quarantena". 

Arrivò anche il tempo in cui per l'ultima volta si sentì parlare di lazzaretti in Garfagnana. La storia del lazzaretto nella valle terminò però con l'arrivo di un'altra grande pestilenza "il fatal
cholera morbus". Il colera arrivò nella valle nell'agosto del 1854 per sparire poi nel novembre dell'anno successivo. La solerzia del governo estense fu davvero straordinaria, dopo appena quattro giorni le autorità decisero di dividere la Garfagnana in tre distretti sanitari, ogni distretto un lazzaretto: nella fortezza di Mont'Alfonso a Castelnuovo, nell'ex convento delle suore a Vagli e
in casa Valdrighi (San Donnino) a Piazza al Serchio, inviando di conseguenza quattro suore da Modena per assistere gli ammalati. Nei giorni successivi (proprio come stiamo facendo adesso), altre commissioni con poteri speciali chiusero tutti i confini con permanenti posti di blocco. Nel 1855, il 15 ottobre, si ha notizia dell'ultimo garfagnino che visse "l'esperienza" del lazzaretto, "il convalescente di cholera, Giovanni Spina di Sillano" ricoverato
La fortezza di Mont'Alfonso
presso la Fortezza di Mont'Alfonso.

I tempi passano e i virus ritornano e con essi i problemi si ripresentano identici a quelli dei tempi andati... Il colera passò, lasciando però nella miseria più nera contadini, braccianti, operai e negozianti. Nel 1856 il sindaco di Castelnuovo faceva sapere che l'amministrazione non era in grado di aiutare tutte le persone che ne avevano fatto richiesta: "Per fortuna l’inverno è ormai alle spalle - disse il primo cittadino durante una riunione straordinaria del consiglio - e non ci resta che sperare nella buona stagione e nella misericordia dell’Onnipotente"...


Bibliografia:



  • "Ospedali e territorio. Lunigiana e Garfagnana a confronto" G. Cappellini 2015 "Memorie dell'accademia lunigianese di scienze"
  • "Corriere di Garfagnana" aprile 2010 "Il fatal cholera morbus del 1855" Guido Rossi 

Prima della lira in Garfagnana... Viaggio nel confusionario mondo delle antiche monete garfagnine

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E' un mondo veramente difficile, sinceramente non me lo aspettavo...
monete "garfagnine"
Non sto parlando però del mondo in generale, quello già lo sappiamo tutti che è ostico... Sto parlando del mondo della numismatica. Dal latino "nomisma", ovvero moneta, la numismatica è lo studio scientifico della moneta in tutte le sue forme: storiche, geografiche, artistiche ed economiche. Mi sono affacciato a questo
sapere per la prima volta proprio per scrivere questo articolo e per fare alcuni studi, ma vi giuro, miei cari lettori, solamente chi ha una grande passione per questa materia può riuscire a districarsi nei meandri del complesso universo delle monete. Al giorno d'oggi, anche in questo campo forse è tutto più facile (credo...). Infatti, prima dell'Unità d'Italia le valute che circolavano nel nostro Paese erano alcune centinaia: svanziche, talleri, fiorini austriaci, zecchini, rusponi e così via... Con l'avvento dell'unione nazionale e conseguentemente della lira, la moneta circolante diventò unica per tutti i cittadini del regno e quindi anche la vita dei
5 lire con Vittorio Emanuele II
primo re d'Italia
numismatici si semplificò. La storia della lira bene o male la conosciamo tutti, ma quello che però ha stuzzicato maggiormente il mio intelletto (e spero anche il vostro) è stata la curiosità di fare  un viaggio nelle antiche monete garfagnine. Con che denaro si compravano la verdure al mercato a Castelnuovo? Forse anche al tempo esistevano monete per così dire "speciali" o commemorative? E le monete chi le produceva? Esistevano zecche? Ne leggeremo sicuramente delle belle e di bizzarre... Prima di addentrarmi nell'argomento mi voglio però già preventivamente scusare con gli appassionati e gli studiosi di questa disciplina per eventuali imprecisioni e ipotetiche inesattezze...Chiedo venia...
Le vicende storiche garfagnine portarono nei secoli alla coniazione di valuta monetaria di due zecche, ognuna operante per i propri possedimenti, prima ci pensò quella di Lucca "a batter moneta" e poi successivamente il compito toccò alla zecca estense di Modena.
Tondelli per la coniazione
 delle monete
Nonostante vigesse in tutto il territorio una moneta ufficiale corrente (prodotta dalle suddette zecche) il panorama della circolazione monetaria in Garfagnana era comunque vario e a dir poco confuso e in questo campo difatti regnava il caos più assoluto. Per rendere chiaro il quadro della situazione è bene capire che sul finire del 1800 nella nostra cara e vecchia Garfagnana si utilizzavano indistintamente monete provenienti da tutti gli Stati, vicini o lontani che fossero. Di tutta questa confusione, una volta conquistata l'Italia se ne accorse perfino Napoleone, che fra le varie riforme che introdusse (giuste e sbagliate) ne inserì una per snellire il disordinato mercato monetario:- "moneta unica per tutti, spendibile in ogni luogo dello stato, la chiameremo..."lira italiana"-. Malgrado ciò, l'italiano cocciuto se ne infischiò altamente di questa lungimirante riforma e continuò imperterrito a far circolare molte delle vecchie

Lira napoleonica
con l'effige di Napoleone
e logore coniazioni, anzi, se si vuol dire tutta la confusione aumentò dal momento che nel mercato monetario fu introdotta la nuova moneta con l'effige di Napoleone e di tutto il "parentame". Nel giro di qualche anno Napoleone sparì dalle vicende storiche e furono rimessi in piedi i vecchi governi e gli Estensi ripresero anche i loro domini garfagnini. L'idea napoleonica piacque comunque al duca modenese Francesco IV che cercò di porre un limite alla circolazione di tutte queste monete straniere e con un decreto del 15 aprile 1819 così disse "...noi tolleriamo potersi spendere e ricevere le monete sopra indicate al valore però soltanto ad esse attribuito e tra i soli privati nelle provincie di Reggio, Garfagnana e Lunigiana rispettivamente, restando per tal modo vietata la loro introduzione, retenzione e spedizione negli altri luoghi dello Stato, ed il loro ricevimento nelle pubbliche Casse". Credete forse che quanto ordinato fu rispettato? Men che mai, ci mancherebbe altro. Esattorie e ricevitorie pubbliche fecero orecchie da mercante e continuarono ad incassare denari da ogni dove e provenienza. Allorchè, visto il perdurarsi dell'indisciplina, il duca ordinò l'ispezione di tutte le esattorie dello Stato per vedere realmente ciò che contenessero. Quello che venne fuori a Castelnuovo ebbe del tragicomico:"Specifica delle monete trovate nella cassa delle ricevitorie di questo Comune il giorno 6 dicembre 1823, alle ore 3 pomeridiane: francesconi fiorentini n. 163; paoli fiorentini n.20; mezzi paoli fiorentini n.10; monete da due paoli romani n. 3; mezzi paoli romani n. 4; scudi di Milano n. 14; bavare n. 4; lire di Milano n. 8; mezze lire di Milano n. 1; colonnati di Spagna n.2; lire di Modena n. 32; lire austriache o svanziche n. 56; napoleoni n. 48; centesimi di lire italiane n. 662; lire italiane n. 64; quarti di lire italiane n. 71; mezze lire italiane n. 50; scudi di Francia n. 1; monete da due terzi di scudo di Ercole III n. 1; ducatoni di Modena n. 3; quarantane di Modena n. 3; centesimi n. 100; monete italiane da 5 centesimi n. 236; monete italiane da 3 centesimi n. 145; soldi di Milano n. 54; mezzi soldi di Milano n. 72; soldi di resto n.8". Questo è quello che era nelle casse della ricevitoria castelnuovese, figuriamoci allora cosa doveva passare per le mani del privato cittadino...
Castelnuovo Garfagnana
Con il senno di poi possiamo però dire che non tutto il male vien per nuocere e nel ramo dei collezionisti di monete tutto questo "ambaradan" di denari ha fatto la fortuna di molte persone e giust'appunto  proprio come si fa adesso con i due euro, anche all'epoca si coniavano monete speciali e particolari legate a fatti ed avvenimenti e il fulgido esempio riguarda proprio tre monete "garfagnine".

Correva appunto l'anno 1606 e finalmente dopo varie lotte e scontri sia politici che militari una sentenza emessa dal Senato di Milano assegnò il possesso della Garfagnana al Ducato di Modena. Fu un grande evento per Cesare d'Este che fece suggellare il momento con la coniazione di due "grossetti" (moneta in vigore al tempo)per porre in evidenza la supremazia della casa d'Este su (quasi) tutta la valle, ma sopratutto per ringraziare il popolo garfagnino della fedeltà dimostrata. Nella rara moneta su una faccia possiamo vedere la testa del duca e l'iscrizione "Cesar.Dux.Mut.Reg", mentre nell'altra è rappresentata la famosa bomba "svampante"(un simbolo

moneta con la
"bomba svampante"
e la dicitura garfagnana
della casata d'Este) e la dicitura "Prin.Garfignana"(principato di Garfagnana). L'altra moneta battuta per l'occasione se si vuole è ancora più intima e concedetemi il temine "nostrale" e se in una faccia del soldo vige l'aquila estense con la medesima iscrizione della moneta precedente (Cesar.Dux.Mut.Reg), nell'altra c'è un San Pietro con tanto di chiavi del Paradiso in mano. Dapprima si credeva che la figura del santo stesse a significare l'influenza e la protezione della sede apostolica sul regno, ma poi ben analizzando si scoprì dell'onore dato alla Garfagnana, San Pietro era ed è il santo patrono della sua cittadina più rappresentativa: Castelnuovo. Comunque sia, se qualcuno ha per le tasche questi "spiccioletti" si ricordi che possono valere sui duemila euro cadauno... E se ora nelle monete commemorative ricordiamo le gesta di "Tizio, Caio e Sempronio", c'è un'altra
Moneta con il San Pietro
"garfagnino"
moneta che ci ricorda epiche conquiste, in questo caso meglio dire riconquiste. Successe che nelle battaglie fra fiorentini e modenesi "il povero" Alfonso I, duca estense, perse in men che non si dica la Garfagnana intera. Per sua buona sorte la vicenda ebbe vita breve e la conseguente morte di Papa Leone X (1521) protettore della famiglia Medici, liberò da ogni paura il duca che ben presto riconquistò le terre perse. Il sollievo e la felicità fu tanta, visto che Alfonso fece coniare una moneta d'argento (del valore di mezza lira o dieci soldi) con la sua testa da una parte e dall'altra un'immagine che voleva burlarsi degli stessi fiorentini:
La moneta in cui il duca
si burlava dei fiorentini
un uomo che trae di bocca un agnello ad un leone: l'uomo sarebbe il duca, l'agnello la Garfagnana e il leone (simbolo della città gigliata) Firenze.
Insomma, con tutti questi denari circolanti, chissà che bel da fare avevano le zecche. A proposito di zecche, forse non tutti sanno che quella di Lucca era una delle più antiche e rinomate di tutta Europa. Per circa dodici secoli, dico dodici secoli, la zecca di Lucca coniò oltre duemila monete. Già dal 650 d.C l'attività di questa industria era fiorente, talmente fiorente che la produzione durò fino al 1843, quando Lodovico Borbone decise di sospendere l'attività perchè a suo parere il denaro circolante era già troppo. Queste monete circolarono per
La zeccca di Lucca oggi
tutto il continente fra le mani di mercanti, banchieri e commercianti e dal loro monogramma "Luca" erano riconoscibili ovunque, infatti la caratteristica principale che avevano questi denari era proprio la riconoscibilità. La zecca di Lucca fu difatti la prima ad introdurre un motivo iconografico ben identificativo sulle proprie monete. Oggi questo modo di fare va tanto di moda e sulle nostre due euro(commemorative) vediamo Dante, Pascoli, Cavour, ma già nel 1200 Lucca, raffigurò sui primi "grossi" coniati niente di meno che il Volto Santo, vero elemento identificativo di una comunità intera. Sempre in fatto di zecche di Stato rimane da raccontare una
Monete con il Volto Santo
particolarità veramente originale; come abbiamo visto e letto erano le grandi città commerciali o quelle più importanti che battevano moneta, avendo di fatto una propria valuta corrente: Lucca, Padova, Milano, Firenze, Verona e fra tutte queste e tante altre c'era anche... Minucciano. Si, si, avete capito bene, Minucciano. Oggi il piccolo comune garfagnino conta poco più di duemila abitanti, ma 
sul finire dell'anno mille quando i Malaspina cessarono la loro dominazione su questo territorio , questa zona divenne con il tempo una terra di una importanza strategica ed economica a dir poco rilevante, una via di passaggio fondamentale tra la Garfagnana stessa e la Lunigiana. Lucca capì al volo il peso considerevole che potevano avere queste territori e per questa ragione se ne impossessò. I lucchesi infatti tenevamo molto in considerazione Minucciano, tant'è che al paesello gli fu conferito lo stato di "comunitas" e udite udite, il
Minucciano
privilegio di battere una propria moneta: il Barbone Minuccianese. D'altronde, in tutto questo pasticcio di denari, valute varie e quattrini non poteva non arrivare la lunga mano dei malfattori a complicare ulteriormente le cose e nonostante l'andare dei secoli vediamo che certe malvivenze non sono figlie solamente dei tempi attuali e i falsari oggi come allora erano più che mai presenti. Tant'è che una zecca abusiva del XII secolo fu rinvenuta negli anni '90 del 1900 anche in Garfagnana a Castelnuovo e precisamente sul Monte Castellaccio. Gli archeologi rinvennero una zecca di tutto rispetto, non mancava niente: tondelli per la coniazione, crogioli usati per la fusione dei metalli e quant'altro; la specializzazione di questi falsari a quanto pare era basata su monete lucchesi e genovesi.
La sede della Banca centrale
 europea a Francoforte
Ad ogni modo sono finiti i tempi degli zecchini e dei baiocchi e siamo adesso nell'era dell'euro e se prima ogni minuscolo "staterello" aveva la sua valuta, adesso la medesima valuta è usata in 37 grandi ed evolute nazioni. Con quale differenza? Nessuna! Oggi come allora il disordine e l'anarchia monetaria regna indisturbata, come se il tempo non fosse passato mai...


Bibliografia

  • "Una zecca abusiva nel XII secolo in Garfagnana" di Giulio Ciampoltrini,Paolo Notini, Guido Rossi. Le sedi delle zecche dall'antichità all'età moderna. Atti del convegno internazionale 22-23 ottobre 1999 Milano
  • "Ricerche Istoriche sulla provincia della Garfagnana Disertazione ottava ossia appendice II in cui si spiegano due monete riguardanti la Garfagnana" Domenico Pacchi, anno 1785 Modena

Garfagnini ad Ellis Island: l'isola delle lacrime...

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"Eravamo una tra le tante famiglie sgomente che ogni nave in arrivo
a New York scaricava in un luogo tetro, chiuso da sbarre di ferro... Ellis Island era una bolgia spaventosa di uomini, donne, bambini che si agitavano come un gregge senza pastore. Mi sentii gelare il cuore. Quella scena creò in me un senso di paura e d'angoscia che doveva perseguitarmi per molto tempo. Fummo trattenuti li dentro per tre eterne giornate". Questa era la bolgia degli sgomenti di Ellis Island nel 1907, vista dagli occhi di un bambino di 11 anni. Erano gli occhi di Edoardo Corsi, emigrato dal lontano Abruzzo con tutta la famiglia. Ventiquattro anni dopo questo sbarco, destino volle che il presidente degli Stati Uniti d'America Herbert Clark Hoover, nominasse quell'uomo Commissario dell'emigrazione di Ellis Island. Durante il tempo in cui diresse il centro logistico dell'emigrazione, Corsi annotò un vasto campionario di casi umani: famiglie divise da un'assurdo ingranaggio legislativo, schiere di immigrati rispediti come vuoti a perdere nel loro paese d'origine per un difetto fisico o una malattia. Alla fine della sua carriera trascrisse in un
libro(All'ombra della libertà), la disperazione di quanti venivano truffati, derubati e maltrattati e fra questi disperati narra di alcuni garfagnini. D'altronde lui queste persone di montagna le conosceva bene, suo padre, Filippo Corsi, era stato eletto deputato nel collegio di Massa Carrara (provincia di cui al tempo faceva parte la Garfagnana), perdipiù questa gente era simile a quella del suo luogo d'origine: Capestrano, un borgo di poche anime in provincia de L'Aquila, abitato da gente umile e dedito alla pastorizia, proprio com'era la nostra valle agli inizi del secolo scorso.
Prima però di leggere quello che subirono i garfagnini su quest'isola è bene capire cos'era questo triste luogo situato al largo della baia di New York. E' stimato che da li, quasi la metà degli americani può rintracciare nella propria storia familiare almeno una persona passata per Ellis Island. Prima che Samuel Ellis, intorno al 1770 diventasse proprietario di quest'isolotto, il sito era un'avamposto militare per difendere la città dagli attacchi dei pirati. Fort Gibson, così si chiamava il forte che presidiava l'isola, aveva un porto fortificato pieno di munizioni e depositi d'armi. Con il tempo i pirati cessarono di essere una minaccia per New York e l'isola così passò di mano in mano cambiando più volte proprietario e nome (Kioshk, Oyster, Dyre, Anderson's Island), tutto ciò fino al 1892 quando l'isola si trasformò in una stazione d'ispezione per l'immigrazione per milioni di migranti che venivano negli Stati
L'arrivo ad Ellis Island
Uniti. D
el resto di li transitarono 22 milioni di persone che attraverso le loro testimonianze fecero ben presto diffondere la fama dell'isola in tutto il mondo, facendo diventare questo luogo una vera icona dell'immigrazione. L'arrivo degli emigrati italiani non era facile, dopo la lunga fatica del viaggio altre difficoltà incombevano: l'ammissione negli Stati Uniti. I passeggeri di prima e seconda classe venivano esaminati dai funzionari direttamente sulla nave, erano infatti considerati abbastanza ricchi per non essere di peso allo Stato, quelli di terza invece venivano condotti proprio ad Ellis Island dove ricevevano la visita medica, chi fra questi doveva subire ulteriori accertamenti veniva marchiato con un segno sulla schiena fatto con il gesso: PG per le donne incinta, K per l'ernia,  X per problemi mentali e così via, la legge americana a riguardo purtroppo parlava chiaro:"...i vecchi, i deformi, i ciechi, i sordomuti e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose,
aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano", per loro il reimbarco sarebbe stato immediato.  Quelli che invece superavano il controllo accedevano alla sala registrazione per espletare la parte burocratica: nome, luogo di nascita, stato civile, destinazione, disponibilità di denaro ed eventuali carichi penali. I malati venivano messi in quarantena nell'ospedale locale in attesa di ricevere il nulla osta per entrare in America. L'accesso non era poi consentito alle donne e ai minorenni soli: le prime dovevano sposarsi ad Ellis Island, mentre i secondi, dovevano trovare un garante o essere adottati se orfani. Dopodichè, dopo aver affrontato per giorni interi la dura legge di Ellis Island, i fortunati ricevevano il permesso per sbarcare e venivano accompagnati al traghetto per Manhattan, per vivere il loro American Dream.
Ma per molti il sogno americano non sarebbe mai cominciato e fra questi alcuni garfagnini: "...le nostre leggi sul rimpatrio sono inesorabili e in molti casi disumane, particolarmente quando si
Il salone principale di
Ellis Island
riferiscono a uomini e donne dal comportamento onesto il cui unico crimine consiste nel fatto che hanno osato entrare nella Terra Promessa senza conformarsi alla legge. Ho visto centinaia di persone del genere costrette a ritornare nel paese di provenienza, senza soldi e a volte senza giacche sulle spalle. Ho visto famiglie separate che non si erano mai riunite, madri separate dai loro figli, mariti dalle loro mogli, e nessuno negli Stati Uniti, nemmeno il Presidente in persona, poteva evitarlo"
. Sono sempre le parole di Edoardo Corsi che ricorda anche di certi accadimenti riferiti ai "toscani della Garfagnana" . Un caso emblematico fa riferimento ad una donna garfagnina che anni dopo gli rilasciò la sua impressione  per la stesura del suo libro:"Grazie a Dio eravamo di nuovo liberi e lontani dall'inferno di Ellis Island. La notte mi svegliavo sempre dalla paura. Questo trauma rimarrà in me tutta la vita. I miei figli che erano con me soffrivano, come soffrivano gli altri bambini. Non
New York da Ellis island
c'erano bagni, ne aria fresca e per i piccoli nemmeno un posto dove dormire se non fra le mie braccia. Il fetore e il caldo erano insopportabili e ogni giorno che passava le forze mi venivano meno, se fossimo rimasti un giorno di più non so cosa sarebbe successo. Quando  dopo alcuni giorni ci dissero che non potevamo sbarcare fu un sollievo, non m'importava più niente, volevo tornare sulle mie montagne, non m'interessava se avessi dovuto cominciare nuovamente a tribolare, meglio tribolare che rimanere ad Ellis Island fra orrori e crudeltà"
A qualcuno andò peggio, la disperazione, lo sconforto e la delusione presero una piega tragica per "un massese della montagna apuana" (n.d.r: la persona potrebbe essere massese o anche garfagnino, 
la Garfagnana  era in provincia di Massa):"il pover'uomo ricevette l'ordine di rimpatrio. Le guardie di Ellis Island lo condussero sul transatlantico francese "Lorraine" la notte del 7 luglio. La mattina dell'otto luglio, alcuni attimi prima che il vascello salpasse,
Ellis Island dall'alto
disse ai compagni che avrebbe voluto morire piuttosto che ritornare in Italia dopo le promesse che avrebbe avuto successo in America. Dopo aver detto così premette il grilletto e pose fine alla sua vita".

Un'altra testimonianza la riportò Monsignor Scalabrini. A pochi giorni dal suo arrivo a New York, dove era stato accolto calorosamente da italiani ed americani, si era recato al porto di Ellis Island per assistere allo sbarco 650 boscaioli italiani provenienti dalla Garfagnana, dalla montagna pistoiese e dalla Maremma, lì presenziò ad un fatto a dir poco spiacevole. Racconta infatti di una guardia
Ellis Island oggi
  che aveva invitato uno di questi emigranti ad uscire in fretta dallo stabile. L'italiano impossibilitato a correre dalla folla presente e dalle due valigie che portava aveva ricevuto una tremenda bastonata nelle gambe, il boscaiolo prontamente reagì dando due schiaffi al bastonatore...

Comunque sia andata per oltre sessant'anni questo anonimo isolotto fu la porta d'accesso al "nuovo mondo" e riflettendoci bene oggi è quasi impossibile non volgere un pensiero ai nostri avi che intrapresero questo viaggio
della speranza. Per chi vuole trovare tracce di questi avi garfagnini(e non) emigrati nelle "lontane americhe", esiste un modo."The statue of liberty foundation", da libero accesso al proprio archivio per cercare coloro che passarono da "l'isola delle lacrime"... (per la ricerca clicca https://www.libertyellisfoundation.org/passenger)


Bibliografia:

  • In the Shadow Liberty, 1935 Edoardo Corsi (ed. it. All'Ombra della libertà – Ed Il Grappolo, Mercato San Severino, 2004)

La vecchia vita di paese di una volta... personaggi, fatti e vecchie abitudini

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Quando nascevi in un paese della Garfagnana possedevi già la prima
certezza della tua vita, non avevi ancora emesso il primo vagito e tutti sapevano che eri al mondo. La vita nei nostri paesi è sempre stata così, volenti o nolenti, appena muovevi un passo tutti ne erano a conoscenza prima che tu lo facessi. Questa d'altronde è vita vera è la quintessenza della storia, non della storia che si legge sui libri di scuola, quella no, ma è storia di tutti i giorni, quella più intima e personale perchè, come diceva Leopold Von Ranke (storico tedesco)"le epoche felici dell'umanità sono le pagine vuote della storia" e la vita di paese faceva parte di queste pagine vuote...
I giorni nei paesi garfagnini si susseguivano seguendo il ritmo delle stagioni, ovvero l'estate si rimaneva fuori sfruttando l'ultimo raggio di sole, e d'inverno già alle dieci di sera non si vedeva più un'anima in giro e non perchè la gente aveva paura di uscire come nelle città, ma perchè la vita del contadino cominciava quando il sole ancora dormiva. Il tempo d'altra parte in questi luoghi sembrava fermarsi...  Lavatoi con mamme che lavavano ridendo e scherzando, bambini che giocavano per le vie, le persone s'incontravano e si salutavano caldamente, erano posti dove ci si
conosceva tutti e dove ci s'informava del perchè la Maria stamani non era uscita a comprare il pane. Erano giornate lunghe, intense, faticose ma ricche di parole, di ascolto e di condivisione e volti estranei non esistevano. 
La maggior parte della vita del paese si svolgeva in strada, in essa s'incontravano persone, si svolgevano tutti gli avvenimenti che caratterizzavano la vita di una piccola comunità nella quale tutti si conoscevano e dove le gioie e i dolori diventavano emozioni comuni e coinvolgenti. Le strade erano il primo ritrovo delle donne, che, con la secchia, andavano all'acqua schivando qua e là i ragazzetti che si divertivano e che giocavano ai quattro cantoni, alle corse, a nascondino o a mondo. Non c'erano macchine, nè sfreccianti centauri a seminare sgomento, la vita trascorreva tranquilla. Per la strada era tutto un andirivieni,
passavano donne ed uomini più o meno frettolosi e si formavano più che altro gruppetti di perdigiorno che osservavano curiosamente chi entrava e usciva dalle case: quando il medico, quando la levatrice, o quando, chissà perchè, la guardia comunale... Insomma "si leggeva" nelle famiglie come in un libro aperto. 
Che stupore,che meraviglia e che interesse quando la carrozza dalla stazione portava dei forestieri, allora ecco che si formavano subito ennesimi gruppetti di persone a domandarsi chi fosse codesto forestiero, da li nascevano così mille supposizioni dalle probabili a quelle più fantasiose e bizzarre, ecco allora che improvvisamente la serrata discussione veniva interrotta da quelle due o tre auto private che strombazzando e alzando un tremendo polverone si facevano largo fra i curiosi. Eh si, le auto erano una rarità assoluta, la maggior parte delle persone andava a piedi, o meglio le donne andavano a piedi e gli uomini in bicicletta, salire in sella ad una bici per molte donne era considerato scandaloso... chissà cosa avrebbero pensato le più anziane del paese...
Poi esistevano paesi e paesi, c'era il paese più piccolo e poi c'era "il paesotto", fornito di negozi, di un mercato settimanale e di qualche altra comodità in più, li giungevano gli abitanti dei paeselli limitrofi, che arrivavano seguendo i tracciati di
Aggiungi didascalia
millenarie mulattiere. Le donne che giungevano a farvi le spese oltre ai fagotti necessari, ne avevano sempre uno supplementare con dentro gli zoccoli buoni e poco prima di arrivare nella piazza principale sostituivano gli "scappini" (una sorta di scarpa rustica fatta in casa), che venivano nascosti in una siepe, li pronti per essere presi e calzati al ritorno. Nel "paesotto" si comprava tutto ciò che era necessario alla sopravvivenza delle piccole comunità: generi alimentari, attrezzi e utensili vari e pure cianfrusaglie per le vezzose del paese. I mulattieri, altri tipici personaggi di un tempo, erano invece i postini, i raccoglitori e i divulgatori di notizie dei paeselli, a volte all'interno di queste piccole comunità erano anche gli unici che sapevano leggere e scrivevano ai parenti lontani per tutto il paese... se il prete non c'era. 

Quei negozi di alimentari però erano una gioia per gli occhi, buona parte della merce era esposta fuori dalla porta: granate, baccalà, verdure di stagione e dentro i sacchi di riso e delle minestre e poi i barattoli di latta dei biscotti, marmellate, salsicce appese,
lardo e strutto... 
Ma ecco che arrivava anche il momento del silenzio, intorno le botteghe chiudevano le porte, le serrande venivano abbassate, i ragazzi smettevano di gridare e correre... passava un funerale. Avanti al mesto corteo si trovava una lunga fila di uomini con cappa e cappuccio nero, erano i confratelli della Misericordia che nascondevano il volto per dimostrare che la carità e la pietà sono anonime. Dietro il prete c'era il carro funebre trainato dai cavalli, ma questo carro non era per tutti uguale. Di solito quello che si vedeva passare era il carro di terza classe, semplice con il cavallo coperto con una striscia nera ricamata e disegni oro e argento, ma se il morto era un poco più "importante", il carro era di seconda, più adorno di fregi ed il cavallo più vestito. Il massimo dell'onore era riservato al funerale di prima classe, il prete era avvolto nel mantello nero e argento, il carro issava quattro pennacchi e il cavallo era parato in pompa magna e il cocchiere poi... era vestito come per le grandi
occasioni. Ai funerali poi partecipava tutto il paese...in fondo in Garfagnana siamo quasi tutti parenti. 
Una volta passata la triste processione la vita come per magia riprendeva e a proposito di vita il vero centro nevralgico del paese per la vita sociale era il bar. Il bar in Garfagnana non era un luogo, ma uno stile di vita: si capiva dal bar che uno frequentava la propria estrazione sociale, c'era il bar per il signorotto e il bar per il povero diavolo, ma qualsiasi fosse questo bar all'interno si facevano le solite cose: si beveva(e tanto...), si giocava a carte e si parlava di tutto e di più. Del resto erano bar "tosti", veri, autentici, bar che non esistono più, quelli con il giornale spiegazzato e le carte da briscola unte e logore e fra il fumo di quelle stanze c'erano capannelli di pensionati, lavoratori e nullafacenti e fra tutti questi esistevano personaggi memorabili: c'era il "briachella" di turno e poi c'era lui: "quello che tutto sa", lui sapeva tutto, dalla politica, al
calcio, a come far ripartire l'economia, a trovare funghi, a fare l'orto, sapeva pure guarirti da tutti i malanni...
Erano storie di una volta, di ricordi di un tempo passato, storie e modi vivere dei nostri nonni, che si potevano e si possono riflettere su un qualunque  paese garfagnino, non occorre menzionarne uno specifico, ogni paese della valle viveva in questa maniera. Storie di vita più tranquilla, più vivibile, di un mondo dove riuscivi a sentirti meno "numero" e più persona. Un mondo dove potevi uscire per andare a prendere un caffè al bar, sapendo che sicuramente avresti trovato qualcuno con cui scambiare due chiacchiere... 
   


Bibliografia:
  • "Stasera venite a vejo Terè" . Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria. "La strada" testimonianza di Maria Valentini

Il prete che portò la patata in Garfagnana... Storia di guerre, carestie e superstizione

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In origine era "potati", poi "papa", "batatas", dopodichè la sua
Re Federico il Grande controlla la
coltivazione della patata
dipinto di Robert Muller
diffusione portò l'avvicendarsi di altri nomi ancora. In Italia all'inizio fu chiamata "tartifola", vista la somiglianza che aveva con il tartufo, per lo stesso motivo in Germania la denominarono "kartoffel" e in Francia, culla della sua divulgazione in tutto il Vecchio Continente, in principio fu elegantemente chiamata "pomme de terre", ossia mela di terra. Oggi è conosciuta semplicemente con l'appellativo di patata ed è il quarto alimento più consumato al mondo. Checchè se ne pensi non fu il solito Cristoforo Colombo ad esportare il tubero in Europa, ma bensì i suoi accoliti spagnoli una cinquantina di anni dopo la scoperta dell'America. I conquistadores si accorsero della presenza della patata nelle loro scorribande sulla cordigliera andina: Perù, Cile, Bolivia, nonchè  Messico e Colombia. Fu proprio nella lontana Colombia che si ebbero le prime testimonianze scritte

della sua presenza, quando nel 1536 gli uomini di Gonzalo Jimenez de Quesada aprirono un varco nella foresta della Valle Magdalena ed irruppero nell'attuale villaggio di Sorocotà; gli indigeni, poveri sventurati, scapparono a gambe levate mentre i conquistadores saccheggiavano le loro capanne. In una di queste capanne trovarono del cibo: fagioli, mais e una sorta di "tartufo". Nel suo resoconto Juan de Castellanos lo descrisse dettagliatamente: "piante con scarsi fiori viola opaco e radici farinose di sapore gradevole...". Fattostà, che nel tardo cinquecento lo strano tubero fece il suo ingresso in Europa. Il suo arrivo non fu accolto con manifestazioni di giubilo e tripudio, anzi, il suo esordio nelle tavole della gente non fu del tutto facile, tant'è che questo alimento non fu preso come fonte di nutrimento umano e fu relegato a cibo per animali da fattoria. La povera patata con il tempo fu quindi accusata di ogni nefandezza inimmaginabile, si arrivò a dire che era una delle cause della diffusione della lebbra, d'altronde che alimento può essere quello che il suo frutto nasce sotto terra? Addirittura nell'Enciclopedye del 1765 si asserisce che si tratta di "cibo flatulento"... A decretare il suo quasi "de profundis" ci furono poi dei casi d'intossicazione, infatti qualche scellerato mangiava non il prelibato tubero, ma bensì le foglie e i suoi frutti velenosi. La decisione dei governanti di costringere a mangiare tale
Van Gogh "I mangiatori di patate"

"schifezza" ai soldati e ai galeotti portò poi la sua "fama" ai minimi storici. Fu proprio grazie però ad uno di questi soldati che la patata ebbe la sua riscossa. Il francese Antoine Augustine Parmentier, durante la guerra dei "Sette Anni" fu fatto prigioniero e nella sua cella fu cibato proprio a patate, l'uomo ne apprezzò il sapore e perdipiù constatò anche la sua facilità di crescita in terreni poveri. D'altra parte Parmentier parlava con cognizione di causa, visto che il suo lavoro non era fare il soldato, ma bensì l'agronomo, difatti ritornato in patria propose "la pomme de terre" allo studio dei più facoltosi personaggi di Francia, presentando il tubero come "pane già fatto che non richiedeva nè mugnaio, nè forno". L'alimento suscitò il
Parmentier
con il fiore di patata in mano
grande interesse di tutti, tanto è vero che il re Luigi XVI, dopo la grande carestia del 1785, impartì l'ordine ai nobili di obbligare i propri contadini a coltivare la patata. Fu proprio a causa della carestia, della miseria e della povertà che qualcuno decise di introdurre la coltivazione della patata anche in Garfagnana. Esiste infatti un nome ed un cognome di colui che portò "il pomo di terra" all'attenzione dei contadini garfagnini, così come esiste anche una data. Lui era un prete, si chiamava Don Pietro Salatti, parroco di Metello (oggi comune di Sillano Giuncugnano), nonchè cappellano militare alle dipendenze di Napoleone Bonaparte. Fu appunto in una di quelle faraoniche campagne militari che il parroco conobbe la patata, era difatti la protagonista principale del rancio dei militari. Vide poi che era un alimento sostanzioso,
Metello
abbondante, facile da coltivare e di poco costo, insomma, il 
nutrimento ideale per la sua gente di Garfagnana, sarebbe stato una valida alternativa alla castagna, un cibo perfetto in tempi di magri raccolti, per giunta sui monti garfagnini poteva crescere in prosperità. Fu allora, in quel lontano 1815, quando il prete tornò nella sua amata Metello che la storia della patata ebbe il suo inizio nella nostra valle. I sogni di gloria napoleonici erano terminati e Don Pietro portò all'attenzione di tutti i suoi compaesani questo frutto della terra, lo portò a loro come un dono di Dio, una vivanda in più da mettere sulle già povere tavole garfagnine... Ma l'ignoranza come si sa non conosce limiti e anche in Garfagnana si riaffermarono fantasie e credulonerie che si credevano ormai sopite: -... è il frutto del diavolo !!!-, qualcuno ebbe a dire, o sennò qualche altro benpensante affermò: -Questo frutto non è nemmeno citato nella
Fiori e foglie velenose della patata
Bibbia...-
. Si disse perfino che era il cibo prediletto degli streghi, infatti come era già successo in Europa, qualcuno pensò bene di mangiarsi pure le foglie della pianta della patata, foglie che contengono solanina e scopolamina, due alcaloidi che possono provocare effetti allucinogeni e che secondo credenza popolare poteva permettere il cosiddetto "volo stregonico". Non solo questo però, il Pievano di Gallicano così scriveva: "Gran parte dei contadini della montagna, sono intimamente persuasi che l'irregolarità delle stagioni sia effetto della coltivazione delle patate"...  

Ma il tempo come si sa è galantuomo e finalmente anche in Garfagnana ci si rese conto della bontà del prodotto. Oggi la patata è uno dei nostri prodotti d'eccellenza, la patata rossa di Sulcina è di una
Il pane di patate della Garfagnana
prelibatezza unica, che dire poi del nostro pane di patate (per saperne di più clicca 
http://paolomarzi.blogspot.com/2017/08/una-storia-antica-il-pane-di-patate.html) e le squisite torte sono impareggiabili. 
In definitiva, come abbiamo letto, mai nessun alimento al mondo come la patata ha dovuto penare così strenuamente per affermarsi sulle nostre tavole. La sua definitiva consacrazione gli fu data perciò dal premio Nobel per la letteratura Knut Hamsun quando nel suo libro "I frutti della Terra" così la descrisse: "La patata è un vegetale senza paragoni, che resiste alla siccità come all'umidità e cresce ugualmente; che sfida le intemperie e ripaga al decuplo le poche cure che l'uomo le concede. La patata non ha il sangue dell'uva, ma possiede la carne della castagna; si può cuocere
sotto la cenere, o nell'acqua bollente, o friggerla. Chi ha la patata può fare a meno del pane. Non occorre aggiungervi molto, ed ecco preparato un pasto; la si mangia con una tazza di latte, con un'aringa: è sufficiente. Il ricco la mangia con il burro; il povero si accontenta di condirla con un pizzico di sale".



Bibliografia:

  • "Italiani mangiapatate. Fortuna e sfortuna della patata nel Belpaese" di Davide Gentilcore . Il Mulino 2013
  • Studi interdisciplinari su varietà di patate di Stefano Martino e Arturo Alvino , maggio 2010, Lulu edizioni

1973: i giorni dell'"Austerity". Ecco quello che successe in Garfagnana

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Correva il lontano 6 ottobre 1973 quando la guerra dello Yom Kippur
ebbe inizio. Di tutte queste guerre arabo israeliane ad onor del vero oramai abbiamo perso memoria, ma questa però ce la dovremmo ricordare perchè lasciò un segno indelebile anche in Garfagnana, una terra lontana ben quattromila chilometri di distanza da quei bellici eventi.
Lo Yom Kippur, è il giorno più sacro nel calendario ebraico, un giorno di espiazione, durante il quale gli ebrei adulti sono tenuti a digiunare, con lo scopo di meditare e di avvicinarsi a Dio. In quel momento religioso-meditativo, dal quale deriva una generale rilassatezza, il governo israeliano, con il primo ministro Golda Meir, considerava quasi improbabile un attacco diretto sul proprio territorio, poichè le rispettive festività religiose proibivano la guerra. Diversamente il presidente egiziano Sadat, forte dell'appoggio del mondo arabo ed in collaborazione con Al Assad presidente della Siria, decise di avvantaggiarsi, sfruttando quel prezioso momento per attaccare e riconquistare i territori persi
La signora Golda Meir
 primo ministro
israeliano
durante le precedenti guerre arabo israeliane. L'attacco incrociato degli egiziani e dei siriani ebbe inizialmente successo, d'altronde gli aiuti economici e militari di Libia, Marocco, Giordania, Libano, Iraq, Palestina erano di manforte, tuttavia il successo delle forze arabe non continuò oltre l'11 ottobre, quando le truppe israeliane, una volta che si erano riprese dall'attacco a sorpresa, riuscirono a riprendere il controllo della situazione, prima respingendo i siriani e poi contrattaccando gli egiziani che subirono un rovescio clamoroso: gli israeliani li respinsero oltre il Canale di Suez, arrivando perfino a minacciare la capitale del Cairo. Praticamente appena dopo una settimana di conflitto, la
Immagine della guerra
dello Yom Kippur
guerra stava volgendo già al termine... con l'aiuto fondamentale di parte americana a favore degli israeliani stessi... A chiudere militarmente, e sottolineo militarmente, ogni questione ci pensò l'ONU che con la risoluzione 338 imponeva il cessate il fuoco. Ma il bello però doveva ancora venire. Dove gli arabi non erano riusciti a ferire con fucili e carri armati, decisero di provarci con la più potente arma a loro disposizione: il petrolio. Il 16 ottobre i paesi arabi associati all'OPEC aumentarono il prezzo del greggio da tre a cinque dollari per barile, arrivando nel tempo perfino a stabilire il prezzo fino ad undici dollari, inoltre le

stesse nazioni arabe adottarono altre due clamorose linee d'azione per tutti quei paesi che avevano favorito gli israeliani. Agli americani, portoghesi ed olandesi gli fu imposto il totale embargo petrolifero, mentre al resto dei paesi europei, fra i quali l'Italia, il petrolio fu venduto al di sotto del loro fabbisogno reale e ad un prezzo più elevato al periodo precedente della guerra dello Yom Kippur.
L'Italia da questo semi-embargo, come buona parte dei paesi europei,
fu messa in ginocchio. Il nostro governo fin da subito fu costretto a varare misure d'emergenza mai adottate prima. Il 22 novembre 1973 il presidente del consiglio Mariano Rumor annunciò l'entrata in vigore del decreto detto dell'"Austerity". Già a quel tempo c'eravamo fatti prendere la mano dai vocaboli anglofoni, ma comunque era chiaro per tutti che forti politiche di austerità si sarebbero abbattute sulla nostra nazione. Vennero infatti introdotte limitazioni ai consumi d'elettricità: bandite cosicchè le insegne luminose di grandi dimensioni, nonchè vigeva l'obbligo di ridurre la pubblica illuminazione del 40% e consigliato (dal momento che eravamo in prossimità delle festività)di fare parsimonia di luci natalizie. Ma non solo, l'orario dei negozi fu ridotto, la chiusura di cinema, bar e ristoranti fu anticipata. La chiusura dei programmi RAI fu determinata alle ore 23, con l'anticipo dell'inizio del
telegiornale di RAI 1 alle ore 20 anzichè alle 20:30 (n.d.r: orario che si è mantenuto fino ai giorni nostri). Fu inoltre abbassato il limite di velocità per le auto in autostrada e il riscaldamento nelle case non doveva superare tassativamente i 18°, salvo non si facesse uso di camino a legna. Ma la norma che rimase più impressa nelle italiche memorie fu un'altra ed effettivamente lasciò un segno tangibile nelle consolidate abitudini dei nostri padri. Difatti dal 2 dicembre di quel bizzarro 1973 venne imposto il divieto di circolazione nei giorni festivi dei mezzi privati, si pensava con questo stop di risparmiare ben 50 milioni di litri di petrolio per ogni giorno di festa che le auto sarebbero rimaste ferme. Da questo fermo obbligato rimasero esenti i mezzi di trasporto pubblico, le ambulanze, mezzi di soccorso e di pubblica sicurezza, le auto dei medici, veterinari, dei servizi postali e... dei sacerdoti. La pena per i trasgressori non era nè una carezza nè tantomeno un rimbrotto paterno, la multa andava dalle centomila lire , fino ad arrivare a un milione, oltre all'immediato sequestro del veicolo. Insomma, per far capire bene la gravità del
Paolo VI in carrozza
momento anche il Presidente della Repubblica Giovanni Leone la mattina si recava a messa a piedi con tutta la famiglia e Papa Paolo VI nel giorno dell'Immacolata Concezione, quando si recò a rendere omaggio all'immagine della Madonna in Piazza di Spagna, si fece trasportare da una carrozza tirata da uno scalpitante cavallo. 

E in Garfagnana, questo periodo di "Austerity" come fu preso? Quali furono le reazioni? Le cronache del tempo parlavano ad un ritorno al passato neanche poi tanto lontano. Da poco era finito il boom economico, quel miracolo italiano che portò ad una crescita economica e tecnologica esponenziale che in Garfagnana aveva avuto però i suoi effetti più dilati nel tempo. Eravamo ancora piuttosto legati alle nostre agresti abitudini, ancora in molti paesi della montagna si viveva come prima della
Domeniche di austerity
sul ponte di Gallicano
guerra. Per l'appunto per gli anziani non cambiò niente, loro erano abituati a quel modo di vivere, ai loro tempi non c'era la luce nelle case, nemmanco la televisione, frigoriferi o lavatrici e delle auto nemmeno l'ombra, poi al ristorante o al cinema chi andava mai? Solo nei paesi del fondovalle, Castelnuovo compresa, il consumismo e l'industria aveva cominciato a marciare a pieno ritmo. I grandi sociologi del tempo parlavano di una non troppo remota possibilità di esaurimento delle fonte energetiche, al punto da paventare un ritorno alla civiltà preindustriale... ma come abbiamo letto, in Garfagnana buona parte della sua popolazione ancora era a quel punto. Comunque sia anche per buona parte dei garfagnini fu un ritorno ai tempi andati. Fu difatti riassaporata la vecchia dimensione di vita da poco dimenticata: le biciclette ripresero a circolare come una volta, dalle loro stalle uscirono nuovamente "i miccetti" e i cavalli e qualcuno rispolverò, con

grande curiosità dei bimbetti che mai le avevano viste circolare, le carrozze usate un tempo per il trasporto delle persone. Anche i vecchi giocattoli dismessi ebbero un nuovo momento di gloria: tricicli, monopattini e calessi a pedali ripresero a scarrozzare per le vie dei paesi garfagnini. Quelle domeniche e quelle feste furono presi da tutti i garfagnini con molta responsabilità e senso civico, a quanto pare nella valle non fu elevata nessuna sanzione e nel resto del Paese le multe furono solamente 1317. D'altronde lo spirito d'adattamento del garfagnino è sempre stata una delle sue prerogative principali. Ben presto in quei giorni gli uomini e le donne tornarono ad impossessarsi della strade e delle vie, le signore cominciarono nuovamente a sedersi in gruppo fuori casa a fare la maglia, a giocare a tombola e a spettegolare com'era usanza un tempo. I signori invece riportarono fuori dai loro laboratori i vecchi mestieri: il ciabattino, il cestaio, l'arrotino, tutti nella via senza la noia di doversi spostare ogni cinque minuti per far
passare un auto. Anche i ragazzetti provarono l'ebbrezza di giocare, saltare e divertirsi senza le consuete raccomandazione della mamma: -Mi raccomando quando attraversi la strada prima guarda sinistra e poi a destra...- o sennò-Quando giochi a pallone, vai attenzione alle auto, perchè se ne ammacchi una ti do due sberle !!!-. Significativa è la testimonianza dell'Alfredo di Gallicano che aveva la sua fidanzata a Barga. La domenica difatti era il giorno dedicato all'incontro fra fidanzati, tutta la settimana del resto si lavorava o si studiava e le circostanze per incontrarsi non erano molte come oggi e la domenica, appunto era il giorno dedicato esclusivamente alla fidanzata:"Era il gennaio del 1974, aveva nevicato e quella domenica diventò inutile prendere anche la bicicletta. Allora m'incamminai a piedi, ero tutto imbacuccato da capo a piedi, era un freddo che si moriva, perdipiù quando parti di casa cominciò nuovamente a nevicare e a tirare vento, nonostante ciò non tornai
indietro. Quei sei chilometri che mi distanziavano da Barga e dalla mia fidanzata furono tutti "dedicati" agli arabi e agli americani: gli inviai una sequela d'accidenti impressionanti che se avessero fatto effetto sarebbero state più letali che di qualsiasi altro missile israeliano. Comunque sia arrivato a Barga, trovai la mia fidanzata preoccupata, sapeva che ero partito ma non sapeva che fine avessi fatto (all'epoca i telefonini non c'erano) Rimane il fatto che quel giorno mi abbracciò come se fossi un eroe". Sempre a proposito di fidanzati, si racconta che molti matrimoni "garfagnini", nella primavera del 1974 furono celebrati portando la sposa in carrozza, anzichè con le fiammanti auto. 
Ad ogni modo, molti di quei giovanotti di allora, come Alfredo, provarono (in parte) sulla propria pelle il medesimo stile di vita che avevano avuto i loro padri, ma ormai quel modo di vivere era morto e sepolto e a parte tutte queste singolarità, già questi ragazzi erano diventati, loro malgrado, figli di un tempo che non era più il loro. Questi ragazzi, nonostante il divertimento iniziale non vedevano l'ora che la cosiddetta "austerity" avesse fine. I
cinema con De Niro e Pacino, la discomusic di Donna Summer, la musica pop degli Abba, la voglia di vacanze al mare e le lotte operaie di quegli anni avevano proiettato questi "nuovi giovani" nel nuovo mondo che anche in Garfagnana stava per avere inizio, soppiantando definitivamente un vecchio mondo antico. Per loro questa austerità era un noioso paletto, bisognava ripartire... e così fu. Dall'aprile 1974 si allentarono le misure sul traffico privato, potendo così far  circolare le auto a targhe alterne. Si arrivò poi anche al fatidico giugno dello stesso anno, dove tutte le misure di austerità furono abolite (n.d.r: com'è usanza nelle "buone" abitudini italiane, tali misure sono state formalmente e "tempestivamente" abrogate dal
Codice della strada del 1992). L'Italia non si sarebbe più fermata... fino al marzo 2020, quando un'epidemia colpì il nostro Paese e tutto il resto del mondo...

Viaggio fra antichi e curiosi oggetti garfagnini del tempo che fu...

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La soffitta di una casa, specialmente se è una vecchia dimora, è un
luogo eterno, fatato e incantato, dove straordinariamente i ricordi continuano a vivere sotto forma di carabattole e cianfrusaglie varie di cui non ti vuoi liberare, anche se effettivamente hanno perso qualsiasi utilità. Dall'altra parte però questi oggetti con il tempo che passa hanno aumentato notevolmente il loro valore sentimentale e mille sfumature della propria identità sonnecchiano ancora in silenzio in quella soffitta. Quelle cose sono diventate dei tesori e solamente a vederli suscitano ossequio e riverenza, eppure sono lì, inanimate da tempo immemore, finchè, un giorno, un componente della famiglia decide di andare a fare ordine o a recuperare qualcosa...
Ecco che allora tornano fuori oggetti curiosi, quegli oggetti buffi, strani che si usavano prima dell'ultima guerra e forse chissà, sicuramente anche prima. Eppure, erano tutte cose indispensabili per la quotidianità garfagnina di molto tempo fa. 
Fra quel "ciarpame" che le persone hanno conservato con maggior cura ci sono in buona parte oggetti che riguardano la camera da letto. La vita nei campi era dura d'altronde e un buon riposo per il garfagnino diventava indispensabile. Al mattino bisognava essere più che mai riposati per affrontare una faticosa giornata di lavoro, quindi esisteva una massima attenzione a questo confort. Avete allora mai sentito parlare della "monaca"?... Cavolo! Che ci faceva una monaca in camera? Questa di cui parliamo però è un altro tipo di monaca. 
C'era poco da fare, gli inverni garfagnini erano duri, freddi e
"La monaca" e lo scaldino
piovosi e non esistevano termosifoni, ne tantomeno termoventilatori, ne men che mai sofisticati condizionatori ad inverter o diavolerie simili. Nella maggior parte delle nostre case c'era al massimo una stufa a legno solitamente posizionata in cucina, e nelle altre stanze... gelo assoluto! Ragion per cui i nostri nonni dopo aver cenato prendevano il loro "scaldaletto" e lo ponevano fra materasso e lenzuola; poi riempivano un contenitore
(lo scaldino) di brace levata dal camino, et voilà, il loro riscaldamento "centralizzato" era bell'e pronto. La cosiddetta monaca era appunto una struttura leggera, costituita da due semi archi fatti con fasce di legno di castagno con un gancio posto alla sommità, al quale si appendeva il cosiddetto "scaldino". Naturalmente questo "coso" era messo in modo che le lenzuola non bruciassero e veniva posizionato un'oretta prima di coricarsi: la cenere e le braci asciugavano e toglievano l'umidità, riscaldando tutto il letto in maniera uniforme. A quanto pare il curioso nome deriva dal fatto che la sua forma ricordava le grandi sottane delle suore. 
Sempre a proposito di camera da letto conoscete quello che in dialetto garfagnino e detto "il cantero"? In italiano è il pitale o per meglio capirsi il vaso da notte, strumento indispensabile dei
"Il cantero"
nostri nonni per non dover uscire fuori nell'orto nel freddo della notte, per espletare gli urgenti bisogni. Ricordiamo infatti che il vaso da notte era un oggetto di tutto rispetto, c'erano per tutti i gusti e per tutte le tasche. Alcuni venivano venduti in un set coordinato, comprensivo di brocca e bacinella. Di solito quello usato nelle case garfagnine era di semplice fattura, realizzato in terracotta porcellanata, decorato con una semplice righina azzurra o addirittura colorato completamente di bianco, altri però erano un inno all'eleganza e alla raffinatezza, decorati con ghirlande, fiori, o sennò con disegni propri del decò italiano, ma quelli erano per altre tasche. In Garfagnana "il cantero" aveva pochi fronzoli... Già, la parola cantero, purchè dialettale ha una nobile origine
"La colonnetta"
latina: "cantharus", ossia, recipiente, vaso. Per riporre il vaso da notte esisteva anche un mobiletto, oggi ricercatissimo dagli antiquari: "la colonnetta". Questo arredo era l'antesignano del comodino, ed era un armadietto stretto e lungo (simile ad una piccola colonna)dotato di uno sportello, dove dietro veniva riposto
o per meglio dire nascosto il pitale. Il mobile nella sua parte superiore era dotato anche di un cassetto e il suo ripiano era solitamente fatto di marmo. Fattostà che al mattino, con calma, il vaso da notte veniva svuotato, lavato e lì nuovamente nascosto. Sopra questo simil comodino, vicino al letto, veniva messa una piccola acquasantiera ad uso domestico, in modo che al mattino e alla sera i fedeli potessero segnarsi e recitare le preghiere. L'acqua per questi oggetti veniva prelevata dalle acquasantiere delle chiese e quest'usanza, benchè ai più ignota è antichissima e infatti risale a più di cinquecento anni fa, quando l'acqua benedetta veniva attinta dalle chiese e portata nelle
Acquasantiera
da camera
proprie case per proteggerle dalle forze del male. Di questi oggetti ne furono costruiti di ogni genere e foggia, dai più semplici, come erano quelli usati nelle case dei garfagnini, a quelli più decorati, con putti angioletti e santi vari.


La cucina invece, era la stanza della casa per per eccellenza, dove di solito si svolgeva buona parte della vita domestica e per questo ancora oggi molti dei suoi oggetti sono sopravvissuti all'oblio dei tempi. La madia ad esempio è uno di questi. L'etimologia del suo nome già racconta il suo antico uso: dal latino "magida" che significa impastare, lavorare la farina. Questo mobile era presente in tutte le cucine garfagnine, sia in quelle più lussuose che in quelle più povere, ed era composto da una parte superiore che veniva usata da spianatoia per impastare il pane, questa parte veniva poi alzata a mo' di coperchio e li, al suo interno venivano conservate le farine e riposta la pasta a lievitare. Di solito era realizzata con legno di castagno o di noce e la sua fattura lasciava intravedere il ceto sociale della famiglia a cui apparteneva. Le linee semplici e pulite riconducevano a modeste famiglie contadine, mentre una madia decorata, intarsiata e impreziosita da accessori vari era facilmente attribuibile a famiglie benestanti. Un'altro oggetto di queste
La madia
vecchie cucine che ha destato sempre curiosità più che per la forma che per l'uso è la zangola. Del resto non era facile ricavare il burro dal latte, o perlomeno se non era facile c'era una "macchina" che semplificava molto questo compito, ma ciò richiedeva tempo e fatica e questo recipiente di forma cilindrica dotato di stantuffo faceva al caso suo. Comunque sia l'operazione richiedeva una certa manualità, innanzitutto bisognava dividere la panna dal latte appena munto (cosa che avveniva lasciando riposare quest'ultimo), nel frattempo la zangola veniva scaldata con acqua calda 
(specialmente in inverno), una volta tolta quest'acqua, al suo interno si versava la panna che veniva filtrata con una tela grezza, si metteva poi il coperchio e con il movimento su e giù del pistone si sbatteva la panna fino a che non si consolidava (proprio da questo movimento nasceva l'origine del suo nome, difatti la
Contadino con la zangola
"bizangola" negli antichi dialetti del nord est era l'altalena e il suo movimento ricordava proprio il su e giù del pistone). Una volta che il tutto si era completamente solidificato si passava a dare le forme desiderate nei vari stampi a disposizione.

Certo ora in cucina è tutto più facile, non c'è niente di più comodo che comprare la pasta già fatta, il burro bello è che pronto e il caffè già tostato e macinato. No! una volta queste operazioni, anche per il caffè bisognava farle "a mano". Il caffè veniva comprato in chicchi e poi ci pensava il tostacaffè a fare la torrefazione di questa corroborante vivanda. Originale anche la forma di quest'utensile, si trattava infatti di un ferro sagomato alla cui estremità era posto un contenitore cilindrico
Il tostacaffè
, dotato di una piccola porticina dove veniva inserito il caffè da tostare, inoltre c'era una specie di manico che veniva appeso ad un gancio posto sul fuoco del camino e con tanta pazienza si faceva girare, come un girarrosto, in modo che il caffè venisse tostato alla perfezione. A quel tempo anche i garfagnini erano diventati degli ottimi specialisti in materia e sapevano come ottenere un ottimo caffè tostato, osservando il colore ed il profumo dei chicchi. A completare l'opera ci pensava l'oggetto antico che forse è il più presente e il più recuperato (insieme alla vecchia macchina da cucire SINGER)in tutte le nostre case: il macinino da caffè. Sarà il suo aspetto simpatico e tondeggiante, eppure ci sono veramente poche case in Garfagnana dove per soprammobile non ci sia questo attrezzo. Checchè se ne pensi questo "trabicoletto" ha una storia di tutto riguardo che nasce proprio da quando in Europa fu importato il caffè. Dapprima si penso di macinarlo con lo stesso utensile con cui si macinavano l'esotiche spezie... il risultato fu pessimo. Questi macinini di spezie facevano del caffe una polvere
Il macinino
sottilissima da non garantire una bevanda dal sapore impeccabile. Ci pensarono allora i turchi nel XVI secolo a farci pervenire i macinini che i nostri nonni hanno conosciuto. I macinini, quelli più semplici, erano realizzati in legno, e al loro interno esisteva  un meccanismo di frantumazione con macine. Girando sull'apposita "manovellina"  si mettevano in azione queste piccole macine  che consentivano di triturare al meglio i chicchi del caffè. La polvere che ne usciva veniva raccolta da un apposito cassettino. 

Direi che può bastare così... anche perchè mi assale un desolato pensiero e la mia riflessione va al fatto di come queste cose invecchiano in maniera veloce, rapida e fin troppo svelta. Parlare e scrivere di questi oggetti è come scrivere (per assurdo) di una colonna dorica o di tempio romano, invece sono cose che ci sono vicinissime nel tempo e che l'avvento del consumismo degli anni 50' e 60' del secolo passato ha spazzato via dalle nostre case e dalla nostra memoria... Per questo vi consiglio, ogni tanto, di fare un bel giro in soffitta.

Quando la storia la scrivono i vincitori... Quello che narrarono gli storici (romani) sui Liguri Apuani...

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La frase "la storia la scrivono i vincitori" in effetti insinua un grosso dubbio sui libri di storia... lascia intendere che tutto quello(o in parte)di quello che è scritto su questi testi non sia del tutto vero... e allora mi domando io... ma quanto sappiamo in verità del nostro passato? Difficile da dire, specialmente quando ci si riferisce ad epoche molte lontane. Se ci pensiamo bene è perfino difficile capire la verità di quello che succede quotidianamente e a volte non si conoscono nemmeno le verità in ambito di storia familiare, quindi è veramente complicato comprendere quando un fatto storico è stato volontariamente distorto. Pensare di coloro che secoli o millenni fa avevano l'onere di scrivere resoconti di storia come di casti e puri tramandatori di eventi oggettivi è come credere oggi che tutti i giornalisti raccontino i fatti in maniera imparziale o senza un credo politico alle spalle. In questi ultimi decenni però, gli
storici stanno cercando di fare un grosso recupero di verità su determinati fatti, avvenuti in epoche lontane. Ad esempio mi viene in mente Nerone, l'imperatore romano sempre descritto come un pazzo incendiario a quanto pare era molto amato dai sudditi ed esistono prove che non fu lui ad incendiare la "città eterna"... Ma allora, in conclusione, se la storia la scrivono i vincitori, quante altre volte c'è stata tramandata in modo falsato? Probabilmente non lo sapremo mai. Figuriamoci poi se in un contesto simile fosse esistito un popolo che non sapeva nè leggere, nè scrivere e che quindi non poteva dire "la sua" ai posteri... Eppure un popolo così esisteva veramente... erano i nostri antichi antenati, erano i Liguri Apuani. Non sapremo mai nè dai loro scritti, nè dai loro disegni le loro vicende e le loro sorti. Gli Apuani di se stessi non scrissero mai niente, semplicemente perchè non sapevano scrivere, le loro notizie ci sono state tramandate dal suo più acerrimo nemico... i Romani...
Di loro nell'antichità hanno scritto storici, geografi e poeti di tutto rispetto e rinomata valenza, ma però in termini diversi; i primi a scrivere degli Apuani e dei Liguri in genere furono i greci già VII e VI secolo a.C, il loro giudizio su questo fiero popolo era indifferente e quindi (forse) il più fedele alla realtà. Poi
cominciarono proprio i romani a menzionare i Liguri Apuani nei loro scritti e qui l'apprezzamento sicuramente era meno lusinghiero. D'altronde la lunga e sanguinosa guerra fra questi popoli avrebbe lasciato il segno anche nelle future memorie, facendo nascere opinioni non obiettive e serene, come normalmente è la storia scritta dai vincitori. Gli avvenimenti narrati dai romani ci raccontano che questi uomini erano ribelli, trogloditi, bestie selvagge e crudeli e che non vollero mai piegarsi alla potenza di Roma e allora sta a noi tradurre queste parole: la loro malvagità probabilmente era dovuta ad uno spirito indomito e la loro ribellione la si può leggere in un desiderio di libertà. Altre descrizioni invece ci tramandano un quadro piuttosto fedele sul loro aspetto e sul loro stile di vita. Il greco Diodoro Siculo (90 a.C-27 a.C) nel suo libro "La Biblioteca Storica" così ce li descrive: "tenaci e rudi, piccoli di statura, asciutti, nervosi... Costoro abitano una terra sassosa e del tutto sterile e trascorrono un'esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le
vessazioni sostenuti nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta di alberi, alcuni di costoro per l'intera giornata, abbattono gli alberi, forniti di scuri affilati e pesanti, altri, avendo avuto l'incarico di lavorare la terra, non fanno altro che estrarre pietre... A causa del continuo lavoro fisico e della scarsezza di cibo, si mantengono nel corpo forti e vigorosi. In queste fatiche hanno le donne come aiuto, abituate a lavorare nel medesimo modo degli uomini. Vivendo di conseguenza sulle montagne coperte di neve ed essendo soliti affrontare dislivelli incredibili sono forti e muscolosi nei corpi... Trascorrono la notte nei campi, raramente in qualche semplice podere o capanna, più spesso in cavità della roccia o in caverne naturali... Generalmente le donne di questi luoghi sono forti come gli uomini e questi come le belve... essi sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle condizioni della vita non scevre di pericolo". Il generale romano Porcio Catone (234 a.C- 149 a.C) invece ci narra della loro incompetenza e li definisce ignoranti e bugiardi ("inliterati mendasque"), parlandoci ancora di un popolo che ha perso la memoria delle proprie origini e della propria identità. Dall'altra parte lo storico greco Erodoto (484 a.C- 430 a.C) ci racconta dettagliatamente dove abitavano:"La parte convessa delle Alpi-che sono montagne molte alte e formano una
curva- è rivolta verso le pianure dei Celti di cui si è detto e verso il monte Cemmeno; la parte concava verso la Liguria e l'Italia. Molti popoli occupano questi monti, tutti Celtici tranne i Liguri; questi sono di stirpe diversa, ma simili per stile di vita; occupano la parte delle Alpi che si congiunge agli Appennini ed abitano anche una parte degli Appennini". Rimane il fatto che fra tutte queste parole quello che non lascia dubbio sono gli apprezzamenti non proprio benevoli della buona società romana del tempo nei confronti dei nostri lontani antenati...:"adsuetumque malo ligurem", così li definisce il sommo poeta Virgilio (70 a.C-19
Virgilio
a.C) nelle sue "Georgiche", ossia: "il Ligure avvezzo alla perfidia", non da meno il letterato Marco Terenzio Varrone (116 a.C-27 a.C):"Ligures Montane piratae, qui alpium asperrima colunt", "I Liguri sono predoni dei monti, che abitano i luoghi più inaccessibili delle Alpi", non la "tocca piano" nemmeno il famoso oratore Cicerone (106 a.C-43 a.C) definendoli rozzi ed incolti ("intonsi ed inculti"). Tito Livio (59 a.C- 17 d.C) invece merita una menzione a parte, lui è lo storico per eccellenza dei
Tito Livio
Liguri Apuani, è lui che racconta (anche) nella sua magna opera "Ab Urbe condita"(n.d.r:ben 142 libri che vanno dalla fondazione di Roma alla morte di Druso, figliastro di Augusto nel 9 a.C)
 le abitudini e le guerre contro Roma e a proposito di guerre ecco quello che riferì: "…entrambi i consoli conducevano una campagna nel territorio dei Liguri: un nemico che sembrava fatto apposta per tenere i Romani allenati alla disciplina militare durante gli intervalli tra i grandi conflitti perché non esisteva altra zona di operazioni in grado di stimolare maggiormente lo spirito combattivo dei soldati(…)nel territorio dei Liguri non mancava nulla di quello che serviva a tenere alta la tensione tra i soldati: territori montuosi e difficili; strade strette, anguste,
ostili per i possibili agguati; un nemico agile, svelto, pronto agli attacchi inattesi, che non consentiva quiete e tranquillità da nessuna parte e in nessun momento; l’obbligo di andare ad attaccare fortini ben difesi tra fatiche e rischi; un territorio povero di risorse che costringeva i soldati a una vita misera visto che si offriva scarsa possibilità di preda(…)e con i Liguri non mancavano mai né occasioni né motivi per combattere perché a causa della povertà dei loro territori compivano incursioni nelle campagne vicine e i combattimenti non arrivavano mai ad essere decisivi"... Ecco a voi, il più classico esempio tratto della celeberrima serie "la storia la fanno i vincitori". Per Tito Livio questi rudi uomini delle montagne erano avversari di poco conto, buoni per un semplice allenamento con i quali i romani stessi si tenevano in esercizio in vista dei grandi conflitti. Ma la storia dirà che il popolo apuano fu uno degli scogli più duri da superare per Roma, lo stesso Tito Livio si lasciò andare anche a parole sincere, tralasciando qualunque faziosità: "et Ligures durum in armi genus" ("popolo forte, tenace nell'uso delle armi")e rimase famosa nella storia la sua frase che racconta di quando gli Apuani sconfissero e misero in fuga i romani nella celeberrima battaglia del "Saltus Marcius": "Si stancarono prima gli Apuani di inseguire che i romani di fuggire".

Del resto, Giambattista Vico(filosofo del XVII secolo) ci insegna che la storia è fatta di corsi e di ricorsi. A conferma di ciò è evidente quello che capitò a Rutilio Namaziano (poeta e politico
romano)nel 410 d.C, quando era di ritorno a Roma, dopo che nella Gallia Narbonese (territorio romano) aveva assistito alla sconfitta dell'esercito romano da parte dei rivoltosi Goti. Il suo ritorno fu un mesto e malinconico rientro che fece imparare a lui e a Roma una grande lezione, tant'è che nel suo componimento "De reditu suo" ebbe a dire: "Quos timuit superat, quos superavit amat", ovvero: "Vincere chi si è temuto e amare chi si è vinto"...

Non solo il Buffardello... Ecco gli altri folletti garfagnini che leggenda narra

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Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus Von Hohenheim... Sembrerà
strano, ma dietro a questa sequela di nomi stravaganti non c'è una pianta rara e nemmeno qualche specie insolita di animale straordinario. Nonostante la bizzarria di questi appellativi, che sembrano usciti da qualche studio scientifico, dietro di essi esiste una persona riconoscibile con un unica parola: Paracelso. Paracelso fu una delle figure più rappresentative del Rinascimento: medico, alchimista e astrologo di fama conclamata e allora mi direte voi cosa c'entra cotanto studioso con il mondo immaginario dei folletti??? Beh, per lui non era poi così tanto immaginario... Fu il primo che ne certificò la loro esistenza. "Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus", questo suo trattato (edito postumo nel 1566) è la Bibbia di coloro che credono che ninfe, gnomi e altri esseri
sovrannaturali non siano solo frutto di tradizioni e leggende, d'altronde l'incipit del libro non lascia scampo ad altre interpretazioni: "Mi propongo d'intrattenervi sulle quattro specie di esseri di natura spirituale, cioè ninfe, i pigmei, i silfi e le salamandre, a queste quattro specie, per la verità bisognerebbe aggiungere i giganti e parecchie altre. Questi esseri benchè abbiano apparenza umana, non discendono affatto da Adamo, hanno origine del tutto differente da quella degli uomini e degli animali". Tali esseri, fra i quali i folletti, sempre secondo Paracelso, sarebbero legati ai quattro elementi: acqua, aria, terra e fuoco e occuperebbero una dimensione invisibile, spirituale, difficilmente penetrabile dall'uomo, si precisa poi che queste creature pur essendo molto simili all'essere umano per caratteristiche fisiche ed intelligenza, sarebbero prive dell'anima: "Per essere uomini non manca loro che l'anima. E poichè gli manca l'anima, non pensano nè a servire Dio, nè a seguire i suoi comandamenti. Dunque non possono essere definiti nè buoni, nè cattivi, perchè non avrebbero coscienza del bene o del male. Tuttavia alcuni di loro sortirebbero effetti positivi sull'uomo, altri negativi, ma sembrerebbe praticamente impossibile evitare il contatto con queste entità". Tutti questi esseri, secondo le credenze celtiche (arrivate poi anche in Garfagnana da tempo immemore), farebbero parte del "piccolo popolo", composto da
folletti, fate, elfi, gnomi, tutti protagonisti delle meravigliose leggende garfagnine. Fra tutte queste creature, il personaggio principale delle narrazioni popolari della valle è il Buffardello, il folletto garfagnino per eccellenza, di cui tanto abbiamo sentito parlare e raccontare. Un'entità dispettosa e scherzosa al limite del maligno che riversa le sue malefatte verso uomini e animali (per saperne di più clicca il link: http://paolomarzi.blogspot.com/2014/05/il-buffardello-folletto.html). La sua fama però ha oscurato tutta una serie di altri folletti della tradizione garfagnina e apuana. Si, perchè non è il solo gnometto sdegnoso presente nelle nostre terre, altri ancora, sconosciuti o dimenticati, appartengono proprio a quel "piccolo popolo".Era infatti nei pressi di Casa Tontorone che il "Settescintille" dava il meglio di sè, proprio sul fare del giorno, o meglio, quando era ancora buio e i pastori si apprestavano a portare i greggi al pascolo, appariva allora quel folletto sotto forma di stella luminosa a sette punte, pronto a spaventare il pastore e le povere pecore. Volteggiava, girava su se stesso per tutto il sentiero che portava al pascolo e poi
improvvisamente s'inoltrava nei boschi creando ombre spaventose ed inquietanti, facendo assumere agli alberi forme spaventose. Alla fine dello "spettacolo" con tre balzi  scompariva dentro una buca del Monte Tambura. Non disdegnava nemmeno entrare dentro le stalle per mettere paura alle mucche: entrava e scompariva con un gran botto.
La caratteristica che rimane analoga in quasi tutti questi folletti garfagnini è l'arte di far dispetto e il "Pilloro" in questo era uno dei maggiori artefici. Lui abitava, o meglio si mostrava nei villaggi che erano situati nei pressi delle Panie. Questo folletto aveva la capacità di sollevare potenti raffiche di vento, tanto
forti da scompigliare tutto il fieno dei contadini, così come foglie, legna secca e perfino la cenere del camino. Ma le sue molestie non finivano li, quando non voleva far riposare il povero agricoltore dalle fatiche giornaliere, allora cominciava a far sbattere le persiane della camera da letto. Ma non agiva solamente nei pressi della case, difatti quando lo sventurato viandante passava per i boschi era  abitudine del Pilloro di tirargli ghiande, frasche e pigne. Chi l'ha visto può raccontare che il folletto porta un berretto appuntito, ornato da foglie e pigne secche. Esisterebbe anche un rimedio per allontanarlo, basterebbe un po' di cenere del camino, conservata la notte di Natale e spargerla intorno casa... Non solo folletti dispettosi e molesti, ci sono anche quelli amorevoli e premurosi verso il prossimo è il caso dello "Zoccolletto", un'essere ibrido metà gnomo
e  metà satiro. I cavatori delle Apuane dicevano che era impossibile da avvicinare, con le sue zampe muscolose di capra saltava da una roccia all'altra con una velocità impressionante e quando stava per approssimarsi un grosso temporale avvertiva i cavatori emettendo un'assordante fischio, cominciando poi anche a muovere pietre. Insomma, come avrete ormai capito di folletti garfagnini ne esistono di ogni specie, ognuno con il suo particolare carattere. Ci sono anche coloro che Dante avrebbe messo nel girone degli ignavi: pigri, indolenti e con poca voglia di fare. Ebbene si, stiamo parlando del "Parpaglione". Il massimo della fatica che si concedeva era far ruzzolare qualche pietra contro l'ignaro passante. Sennò, abitualmente si sdraiava sulle pietre e sui massi a riposare, mimetizzandosi alla
perfezione. Ecco spiegato perchè tanto volte quelle rocce o quelle pietre che vediamo hanno sembianze umane è il piccolo Parpaglione che se ne sta li fermo, va a sapere da quanto tempo.Ci sono altrettanti folletti però che lavorano di gran lena, altro che sfaccendati come il Parpaglione... I "Martelletti" si danno un gran da fare e il loro nome è già tutto un programma. Loro lavoravano nella miniera di ferro abbandonata sulla Via Vandelli, poco prima del passo della Tambura. Se si origliava all'ingresso della miniera si udiva il battere dei martelli, erano questi folletti che non cercavano di certo il ferro, ma l'argento da sottrarre agli esseri umani. C'erano però altri folletti che abitavano le miniere di ferro e questi erano i "Gobbetti" , vivevano sul versante apuano di Fornovolasco e voglia di lavorare a differenza dei loro colleghi della Tambura non ne avevano, il loro unico
intento era fare danni e anche grossi. Se capitava qualche frana o se crollava qualche parete dentro alle miniera sicuramente la colpa era la loro, si sentivano infatti sghignazzare dal fondo della grotta. L'unica soluzione per farli desistere era mettere un crocefisso all'interno della miniera stessa. Queste grotte però, non erano solo e ad esclusivo uso di questi due tipologie di folletto. Abitante di questi anfratti era pure il "Pellistrello", folletto talmente brutto che metteva paura anche agli altri esseri del "piccolo popolo". Chi lo vide raccontò che egli era tutto nero con dei grossi baffi che spuntavano dalle narici, sempre avvolto in un mantello che nella notte gli permetteva di volare da una cima all'altra della montagna, la sua risata risuonava tenebrosa in tutta la valle. 
D'altra parte, girando tutta la Garfagnana, se ci fermiamo nei paesi possiamo ancora sentire narrare di folletti di ogni specie e se per caso se in uno di questi giri per i borghi e montagne della valle capitassero delle improvvise nebbie o foschie, l'opera sicuramente è dello "Sputafumo". L'essere, da qualche pertugio delle rocce sputava dalla sua bocca della nebbia, talmente fitta da far smarrire la strada al passante. Era un folletto inospitale, non gradiva gente dalle sue parti...
Infine, l'ultimo, il folletto più inquietante, per il suo aspetto e per le sue azioni... Il "Bobolo"... una sorta di sibilla, di
veggente, nonchè di giustiziere divino, dall'aspetto raccapricciante: un po' uomo e un po' bestia, con sei bocche ed un occhio solo. Viveva in una caverna sulle Apuane e chi per caso capitava davanti al suo anfratto la sua domanda era sempre la solita: "Sei colpevole o innocente?" Prima di ogni risposta il Bobolo capiva e scatenava nebbia fittissima e vento altrettanto forte che faceva sbattere in ogni dove e precipitare il povero passante in un burrone, trasformandolo poi in una pietra. Il terribile folletto a quanto pare, continuerà ad abitare in quella caverna, fino a che di li, non passerà una persona che non abbia mai commesso nessun peccato...
Non ci deve fare meraviglia che tutti questi esseri vivono proprio in Garfagnana. Nel corso dei secoli sono  numerosi i popoli che hanno stabilito qui i propri domini: gli Apuani, passando per i Romani, fino ad arrivare ai Franchi. Tutte queste comunità hanno contribuito ad alimentare le numerose leggende che sono arrivate poi ai nostri nonni. Proprio per questo la Garfagnana secondo il mito è una terra magica. Leggende e racconti
sono parte integrante della valle e ancora oggi i suoi abitanti raccontano tutte le straordinarie vicende che coinvolgono "il piccolo popolo" e a noi non rimane altro che stare lì, buoni, in silenzio, ad ascoltare e tramandare... 


Bibliografia:

  • "Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris" Paracelso 1566 (edizione tradotta)
  • "Racconti e tradizioni popolari della Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi, edizioni Le Lettere, anno 2013

Quando in Garfagnana la bandiera non era quella italiana... Ecco allora quali erano le tre bandiere...

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Certo si fa presto a dire bandiera, ma quel pezzo di stoffa sventolante ha significati ben profondi è la più alta espressione dell'identità di una nazione, anche se ad onor del vero nacque in ambito militare per distinguere le proprie truppe da quelle nemiche, comunque sia anche li assumeva il solito significato: uniti, insieme nel medesimo scopo. D'altronde una bandiera che simboleggi una nazione, una città o una squadra di calcio, questo semplice drappo colorato scatena sempre delle forti emozioni e un grande senso di appartenenza e pensare che la prima canzone dedicata al nostro amato tricolore ha ben 161 anni e pressapoco diceva così:"La bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella, noi vogliamo sempre quella, noi vogliam la libertà". Era il lontano 1859, quando sul suolo patrio riecheggiavano le note di questa risorgimentale canzone. Due anni dopo quel componimento, circa 22 milioni di anime per la prima volta si ritrovarono uniti sotto quell'unica bandiera. Ma prima d'allora l'italiano a quale bandiera doveva dare onore? Sicuramente a quella del proprio stato d'appartenenza e nell'anno che fu composto questo canto ce n'erano ben sette che non si chiamavano
Il primo tricolore del 1797
Italia... A quel tempo poi, in Garfagnana se ci affacciavamo dalle finestre di casa di quei sette vessilli
 ne potevamo vedere ben tre, ognuno di essi rappresentava uno stato diverso. Quanto poi i nostri avi sentissero il senso d'appartenenza (credo poco...) a queste bandiere non lo saprei dire, ma quello che è indubbio è che la nostra valle era il crocevia di tre stati preunitari e proprio a Gallicano c'era la confluenza di questi tre: la Repubblica Lucca, il Ducato di Modena e il Granducato di Toscana. 
Gallicano (con vicende alterne), Castiglione Garfagnana (con una piccolissima parentesi fiorentina) e Minucciano facevano parte della Repubblica di Lucca, Barga già dal 1331 era sotto la potente
La mappa degli Stati Estensi 1850
famiglia Medici e il resto della Garfagnana era assoggettata dagli Este di Modena e ognuno di questi paesi e di queste terre era sotto la bandiera di questi stati. D'altra parte per capire bene quanto i suddetti Stati fossero lontani dagli ideali e dai pensieri della gente garfagnina di quel tempo (e non solo da quella garfagnina) basta analizzare il significato delle loro bandiere e sopratutto la loro evoluzione, questo fa capire la voglia e la bramosia di riconoscersi unicamente sotto un'unica insegna.

Le bandiere non rimangono sempre le solite e cambiano secondo gli eventi storici che si susseguono negli anni. Il più chiaro esempio l'abbiamo con il nostro tricolore, fino al 1946 al centro della nostra bandiera campeggiava lo stemma di Casa Savoia, con il
L'evoluzione della bandiera italiana
referendum del 2 giugno e la caduta della monarchia decade la casata e con essa anche lo stemma sulla bandiera. Quindi anche le bandiere subiscono dei mutamenti, così come fu per il vessillo del Ducato di Modena e Reggio e se tutto fosse rimasto immutato in buona parte della Garfagnana al posto del bianco, rosso e verde avremmo inizialmente avuto un'aquila (d'argento) estense in campo azzurro, questa era risalente al

primissimo stemma della dinastia (ai tempi del marchese Rinaldo (1168) e la bandiera in questione fu adottata nel 1598 con la costituzione del regno e perdurò fino al 1796, quando poi Napoleone entrò di prepotenza sia sul palcoscenico della storia che in Italia, dove abolì (anche) questa  bandiera. Questo fino al 1814, quando terminate le scorribande napoleoniche tale bandiera tornò a sventolare per una quindici d'anni. Nel 1830 ecco il cambiamento, la bandiera di stato prenderà le sembianze di quella austriaca, il rosso e il bianco saranno i colori principali. D'altronde c'era poco da fare, dopo la restaurazione la lunga mano dell'Austria si allungherà sulla Penisola italica. Difatti nel 1803 con la morte di Ercole III(ultimo duca di Modena e Reggio) e il
susseguente matrimonio di sua figlia Maria Beatrice Ricciarda d'Este con Francesco d'Austria ebbe inizio il nobile ramo degli Asburgo d'Este. Nella nuova bandiera si fonderanno (come detto) i colori austriaci con quelli estensi bianco e azzurro, al centro avremmo lo stemma ducale con le armi d'Asburgo d'Austria, di Lorena e d'Este. Arrivò però anche il fatidico 1859, il duca austriaco fu deposto, la bandiera sparì e nel 1860 il ducato fu annesso al Regno di Sardegna.
L'enclave fiorentino di Barga in fatto di bandiere (di stato) ebbe storia più difficile, sotto il proprio naso ne vide passare quattro. Chissà che confusione per i poveri barghigiani. D'altra parte la cittadina era fiorentina dal 1331 e in mezzo secolo di "fiorentinità" molte cose cambiano, figuriamoci le bandiere. La prima risalente al Granducato di Toscana è del 1562 e durerà per 175 anni. Il vessillo se si vuole è abbastanza semplice: lo scudo mediceo(con tutti i suoi significati) spicca su un fondo bianco. Nel 1737 fu sostituita da una bandiera di "transizione" detta appunto "di Toscana",
probabilmente ciò avvenne tra l'avvento dei Lorena e l'introduzione delle bandiere imperiali da parte di Francesco II, questa se si vuole somiglia alle attuali bandiere dei paesi del nord Europa,la sua croce ha forse origine da quella dell'ordine di Santo Stefano, per allungamento delle braccia fino al drappo. Quel 1737 fu per Firenze l'anno della già suddetta "lunga mano austriaca". La morte  di Giangastone dei Medici (che morì senza lasciare eredi), fece cessare per sempre il potere della dinastia dei Medici in Toscana e nonostante le opposizioni in vita di Gian Gastone a cedere il Granducato ad una potenza straniera, il matrimonio tra Maria Teresa d'Asburgo e Francesco di Lorena, vanificò per sempre il suo desiderio, cosicchè le truppe austriache entrarono in Toscana giurando fedeltà al nuovo granduca. Iniziò così la dinastia dei Lorena, diventava quindi necessario cambiare anche la bandiera, che naturalmente prese
in effige le insegne imperiali, solamente per pochi anni però, fino al 1765, quando la bandiera cessò di vivere insieme al suo mentore. L'arrivo sul trono di Leopoldo I (figlio di Francesco) portò con sè il nuovo vessillo del Granducato che oggi è a noi più noto. Anche questo come quello di Modena prenderà su di sè i colori austriaci. Fatto al quanto singolare è che il bianco e rosso austriaco (i colori dell'arciducato) furono adottati dal Granducato ben vent'anni prima che le utilizzasse la stessa Austria nella sua bandiera nazionale (1786). Ad ogni modo, sopra questi colori, (leggermente spostato verso sinistra) spiccava cotanto scudo coronato, inquartato con le
armi d'Ungheria, di Boemia, di Borgogna antica e di Bar, sul tutto uno scudetto con le armi di Lorena d'Austria e dei Medici. Arrivò dappoi il solito Napoleone, cancellerà pure questa ennesima bandiera, che rivedrà vita in seguito (dal 1814 al 1859).
Come si può notare tutte queste bandiere sono accomunate dal medesimo destino in due date precise e fondamentali: il 1800 (circa)con le Campagne d'Italia di memoria napoleonica e il 1859, anno in cui queste potenze straniere piegarono la testa davanti alla forte spinta dell'unità nazionale.
La prima bandiera della
Repubblica di Lucca
Leggermente diversa (in questo caso)era la situazione per la Repubblica di Lucca: Gallicano, Castiglione e Minucciano ebbero governi più stabili e quindi bandiere più durature. Il più antico drappo lucchese portava la scritta "Libertas", in quella parola c'era l'orgoglio della piena indipendenza che durerà dal 1369 al 1799, tale scritta era in oro su fondo azzurro. Spesso questa bandiera si poteva unire con quella comunale bianca e rossa (che stavolta niente aveva a che fare con l'Austria), la bandiera scomparirà poi con la solita
La bandiera durante
l'occupazione francese
occupazione francese che scelse come vessillo di stato  quello comunale bianco e rosso, tralasciando di fatto quella azzurra. Fino al 1805 però, anno in cui la Repubblica diventò un Principato: il Principato di Lucca e Piombino, retto nientepopodimeno che da Elisa Bonaparte, sorella di Napoleone. La bandiera allora prese i colori della Francia, le bande anzichè verticali erano collocate orizzontalmente e il blu non era proprio un blu, ma quasi un celeste. Caduto in disgrazia Napoleone e tutto il "parentame", il
Bandiera del Principato
Congresso di Vienna con la celeberrima restaurazione decise che dopo Repubblica e Principato, Lucca sarebbe diventata un ducato e nel 1815 subentrò come reggente Maria Luisa di Borbone- Spagna, quindi dopo i francesi, ecco gli spagnoli e così anche la bandiera prese il giallo e il rosso della "madre patria", al centro di essa lo stemma della sovrana faceva da padrone. Con la morte dell'augusta duchessa nel 1824 gli succedette Carlo Lodovico, il quale per l'ennesima volta cambiò nuovamente la bandiera di stato, sostituendo lo stemma della madre
Bandiera del Ducato
con il proprio. Nel 1847 tutto cambiò, i destini della città delle mura divennero comuni con quelli del Granducato a cui fu annessa in quell'anno.

Insomma era una bella confusione...Francia, Austria, Spagna, come poteva un garfagnino sentire sue quelle bandiere, tutto riportava a quelle lontane terre straniere... Non a caso fu in Garfagnana e per la precisione a Pieve Fosciana che nel 1831 degli impavidi rivoluzionari "nostrani" sventolarono per la prima volta in Toscana il futuro
Il tricolore di Pieve Fosciana
tricolore nazionale... Ma quella è un'altra storia...

(per saperne di più clicca sul link:  http://paolomarzi.blogspot.com/2015/10/pieve-fosciana-la-rivolta-del.html)


Sitografia:


Apuane "letterarie"... Viaggio fra coloro che ne decantarono le sue bellezze

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Basta alzare gli occhi verso le montagne per rendersi conto di
vivere dentro una culla. Del resto questa è la Garfagnana, uno scrigno racchiuso: da una parte gli Appennini e dall'altra le Alpi Apuane, un territorio appartato e orgoglioso, quasi isolato dal resto della Toscana, abitato da gente fiera delle sue millenarie tradizioni, fiera della propria storia e fiera sopratutto dei suoi monti: le Apuane. La loro bellezza ed unicità ha ispirato leggende, storie fantastiche, scritti e meravigliosi poemi, tramandati nei secoli nelle parole di nobili poeti, scienziati o semplici narratori, più o meno noti. La loro descrizione più alta la da il poeta e scrittore Tommaso Landolfi che le ha definite "I più bei monti formati da Dio". Il sommo poeta Dante Alighieri invece le nomina facendo riferimento agli inferi e nel XXXII canto dell'inferno de "La Divina Commedia"(1321) così dice: "E sotto i piedi un
32° canto dell'inferno
lago che, per gielo, avea di vetro e non d'acqua sembiante, Che se Tambernicchi vi fosse sù caduto o Pietrapana non avria pur dall'orlo fatto cricchi"
. Qui, in questo verso si parla del Cocito, un lago ghiacciato situato sul fondo dell'inferno, luogo dove vengono puniti i traditori. Si dice che lo spessore del ghiaccio di questo lago sia talmente alto che non avrebbe fatto nemmeno una crepa se sopra vi fossero crollate la Pania (Pietrapana) e la Tambura (Tambernicchi). Anche un suo contemporaneo Giovanni Boccaccio parla della Pania in una sua opera minore: "De montibus, silvis, fontibus, stagnis seu paludis et de nominibus maris liber". Siamo nel 1360 e l'opera non ha la bellezza dei danteschi versi, poichè vi vengono citate in un repertorio ordinato alfabeticamente, nomi geografici ricorrenti in opere
Giovanni Boccaccio
latine:
"Petra Appuana mons est olim Gallorum Frimenatum ab initio Apoenini in agrum Lucensium protensus, hinc Ligustinum Tuscumque mare et veterem Lunam civitatem, indi Pistoriensium et Florentinorum campos aspiciens et procurrentia in euroaustrum Apoenini iuga, rigens fere nive perpetua, et a quo quondam Apuani nominati sunt Galli", ossia: "il monte Pietra Apuana è proteso dall’inizio dell’Appennino dei già Liguri Friniati verso la pianura lucchese e da qua verso il mare Ligure e Tirreno e la vecchia città di Luni, quindi guarda verso la piana pistoiese e quella fiorentina e si avanza verso i gioghi dell’Appennino sud-orientale, è fredda quasi per neve perpetua e dal suo nome i Galli furono chiamati Apuani". Il passare dei secoli ci porta bensì in pieno rinascimento e a lui, il Governatore della Garfagnana per
Procinto
eccellenza, l'autore del "L'Orlando Furioso", Ludovico Ariosto: "La nuda Pania tra l'Aurora e il noto, da altre parti il giogo mi circonda che fa d'un pellegrin la gloria noto", così nella IV Satira. E' il 1523 e qui la Pania è descritta come se fosse un giogo sulle spalle del poeta, costretto a vivere confinato in una regione a lui ostile. Le sue inquietudini si riflettono anche su un monte della Apuane in particolare: il Procinto, tanto da definirlo "la dimora del sospetto": "Lo scoglio, ove 'l sospetto fa soggiorno e dal mar alto da seicento braccia di rovinose balze cinto intorno e da ogni canto di cader minaccia il più stretto sentier che vada al Forno la dove il Garfagnino il ferro caccia, la via Flaminia o l'Appia nomar voglio verso quel che dal mar in cima al scoglio" . Sempre nel medesimo periodo storico Michelangelo Buonarroti sta facendo "faville". Nel 1501 ha già creato opere d'arte di sublime bellezza: La Pietà e il David. Il marmo con cui vengono fatte queste immortali sculture viene dalle Apuane (Monte Altissimo), dove lì si dannerà l'anima per circa due anni a "domesticare i monti e
La Pietà
ammaestrare gli uomini".

Dopo il periodo degli artisti e dei poeti arrivò il momento di naturalisti e scienziati.
E' la fine del 1600 quando Pier Antonio Micheli (botanico italiano, la cui statua è situata fuori dagli Uffizi) arriva alle pendici della Pania e di li comincia la salita nei suoi versanti scoscesi alla ricerca dell'Elleboro, pianta considerata ottima come rimedio alla follia: "Colse adunque la congiuntura di tre giorni festivi di seguito nel mese d'agosto, e si portò velocissimamente a piedi, con solo cinque paoli in tasca, e pochi quaderni di carta sugante, fino alla più alta cima della scoscesa Pietra Pana, appena accessibile alle capre, ed ivi gli riuscì trovare in abbondanza il desiderato Elleboro". Nel 1743 è Lazzaro Spallanzani (colui a cui è stato dedicato il famoso
Pania della Croce
(foto Daniele Saisi)
ospedale di Roma, celebre per le note vicende del Coronavirus) ad arrivare sulle Apuane, lo scienziato è venuto a studiare la conformazione dei monti, per lui sembrano"delle ossa spolpate". Ma è il geografo Emanuele Repetti nel 1845 che ne da la similitudine più suggestiva definendole: "un mare in tempesta immediatamente pietrificato".

Arriva poi il XIX secolo, il secolo degli alpinisti, delle prime risalite, il secolo della nascita del C.A.I (Club Alpino Italiano). Nel 1883 il celebre alpinista scozzese Francis Fox Tuckett sale sulla Pania e al riguardo scrive un articolo: "La descrizione molto affascinante di W. D. Freshfield riguardo alle “Alpi Apuane”, e alla scalata che egli ha compiuto sulla Pania della Croce... mi ha reso impaziente di curiosare su e giù per questo amabile massiccio..". Gustavo Dalgas ricorda in questo modo una delle sue cinque salite verso il medesimo monte: "...basta pensare che questo pizzo, unico fra i suoi anche un poco più elevati confratelli, si scorge contemporaneamente da Viareggio, da Lucca, da Pisa, da Livorno, da Volterra, da Siena, da Firenze, dalla valle
Pania della Croce
(foto di Maxzina)
inferiore dell’Arno e dalle pianure di Maremma fino al monte Argentaro, per farsi idea della vastità del panorama terrestre che esso domina, mentre gli si apre dinanzi vastissima distesa di mare, in cui si scorgono disseminate le isole dell’arcipelago Toscano fino alla Corsica, e l’osservatore mira ai suoi piedi, come una mappa dispiegata, il golfo della Spezia...".

Fra corsi e ricorsi storici ritornò poi anche il tempo dei poeti...e che poeti !!!
"Occhio l'amor delle Apuane cime Natie libere: ardea nobile augello, in tra le folgori a vol tender su' nembi". Il verso è tratto dalla raccolta di poesie "Levia Gravia" (1868) di Giosuè Carducci, d'altra parte il poeta quello che vede dalla sua finestra di casa(Valdicastello) sono proprio le Apuane. Carducci dunque vi nacque all'ombra di questi monti, lo studente e poi amico Giovanni Pascoli invece vi si trasferisce (Castelvecchio), scrivendo poi una poesia dal titolo "La Pania"(1907): "Su la nebbia che fuma dal sonoro/Serchio, leva la Pania alto la fronte/nel sereno: un aguzzo
La Pania dal giardino
di casa Pascoli
blocco d’oro, 
/su cui piovano petali di rose/appassite. Io che l’amo, il vecchio monte,/gli parlo ogni alba, e molte dolci cose/gli dico:/O monte, che regni tra il fumo/del nembo, e tra il lume degli astri,/tu nutri nei poggi il profumo/di timi, di mente e mentastri...". Nel suo villeggiare per la Versilia nemmeno il Vate,Gabriele D'Annunzio è potuto sfuggire alla loro bellezza. Diverse sono le citazioni che gli ha riservato, ma fra le più belle rimane questa:"Marmorea colonna di minaccevoli punte, le grandi Alpi Apuane regnano il regno amaro, dal loro orgoglio assunte" (Meriggio 1903).
In conclusione bisogna dire che furono in molti fra i personaggi illustri a scrivere di Alpi Apuane, impossibile citarli tutti, ma le ultime righe di questo articolo sono per Fosco Maraini, scrittore insigne, viaggiatore e profondo conoscitore delle culture di tutto il mondo. Era nato a Firenze, ma le sue estati le passava a Pasquigliora, quattro case nel comune di Molazzana. Li, nonostante che i suoi occhi avessero visto tutto il mondo, tornava sempre a
contemplare quei magnifici monti e ricordava sempre la prima volta che li conobbe, ed al suo accompagnatore così domandò: "Che sono quei monti?" chiesi molto incuriosito, quasi impaurito. "Sono le Alpi Apuane", mi fu spiegato. Ammirai a lungo lo spettacolo inconsueto che mi faceva pensare, non so perché, alla creazione del mondo, terre ancora da plasmare che emergevano da un vuoto sconfinato, color dell'incendio".

Quando in Garfagnana eravamo dei briganti... Alle origini del misfatto

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Costa da Ponteccio, il Pelegrin del Sillico, Virgilio da Castagneto
, Filippo Pacchione, Battistino e Bernardello da Magnano, nonchè Bastiano Coiaio. Questo elenco di persone non si riferisce certo a dei pii uomini di qualche ordine francescano, tutt'altro, erano fra i più spietati briganti che la Garfagnana abbia mai conosciuto. A guardare oggi la nostra valle e a coloro che la abitano è difficile pensare che la Garfagnana sia stata secoli fa terra di briganti. La pacifica gente che ora vi dimora sono i discendenti dei sopra citati manigoldi, che niente avevano da invidiare agli attuali seguaci delle associazioni a delinquere che sono in Italia. Eppure era così, così come è vero ed è giusto dire che l'apice di questo fenomeno fu toccato ben 500 anni or sono. Semmai vi fossero ancora dubbi su quanto la Garfagnana fosse una regione ostile ed al quanto difficile da gestire, possiamo citare la testimonianza di Guido Postumo, governatore della Garfagnana nel 1512. La lettera fu inviata al cardinale Ippolito d'Este: "Quella Vostra Signoria mi mandò qua per le occurrentie de questa provincia, la quale ho gubernato cum sincera fede et non ho manchà in cosa
alcuna, in modo che, o per la fatica o per altro, mi sono infirmato di una febra continua, trista, che non me movo da lecto, che invero non sono più bono per lo paese per la infermità mia, e più presto sono per nocere per la fama ch'io sia malato; et perché etiam io vado di male in pezo, et certo in pochi dì, per li gran fastidi ch'io ho da questi homini inobedienti, e per lo mal grande io ho, gie lasserò la vita, se Vostra Signoria non mi remove da qua". Il governatore è malato e la causa della sua malattia sono "questi homini inobedienti" e se qualora non venisse rimossò da queste terre "gie lasserò la vita". Ma perchè eravamo così tremendi e terribili? Quali furono le cause che ci portarono a diventare dei briganti crudeli e spietati? Analizziamo allora dove ebbe origine il male.
Il brigantaggio garfagnino affonda le sue radici nella povertà e nella miseria più nera. All'inizio ci fu una forte complicità fra il misero e il signore locale, un'intensa connivenza che con il
Connivenze fra briganti
 e signori locali
tempo assunse una forza tale da vincere lo Stato stesso, tanto da permettere a questa gente di farsi leggi e regole per conto proprio. Uno stato debole dunque, che con gli anni capì che questa gente era meglio farsela (segretamente) amica, anzichè nemica... questo atto fu "la benedizione" del brigantaggio garfagnino che cominciò a spadroneggiare in lungo e largo. Qualcuno al tempo nella corte estense si accorse dell'errore e invece di battersi il petto  e recitare il "mea culpa" cercò di "lavarsi l'anima" come meglio poteva. Certe relazioni di funzionari, infatti tentarono di attribuire il fenomeno all'indole della popolazione, non accorgendosi poi che la politica che stavano portando avanti avrebbe ancor di più ingrossato le fila di questi biechi malviventi. D'altronde le tasse erano diventate altissime e cieche, e andavano a colpire proprio una popolazione già di per sè povera, la stessa
La reggia estense di Ferrara
amministrazione della giustizia aveva grandi lacune, si mostrava infatti forte con i deboli e debole con i forti e in più esisteva un forte pregiudizio sul garfagnino, la sua terra dallo stato stesso era considerata un territorio di serie B, abitato da semplici montanari e da ignoranti pastori, senza dire poi che la conformità della montagna era luogo ideale per imboscate e allo stesso tempo era l'ambiente perfetto per nascondersi o rifugiarsi. Insomma, nonostante qualsiasi analisi fosse stata fatta al tempo, si può dire che il gioco era fatto: da uno parte avevamo uno stato complice e dall'altra c'era un popolo scontento del proprio governo. A godere a pieno di questa situazione erano i briganti che per i popolani erano dei giustizieri e dei vendicatori di un'inetto stato, come pure dei benefattori che sapevano furbescamente ingraziarsi la gente facendo delle regalie (sopratutto cibarie)distribuendole a destra e a manca. Dall'altra parte invece quali potevano essere i vantaggi che il governo estense poteva ottenere da questi farabutti? Naturalmente l'impunità di
La fortezza delle Verrucole che
 i briganti difesero per
conto degli Estensi
questi ribaldi aveva un prezzo. Giust'appunto molti briganti nostrali furono assoldati come mercenari nell'esercito estense, più di una volta i briganti non esitarono a difendere le effigia ducali, come nel caso della guerra che consentì ai duchi estensi di riappropriarsi di Reggio Emilia, o perchè non ricordare di quando i briganti difesero la Fortezza delle Verrucole dagli attacchi delle truppe di Papa Leone X? Mettiamoci allora nei panni di quei poveri governatori della Garfagnana che erano costretti a negoziare continuamente con il duca i margini della propria autorità. Nella maggior parte dei casi il duca invitava proprio ad una certa moderazione su questi personaggi e quando il governatore calcava (giustamente) un po' la mano ci pensava proprio il duca in persona, come quella volta che nel 1523 il Moro del Sillico fu arrestato e poco dopo fatto evadere con la complicità delle guardie, ottenendo poi dal regnante di casa
Il Sillico il paese del Moro
estense, prima la grazia e poi un nuovo contratto da mercenario. Malgrado questi intrighi e raggiri è giusto delineare bene la figura del brigante. Era un criminale o un Robin Hood? Per sgombrare ogni dubbio il brigante era colui che viveva di rapine, era un bandito, un masnadiere, un soldato mercenario che imperversava nella valle, ognuno nella sua zona di appartenenza. Tutto questo lo capì perfettamente e più di qualsiasi altra persona Messer Lodovico Ariosto, governatore di Garfagnana dal 1522 al 1525.In Garfagnana però non c'era tempo per fare il poeta, il suo compito principale fu quello di estirpare il brigantaggio da queste terre e si può dire senza ombra di dubbio che cercò di fare il possibile e anche di più per assolvere al meglio il suo dovere. Con il dovuto rispetto lo potremmo paragonare ad un Giovanni Falcone "ante litteram", fu un'attento analista dei (mis)fatti garfagnini e delle dinamiche politiche e sociali che lo circondavano: "Ogni terra in se stessa alza le corna, che sono ottantre, tutte partite, da la sedizion che ci circonda" . Ottantatre comunità "in sedizion",
Ludovico Ariosto
ovvero lo scontro fra le parti, è il primo e principale problema con cui si scontrò l'Ariosto al suo arrivo in Garfagnana e in una sua lettera inviata agli anziani di Lucca il poeta aveva già ben chiaro il quadro della situazione: "Di tutte queste montagne li assassini et omini di mala conditione sono signori, e non il papa, nè i fiorentini, nè il mio Signore, nè vostra Signoria". Significativa è la lettera che scrisse poi al Duca, è il 29 novembre 1522: "... questo poveromo che è stato rubato, prima che sia venuto da me, è stato dal figliolo e dal nipote di Bastiano Coiaio (n.d.r: noto brigante) e da Ser Evangelista, a provare se per mezzo loro potesse riavere la sua roba, non avendo potuto far niente è ricorso da me". I garfagnini quindi sapevano bene e bene avevano chiaro quali erano i rapporti di forza. Rapporti che erano regolati dai leader di fazioni opposte che regnavano incontrastati per l'assenza di un'aristocrazia radicata capace di controllare il territorio. Un vuoto di potere assordante che se associato agli scarsi mezzi repressivi messi a disposizione dagli ufficiali del governo consegnò di fatto ai capi delle famiglie (di briganti) più importanti il ruolo di regolatori di conflitti e di garanti della pace. Queste famiglie costituirono con il passare degli anni una vera e propria mappa del potere, ogni famiglia era suddivisa in
Banda di briganti
bande (composte più o meno da una quindicina di elementi) e ognuna di queste bande controllava una parte di territorio, naturalmente come sempre succede anche questa volta il connubio politica-potere andò a braccetto, ogni fazione era legata ad una parte politica a cui fare riferimento. Tutto questo lo svelò (proprio come fece Falcone 500 anni dopo con le cupole mafiose) Ludovico Ariosto che delineò un rigoroso quadro delle famiglie (di briganti) presenti in Garfagnana, suddividendole proprio per fazioni politiche. Esistevano quindi due parti, una denominata "italiana", favorevole alla Chiesa e a Firenze e una cosiddetta "francese", favorevole agli Estensi, che era tradizionalmente legata alla politica francese. La parte "italiana" era guidata da Pierino Magnano, Tommaso Micotti e Bastiano Coiaio e aveva il suo braccio armato in diverse bande, fra le quali spiccava quella del Moro del Sillico e dei suoi fratelli. Altre bande armate invece erano all'interno della giurisdizione estense e sia nei territori di Firenze che in quello della Chiesa curavano gli affari delle fazioni più lontane. La parte "francese",

era altresì guidata dai Ponticelli e dai Sandonnini. Per ben capire, entrambi le parti agivano su diversi livelli, da quello puramente criminale a quello istituzionale, dove cercavano di ricoprire il più possibile cariche pubbliche attraverso una miscela di consenso e minacce. Di fronte ad un quadro generale così disperato non rimaneva che un'unica soluzione, repressione totale e così l'Ariosto scriveva:" Metter le mani addosso a' loro padri, fratelli e parenti, e non li lasciare che non diano sicurtà che non torneranno li malfattori nel paese. A quelli che non hanno padre, saccheggiare le case, e poi arderle e spianare, tagliar le viti e gli arbori (n.d.r.: alberi)e distruggerli loro luoghi, ch'ogni modo non si potria trovar chi li comprasse. Poi saria bene battere per terra tutti li campanili, o vero aprirli, di sorte che potessino dar ricorso alli delinquenti et similiter le  rocche che vostra eccellenza non vuol far guardare". Certo, il duca nascondeva questi malfattori nelle proprie fortezze e come fare allora se oltre a questo al povero governatore venivano negati anche i soldati per attuare questo drastico piano?:"Io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del Signore Nostro io possi accrescere le mie forze, per fare che almeno questi ribaldi abbian paura di
Fanti rinascimentali
me"
. La richiesta di fanti fu esplicita, peraltro molto più utili di quei solo dodici balestrieri che erano a disposizione, questi fanti nei terreni accidentati e nelle profonde gole garfagnine infatti erano i più adatti, ma non furono inviati negli uni e ne gli altri. Per l'Ariosto questa mutilazione della sua autorità fu un problema non solo politico ma anche umano, senza l'appoggio del duca la sua figura perdeva di valore, essendo così alla mercè dei fuorilegge. Il suo morale era quindi "sotto i tacchi", tanto che arrivò ad ipotizzare di fuggire di notte per trovare rifugio a Ferrara. Non lo farà, ma in una lettera del 15 gennaio 1524 fece come il suo predecessore Guido Postumo, la richiesta fu la medesima che il suo collega aveva fatto dodici anni prima:"Se vostra eccelenzia non mi aiuta a difender l'onor de l'officio, io per me non ho la forza di farlo; che se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubidiscano, e poi vostra eccellenzia li assolva, o determina in modo che mostri di dar più
La Rocca a Castelnuovo
dove abitava l'Ariosto
lor ragione che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l'autorità del magistro. Io vo' gridare a farne istanzia, e pregare e suplicare vostra eccelenzia che più presto mi chiami a Ferrara, che lasciarmi qui con vergogna"
.

Francesco Saverio Sipari (politico, poeta e scrittore del XIX secolo) parlando del brigantaggio in generale ebbe a dire che tale fenomeno si sarebbe esaurito con la rottura dell'isolamento delle regioni dimenticate, che in buona parte era dovuto dall'assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade, di ferrovie e sopratutto d'istruzione. Così fu per la Garfagnana, man mano che i secoli passavano la valle cominciò ad aprirsi al mondo e più si apriva e più i briganti sparivano. Così il libro vinse per sempre sullo schioppo...




Bibliografia 
  • Dalla corte alla selva e ritorno: Ariosto in Garfagnana La Garfagnana: relazioni e conflitti nei secoli con gli Stati e i territori confinanti. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca Ariostesca, 9 e 10 settembre 2017, a cura di G. Bertuzzi, Modena, Aedes Muratoriana, 2018

Garfagnana divisa e il dilemma delle carte da gioco...Perchè le "piacentine"? Come mai le "fiorentine"? E la storia dei giochi più famosi

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Sfido chiunque... In questi mesi di segregazione sociale dovuta alle note vicende, almeno una volta, almeno un giorno, sono convinto che dai nostri cassetti almeno una volta il mazzo di carte è uscito, magari per passare qualche momento di serenità familiare, forse per vincere la noia. Se si vuole è stato pure un passatempo per tenere impegnati i bambini, per insegnarli qualche gioco di carte, bene o male anche questo è un modo per preservare le vecchie usanze ed un momento in più da condividere con i più piccoli... Altro che playstation ! Certo quando si giocava a carte nelle osterie e nei vecchi bar garfagnini era un'altra cosa, d'altronde questo svago era uno dei pochi (o forse l'unico) che i nostri avi si concedevano. La sera dopo cena o nelle giornate di festa gli uomini si ritrovavano in questi "baracci", avvolti da nuvole di fumo denso delle sigarette, pronti a giocarsi il fiasco di vino in memorabili partite a briscola, tresette e magari anche a scopa. Per chi ha vissuto quei bar, nelle proprie orecchie saranno rimasti quel "fiorire" di moccoli che facevano tremare il crocefisso sulla parete, oppure quelle "bussate" vigorose sui tavoli che ti facevano sobbalzare sulla sedia e che dire poi delle urla e delle
arrabbiature per una giocata un po' troppo avventata del compagno? Ad ogni modo anche in questo campo la storia ha voluto dire la sua e questi giochi e le carte in genere (storicamente parlando)sono un passatempo piuttosto recente, la larga diffusione si è avuta tra il 1700 e il 1800 e anche qui la Garfagnana seppe differenziarsi... 
Come ben si sa di carte da gioco esistono varie tipologie che si suddividono per ogni zona d'Italia, ci sono quindi le carte napoletane, le bergamasche, le trevigiane, le siciliane, insomma regione che vai carte che trovi. Ma non crediamo però, che sia l'invenzione della carte da gioco che quella dei loro semi derivi da italiche pensate, tutt'altro, tutte queste carte "regionali" hanno la genesi da tre ceppi (principali) originari che sono ripartiti in
semi francesi
carte con semi francesi (cuori, quadri, fiori e picche), queste carte e questi simboli sono quelli più usati e quelli riconosciuti in modo internazionale, esistono poi le carte con semi germanici (ghiande, foglie, cuori e campanelli)e quelle con semi latini o per meglio dire spagnoli (spade, coppe, denari e bastoni). In Garfagnana, nonostante che la nostra valle sia piccola e poco abitata giochiamo con due tipi di carte. La parte
semi tedeschi
nord della valle gioca con le carte cosiddette "piacentine" (semi spagnoli) e la parte più a sud con le carte denominate "toscane"(semi francesi) e per spiegare questa stranezza e questa bizzarria bisogna appunto scomodare la storia, per chiarire il perchè queste carte
da Piacenza giunsero fino in Garfagnana. Ad onor del vero tali carte quel viaggio non lo intrapresero mai, non arrivarono infatti dalla ridente città emiliana, ma vennero con le truppe napoleoniche, quando nel 1796 giunsero nelle terre garfagnine. Difatti fra una cosa ed un altra i soldati francesi nel loro tempo libero giocavano ad un gioco di carte chiamato "Aluette"
semi spagnoli
(gioco di origine spagnola), questo divertimento era uno svago tipico delle zone contadine della Gironda e della Loira e si giocava proprio con carte con semi spagnoli(spade, coppe denari e bastoni)
È giusto pensare che l'uso di queste carte fosse già ben conosciuto dai francesi e che in Garfagnana, almeno all'inizio, non abbiano dovuto inventare un bel niente. Con un piccolo sforzo d'immaginazione si può considerare che i primi (soldati) giocatori che portarono le carte nella valle avranno dato vita ad animate partite, probabilmente in qualche osteria. Gli
Soldati che giocano a carte
spettatori, incuriositi dalla novità, si saranno prima limitati ad osservare i nuovi giochi e poco per volta li avranno imparati, diffondendoli a loro volta. I fabbricanti, ed ecco che entra in campo Piacenza, visto l'aprirsi di un nuovo mercato, le avranno copiate e adattate nei disegni, secondo la loro fantasia e l'iconografia del paese in cui venivano utilizzate. Per farla breve, questi soldati,
 le medesime carte  non le diffusero solamente in Garfagnana, ma anche nella Lombardia meridionale, nelle Marche, nell'Umbria, Lazio e sopratutto nelle province dell'Emilia e proprio a Piacenza la litografia Bertola ebbe occhio lungo e diversificò la sua produzione, cominciando a produrre anche carte da gioco (molto) simili a quelle che avevano importato i soldati di Napoleone, per questo poi con gli anni presero appunto la denominazione di carte "piacentine". Ben presto furono adottate in buona parte della Garfagnana, poichè affini a quelle di napoleonica memoria. Il discorso cambia se
Le prime carte piacentine
guardiamo alla bassa Garfagnana. Qui l'influenza di questi militari fu sentita molto meno, l'impronta toscana del vicino enclave fiorentino di Barga era molto più forte, tant'è che si manifestò proprio e anche sul gioco delle carte. Qui, giust'appunto si usavano carte puramente francesi, quelle con cuori, quadri, fiori e picche e a quanto pare si usavano già da un po' di tempo, tanto da considerarle già carte toscane o fiorentine (n.d.r: le fiorentine classiche sono di formato più grande in confronto alle toscane). A questo punto viene da domandarsi, perchè a Barga (fiorentina) e nei suoi dintorni (non fiorentini) si adottarono quel tipo di carte? Donare un mazzo di carte, creato per l'occasione di un matrimonio regale, per riempire le ore delle loro Maestà e al tempo stesso
Prime carte da gioco toscane
riprodurlo e metterlo in circolazione in tutto lo stato fiorentino, sarebbe stato sicuramente un bel gesto per ingraziarsi anche i favori del popolo, e a quello che sembra così fu e le occasioni furono molteplici visti i numerosi matrimoni fra la famiglia Medici e la nobilissima stirpe francese. Si cominciò nel 1533 quando Caterina de' Medici andò in sposa ad Enrico II re di Francia, si continuò con Ferdinando I de' Medici, nel 1598 convolò a nozze con Cristina di Lorena e ancora nel 1600 il terzo importante matrimonio franco- fiorentino fra Maria de' Medici ed Enrico IV di Borbone re di Francia anche lui. In pratica dal matrimonio di Ferdinando in poi la Toscana sarà amica della Francia e subirà il suo fascino (non solo nelle carte da gioco), fino all'avvento della casata dei Lorena nel 1737. 

Fra l'altro rimane il fatto che nemmeno i giochi tipici garfagnini
Giocatori di carte
 di Paul Cezanne
non hanno nulla dell'inventiva locale, nè regionale e nemmanco nazionale. La briscola ad esempio è francese, la parola "briscola" sembrerebbe derivi dal francese "brisque", che letteralmente significa "gallone". Il gallone era il grado indossato sull'uniforme dei soldati francesi che amavano passare il tempo giocando proprio a questo gioco. Il "tresette" ha origine spagnole risalenti al XVII secolo e così anche la "scopa". In Spagna era la "escoba", svago questo molto in voga fra i soldati iberici, contrabbandieri e pirati, che si giocavano il bottino conquistato, un pretesto per "ripulire" l'avversario.

Come abbiamo letto, tutto ciò non ebbe principio in Italia, ma in

men che non si dica la diffusione delle carte e dei loro giochi fu a dir poco rapida in tutto il Paese e vista la grande espansione  e popolarità lo Stato volle dire la sua...in che modo? Applicando sui mazzi di carte un bel bollo d'imposta. Nelle "piacentine" fino al 1972 era collocato sull'asso di denari, ed era posto sul ventre di quella bellissima aquila coronata, dapprima fu collocato sul quattro di denari, dove poi vi fu inserito lo stemma della città che aveva prodotto il mazzo. Nelle "toscane" il "privilegio" toccò all'asso di quadri. Ma le note negative purtroppo non finirono qui, si aggiunsero le lagnanze dei cosiddetti benpensanti che si lamentavano dei disordini che portavano questi immondi giochi:"Avviene in questa parrocchia, o sezione di Antisciana Comune di Castelnuovo che vendono acquavite anche senza i dovuti permessi,e, particolarmente in casa di uno, ove giocano alle carte e tante volte fino con disturbo e danno delle famiglie di ciascun giocatore, e alle volte hanno giocato anche in tempo delle

funzioni parrocchiali. Onde sono a pregare la bontà sua se emetterà avviso proibente la vendita dei liquori e parimente il giuoco delle carte"... Era il 1853, erano passati solamente cinquant'anni circa dalla loro piena fama, ed era già cominciata la dura vita delle carte da gioco.


Bibliografia:

  • "Usanze,credenze,feste e riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rosso, Banca dell'identità e della memoria anno 2004
  • "Il rosso e l'azzurro" di Euro Gazzei, Carlo Cambi editore, anno 2001
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