Quantcast
Channel: La Nostra Storia
Viewing all 339 articles
Browse latest View live

Gallicano 1929: una singolare storia di una squadra ciclistica...nata non per correre, ma per soccorrere

$
0
0
Tempi epici quelli di Bartali e Coppi, ciclismo di un'altra epoca,
La squadra ciclistica della Misericrdia
gallicanese davanti alla sede al gran completo
una sfida infinita fra le strade d'Europa. Al tempo la rivalità tra i due campioni era vista come una metafora per la suddivisione politica e sociale del paese, diviso tra movimenti di ispirazione laica, impersonati da Coppi, e d'influenza cattolica, che Bartali rappresentava con la sua devozione e i suoi riti della tradizione popolare. Quegli anni fra il 1940 e il 1950 furono il momento di maggior popolarità del ciclismo italiano, anche se a onor del vero già nei decenni passati l'Italia annoverava nei suoi ranghi ciclisti di tutto rispetto: Girardengo, Binda, Guerra. Era il tempo dell'Italia in bicicletta e qualcuno in Garfagnana seppe andare oltre, oltre all'evento sportivo, oltre alla rivalità, anzi in tal senso fu fatta un operazione che aveva pochi esempi in Italia, dove la bicicletta rappresentava non divisione (seppur sportiva) ma unione, solidarietà e soccorso.

Tutto nacque dalla fulgida mente di un gallicanese, il geometra
Cavalier Luigi Paoli Puccetti detto
"il signorino" creatore della
squadra ciclistica
Luigi Paoli Puccetti, presidente della Misericordia di Gallicano, che in data 8 ottobre 1929  istituì alle dirette dipendenze della Misericordia locale una squadra ciclistica... Una squadra ciclistica direte voi!? Una squadra ciclistica sportiva nata dalle mirabili gesta del famoso Binda? No! Questa squadra non aveva intenti sportivi ma bensì umanitari. Negli anni '20 la bicicletta rappresentava un mezzo veloce nelle impervie stradine dei paesi garfagnini, ancor peggio le dissestate strade non permettevano l'accesso ad eventuali mezzi di soccorso più grandi, ed ecco che il Cavalier Paoli Puccetti pensò di creare una squadra ciclistica ad hoc, nata allo scopo di accorrere prima di tutti nei luoghi del disastro o di infortunio per segnalare e nel caso effettuare i primi soccorsi d'urgenza. La squadra naturalmente aveva bisogno di avere alle sue dipendenze aitanti giovanotti, forti, dalla pedalata veloce, infatti il regolamento prevedeva che la formazione fosse composta da 12 uomini di età compresa dai sedici ai trent'anni. Fra le altre cose si ebbe l'idea che la squadra fosse ben riconoscibile a tutti e quindi bisognava dotarla di una divisa, che era composta da una maglia bianca con l'iscrizione in color nero "Misericordia di Gallicano", calzettoni neri e berretto alla Raffaella (n.d.r: il berretto prendeva il nome dal pittore Raffaello Sanzio: era un largo basco
Raffaello Sanzio
con il classico basco oggi
detto "alla raffaella"
come quello indossato dal pittore nei suoi ritratti), non mancava nemmeno il vessillo, che non era altro che un gagliardetto viola con lo stemma e con anche qui scritto "Squadra ciclistica Misericordia di Gallicano". Ovviamente c'era anche una scala gerarchica ben definita, composta da un capo squadra, un vice capo squadra, un porta gagliardetto, che veniva scelto fra coloro che l'anno precedente avevano accumulato un punteggio maggiore (n.d.r.: esisteva una tabella in cui venivano assegnati dei punteggi in base ai soccorsi fatti e alle presenze),inoltre c'erano due porta cassette, adibiti proprio al trasporto delle cassette di pronto soccorso. Il servizio era presente 24 ore su 24, tutti pronti a salire in sella in un raggio d'azione di mille metri dalla piazza centrale di Gallicano (Piazza Vittorio Emanuele II). Furono molti gli episodi d'intervento che videro questi stoici ragazzotti sempre in prima linea, molti sono i documenti d'intervento che attestano le loro operazioni, salvarono molte vite con il loro pronto soccorso, sopratutto nei luoghi di lavoro, nelle selve, nei campi, dove non arrivava la bicicletta i ciclisti della Misericordia erano pronti a prendersela in spalla e raggiungere l'infortunato. Nei casi più gravi come terremoti e incendi la totale formazione ciclistica con le loro biciclette era tutta mobilitata e tutti indistintamente dovevano compiere il loro dovere. Proprio per questa loro abnegazione, dalla gente di Gallicano erano considerati dei veri e propri angeli, degli eroi su due ruote, la loro presenza
La squadra ciclistica della Misericordia
in mezzo alla gente
in Piazza Vittorio Emanuele a Gallicano
era il fiore all'occhiello delle Misericordia e i ciclisti passavano in parata con le loro biciclette in tutti i raduni regionali delle Misericordie. Le biciclette non erano proprietà della Misericordia ma erano personali, dei ciclisti stessi, che le dovevano mantenere sempre efficienti e ben oliate pronte all'uso, la divisa come già ho detto era di proprietà dell'Associazione e proprio la divisa e lo sviluppo industriale che avanzava sancì la fine della gloriosa squadra ciclistica. Dopo 12 anni di servizio impeccabile il 23 novembre 1941 il plotone fu disciolto. Il consiglio direttivo approvò (dopo una relazione del suo presidente) di adoperare la lana delle maglie per fare indumenti da inviare sul fronte russo ai soldati italiani, ma non solo, il progresso avanzava e le prime auto ambulanze vere e proprie soppiantarono per sempre i valorosi uomini su due ruote.

La locandina della bellissima mostra

Post scriptum: Per chi fosse interessato ad approfondire ancor di più la storia della squadra ciclistica della Misericordia gallicanese, consiglio a tutti di visitare la bellissima mostra allestita nella locale sede dell'attuale Misericordia di Gallicano (situata in Via Serchio). Mostra di foto e cimeli, nata per i 150 anni dell'associazione, organizzata dall'Associazione culturale L'Aringo (di cui faccio orgogliosamente parte).

Storie di razzismo di garfagnini emigrati.

$
0
0
"Data la loro abitudine di trasferirsi nel paese che li ospita nei 
Vignetta america del 1901 ci definiva
"la fogna del mondo"
mesi invernali per poi tornare in patria in autunno, gli immigrati si caratterizzavano per una scarsa volontà di integrarsi nella società locale, fatto confermato dai bassi livelli di acquisizione di cittadinanza e di apprendimento della lingua locale".
Questo stralcio di documento non è preso da un rapporto del Ministero dell'Interno sulle orde di migranti che stanno raggiungendo le nostre coste in questi mesi, ma bensì è una relazione del Dipartimento della Sicurezza interna degli Stati Uniti d'America di inizi 1900, argomento trattato: l'emigrazione italiana...
Si, inutile nascondersi dietro ad un dito, una volta i discriminati razziali eravamo noi, o meglio, i nostri nonni e bisnonni che partiti dalla Garfagnana (e dall'Italia in genere) andavano a cercar fortuna in Paesi pronti ad accoglierli... ma questi Paesi, tanto
pronti non erano.

Prima di leggere testimonianze di garfagnini emigrati discriminati, la cui sola colpa era quella di essere italiano è bene che il mio caro lettore attraverso questo antefatto che andrò a narrare si faccia un'idea del contesto in cui si ritrovavano i nostri avi partiti dalla nostra amena (al tempo non troppo...) valle.
Il razzismo e i pregiudizi sugli italiani è bene chiarirlo subito accompagnavano i nostri compatrioti in tutto il globo, in qualsiasi terra in cui mettessero piede, dalle Americhe all'Australia e in tutto quel periodo storico che va dall'800 fino agli anni '70 del secolo passato. Su di loro pesavano un paio di secoli di stereotipi importati da decine di scrittori, letterati ed esimi professori che si erano recati nel nostro Paese in quello che in quel tempo era conosciuto come il "Grand Tours". "Grazie" dunque, anche a scrittori del calibro di Defoe, Shelley e Twain che fummo nell'immaginario 
Il tedesco Goethe definì l'Italia
"un paradiso popolato da diavoli
popolare d'oltralpe e d'oltreoceano subito marchiati a fuoco. Goethe definì l'Italia "un paradiso abitato da diavoli". Questo marchio fece ben presto il giro del mondo, quindi per gli altri eravamo come i vari scrittori ci avevano visto: sporchi, mendicanti e immorali, ma non era niente al confronto di altri tre preconcetti che costituivano il fardello che ogni singolo emigrante doveva sopportare: 
l'italiano era pericoloso socialmente, l'italiano è violento è un uomo dalla rissa e dal coltello facile, un po' come adesso noi vediamo gli immigrati provenienti dall'est Europa, fattostà che i nostri connazionali erano soprannominati nei paesi anglosassoni "dago", una storpiatura della parola "dagger"(coltello, pugnale). 
L'italiano è un terrorista: sovversivi ed anarchici per natura. Tale "bollo" accompagnò gli italiani sopratutto fra fine ottocento ed 
Luigi Luccherini
l'assasino della principessa Sissi
inizio novecento, sottoponendoli di fatto ad ogni tipo di controllo da parte delle autorità (immaginiamo grosso modo quello che succede oggi agli islamici in Italia), d'altronde ne avevano ben ragione, infatti in quel periodo gli anarchici italiani assassinarono: il presidente francese Sadi Carnot (1894), il primo ministro spagnolo Canovas del Castillo (1897), l'imperatrice Elisabetta d'Austria, la famosa principessa Sissi dei vari film, (1898)e il re d'Italia Umberto I (1900). 
Il terzo ed ultimo motivo ci accompagna ancora oggi...gli italiani sono tutti mafiosi...Fu un periodo quello di grande confusione sociale, l'opinione pubblica (specialmente americana) non riusciva più a distinguere tra minoranza criminale e una maggioranza onesta all'interno della comunità italiana. E' altrettanto innegabile che i bastimenti provenienti da Genova, Napoli e Palermo fecero sbarcare in America i Genovese, i Gambino, i Valachi e i Gotti.
Ma non finiva qui, c'era ancora un pregiudizio più grave nei 
Carlo Gambino uno dei più grossi
mafiosi d'America
confronti degli immigrati nostrali. Un motivo prettamente razziale. Esisteva difatti la convinzione che gli italiani non fossero del tutto bianchi, ma che avessero nelle vene quella che i razzisti americani chiamavano "la goccia negra". Quello che era ancora più grave, era che tutto ciò pareva supportato da un'analisi pseudoscientifica; all'esposizione universale di Buffallo nel 1901 (non alla fiera di Gallicano di settembre, per ben capirsi) venne elaborata una carta delle razze in cui venivano illustrate le diverse gradazioni di purezza biologica, insomma in tutto questo farneticare la razza italiana non era compresa fra quelle bianche, ma in un limbo situato fra i bianchi ed i neri. Tutto ciò farà si che i nostri emigrati furono i più maltrattati fra tutti gli immigrati nel suolo americano. 
Ecco, questo era il quadro che le migliaia di emigranti garfagnini si trovavano davanti e molti si troveranno suo malgrado in
spiacevoli storie di razzismo. La più delicata e fra le più clamorose testimonianze che ho raccolto riguarda Maria (nome inventato), partita dalla nostra valle negli anni 20 del 1900. Insieme al resto della famiglia raggiunse il papà che già era partito anni prima. La famiglia si stabilì in Alabama, la vita se vuoi era molto simile a quella della Garfagnana, l'attività che li prevalentemente si svolgeva era l'agricoltura e lo stile di vita campagnolo si addiceva  alla famiglia. Maria, dunque si invaghì di un giovanotto di colore- così ci racconta un suo parente- e dall'innamoramento a qualcosa di più "consistente" il passo fu breve. Peccato che in Alabama vigeva la legge della "miscegenetions", ovverosia il divieto di  mescolanza di razze fra bianchi e neri. Ci fu un processo che ebbe grossa rilevanza mediatica per il tempo, (il nostro testimone conserva ancora ritagli dei giornali americani del tempo), per farla breve l'uomo di colore riuscì a cavarsela poichè la ragazza con cui aveva avuto la relazione proibita era si americana, ma italiana di origine, dunque per il giudice: "non si poteva assolutamente dedurre che lei fosse bianca". Alla fine di tutto la famiglia garfagnina ritornò in Italia e il padre così disse: "meglio patire la fame che perdere la dignità".

C'è anche chi fu testimone di un fatto storico - razziale nei 
New Orleans la folla inferocita davanti
al carcere
confronti degli italiani. Alberico da Villa Collemandina emigrò negli Stati Uniti con una delle prime e forti ondate migratorie. Arrivò a New York e poi non si sa come raggiunge New Orleans- così racconta un bis- bis nipote-. Proprio in quel periodo a New Orleans fu ucciso il capo della polizia e a quanto pare oltre all'assassino (che era un italiano) furono arrestati altri 250 italiani. Il nostro Alberico che era presente in città in quel periodo si chiuse nella sua stanza d'albergo senza uscire, nè per lavorare, nè per mangiare, era cominciata di fatto una caccia all'italiano. La cronaca poi racconta che 11 di questi italiani furono assolti dal giudice, ma una folla fatta da migliaia di persone prese d'assalto il carcere dove erano ancora custoditi e dopo averli presi in consegna le uccise brutalmente, per molto tempo fu il più grave linciaggio della storia degli Stati Uniti. Alberico riuscì in qualche maniera a fuggire dalla città e raggiungere nuovamente New York, dove poi si stabilì definitivamente.
C'è ancora poi chi ricorda le paghe lavorative, Gianni veniva da
Ellis Island...prima di entrare italiani
negli Stati Uniti
 Castelnuovo e narra delle liste per le opportunità di lavoro sancite dallo stato (sottolineo lo stato) che erano divise per etnia "Bianchi 1,75$, neri 1,50$ e italiani 1,35$". Gli italiani prendevano meno dei neri, perchè si diceva che i neri erano arrivati prima- così racconta Gianni-, inoltre specialmente quando andavo a lavorare negli stati del sud degli Stati Uniti, spesso (dove sapevano chi ero) ero costretto a bere alle solite fontanelle dove bevevano gli uomini di colore.
Ma tutto questo non ci capitò solo nelle lontane Americhe, ma anche nella civile Europa (Germania, Belgio Svizzera) e non nel 1800, ma appena quaranta, cinquant'anni fa. Qui è difficile raccogliere testimonianze, che sicuramente ci sono e sono testimonianze dirette
di chi ha vissuto in prima persona queste brutte esperienze, forse la vergogna di quello che fu attanaglia ancora questi emigranti.

Eppure non fummo solo quello, nonostante le discriminazioni, gli stereotipi e i maltrattamenti, le nostre mani e il nostro lavoro ha fatto grande l'America e L'Europa e se dovessimo svegliarci una mattina e scoprire che tutti sono della stessa razza, credo e colore,- disse un giorno George David Aiken- troveremmo qualche altra causa di pregiudizio entro mezzogiorno...

Bibliografia:

  • MASSIMILIANO SANVITALE Quando essere Italiani era una colpa: razzismo, oltraggi e violenza contro i nostri immigrati nel mondo
  • Testimonianze orali

Garfagnana: i più curiosi mestieri di una volta...

$
0
0
Ambite o pericolose, ricercate e più spesso sottopagate, ma sempre
di pubblica utilità, sono quelle occupazioni, quei mestieri che in Garfagnana non si fanno più, lavori estinti e di cui forse non avete mai sentito parlare. Ogni anno nascono nuove professioni, mai immaginate e gli analisti fanno a gara per stabilire quale sarà la più ricercata o la più pagata. Lavori come lo sviluppatore di app o l'insegnante di pilates, cent'anni fa non esistevano ed erano ben lontani dall'essere previsti. Ma chi si ricorda invece di quelle professioni che sono scomparse dalla Valle del Serchio? Scalzate dalle tecnologie, dalle macchine e dal progresso? Ben pochi credo e men che meno i più giovani. Questo articolo infatti lo dedico in parte anche a loro, penso infatti che saranno le nuove generazioni i più curiosi di apprendere l'esistenza di tanti mestieri diversi, alcuni molto strani o addirittura incredibili, d'altronde in queste
righe è impossibile catalogare tutti quei lavori che il tempo si è "mangiato" e quindi mi limiterò a scrivere di quelle attività che ai ragazzi (e anche a me)risulteranno per lo più sconosciute.
"La fame aguzza l'ingegno" dicevano i nostri nonni e loro d'ingegno ne avevano tanto, difatti era un continuo reinventarsi di mestieri, dove esisteva una possibilità di creare o inventare un nuovo lavoro, loro trovavano il modo di crearsi anche un occupazione duratura. La maggioranza della gente in Garfagnana certamente era occupata nell'agricoltura, nella pastorizia e più avanti con l'avvento dell'industrializzazione il garfagnino occupò in massa la fabbrica, pur non dimenticando "il campo", gli altri lavori gravitavano però intorno a quella cultura contadina e arcaica tipicamente nostrale fino a 60-70 anni fa.
Uno di questi mestieri era il chiodaio. Eppure stiamo parlando di un banale chiodo, ne troviamo a migliaia dentro una ferramenta. Al
tempo però venivano realizzati esclusivamente a mano. Dalle nostre parti tale arte veniva sviluppata sopratutto verso le zone di Vergemoli, Fornovolasco e dintorni, che erano luogo di miniere di ferro, qui si poteva reperire facilmente la materia prima. Per fare (all'apparenza) questo insignificante oggetto bastavano pochi attrezzi: un'incudine, un martello e naturalmente una forgia. Per prima cosa si prendevano delle piccole verghe di ferro che venivano tagliate in tanti pezzi quanto era la lunghezza del chiodo desiderato, dopodichè venivano messi nella forgia in modo di arroventarli, una volta estratti venivano lavorati per dargli la forma voluta, a questo punto si procedeva in maniera di formargli la testa che poteva essere piatta o sfaccettata (a diamante), servendosi di una matrice che era nell'incudine (detta chiodaia). Ma si fa presto  dire chiodo, c'era chiodo e chiodo. Ecco che per fissare le lamine di ardesia sui tetti si adoperavano chiodi specifici, poi c'era il chiodo da ruote per fissare queste ai barocci e alla carrozze, inoltre esistevano i cosiddetti brocconi servivano per bloccare il cuoio alla sella dei cavalli, oppure i calderai, chiodo per riparare paioli e padelle, insomma ne esistevano un'infinità per gli usi più disparati... dimenticavo un altro tipo di chiodo in "voga" nel XIX secolo, era fatto di una pezzatura più piccola e serviva per caricare i fucili, i suoi effetti erano devastanti.
Quest'altro lavoro che sia sparito sono felice... lo scrivano era colui che scriveva le lettere o documenti vari per terze persone. Fino agli inizi del 1900 la Garfagnana aveva un livello di
analfabetismo al di sopra della media nazionale (che già quella era alta), perdipiù la necessità di scrivere lettere aumentò di pari passo con l'incrementarsi dell'emigrazione. Lo scrivano lo si poteva incontrare specialmente nei giorni di mercato, che (come oggi) con cadenza settimanale si svolgeva nei principali paesi garfagnini. Aveva il suo banchino solitamente nella piazza principale, pronto a scrivere per l'innamorato di turno appassionate lettere d'amore, oppure a leggere anche le notizie inviate per lettera del caro parente emigrato nelle lontane Americhe, non mancava nemmeno di redigere anche missive di notevole importanza. Lo scrivano nella scala sociale del tempo aveva un posto di rilievo, esercitava un lavoro di prestigio e si faceva pagare pure bene. Si può dire che fosse considerato genericamente un impiegato: ben vestito con giacca e camicia, indossava manicotti neri muniti di elastici alle estremità, in modo cosi di non sporcarsi l'immacolata camicia con l'inchiostro del pennino.
E sempre a proposito di analfabetismo un'altra professione sempre legata a questa piaga era colui che era impiegato
come banditore. Non ci facciamo ingannare dall'uso odierno che si fa
di questa parola, poichè al giorno d'oggi il banditore è colui che in un'asta fa determinare il prezzo di un determinato oggetto. Al tempo no, tutt'altro, il banditore era la persona che a voce rendeva pubbliche le ordinanze delle autorità comunali. Si annunciava per le vie dei paesi del comune al suono del tamburo o di una trombetta e se nel caso gli annunci fossero stati più di uno, intercalava gli stessi da uno squillo di tromba: - Udite, udite...per ordine del podestà- oppure- il signor sindaco avverte...- e oltre alle ordinanze annunciava anche l'inizio dell'anno scolastico, annunciava l'entrata in vigore della possibilità di pascolare, la denuncia di furti e il periodo per condurre il bestiame al pascolo dove vigeva l'uso dei beni civici. Nella Valle del Serchio gli annunci dei banditori venivano dati all'imbrunire, quando i cittadini rientravano dal lavoro nei campi. Le doti per fare questa attività non erano speciali, bisognava avere molto fiato e buone gambe per percorrere quelle accidentate strade. Questo mestiere ha avuto lunga vita, nacque nel medioevo e terminò quando imparammo tutti a leggere e a scrivere... 
Avete mai notato nei nostri centri storici sui quei palazzi antichi
quei meravigliosi portali di pietra? Sopra ci sono scolpiti stemmi nobiliari e non solo, e che dire poi di quei bellissimi davanzali? E delle cornici delle finestre e le soglie delle porte? Tutto opera dello scalpellino,ovverosia colui che finemente cesellava, scolpiva e modellava queste pietre di granito che armonizzavano e davano quel tocco in più ai palazzi e alle case. Naturalmente anche qui si usava pietra più o meno pregiata in base alla disponibilità economica del cliente. Il culmine di questo lavoro in Garfagnana lo si raggiunse in epoca rinascimentale, quando l'arte del bello cominciò ad avere la sua importanza. Gli attrezzi dello scalpellino erano specifici e personalissimi, c'era una squadra per misurare gli angoli, una serie di scalpelli perfettamente affilati, mazze e mazzette. Ma l'arte di questo mestiere non si limitava ai soli infissi esistevano manufatti per la cucina: mortai, pestelli e perfino gli stessi lavandini di pietra
che oggi ammiriamo tanto nelle vecchie case.
E a proposito di case, una volta nei paesi, al di fuori delle abitazioni, nella pubblica via, venivano posti e fissati al muro delle lanterne che avevano il compito di illuminare la strada, facendo poi la funzione degli odierni lampioni . L'elettricità d'altronde in Garfagnana arrivò molto tardi, figuriamoci che in alcuni sparuti paeselli negli anni 60 del 1900 la corrente elettrica non era ancora giunta ed a far luce nelle stradine interne dei borghi c'erano ancora questi antichi lampioni che funzionavano ad olio, ed accenderli (e a spegnerli) c'era il lampionaio,lui era un
dipendente comunale ed aveva un ruolo di fondamentale importanza per tutta la comunità, lo si poteva notare perchè abitualmente aveva una giacca color turchino e un berretto municipale in testa, segno inconfondibile era la lunga pertica che aveva sempre con sè e sulla cui estremità era fissata una speciale lampada munita di gancio, questa gli consentiva senza l'aiuto di scale di aprire dal basso verso l'alto lo sportellino della lanterna e accendere la lampada, altro compito del lampionaio era quello di regolare lo stoppino della lanterna e approvvigionare l'olio all'interno di esse. E la mattina? Sempre il solito lampionaio si prendeva la briga di spegnere i lampioni al sorgere del sole...
Ma non esistevano solo lavori prettamente maschili come quelli che qui abbiamo letto, esistevano lavori anche esclusivamente femminili, talvolta più duri di quelli maschili. Il classico esempio era il mestiere della lavandaia, un duro lavoro,le mani costantemente a contatto con l'acqua del Serchio, al tempo non c'erano lavatrici ne tantomeno l'acqua nelle
case, bisognava andare al fiume o nei torrenti di acqua gelida a lavare i panni, sia d'estate che nei freddi inverni, ma se si vuole il disagio peggiore non era nemmeno questo, la vera sofferenza era stare costantemente piegate sulla riva, protese in avanti sui precari sassi a insaponare, sciacquare e strizzare i panni, ore e ore in ginocchio, la brutta postura portò a soffrire di quel classico processo infiammatorio meglio conosciuto come "il ginocchio della lavandaia". Questa occupazione veniva svolta dalle donne del popolo presso le famiglie benestanti del paese e presso le famiglie in cui la donna di casa era ammalata, si dice che principalmente questo lavoro fosse svolto da donne sole, gli uomini non permettevano che le loro mogli mettessero le mani nei panni sporchi di altre persone, ma in caso di necessità anche le maritate non esitavano a mettersi al servizio delle signore del paese per portare soldi alla propria famiglia. Anche per questa attività non serviva un'attrezzatura particolare, ma semplicemente dell'olio di gomito
il lavatoio di Campolemisi
(Fabbriche di Vergemoli)
e...della lisciva. La lisciva era il detersivo del tempo che fu, fatta di una soluzione di acqua e cenere che faceva diventare bianco, morbido e profumato il bucato, per i garfagnini era meglio conosciuta con il nome di "ranno". Per fortuna con il passar dei secoli la situazione dalle lavandaie migliorò, sul finire del 1800 anche in Garfagnana comparvero i primi lavatoi, costruzione coperte, dotate di vasche capienti e che permettevano sopratutto alla donna di lavare in posizione più o meno eretta.

Di lavori, mestieri e occupazioni ce ne sarebbero ancora tanti da
narrare, ma credo che,con queste poche righe di aver reso un omaggio
a tutte quelle generazioni che hanno svolto questi antichi mestieri, che hanno operato e vissuto nel buio le loro fatiche quotidiane e che per mezzo di questo modesto articolo voglio far riemergere, non facendo così perdere la coscienza della propria esistenza. 


Bibliografia:

  • Antichi mestieri della montagna italiana (Leonardo Ansimoni 1980 stampato in proprio)
  • I mestieri legati al primato della mano dell'uomo (mestieri artigiani . Associazione TRACCE DEL TEMPO)




Quale fu la sorte dei Liguri Apuani dopo la deportazione nel Sannio? Una fine che nessuno avrebbe mai immaginato...

$
0
0
Sinceramente non ne capisco molto...anzi nulla..: genetica, D.N.A,
Guerriero di Casaselvatica
 (Berceto,Parma)
cromosomi e "diavolerie" varie... ma facendo due "calcoli" per approssimazione(molta), e conoscendo un po' di storia posso affermare che nelle nostre vene del tanto sbandierato sangue apuano ce n'è ben poco. Ci sentiamo orgogliosi discendenti del fiero popolo dei liguri apuani, 
i primi veri abitanti della Garfagnana che qui si insediarono già dall'età del ferro e che più volte respinsero gli attacchi della potente Roma, ed è giusto così per l'amor di Dio, ma io credo, a mio modesto avviso, che nelle maggior parte di noi, nelle nostre vene scorra anche e sopratutto il sangue di quei coloni romani che presero possesso di queste terre dopo la deportazione degli Apuani stessi. Perchè se dovessimo cercare il D.N.A di un apuano, forse non lo troveremo solo in Garfagnana e in Lunigiana, ma sicuramente nella provincia di Benevento e Avellino precisamente seguendo il Regio Tratturo Pescaseroli-Candela che attraversa i territori di Morcone del Sannio, Circello e Reino. Non è una favola, ma una cruda realtà intrisa di sangue... e in effetti qualcuno poi quel sangue l'ha cercato veramente... È di questi ultimi anni la pubblicazione di uno studio genetico su alcune popolazioni italiane: "Linguistic, geographic and genetic isolation: a collaborative study of italian populations"  che afferma che sono state fatte analisi genetiche che paragonano la popolazione attuale di Vagli (zona di stanziamenti apuani)agli abitanti di Circello nel beneventano,
La campagna di Circello
 (Benevento)
(luogo di arrivo dopo la deportazione). Ebbene si, analizzando il DNA Y e mitocondriale delle linee maschili e femminili si è visto che i risultati sono in accordo con una storia genetica delle due comunità , secondo il modello LLM (Ligures Legacy Model). La conclusione dello studio è che non si può affatto escludere che gli abitanti di Circello siano in effetti (almeno in parte) discendenti degli apuani. 

Insomma, tutta questa intrigante teoria per continuare a raccontare quello che capitò agli antichi garfagnini dopo la deportazione nel Sannio. Già scrissi tempo fa un interessante articolo sui tristi fatti che portarono all'esilio di questo indomito popolo (per chi lo volesse leggere clicchi qui: http://paolomarzi.blogspot.com/la-tragica-deportazione-di-un-popolo.html)... ma dopo che successe? Come se la passarono questi guerrieri? Cosa capitò a questa gente? Fecero la pietosa fine degli Indiani d'America? O la sorte fu più benevola nella lontana Campania? Analizziamo quello che fu secondo alcuni esimi studiosi.
"I Liguri prima che i consoli arrivassero non si aspettavano affatto
di dover riaprire le ostilità e, colti di sorpresa, si arresero in circa dodicimila.Cornelio e Bebio, dopo aver sentito l’orientamento del senato tramite lettere, decisero di farli scendere dalle montagne nella pianura, molto lontani dalle loro sedi, per intercludere loro qualsiasi prospettiva di ritorno...I romani possedevano una porzione di agro pubblico in territorio sannita, che era appartenuto ai Taurasini. Era lì che volevano trasferire i Liguri Apuani e a questo scopo bandirono un editto che li obbligava a scendere dai monti con le mogli e i figli portando con sé ogni loro bene. I Liguri più e più volte scongiurarono Bebio e Cornelio per mezzo di loro legati di non essere costretti a lasciare i loro penati, la patria in cui erano nati, i sepolcri degli antenati e si impegnavano a consegnare armi e ostaggi. Non ottennero nulla e, d’altra parte, non avevano le risorse per riaprire il conflitto e così finirono per obbedire all’editto". Così lo storico romano Tito Livio racconta il momento della resa totale dei Liguri Apuani. Era l'inizio della primavera del 180 a.C, l'inizio della fine dei Liguri Apuani. La deportazione assunse dimensioni bibliche e quello che infatti salta subito
all'occhio sono i numeri. Per alcuni storici prudenti la cifra di quarantamila deportati riportata da Tito Livio sarebbe comprensiva di donne e bambini che a quanto pare corrisponderebbe alla cifra di dodicimila guerrieri arresisi. Altri però parlano di numeri ben più impressionanti come lo storico Jhon Briscoe che nel passo in cui Tito Livio scrive"...cum feminis puerisque..."dice che non si può intendere con donne e bambini, ma bensì "insieme alle loro donne e bambini", ecco che allora i numeri si moltiplicherebbero raggiungendo la spaventosa cifra di centoventimila unità. 
Ma non finì qui, l'ultima stoccata ad ogni resistenza apuana fu data poi nello stesso anno da il console romano Fulvio Flacco, da Pisa marciò con due legioni dai Liguri Apuani che abitavano nella zona del fiume Magra, dove costrinse alle resa altri settemila uomini. 
L'impresa più grande dei proconsoli romani Cornelio e Bebio però doveva ancora cominciare, c'era da trasferire questa moltitudine di persone attraverso buona parte d'Italia, un' impresa epica a cui era impossibile sottrarsi, era evidente che senza sorveglianza militare la mesta colonna degli Apuani si sarebbe assottigliata, per non dire proprio dissolta, senza considerare poi il fatto della possibilità di mettere in pericolo i territori attraversati. Per gli Apuani catturati presso il fiume Magra la loro sorte fu diversa, la loro deportazione fu effettuata via mare, furono fatti salire su navi
romane e sbarcati a Napoli. A dare la misura dell'impressionante sforzo logistico di tale esodo basta fare un raffronto con quello che fu poi la colonizzazione romana nelle terre di Garfagnana, Lunigiana e dintorni, a spostarsi infatti furono (secondo lo studioso Cornell) 71.300 maschi adulti nell'arco di settant'anni (fondatori di diciannove colonie), al massimo in una volta sola si trasferirono seimila famiglie...
Intanto nel lontano Sannio si stava preparando tutto per accogliere i nuovi abitanti, il senato inviò in quei luoghi una delegazione che presiedesse alle assegnazioni delle terre, in più fu stanziata una somma pari centocinquantamila denari perchè nelle nuove sedi gli Apuani potessero procurarsi tutto il necessario per vivere. Su questa presunta benevolenza romana si sono sviluppate interessanti tesi che clamorosamente dicono che non fu deportazione, ma bensì un semplice trasferimento frutto di una trattativa diplomatica fra romani e Apuani. La teoria è avanzata dal professor Alberto Barzanò, ricercatore di storia romana nonchè docente dell'Università cattolica del Sacro Cuore, che asserisce che le parole di Tito Livio (quelle qui sopra riportate) non sono altro che da considerarsi una manipolazione letteraria del tempo, per meglio capirsi tutto fu scritto per rendere esclusivamente gloria ai due proconsoli Bebio e Cornelio, poichè ci sono alcuni fatti che non
Mappa stanziamento
 apuano nel Sannio
coincidono con quello che era la realtà romana del tempo, infatti la distribuzione delle terre agli Apuani fu gestita nello stesso modo che era riservato ai cittadini di Roma, ma non solo, la ragguardevole cifra di denari stanziata dal Senato per avviarsi a una nuova vita 
-sarebbero concessioni strabilianti- così afferma l'illustre professore, che continua dicendo che- è probabile che i trasferiti (n.d.r: non i deportati)non fossero poi così scontenti della loro sorte- ed effettivamente due erano le ragioni che allettavano particolarmente gli antichi "garfagnini" e cioè la possibilità di arruolarsi nelle file dell'esercito romano, d'altronde loro erano guerrieri abituati a vivere combattendo, per di più la paga sarebbe stata anche superiore a quello di un soldato romano, a sostegno di questa teoria il IV libro di Polibio (storico greco)dice che -mentre agli alleati la razione di grano era concessa, gratuitamente, ai romani il questore ne scalava il prezzo dalla paga- questa distinzione esisteva perchè la scelta di fare parte dell'esercito di Roma (per quelli che non erano cittadini dell'Urbe) era una scelta volontaria e quindi considerata come professione, pertanto retribuita maggiormente. L'altro motivo consolatorio di questa
deportazione-trasferimento fu la concessione di terre migliori, adatte a raccolti agricoli di tutto rispetto.
In conclusione quella che per i nostri Liguri Apuani sembrò una mezza vittoria o per meglio dire un appagamento, la storia con i secoli dirà che fu un ennesimo trionfo romano, diplomatico, strategico e sopratutto finanziario. Non so quindi dirvi se fu realmente trasferimento o deportazione (com'è dibattuto fra storici di tutto rispetto), quello che posso analizzare sono i fatti. I romani nel 180 a.C fecero arrendere gli Apuani con "nullo bello gesto", ovverosia senza aver condotto nessuna battaglia, inoltre gli illusi Apuani finirono nel tempo per diventare veri e propri cittadini dell'impero, per sempre cessò la loro vita di guerrieri liberi dal momento che erano entrati a far parte di uno Stato vero e proprio con obblighi militari e sopratutto obblighi fiscali (le tasse romane erano salatissime!). La vittoria romana fu di conseguenza doppia, essi non si comportarono come gli sciocchi americani che rilegarono gli indiani nelle riserve
lasciandoli a sopravvivere o a vivere di stenti, tutt'altro, da una parte le terre liberate dal nemico (Garfagnana e Lunigiana) furono occupate da nuovi coloni pronti di conseguenza a pagare nuove tasse, dall'altra il nemico fu trasformato in "amico" rendendolo cittadino a tutti gli effetti e se da una parte aveva dei sacrosanti diritti, dall'altra come gli altri cittadini sarebbe stato pronto anch'esso a combattere per la gloria di Roma, ma sopratutto pronto a pagare ennesimi e salati tributi...



Bibliografia:

  • "Ab urbe condita" Tito livio
  • Marginalità ed integrazione dei liguri apuani: una deportazione umanitaria?" Jhon Thornton 1992
  • "Linguistic, geographic and genetic isolation: a collaborative study of italian populations"

Il delitto Pascoli: intrighi, poesia e il "nido" di Castelvecchio

$
0
0
Da uno schizzo di Giovanni Pascoli
"La cavalla storna"
"...Tu non sai, poverina; altri non osa. 
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:
esso t'è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t'insegni, come...
...Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome...Sonò alto un nitrito"
Questi sono gli ultimi versi di una delle poesie più belle e famose della storia della letteratura italiana, questi sono i versi de "La cavalla storna". Giovanni Pascoli scrisse questa lirica nel 1903 in riferimento all'assassinio del padre Ruggero avvenuto il 10 agosto 1867, fu ucciso sul suo carro, sulla strada di ritorno verso casa, quando Giovanni aveva appena dodici anni. Le parole di questo componimento sono piene di angoscia e di strazio. La madre del poeta si rivolge alla cavallina che trainava il calesse quasi fosse un essere umano, cercando di scoprire nei suoi occhi chi avesse ucciso il marito, lo spaventato animale infatti è l'unico testimone dell'assassinio di Ruggero e le parole della madre alla cavalla vengono fuori in un crescendo di tensione emotiva. La rivelazione
"Mia madre alzò nel silenzio un
dito/disse un nome,
sonò alto un nitrito"
finale è scioccante, l'animale al nome presunto dell'assassino pronunciato dalla donna emette un nitrito agghiacciante...

I fatti si svolsero lontani dalla Valle del Serchio, eravamo in terra di Romagna e più precisamente sulla via Emilia, nel tragitto che va da Cesena a San Mauro. Eppure questo tragico evento con ogni probabilità fu quello che spinse il poeta nella nostra valle, alla ricerca di un nuovo e ritrovato nido familiare, che lo porterà proprio a Castelvecchio, tra i nostri monti, lontano da amari ricordi e dai probabili sicari del papà e dove potè mimetizzarsi con la sua amata natura in un luogo tranquillo dove ricostruire con la sorella Mariù e il fido cane Gulì un mondo sgretolato dal traumatico assassinio del padre. 
Lasciare per sempre la propria casa e la propria terra per chiunque sarebbe difficile e fu così sicuramente anche per il Pascoli. La motivazione come avete letto fu forte e sofferta, per quello che il tempo considerò uno dei misteri d'Italia, dal momento che il movente e le responsabilità dell' omicidio ancora oggi non sono del tutto chiari.
Per comprendere meglio l'arcano guardiamo prima chi era Ruggero
Ruggero Pascoli
Pascoli, quello che a oggi è considerato il padre più famoso della letteratura italiana. Ruggero nacque nel 1815 e nel 1855 divenne amministratore del latifondo dei Torlonia, l'uomo era impegnato politicamente, negli anni giovanili la passione politica lo portò a far parte della Repubblica Romana, tanto da diventare Capitano della Guardia Civica nel comune di San Mauro, il fallimento di questa esperienza fece calare su di se alcuni anni di oblio, per poi farlo ricomparire sempre nell'amministrazione comunale di San Mauro, prima come sindaco, poi assessore e poi come consigliere, tutto questo dal 1859 al 1867, anno della sua morte. Nella veste di amministratore delle proprietà dei Principi Torlonia, lo zelo, lo scrupolo e l'onesta contraddistinguevano il suo lavoro. 

Quel fatidico 10 agosto 1867 Ruggero si recò sul suo calesse alla

stazione di Cesena, da Roma sarebbe dovuto arrivare l'ingegner Petri, uomo dei Torlonia che avrebbe dovuto rendere ufficiale la sua nomina di amministratore. Il Petri non arrivò mai... tornando a casa senza l'uomo, sul tragitto di ritorno fu ucciso da una sola schioppettata sparata da dietro una siepe, lungo la via Emilia a circa due chilometri da casa. Alcuni abitanti del paese intercettarono la corsa della cavalla storna ormai senza guida con sopra il corpo senza vita di Ruggero. Probabilmente il suo corpo era ancora caldo quando a San Mauro cominciarono a girare le prime voci sul movente e i colpevoli dell'omicidio, anche gli stessi familiari si erano fatti un'idea: "il perchè del delitto stava nella bramosia di succedergli e di diventar ricco, dove a Ruggero Pascoli bastava restar galantuomo", queste sono le parole del Pascoli in una lettera del 1912. La morte del capofamiglia portò con sè la rovina economica di
Ruggero e tre figli.
Giacomo,Luigi
e Giovanni
tutto il nucleo familiare, la mamma Caterina e i suoi figli furono cacciati senza una lira dalle proprietà Torlonia. Da quel momento fu un susseguirsi di disgrazie e morti, negli anni immediatamente successivi si spensero, prima la sorella Margherita, la madre e altri due fratelli, Luigi e Giacomo. Nella testa di Giovanni la morte del padre fu la causa della morte degli altri fratelli: -tutta la famiglia fu spezzata, mia madre morì un anno e poco più dopo, tre fratelli più grandi di me morirono a non molta distanza-.

Nonostante le mille traversie affrontate l'obiettivo era dunque fare chiarezza su quello che secondo Giovanni avrebbe principiato tutte queste infelicità. Stando alla vox populi il mandante dell'assassinio era Pietro Cacciaguerra, un ricco possidente di un paese vicino: Savignano. La sua mira era quella di succedere nella gestione del latifondo Torlonia, posto che poteva garantirgli lauti guadagni se non fosse stato svolto in maniera limpida. I poliziotti fecero indagini superficiali e perdipiù fatte male, quasi non si volesse far luce sull'assassinio,
San Mauro Pascoli
per le autorità il delitto era ascrivibile a uno dei tanti fatti di sangue che travagliavano la Romagna post-unitaria, legato alle speculazioni del grano da parte dei proprietari terrieri. Fra le altre ipotesi fu fatta anche quella collegata al contrabbando di sale, forse era stato ucciso da qualche contrabbandiere, perchè impediva a loro di attraversare la tenuta. La più interessante fra tutte queste ipotesi rimane il movente politico (che la famiglia sempre scartò)che voleva punire un uomo che nel passato era un fervente e acceso repubblicano, ma che non esitò a passare nelle fila del neonato governo monarchico. Un traditore insomma...e in Romagna non c'era accusa più infamante che essere un traditore. A quanto pare questa accusa si lega a filo doppio con il Cacciaguerra, che usò come pretesto per alimentare una campagna diffamatoria, basando l'omicidio su moventi ideali e politici. Spieghiamoci meglio; il presunto mandante era pure lui un convinto repubblicano e come lui
La tenuta Torlonia
da questo partito venivano i due (presunti) killer: Luigi Paglierano (colui che sparò)e Michele della Rocca. Non fu quindi difficile aizzare gli animi dei compaesani contro colui (Ruggero) che in qualità di amministratore di un grande latifondo svolgeva incarichi a dir poco impopolari: l'escomio (n.d.r.: disdetta di affitto notificata ad un colono o a un mezzadro) o denunciare giovani alle autorità in età di leva, per questo motivo questa specie di "affamatore" doveva essere punito. Quello che non sfuggì a nessuno è che poco tempo dopo il crimine il Cacciaguerra prese posto come nuovo amministratore dei Torlonia, la cosa lasciò sbigottiti un po' tutti...ma in fondo questa sbigottimento era solo di facciata... Lo stesso Pascoli alcuni anni dopo in una pesantissima lettera ad un amico fece un quadro completo di quello che era il clima di quegli anni in Romagna: "La polizia seppe, probabilmente, tutto; ma non
Oggi nel Luogo esatto
dell'assassinio di Ruggero Pascoli
volle approfondire. In Romagna c'era allora uno spirito di setta, dall'apparenza politica e dalla sostanza delinquente, volgare, che era tal quale è la mafia, se non peggio. La polizia volle che l'orribile delitto rimanesse impunito. E così è rimasto. Quando giunto a una certa età, volli scoprire qualche cosa io, trovai tutte le tracce disperse, tutte le voci confuse; trovai, è spaventoso dirlo, la polizia nemica, complice postuma. E rischiai la prigione io"
.

Come detto le indagini furono condotte male e quel poco fatto si andò ad infrangere con la bocca chiusa dei sanmauresi. Nel corso
La bozza originale
de "La cavalla storna"
 a Castelvecchio
degli anni furono fatti tre processi farsa che naturalmente portarono al proscioglimento degli imputati. Il presunto mandante in questi tre processi non fu mai chiamato alla sbarra, nemmeno come testimone. Nel 1916 per decreto luogotenianzale gli incartamenti dei processi e delle indagini furono mandati al macero...

Oramai la famiglia Pascoli era isolata da tutto il resto della comunità, il silenzio omertoso dei sanmauresi dell'epoca era doloroso e frustrante. Per quello che rimaneva della vasta famiglia di Giovanni la paura la faceva da padrona, il timore di ritorsioni era tangibile, per il Pascoli fu chiaro che era arrivato il momento di cambiar aria. Il caso fece il resto. Giovanni era alla ricerca di una casa, un buen ritiro lontano da tristi ricordi e il caso di cui sopra detto ci mise lo zampino. Tutto nacque nel periodo in cui il poeta era insegnante a Livorno, due amici,  Giulio Giuliani di Filecchio (insegnante ad un liceo di Pisa) e Carlo Conti (amministratore di un collegio di Livorno) gli consigliarono di dare un'occhiata ad una casa che era proprio dalle loro parti e che forse avrebbe fatto il suo caso. Si recò così per la prima volta a Castelvecchio nel mese di
Castelvecchio. Casa Pascoli
settembre del 1895 a visitare una villa settecentesca di proprietà della famiglia Cardosi-Carrara. Al tempo non era facile raggiungere la nostra valle, la ferrovia si fermava a Lucca e il Pascoli si fece ben cinque ore di carrozza, ma ciò non importava, anzi era proprio quello che cercava. Ad ottobre del medesimo anno Giovanni con la sorella Mariù si trasferì a Castelvecchio, non scelse un giorno a caso, scelse il 15 di ottobre, il giorno della nascita di Virgilio, suo modello di poeta. Pascoli scelse quel giorno come sua seconda nascita, un nuovo inizio.


Bibliografia

  • "La cavalla storna" Giovanni Pascoli (Canti di Castelvecchio) Zanichelli 1907
  • "Il delitto Pascoli, fra storia e poesia" di Alice Cencetti . Aprile 1912

Il cammino della storia: sentieri di guerra garfagnini, oggi sentieri di pace

$
0
0
La seconda guerra mondiale le oltraggiò, le sfregiò e ne deturpò la
Panchina Monte Rovaio
(Daniele Saisi Foto)
sua candida bellezza. Le Alpi Apuane fino a quel momento erano un oasi di pura natura incontaminata, una concordia di elementi: i suoi boschi, le sue aguzze vette e la sua umile gente, quei contadini e quei pastori garfagnini che su queste montagne trovavano il sostentamento per vivere. Da molti era definito l'Eden in terra. Di queste montagne se ne accorse la poesia per bocca di poeti come D'Annunzio:"...ecco s'indora d'una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella ahime, come in quest'ora ultima, o Pania"e prima ancora Ludovico Ariosto che affermava:" La nuda Pania tra l'Aurora e il Noto, da l'altre parti il giogo mi circonda che fa d'un pellegrin la gloria noto" . Ma finì anche il tempo della poesia, del bello, del buono, ma finì sopratutto il tempo della pace. Le acque dei torrenti apuani si cominciarono a tingere di rosso sangue in quel fine estate 1944, il rumore pacifico delle foglie scricchiolanti sotto i piedi fu sostituito dal crepitio dei mitra MP 40 tedeschi, il soave vento fu rimpiazzato dai roboanti Thunderbolt americani, vere e proprie fortezze volanti. Il fronte si attestò proprio li, sulle Alpi Apuane per ben nove mesi, in quel tratto di terra che diventerà conosciuta a tutti come Linea Gotica (per saperne di più leggi: http://paolomarzi.blogspot.com/conosciamo-lalinea-gotica.html). Un fronte di guerra che toccava la sponda di due mari, il Mar Tirreno e il Mar Adriatico. Teatro di guerra, di battaglie
foto Associazione Culturale
 Italia Storica
cruente e di morte, questo era diventata la nostra terra.

Ma nonostante tutto, qualcuno in quei terribili mesi seppe guardare oltre; era l'inverno del 1945 e un corrispondente di guerra americano scrisse così: - Sono nel posto più bello del mondo-; i suoi connazionali avevano fallito da poco un incursione per sfondare la linea, eppure malgrado il tentativo fallito, la sconfitta, la sofferenza per le vite perdute, la penna sensibile di quel giornalista trovò una consolazione che solo la bellezza di un paesaggio come le Alpi Apuane poteva restituire davanti a -quell'arco di stupende montagne-. Fu per questo tragico evento che per la prima volta in assoluto le Panie si mostrarono al mondo intero. Fu un crogiuolo di persone di ogni razza e nazione a presentarsi di fronte all'imponenza delle nostre montagne: i brasiliani della F.E.B, gli afro-americani della 92a Divisione Buffalo, i Gurka nepalesi dell'8a divisione britannica e alle truppe di montagna tedesche della 148a. Questo primo incontro fu l'occasione per questi soldati di
92a Divisione Buffalo
svelare questi monti alla conoscenza dell'intero pianeta e sebbene la morte, il dolore e la sofferenza regnasse, rese comunque consapevoli tutti del valore estetico delle Alpi Apuane, non importava da che parte si fosse, non importava essere nazisti o americani, la bellezza in questo caso rimaneva un valore universale.

Ed era proprio su questi fitti sentieri di queste montagne, nati per collegare i paesi, i casolari e di li ancora ad altri tratturi, ad altre mulattiere che portavano nei boschi e nei luoghi di pascolo, che questi percorsi divennero improvvisamente la via privilegiata per attacchi, ripiegamenti, divennero luoghi di difesa in un connubio di morte e di vita. Oggi questi sentieri esistono ancora e fanno parte della nostra memoria storica: viottoli, stradine, trincee e bunker sono ancora visibili sulle cime delle Apuane che si aprono a panorami mozzafiato, ma non occorre nemmeno arrampicarsi tanto per sublimarsi davanti a tanta bellezza. Ecco allora che questo articolo vuol far conoscere questi sentieri che sono tornati ad essere percorsi di pace, vuole portare il lettore a fare una passeggiata nella memoria. 
Oggi questi percorsi sono chiamati "Sentieri di Pace", una bella pubblicazione del Parco regionale delle Apuane ne identifica ben sette in tutto il comprensorio apuano, io mi occuperò in questo articolo di farvene conoscere due, e cioè di quelli che ho conoscenza personale e quelli che sono legati maggiormente al territorio della Valle del Serchio.
Qui siamo sui passi del Gruppo Valanga, la famosa formazione
Sentiero della Libertà
partigiana garfagnina, e già il nome di questo percorso ad anello ci spiega di cosa stiamo parlando:"il sentiero della libertà". Questi luoghi furono testimoni dello scontro impari fra partigiani e truppe da montagna tedesche superiori in numero ed armi. Il punto di partenza di questa passeggiata è il Piglionico(raggiungibile da Molazzana), appena si arriva a ricordare gli eventi c'è una cappellina dedicata al comandante del Valanga Leandro Puccetti, caduto insieme ad altri partigiani nella famosa battaglia del Monte Rovaio: era il 29 agosto 1944 la formazione partigiana difendeva e presidiava la zona delle Panie, strategicamente importante per i lanci di armi e viveri da parte degli alleati. Per percorrere i sentieri e visitare i luoghi della battaglia bisogna imboccare il sentiero C.A.I n 138 e di li salire fino Colle Panestra (qui siamo 998 metri S.L.M), lo storico villaggio al tempo rappresentava l'insediamento più popolato intorno al Monte Rovaio, le case che ci sono ancora oggi sono tipiche degli
Colle Panestra
(Daniele Saisi Foto)
alpeggi e usate saltuariamente dai proprietari, lo spigolo roccioso dov'è situata la località è chiamato Nome del Gesù. Di qui il percorso esce dalla sentieristica del C.A.I, bisogna quindi proseguire verso sinistra e fiancheggiare la sponda occidentale del monte. Il percorso è agevole fino ad arrivare a Trescola, luogo dove abitava "Mamma Viola", la donna accolse e accudì i ragazzi del Gruppo Valanga mettendo a disposizione casa, stalla e i viveri, consapevole del pericolo che stava passando nel caso in cui fosse stata scoperta dalle forze germaniche. Oggi una lapide sulla parete della casa ricorda le
Lapide sulla casa di Mamma Viola
(foto Quelli che...la montagna)
vicende drammatiche di quel tempo. Da qui il percorso si fa un po' più arduo e in alcuni tratti franoso, occhi aperti quindi. Riprendiamo dunque il cammino seguendo la propria destra cominciando così a risalire il  monte Rovaio, intraprendiamo l'ultimo tratto che terminerà poi sulla panoramica cima del monte (1060 m), qui si apre un panorama strabiliante sul gruppo delle Panie e sul profilo dell'Omo Morto. La bellezza del posto,facendo un po' di attenzione, ci riporta alla cruda realtà della guerra che fu: le postazioni delle mitragliatrici ne sono testimonianza tangibile, ecco allora che sulla cresta sommitale c'è una delle quattro postazioni di difesa dei partigiani, una al centro e le restanti agli estremi nord-ovest e sud -est, un altro avamposto di
Sommità del Rovaio
Daniele Saisi Foto
mitragliatrice si trova anche poco sotto la prima, sul fianco della montagna. Di qui si torna indietro per un breve tratto per il sentiero già percorso,  si devia poi verso sinistra in direzione Casa Bovaio, arrivati qui sembra di fare un salto indietro nel tempo, una capanna con il tetto di paglia è silenziosa testimone del tempo che passa. Siamo adesso nel versante orientale del monte, dove i partigiani tentarono la ritirata verso l'Alpe di Sant'Antonio con gravi perdite, di qui si prosegue verso Pasquigliora, di li non resta che risalire fino a Colle Panestra prendendo il sentiero C.A.I 133 e completare così l'anello. Ritornando poi in auto a Molazzana consiglio di fermarsi in paese, visitate "Il museo della II guerra mondiale".

Arriviamo poi a Borgo a Mozzano, qui a differenza del "Sentiero
Bunker Borgo a Mozzano
Paolo Marzi foto
della libertà" la natura lascia spazio all'ingegneria e all'immane lavoro degli operai della TODT. Ci troviamo davanti a delle vere e proprie opere fortificate conservate perfettamente: bunker, piazzole, camminamenti sono ancora attestazione concreta della guerra. L'itinerario consigliabile consente prima la visita al museo della memoria e di conseguenza alle fortificazioni di Borgo a Mozzano e Anchiano. Infatti dopo aver visitato il museo, 
discendendo la strada Lodovica in direzione Lucca , si possono osservare alcuni siti del fondovalle. Lato strada sono visibili muri anticarro alti due metri e mezzo e a chiudere la valle c'erano e ci sono ancora due casematte sulla sponda destra e 
Postazioni mitragliatrice
Marzi Paolo foto
sinistra del Serchio. Con un accompagnatore del museo si possono visitare i bunker proprio della località Madonna di Mao e Pozzori. Di li in auto, ci si può dirigere verso Anchiano, dall'altra parte del fiume per percorrere le altre postazioni.

Ancora oggi forse non ci rendiamo conto di quello che successe nella nostra valle; la frenesia dei tempi moderni spesso ci offusca la mente su quello che è il nostro passato, ma basta fare una passeggiata attraverso verso questi percorsi per pensare che se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo in buona parte agli eventi che accaddero proprio su questi cammini.



Bibliografia:

  • "Linea gotica e sentieri di Pace nelle Api Apuane" brochure Parco delle Apuane, Apuan Alps Global Geopark e UNESCO. DICEMBRE 2018

"La scienza dei poveri". L'uso degli "erbi" nella medicina popolare garfagnina

$
0
0
"Il Signore ha creato i medicamenti dalla terra, l'uomo saggio non
li disprezza". La Bibbia parla chiaro, anche dai frutti della terra si possono trovare rimedi efficaci per la salute del nostro corpo. I vecchi garfagnini questo lo sapevano bene. La terra di Garfagnana è immersa nella natura e la natura stessa oltre agli "erbi boni" da mettere in tavola ne forniva altrettanti per la cura del corpo. Il tempo e la scienza moderna classificò queste pratiche con il nome di "medicina popolare", alcuni detrattori invece non esitarono a chiamarla "la scienza dei poveri". Ma fu proprio questa scienza povera a dare sollievo a dolori e ai malesseri fisici dei garfagnini, infatti, in tal senso la nostra terra era considerata una delle culle della medicina popolare. D'altronde esistevamo le
due caratteristiche principali per sviluppare questa attività: una moltitudine di erbe adatte e... la povertà. I medici erano una rarità e molti dei medicinali basici non erano ancora stati brevettati e quelli che esistevano costavano cari e allora la gente cercava di districarsi come meglio poteva nel complicato mondo medico, curando piccole e grandi malattie con rimedi rudimentali. I migliori "medici" erano gli anziani della casa (o del vicinato), gli eccellenti rimedi e le terapie più efficaci facevano parte del loro bagaglio culturale, erano usanze che si tramandavano da generazione in generazione e l'esperienza e l'osservazione della natura aveva fatto il resto. In effetti questi medicamenti vedono la sua origine dalla notte dei tempi. Il primo requisito che influì su queste usanze fu l'istinto dell'uomo stesso, che individuò e separò le specie delle erbe velenose da quelle mangerecce, in secondo luogo osservando gli animali riuscì a capire ancor di più quali fossero le erbe curative. Purtroppo con il passar dei secoli anche in questo campo, com'è brutta consuetudine (anche ai giorni nostri) ci si rivolse ai maghi "capaci di allontanare tutti i malanni della
terra", spesso con risultati drammatici, a riprova che pure la cosiddetta medicina popolare doveva essere praticata con sapienza. A discapito di questi maghi e fattucchiere ci pensò però Santa Romana Chiesa e se fino a quel momento (anche se con i pericoli che abbiamo letto) la medicina con gli "erbi" era prodigata e praticata, nel XVI secolo subì una brusca frenata: decotti, tisane, tinture ed unguenti vari furono messi al bando, secondo l'inquisizione certe medicine andavano a braccetto con la magia; il Concilio di Trento rubricò tutte le pratiche sanitarie e le cure popolari sotto la voce
l'inquisizione
"Superstitiones", per cui l'arte medica era vietata ai prelati, agli ebrei e alle donne, anche se a onor del vero la stessa Chiesa non disdegnava l'uso delle erbe per preparare potenti sedativi nei processi di stregoneria: la Belladonna e il Giusquiamo agivano sul sistema nervoso e costringevano le imputate a confessare ciò che si sarebbe voluto. Per grazia di Dio i tempi passarono e come sempre dopo la notte torna sempre il giorno e l'uso degli "erbi" per scopo terapeutico riprese auge, proprio grazie a quella Chiesa che prima l'aveva osteggiato. Sono i monaci che con una sorta di ufficializzazione impartirono il sapere delle erbe curative, vennero trascritti in dei Codici di rara bellezza e vennero realizzati giardini di erbe medicinali di tutto rispetto. Fu proprio in quel periodo che in Garfagnana, anche grazie alla sapienza di
questi frati si sviluppò pienamente l'uso delle erbe come rimedio per i malanni. Gli antichi rimedi della medicina popolare fatta con
le erbe e le piante erano tantissimi, alcuni efficaci, altri effettivamente inutili e alcuni se non trattati con dovizia risultavano anche dannosi alla salute, non era nemmeno casuale la raccolta di queste erbe che secondo tradizione garfagnina non potevano essere raccolte in tutti i periodi dell'anno; una buona parte di esse doveva essere selezionata nelle notti di luna piena o in ricorrenze di santi o festività religiose: ad esempio l'alloro doveva essere colto il primo venerdì di marzo, la camomilla il 17 maggio per San Pasquale, mentre una buona parte di esse doveva essere selezionata  tra il 21 e il 24 giugno, non era una scelta casuale o legata alla benevolenza dei santi, il raccolto degli erbi aveva infatti  un fondamento scientifico, dal momento che la maggior parte di queste aveva la sua massima concentrazione dei suoi principi attivi proprio in quel determinato periodo dell'anno. Le loro preparazioni erano molteplici, si passava da un semplice impacco, ai decotti, infusioni, sciroppi, tinture e oli vari. Impossibile quindi elencare la montagna di erbe mediche che abbiamo nella valle, proviamo però a fare un piccolissimo viaggio fra queste. 

Abbiamo parlato qualche riga sopra dell'alloro, ecco l'alloro è un
alloro
vero toccasana, le sue foglie sono ricche di principi attivi dalle proprietà antisettiche, antiossidanti e digestive, ma guardiamo nello specifico e vediamo che una volta le sue foglie venivano essiccate e sminuzzate e se si avevano disturbi digestivi importanti che creavano anche forti mal di testa, bastava versare un cucchiaino di queste foglie d'alloro in una tazza d'acqua, lasciarle riposare qualche minuto, filtrare il tutto e bere, il suo potere anti fermentativo avrebbe liberato sicuramente lo stomaco. La borraggine era invece l'aspirina del tempo che fu, infatti era ed è una pianticella che contiene una buona quantità di vitamina, in particolare vitamina C e sali minerali (sopratutto potassio), buon rimedio quindi per la tosse, inoltre ha proprietà antipiretiche e
la borraggine
sudorifiche, l'antica ricetta diceva che si doveva preparare un vino depurativo, mettendo in infusione le sue cime fiorite in mezzo litro di vino, si filtrava e se ne bevevano tre-quattro bicchierini al giorno, addolciti con un po' di zucchero (se c'era). Una pianta adatta un po' a tutti i mali era il ginepro, questo infatti è un arbusto dalle incredibili virtù. La corteccia di questa pianta veniva bruciata e con la sua cenere mescolata all'acqua si otteneva una sostanza che dava beneficio alla lebbra e alla rogna. In Garfagnana venne usato particolarmente nel XVII
il ginepro
secolo, quando la peste fece una vera e propria ecatombe. Finite queste pestilenze il suo uso fu per malattie ben più leggere e le sue bacche davano sollievo alle bronchite, la loro azione dilata i bronchi favorendo di fatto la respirazione; il loro uso era  poi particolarmente caro alle donne, si dice che regolarizzasse il ciclo mestruale e ne attenuava i fastidi, l'infuso di ginepro era ideale anche per le artriti e i dolori muscolari. Che dire poi dell'Erba di San Giovanni? Tradizionalmente quest'"erbo" veniva utilizzato in olio per trattare ferite e
l'erba di San Giovanni
ustioni, grazie al suo potere antinfiammatorio, cicatrizzante e rigenerativo della pelle, ma non solo, veniva utilizzato anche come disinfettante, a quanto pare aveva anche un'azione antidepressiva. Invece il nome di questa pianticella è tutto un programma; lo conosciamo tutti come "Piscialetto", in realtà si chiama Tarassaco, questa pianta stimola la diuresi e svolge un'ottima azione drenante, utile per le lievi infezioni delle vie urinarie. Ebbene si, non è scherzo ma il
il piscialetto
pungitopo può curare anche l'emorroidi, non certo con le bacche, ne tantomeno con le sue foglie appuntite, ma bensì con il rizoma (n.d.r: modificazione del fusto della pianta): si dice che alleviasse il prurito. Come se non bastasse il pungitopo (oltre che usarlo come ornamento natalizio), la medicina popolare garfagnina lo consigliava anche sotto forma di decotto (amarissimo a quanto si dice) come
il pungitopo
antiinfiammatorio o come rimedio per le gambe gonfie. Chiudiamo con il cosiddetto "cavolo di San Viano" (cavolo montano), erba tipica della zona di Vagli, il suo nome lo prende proprio da questo santo eremita, che abitava nelle aspre montagne sopra il paese, questa pianticella gli fu mandata in dono dal Signore per sfamarlo; il
il cavolo di San Viano
vegetale però non dava sollievo solo alla fame ma aveva un'altra curiosa particolarità, nei tempi lontani le sue foglie erano considerate come un vero e proprio cerotto naturale, infatti se leggermente pestate erano un ottimo cicatrizzante per le piccole ferite, era un toccasana anche per le punture d'insetti.


Insomma, potrei riempire pagine e pagine sui benefici degli erbi garfagnini, d'altra parte la saggezza dei nostri vecchi era infinita come questo sapere antico che si può riassumere tutto in un semplice detto: "l'acqua di monte e l'erbe di campo da tutti i mali ci danno scampo"... 

La paura fa novanta...Credenze e tradizioni sulla morte in Garfagnana

$
0
0
Mosè ci racconta che era proprio nel "diciassettesimo giorno del
secondo mese", quello in cui Noè costruì l'arca in attesa del Grande Diluvio. Tale data farebbe riferimento proprio al mese di novembre, mese in cui oggi si commemorano i defunti e fu proprio in onore di quei defunti che Dio stesso aveva annientato, con il fine di esorcizzare la paura di nuovi eventi simili. Da qui in poi, la storia, che è ovviamente sospesa fra religione e leggenda diventa un po' più chiara e ci narra che questo rito nasce dall'abate benedettino Sant'Odilone di Cluny (Francia) che nel 998 fece risuonare le campane a morto dopo le preghiere del tramonto del 1° novembre, offrendo l'ecauristica "pro requie omnium defunctorum", ovverosia "per le anime di tutti i defunti". Un centinaio di
Sant'Odilone da Cluny
monasteri dipendenti da quello di Cluny contribuirono al diffondersi di questa nuova usanza che in breve tempo fu adottata in tutta l'Europa del nord e nel 1311 divenne ufficiale per tutta la chiesa cattolica. Da quel giorno, il due novembre riempiamo i cimiteri di ogni dove, si arriva fino a quelli più sperduti dell'alta montagna garfagnina e proprio quei cimiteri che per il resto dell'anno vengono visitati da qualche vecchietta devota, quel giorno diventano luoghi di aggregazione talvolta becera e maleducata. Ma d'altronde siamo terra di tradizioni e le tradizioni vanno rispettate... Il culto dei morti d'altra parte è dentro la natura umana e i garfagnini questo culto l'avevano ben radicato dentro di sè, come tutte le culture contadine
Gallicano inizi
secolo scorso
dei tempi che furono. Purtroppo negli anni andati le cause di morte in Garfagnana erano tantissime, le condizioni di vita delle fasce più basse erano miserevoli: la fame e condizioni igieniche scarse portavano a percentuali di morte altissime, per non parlare poi della forte mortalità infantile e sopratutto femminile: il parto era una delle maggiori cause e in pratica per tutto l'ottocento la

familiarità con la morte andava a  braccetto con la vita che proseguiva, si moriva difatti più spesso nelle case che negli ospedali. Ed era per questo motivo che anche in Garfagnana si svilupparono credenze legate al triste evento. Esistevano quindi una serie rituali che si protraevano per giorni, mesi e anni a partire dall'usanza "di portare il lutto". Il lutto si distingueva in due categorie: il lutto stretto e il mezzo lutto. Tutto aveva delle regole precise e imprescindibili; il lutto stretto durava sei mesi, più altri tre di mezzo lutto in caso di perdita del coniuge, dei genitori, dei suoceri e dei figli, il periodo si riduceva "solamente" a tre mesi (di lutto stretto) per fratelli, nonni, cognati, generi e nuore. Tale uso comportava gli abiti neri per le signore, ma non solo: questi abiti dovevano essere chiusi, accollati e severi, non si
lutto stretto
potevano portare ornamenti vari e addirittura nei casi più estremi non si poteva nemmeno mostrare il volto che doveva essere coperto da una velina; gli uomini in effetti avevano meno problemi: bastava un nastro nero intorno al cappello, una fascia al braccio ed eventualmente portare una striscia nera sul bavero della giacca. Con il mezzo lutto finalmente si ricominciava a respirare dopo mesi di lacrime e solitudine, l'abbigliamento si modificava e le signore si potevano vestire con colori sobri: grigio, viola e bianco, si potevano rimettere anelli ed eventuali collane, ma sarebbe stato ancora disdicevole partecipare alla feste di paese (questo per entrambi i sessi). Sussistevano altre consuetudini che oggi ci possono sembrare curiose e strambe ma che fino all'inizio del secolo passato erano considerate una prassi, come quella che narra che per ben nove giorni nella casa dello scomparso si ricevevano visite di parenti e amici più e più volte, figuriamoci lo strazio per i "dolenti", che per lo stesso periodo non dovevano nemmeno cucinare, ma siccome dovevano pur campare ci pensavano i congiunti a portare cibi già pronti, una manifestazione d'affetto chiamata "consolazione". Quella che noi oggi considereremmo un'altra stranezza era quella 
di mettere una
Un vecchio funerale
moneta in tasca al povero defunto, infatti oltre al classico rosario o alla medaglietta di un santo usava mettere anche un soldo che sarebbe servito al morto stesso per pagare il traghetto del fiume Giordano, questo secondo tradizione cristiana, nel rituale pagano il soldo serviva a Caronte per attraversare il fiume acheronteo che divideva il mondo dei vivi da quello dei morti, ma per mollare la povera anima a Caronte o ancor più giustamente a Dio esisteva un'altra usanza tipicamente casalinga che consisteva nel lasciare per tre giorni aperte le finestre o almeno una finestra di casa, perchè si diceva che nei tre giorni successivi alla dipartita del caro estinto la sua anima sarebbe rimasta ancora in casa, in questo modo avrebbe avuto così la possibilità di uscire e di salire in cielo. Sarebbe rimasta ancora in casa, per poi farvi ritorno proprio nella ricorrenza del 2 novembre, secondo quella  tradizione che era chiamata
"Ben dì morti", si diceva che proprio
ogni ricorrenza dei defunti dal cimitero i morti tornavano nelle loro case uscendo dal cimitero in una lugubre fila, vestiti di cappa e cappuccio. Per accogliere le anime dei cari estinti nella case si accendevano i lumi e la mattina si abbandonavano di buon ora i letti per lasciare il posto alle loro anime stanche dopo il lungo viaggio dall'aldilà, proprio per questo motivo si lasciavano anche le finestre aperte per favorire le visite e si tirava la casa a lucido per fare bella figura, era abitudine lasciare delle mondine sul tavolo da cucina in modo che le buon anime si potessero anche sfamare e guai se per quei giorni si chiudevano a chiave cassapanche, armadi o cassetti, il morto in questo modo avrebbe avuto la possibilità di portare con sè qualcosa che si era dimenticato in vita. Anche i bambini venivano coinvolti a pieno titolo in questa ricorrenza e in una sorta di Halloween nostrano andavano di casa in casa a chiedere generi alimentari di ogni tipo
: arance, noci, castagne, in cambio avrebbero pregato per i morti di quella casa. Passato il 2 novembre rimanevano gli altri giorni dell'anno e in questo caso Sant'Agostino spiegava che bisognava continuare a pregare per i morti anche al di fuori dei rispettivi anniversari e così i familiari continuavano le visite al camposanto portando fiori e i cosiddetti "lumini" votivi. Quei fiori hanno una tradizione antichissima che parte da rituali funebri lontanissimi, i fiori sono connessi alla sfera del sacro in virtù del legame arcaico con gli dei, gli dei infatti si potevano placare
offrendo cibo e fiori, il significato cristiano naturalmente si discosta da credenze pagane e ci dice appunto che questo gesto ha un significato di tendere una mano a chi non c'è più: dire "ti penso", "ti voglio bene". C
osì poi come il lumino, anch'esso ha origini a dir poco remote, già gli etruschi e poi i romani accendevano candele sulle tombe e la loro luce era legata alla vittoria del bene contro il male, al trionfo
della vita sulla la morte.

Del resto in qualsiasi modo la pensiamo la morte fa paura, a volte è vissuta come una liberazione, al tempo stesso anche queste tradizioni erano legate dal sentimento principale della vita: l'amore, l'amore perpetuo per un distacco irreversibile dalla persona cara. Usi e costumi che non erano altro che un perpetuarsi della memoria, perchè anche chi muore se continua a vivere nella propria testa non muore mai. 

Famiglie, guerre e alleanze... l'epico medioevo in Garfagnana

$
0
0
Sarò subito chiaro fin dall'inizio con il mio caro lettore,
Sullo sfondo la fortezza delle Verrucole
(foto tratta da cantiereestense.it)
l'argomento che affronteremo riguarda la Garfagnana medievale, e la storia medievale come ben si sa, in barba agli insigni storici pluri laureati, e di una noia terribile, sopratutto se spiegata così: "Rispetto al passato, ora si fa un uso più consapevole di termini quali “feudalesimo”, “signoria” e “territorialità” per illuminare l’enorme complessità dei veri rapporti di potere. La questione dell’incastellamento rientra perfettamente nella dinamica discussa. Il risultato è un quadro interpretativo estremamente efficace come modello globale, sebbene di per sé sia ormai troppo complesso per tenerlo a mente nella sua interezza per più di pochi minuti"Cosa, che, come ??? Per l'amor di Dio, tanto di cappello all'illustre professore che avrà affrontato così il tema della Garfagnana medievale a un folto pubblico di altrettanti illustri professori; ma la storia, se si vuole che la gente "comune" si appassioni anche al proprio passato va esposta in maniera totalmente diversa, specialmente su argomenti che hanno una maggior difficoltà di comprensione. Si, perchè il medioevo era un
Fortezza delle Verrucole
(foto di Lisa Mazzei)
intersecarsi di famiglie, discendenze, guerre, alleanze in cui uno difficilmente riesce a raccapezzarsi. Basta guardare la Garfagnana...Gherardinghi, Suffredinghi, Rolandinghi... no, non è uno scioglilingua, erano le potenti famiglie medievali che avevano in mano tutta la valle. Insomma, capirete voi... comunque niente spavento, proverò a raccontarla io, alla mia maniera, un po' di storia medievale garfagnina... con una raccomandazione però, non fate leggere questo articolo a qualche storico che "qui novit omnia" (ovverosia: che tutto sa), toglierebbe l'amicizia a voi e a me taccerebbe di superficialità e faciloneria (però alla fine qualcosina avrete capito)... Comunque sia; siamo in quei tempi che il valore della persona si misurava con la forza, la Garfagnana medievale era la mecca ideale per ogni avventuriero, d'altra parte i Longobardi erano caduti e la definitiva vittoria dei Franchi, nuovi regnati d'Italia, aprì nuovi scenari in tutta la Valle del Serchio (e in Italia in genere), ecco che allora per la prima volta la Garfagnana venne divisa in svariati territori con al comando potenti famiglie feudali comandate da personaggi come Gherardo di Gottifredo, dal quale derivano appunti i Gherardinghi, signori di Verrucole; Vinildo di Froalmo signore di Careggine; Ugolinello capostipite dei nobili di San Michele; tal Donnuccio dei Porcaresi signore di Trassilico e un non meglio identificato Cellabarotti
La rocca di Trassilico
(foto di Daniele Saisi)
signorotto con possedimenti in Castelnuovo, questi (insieme ad altri) faranno il bello e cattivo tempo in Garfagnana. "I lor" signori arrivarono un po' tutti alla spicciolata fra il settecento e l'anno mille, videro che qui c'era "buono" e dissero -C'è mio !!!- , spesso non dissero nemmeno niente e in maniera spiccia istituirono posti di blocco, pretesero obbedienza e imposero pedaggi, gabelle e contributi e... il garfagnino? Il garfagnino provò ad alzare la cresta... e il risultato? Nessuno, prevaleva la legge del più forte, pagare e silenzio, così il solco fra la misera gente e il potente di turno diventava sempre più profondo: il signorotto chiuso nel suo castello  e "il povero Cristo" a patire la fame. Dal castello allo stemma il passo fu breve e quindi ogni
Castiglione Garfagnana
stemma un castello e una storia diversa, anche se in linea di massima l'aspirazione di ogni feudatario locale era quella di non avere contatti con il prossimo, se non unicamente in funzione di difesa; difatti in mancanza di guerra le occupazioni maggiori di queste famiglie erano sostanzialmente tre: la caccia (lo svago preferito), la "pappatoria" e...la riscossione dei tributi. A rompere le uova nel paniere ai signorotti ci pensò Federico Barbarossa: il feudalesimo quello piccolo e spiccio era in crisi, l'imperatore aveva spazzato via tutti i potenti di Toscana, era il tempo delle riforme, il Papa rivendicava le sue terre e lui aspirava a un impero universale conteso proprio al papato stesso ...Insomma era venuto il tempo di affilare le armi, non per la caccia stavolta, ora bisognava affilarle per le guerre. D'altronde la Garfagnana era un boccone
Fortezza di Mont'Alfonso
Castelnuovo Garfagnana
(tratta da serchioindiretta.it)
ghiotto, stretta fra due catene di montagne era, ed è un orto chiuso e stuzzicava desideri di conquista, ed ecco allora che dalle montagne circostanti come lupi famelici si affacciarono i modenesi, i lucchesi  e perfino da Pisa e da Firenze si scomodarono, non sembravano però venuti in vacanza, infatti il problema è che tutti questi erano armati fino ai denti, dapprima però un po' tutti fecero gli gnorri e poi con la solita scusa vecchia di milioni di anni: "siamo venuti per proteggere... (o sennò salvare, o al limite vendicare...)", giù botte da orbi, se poi durante la guerra capitava qualcosa da mettere "al sicuro" che male c'era, un souvenir non si rifiutava mai, uno rubava e l'altro parava il sacco. E chi la faceva la guerra per difendere il proprio castello? Direte voi
il castello di Gallicano

l'esercito con a capo il signorotto locale...giusto per metà...bisognava infatti vedere l'esercito da chi era composto. L'esercito era fatto dalla gente comune che abitava all'interno del feudo, d'altra parte se i signori del luogo permettevano ai cittadini di abitare dentro le mura del proprio castello per proteggersi, dall'altra gli stessi cittadini dovevano ricambiare con un servizio di leva obbligatorio, che in barba al servizio militare odierno poteva arrivare anche con l'obbligo di guerreggiare fino al settantesimo anno d'età. In caso di guerra bella tosta allora ci si rivolgeva ai mercenari, ma quelli costavano e il popolo la guerra la faceva gratis. Sicuramente i Gherardinghi (signori di San Romano, Naggio, Vibbiana, Pontecosi, Sillico e chi più ne ha ne metta...)  non ne fecero uso intorno al 1170, quando tali signorotti si scocciarono dei lucchesi e preferirono ad essi i pisani; la pronta minaccia dei lucchesi di demolire castelli e casati ribelli fece ben
La rocca di Camporgiano
(foto tratta da amalaspezia.eu)
presto ritornare sui suoi passi la nobile famiglia che in men che non si dica giurò stabile fedeltà alla città delle mura ottenendone così anche il perdono. Se magari si fosse speso qualche soldino il destino (forse) sarebbe stato diverso. I mercenari , o meglio i soldati di ventura di scrupoli ne avevano pochi e combattevano esclusivamente per il bottino conquistato e per soldi, il tutto era regolamentato da cotanto contratto, dove si stabiliva i termini d'ingaggio: il numero dei soldati da assumere e anche la durata dell'impegno. Per capirsi bene oramai la guerra in Garfagnana era diventata un occupazione alla stregua del come andar per funghi e le nobili casate garfagnine secondo le convenienze sia alleavano a destra o a manca come se niente fosse, fulgido esempio i Suffredinghi, loro possedevano un vasto territorio che comprendeva la Cune, Chifenti, Borgo a Mozzano, Fornoli, Corsagna e arrivava ad
San Michele
(foto di Davide Papalini)
avere possedimenti fino a Gorfigliano e Careggine e giustappunto per continuare a mantenere la loro egemonia su tali terre dovevano appoggiarsi a dei potentati ben più forti che loro stessi e allora ci si "imbarcava" in guerre sanguinarie come quella fra Lucca e Pisa, una guerra che protrasse per tutto il XII secolo e che nel 1149 li vide protagonisti insieme ai lucchesi all'assedio del castello di Vorno presieduto dai pisani, dopo otto mesi d'assedio finalmente la tanto sospirata vittoria che portò a radere al suolo il castello... Nel 1170, gli equilibri erano cambiati e come banderuole al vento ecco che i Suffredinghi si alleano con Pisa nella difesa del castello di Castiglione posseduto a sua volta dai Gherardinghi suddetti, in
Isola Santa villaggio
medievale
sostanza sfido chiunque a capirci qualcosa, quello che però è evidente (e che ha poco bisogno di comprensione) è il capire che queste guerre erano veramente cruente, violente e spietate, basta vedere le armi con cui venivano combattute. L'arma più importante era la spada, compagna fedele più che di una moglie, tant'è che veniva tramandata da generazione in generazione ed era sostanzialmente lo strumento che ti poteva salvare la vita, subì importanti modifiche con il correre degli anni e se prima era larga e a doppio taglio, nel tempo e con il diffondersi di armature più spesse divennero lunghe sottili in modo che potessero penetrare nelle fenditure delle armature stesse. In questi ci si poteva
Richiamo alla difesa
del castello
difendere con lo scudo, che oltre a parare i colpi era un segno distintivo, dal momento che sopra vi erano disegnati i simboli del casato o il simbolo del cavaliere. Micidiale era la balestra, precisa, potente, usata sopratutto all'interno dei castelli, anche l'arco era una terribile arma, la sua freccia poteva essere scagliata fino a trecento metri di distanza e perforare tranquillamente una corazza di maglia, gli arcieri erano dei veri e propri atleti, scoccare una freccia richiedeva forza e l'allenamento doveva essere costante, l'arciere poi era tenuto in grande considerazione poichè non potendo portare lo scudo era il bersaglio preferito degli avversari. Diciamo che queste elencate erano armi professionali, ma come abbiamo letto spesso (e non
Tipico assedio a un
castello medievale
volentieri)combatteva anche la gente comune che abitava all'interno del castello e allora il garfagnin-soldato si armava con quello che trovano per casa e la scure (o il pennato) che normalmente era adibita al taglio della legna per il fuoco di casa si trasformava in arma micidiale, così come la mazza che aveva la potenza di sfondare armature e sopratutto di aprire teste come noci di cocco.

Ci sarebbe ancora tanto da raccontare e le vicende del medioevo garfagnino naturalmente non si limitano a queste "due righe", il discorso è molto più ampio e (se ben illustrato) affascinante,  ma l'aver dato le luci della ribalta a questo periodo storico poco amato e complesso farà
sicuramente si, che qualche lettore si appassioni a queste periodo storico poco conosciuto e questo per me  sarà come aver vinto la più grossa battaglia che qualsiasi altro cavaliere in arme possa aver vinto nel lontano medioevo.

Bibliografia

  • "Castelli, rocche e fortezze narrano la storia della Garfagnana" Gian Mirola
  • Savigni, Raffaele (2010) L'incastellamento in Garfagnana nel Medioevo: castelli signorili, villaggi fortificati e fortezze. In: Architettura militare e governo in Garfagnana. Atti del Convegno tenuto a Castelnuovo di Garfagnana, Rocca ariostesca, 13 e 14 settembre 2009. Biblioteca / Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi. Nuova serie (187). Aedes Muratoriana, Modena, pp. 7-51.

Sulle orme di Pietro da Talada, un pittore del quattrocento in Garfagnana

$
0
0
Adesso l'Appennino ne segna il confine geografico fra le provincie
Il trittico di Borsigliana
di Lucca e quella di Reggio Emilia, fra la Garfagnana e la Valle del Secchia e il passo di Pradarena è il suo punto di passaggio, ma al tempo di Pietro da Talada questi territori erano un tutt'uno sotto il dominio estense, ma già nel 1145 queste terre erano legate sotto la famiglia Dalli, potente famiglia feudataria che dalla Garfagnana andò in terra reggiana ottenendo in feudo, Piolo, Busana e proprio Talada, terra natia di Pietro. Ma chi è Pietro da Talada? La domanda che pongo per molti 
fra storici e esperti d'arte può essere irriverente, ma per altri ancora questo nome può essere sconosciuto, nonostante che dal mio punto di vista sia il più grande pittore che abbia mai praticato nella nostra valle, lasciando in Garfagnana opere di inestimabile bellezza e valore. Negli ultimi anni grazie a Dio c'è stata una forte riscoperta di questo artista, alcuni libri come quello dell'amica Normanna Albertini (n.d.r:Pietro da Talada- un pittore del quattrocento in Garfagnana) lo hanno riportato agli onori che gli spettano, ma il suo oblio vero e proprio cessa nel 1963 quando Giuseppe Ardinghi (pittore lucchese)dimostra che è lui
l'autore del trittico che ancora oggi si può visitare nella chiesa di Santa Maria di Borsigliana (Piazza al Serchio), opera attribuita fino a quel tempo a Gentile da Fabriano. A fugare ogni dubbio è il ritrovamento di un inventario, dove viene recuperata la precisa descrizione della Madonna del bambino di Rocca Soraggio e per la prima volta compare il suo nome : "Hoc opus f...fieri Joannes Celasbarius de Soragio (n.d.r: committente)1463. Et pictus fuit
Il basamento con la firma dell'artista
(foto tratta dal sito news-art.it)
Petrus de Talata" .
Di qui comincia la storia di Pietro da Talada meglio conosciuto come il Maestro di Borsigliana.

Siamo in quegli anni che il ducato di Ferrara è retto da Ercole I
(1471-1505), il duca ne ha perse molte di guerre, ma nonostante tutto la sua fama di mecenate rimane intatta. Già con il duca Niccolò III d'Este la corte estense è fra le più raffinate in Europa, poeti e scrittori di fama si esibiscono nelle reggie del ducato e questo naturalmente non si ripercuote nella sola Ferrara ma anche in tutto il resto del regno, di questo rinascimento artistico ne risentirà anche lo stesso Pietro, pronto a divulgare la sua arte in quell'angolo di reame sperduto che si chiama Garfagnana. Borsigliana, Corfino, Camporgiano, Soraggio, Capraia, qui, in questi luoghi la sua arte trova compimento, in quella civiltà contadina tutta stretta intorno alla propria chiesa, pronta a sacrificare qualche denaro per abbellire questi luoghi di culto. Del Maestro di Borsigliana si sa poco e niente, della sua vita si sa solo il luogo di nascita, quella Talada anch'essa sperduta nell'Appennino reggiano e se si vuole molto simile a quella Garfagnana dove lui operò: terre agresti, fatte da gente semplice dove lo scorrere delle ore è scandito con i tempi
Talada (Reggio Emilia)
della natura. Del resto della sua esistenza rimangono alcuni misteri a cui purtroppo non daremo mai risposta; infatti molti storici dell'arte si domandano com'è stato possibile che un pittore dalle così umili origini abbia creato opere di cotanta bellezza e perfezione, probabilmente era andato a bottega. Non si poteva prescindere da questa regola, non esisteva un artista autodidatta o che potesse lavorare in solitaria. La bottega era il luogo dove si apprendeva e dove il maestro insegnava il mestiere, si, il mestiere, in quel tempo la parola artista era una parola vaga, un pittore come Pietro da Talada era considerato un mestierante, un artigiano, alla stregua di un falegname o di un orafo, insomma qui si imparava il lavoro manuale e i primi lavori erano quelli di addottrinarsi a tritare e ridurre in polvere i colori, cuocere le colle, triturare i gessi; il passo successivo
La bottega di un'artista
dell'allievo sarebbe stato quello di copiare le opere del maestro e accompagnarlo nei luoghi di esecuzione, pensiamo poi che un apprendistato del genere non si svolgeva in poche settimane, ma bensì in anni, poteva durare da tre a sei anni e spesso il giovanotto pagava per lavorare a bottega. Tutto però era organizzato in maniera perfetta e gerarchica: il maestro, gli assistenti e gli apprendisti e siccome in questo campo si maneggiavano i colori, i pittori erano iscritti alla solita arte dei medici e degli speziali. 

Lo stile pittorico in cui si specializzò Pietro, era fuori dal tempo, era quel tardo gotico lontano dalla realtà sociale dell'epoca. Eravamo in epoca rinascimentale, le pitture cercavano la corposità degli oggetti, la prospettiva, la proporzione e l'attenzione ai paesaggi naturali, mentre il tardo gotico si caratterizzava per una direzionalità verticale, con figure allungate e diafane e con ricchezza di decorazioni e ornamenti, spesso i temi trattati da questo stile erano prevalentemente religiosi e le più volte il supporto preferito su cui dipingere erano le tavole. Anche il maestro di Borsigliana  preferiva dipingere su tavola. Le tavole migliori per dipingere erano di pioppo, di tiglio o di cipresso, assolutamente non il castagno, albero di cui era ricca la Garfagnana, poichè il tannino contenuto avrebbe alterato sicuramente i colori. Da queste tavole ecco nascere l'opera per eccellenza di Pietro da Talada: "il trittico di Borsigliana", un'opera magnifica,
Particolare del trittico
di Borsigliana
unica, al 
centro protagonista principale è la Madonna che mostra un fiore e il Bambino Gesù con una tunica verde (a quanto pare in origine la tunica era rossa) in piedi sulle ginocchia della madre, ai lati San Prospero (patrono di Reggio Emilia)in abiti sfarzosi e San Nicola. In alto sono raffigurati l'arcangelo Gabriele, Dio Padre in mezzo agli angeli e Maria Annunziata seduta su una costruzione, in basso i dodici apostoli sono ben evidenti. Questo splendore è l'unica delle opere di Pietro che nel corso dei secoli è giunta intatta fino ad oggi. Eppure anche lei aveva rischiato una brutta fine, eccome... Alla fine del 1800 il capolavoro fu venduto illegalmente da un antiquario romano, fortunatamente fu poi recuperato alla frontiera svizzera e riportato a Roma, da li cominciò un peregrinare infinito di oltre trent'anni tra Firenze e Roma, nel 1921 però ritornò finalmente alla sua parrocchia di origine, ma le sue tribolazioni non finirono, dal momento che alla fine degli anni trenta del '900 il trittico fu
La chiesa di Santa Maria Assunta
dove si trova il
 trittico di Borsigliana
ritirato dalla sovraintendenza delle Belle Arti di Firenze per un restauro, il tempo che scorreva e i successivi eventi bellici lo fecero definitivamente tornare a casa nel 1947. Se si vuole stessa fortunata sorte non toccò a quello che in origine era un altro trittico e che oggi è conosciuto come la Madonna con bambino 
(sul quale, come abbiamo letto, si trovò la firma di Pietro). Al tempo si trovava nella chiesa di Rocca Soraggio, quando dei delinquenti incalliti la rubarono e ne fecero scempio: dapprima i due "laterali" che rappresentavano San Pietro e San Giovanni Battista furono sezionati dalla stessa tavola centrale, successivamente lo smembramento continuò, furono ulteriormente tagliati altri trenta centimetri, eliminando così la famosa firma e la data di creazione, oggi la tavola si trova al
La Madonna con bambino
di Rocca Soraggio
oggi a Lucca
museo nazionale di Villa Guinigi a Lucca. Una curiosità invece spicca in un'altra opera di Pietro da Talada, qui basta andare all'eremo di Capraia (Pieve Fosciana) e guardare il dipinto, si può vedere Maria che insegna a leggere al piccolo Gesù; la Vergine tiene in mano un libro, aperto sulla pagina del Magnificat, mentre il Bambinello unisce vocali e consonanti su una tavola di legno. Le curiosità su questo artista non finiscono però qui, questa è venuta fuori grazie ad una nuova tecnica ultramoderna: l'imaging multispettrale, che non è altro che una radiografia ad intensità luminosa. Ebbene, dopo un indagine approfondita su una tavola raffigurante San Giovanni Battista (conservata alla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca), ecco scorgere un "pentimento" di Pietro, che cambiò idea sulla posizione in cui disegnare la piegatura della veste del santo. Fra l'altro, curiosità nella curiosità, questo San Giovanni Battista non sarebbe altro che un "pezzo" rubato della Madonna di Rocca Soraggio, ricomparso miracolosamente anni dopo sul mercato dell'antiquariato internazionale e acquistato regolarmente dalla Fondazione stessa.
San Giovanni e
il pentimento
della veste

Una storia misteriosa quella di Pietro da Talada, una storia che si perde nei meandri del tempo e che diventa quasi leggenda, un pittore  dalla spirito quasi francescano che dipinge fra i poveri e per i poveri, non nelle grandi città rinascimentali, non fra le grandi signorie del tempo, ma fra la gente umile, abituata alla fatica e che realizza questa opere in chiese solitarie e sperdute. Capolavori per un popolo di boscaioli e pastori, un pugno di opere che ci fanno capire la levatura di un pittore prodigioso che qualcuno ha definito uno dei più grandi artisti del nostro tempo. 


Bibliografia:
"Pietro da Talada- un pittore del quattrocento in Garfagnana" di Normanna Albertini. Garfagnana editrice 2011



Il dramma della steppa. Alpini garfagnini in Russia 1942-43.

$
0
0
"I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di
difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d'altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva nè per Mussolini, nè per il Re, si cercava di salvare la nostra vita". Mario Rigoni Stern con questa frase inquadrò perfettamente lo spirito dei soldati italiani, quando in quel lontano 1942 furono inviati sul fronte russo in sostegno alle forze germaniche per l'occupazione dell'Unione Sovietica, in quella che l'alto comando del Reich definì con il nome di: "Operazione Barbarossa", d'altronde chi mal comincia... La logistica funzionò malissimo: indumenti inadatti, mezzi ed armi inefficienti fecero capire subito a Mario Rigoni Stern e ai soldati italiani (e anche a quelli garfagnini) che l'obiettivo principale sarebbe stato quello di ritornare a casa sani e salvi. Un numero mostruoso di esseri
umani non riuscirono però nell'intento, nella sua totalità si parla di un numero imprecisato di morti fra militari e civili nell'ordine di alcuni milioni. L'Italia ebbe un bilancio spaventoso e pagò un prezzo altissimo con la sua scellerata decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Trentamila soldati rimasero feriti, ottantamila furono uccisi, rimasero dispersi o furono presi prigionieri. Con il tempo l'Unione Sovietica restituì diecimila prigionieri italiani e di altri settantacinquemila non si seppe più niente. Fra tutti questi grandi numeri rimane però da analizzarne uno, il più piccolo, quasi insignificante di fronte a queste grosse ed incredibili cifre, ci furono quattrocento-cinquecento giovani che non fecero più ritorno a casa, erano gli alpini garfagnini. Può sembrare un inezia, ma questa perdita per una valle di trentamila persone fu una delle più grosse tragedie della sua storia.
Tutto cominciò quel maledetto 22 giugno 1941, quando i tedeschi, un po' a sorpresa oltrepassarono il confine russo. Con l'impiego delle grandi unità corazzate e dei micidiali Stukas travolsero tutto e tutti in modo da non dar respiro ai soldati russi. In poche
settimane i nazisti annientarono intere armate, avanzando per centinaia e centinaia di chilometri, la loro marcia era inesorabile e il successo sembrava sicuro. Di fronte a tutto questo Benito Mussolini non voleva rimanerne fuori e il 26 giugno arrivò la prima richiesta del duce a Hitler per intervenire al fianco dell'alleato germanico:"Sono pronto a contribuire con forze terrestri ed aeree e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi una risposta in modo che mi sia possibile passare all'attività operativa", il Fuhrer era titubante: "Se tale è la vostra decisione, Duce, che io accolgo naturalmente con il cuore colmo di gratitudine, vi sarà abbastanza tempo per poterla realizzare, l'aiuto decisivo lo potrete dare col rafforzare le vostre forze nell'Africa settentrionale", ma Mussolini era più che mai deciso: "In una guerra che assume questo carattere, l'Italia non può rimanere assente". E così il 10 luglio 1941 partirono i primi soldati per la lontana Russia, si chiameranno C.S.R.I (corpo di spedizione italiano in Russia). La speranza era quella di un'operazione facile e rapida, nessuno badò all'inadeguatezza con cui furono mandati allo sbaraglio i nostri soldati; alcuni reparti
22 giugno 41 i tedeschi
 passano il confine russo
percorsero a piedi 1300 chilometri prima di raggiungere il fronte, non c'erano nè armi, nè mezzi, nè indumenti all'altezza dell evento. Il primo successo italiano si ebbe comunque nella battaglia di Kiev, sulla scia degli alleati tedeschi, ma con il tempo le difficoltà cominciarono a farsi avanti e peggiorarono con l'arrivo del più grande e temuto generale... "il generale inverno". I tedeschi cominciarono a rendersi conto di aver sottovalutato la potenza russa e il termometro sceso a -40 gradi fece il resto: dei sessantamila uomini del CSRI, quattromila rimasero congelati. A questo punto il comando tedesco che dapprima aveva guardato con sufficienza l'aiuto italiano, adesso chiedeva al duce l'invio di ulteriori uomini, il fronte da difendere era diventato estremamente vasto, urgevano rinforzi. Mussolini era comunque raggiante e ancora pieno di fiducia:"Al tavolo della pace peseranno più i duecentomila dell'A.R.M.I.R che i sessantamila del CSIR". L'8 agosto 1942 Hitler scrive nuovamente al duce per avere le divisione alpine, partirono così le tre divisioni: Julia, Tridentina e Cuneense. Inizia così l'epopea in Russia degli alpini garfagnini.

Tutti questi reparti faranno parte dell' A.R.M.I.R (armata italiana in Russia) con il CSRI raggiungeranno l'impressionante numero di
L'ARMIR in marcia
duecentoventimila uomini. Con l'aumento della richiesta di alpini, il reclutamento di forze fu esteso non solo agli abitanti di coloro che vivevano a ridosso delle Alpi ma anche a coloro che vivevano nelle zone più idonee dell'Appennino, così i montanari abruzzesi del Gran Sasso e quelli delle Alpi Apuane furono immediatamente richiamati. La maggior parte dei garfagnini fu in gran parte arruolata nella divisione Cuneense e in particolare nel battaglione Dronero, per molti di loro era la prima volta che uscivano dalla cerchia delle loro montagne, al massimo potevano essere andati alla fiera di Santa Croce a Lucca; per molti di loro 
la chiamata alle armi sarebbe stata la prima esperienza di vita, si sentivano orgogliosi e fieri di questa nuova avventura. Remo De Lucia di Sillicagnana cambiò presto idea quando arrivò a Dronero con un metro di neve, era partito da casa con i vestiti peggiori e con un paio di scarpacce, tanto l'avrebbe rivestito l'esercito, la divisa gli fu però data dopo otto giorni, racconta poi che già in quella caserma c'erano un migliaio d'alpini male alloggiati, con servizi igenici insufficienti e quello che era peggio l'atmosfera era già cupa, niente a che vedere con l'entusiasmo di qualche mese prima. Naturalmente non sarebbe andato tutto liscio nemmeno nel trasferimento dall'Italia in Russia, Luigi Grilli di Pieve Fosciana
narra che il suo treno si ruppe, altri commilitoni proseguirono a piedi mentre lui ed altri alpini rimasero sul vagone che una volta riparato fu trascinato da treno in treno fino al quartier generale italiano, una volta giunti lì, la vista di un cimitero fece tornare in mente ai soldati e al Grilli le vecchie abitudini di casa, era il 31 ottobre, il giorno dopo in Garfagnana era tradizione andare al cimitero a pregare per i propri morti, qualcuno volle dire un rosario, qualcun'altro ancora esclamò :- Allora anche in Russia si muore!-. Si, purtroppo si moriva e la battaglia di Stalingrado sarebbe stata il trionfo della morte, oltre un milione di vittime e i tedeschi vollero le nostre truppe proprio li. I nazisti concentrarono su Staligrado le forze più potenti, lasciando la riva destra del Don sorvegliata da caposaldi distanziati fra di loro da larghi vuoti, nei quali si potevano infiltrare i Russi, c'era quindi l'urgenza di costituire un fronte
continuo ed era qui che fu impiegata l'ARMIR. Ma quegli uomini che non uccise l'Armata Rossa, le uccise l'inverno. Nei ricordi degli alpini garfagnini rimase indimenticabile quella stagione e se per molti l'inferno è paragonato al fuoco, alle fiamme e al caldo, per quelle persone aveva un colore solo: bianco. Il termometro precipitava a -30 come se niente fosse, nella notte era poi anche peggio quando si alzava il vento della steppa, il conducente di un mulo vide le sue dita congelate nonostante avesse i guanti di pelliccia, poichè reggeva la catena metallica dell'animale. Le parti del corpo umano che erano a  maggior rischio di congelamento erano la punta del naso e delle orecchie e l'estremità delle dita, l'alpino Bastiano Filippi di Pieve Fosciana uscì per fare pipì, ebbe la sventurata sorte di toccare con la pelle nuda della coscia una parete di metallo, vi rimase clamorosamente attaccato e fu liberato a stento dai compagni, riportò una bruttissima ferita. Ma la tragedia si completò con i
viveri, il cibo diventava un blocco di ghiaccio: patate, formaggio erano duri come pietre, il vino ghiacciava, bisognava spaccarlo con l'accetta. Arrivò poi quel 16 dicembre 1942; un po' tutti ormai sapevano che i russi si stavano riorganizzando ma mai nessuno avrebbe immaginato il livello di potenza numerica e qualitativa che avrebbero raggiunto, tutto era quindi pronto per una controffensiva senza precedenti, così i sovietici dettero avvio sul Don all'operazione denominata "Piccolo Saturno". I russi sfondarono sul fronte della Cosseria e della Ravenna, travolgendo poi le divisioni Pasubio, della Torino, della Sforzesca, della Celere. Sul Don resistette ancora, perchè non attaccato direttamente il corpo d'armata alpino, che ricevette poi l'ordine di ripiegare a inizio '43. Quel 16 dicembre '42, portò allo
smembramento totale dell'intero ARMIR che si dissolse in una tragica ritirata. A questo punto lo scopo per gli alpini garfagnini e per tutto il resto degli italiani era uno solo: tornare a casa vivi. L'esperienza di Bastiano Filippi è emblematica; si radunarono sedici o diciassette garfagnini, tutti ragazzi poco più che ventenni, si organizzarono e decisero che l'Italia era a ovest e di li cominciarono una lunga marcia, camminavano con i piedi fasciati per evitare il congelamento, oramai erano senza armi , e niente dovevano temere gli italiani dalla popolazione locale. In un isba (tipica costruzione di legno russa), racconta Remo, che furono accolti da due donne che gli offrirono due tazze di latte ed un intero pane nero, però furono folgorati da un pensiero che la propaganda fascista aveva inculcato ai soldati... e se i cibi fossero stati
avvelenati? Le due donne capirono e prima le assaggiarono loro, gli chiesero poi se parlavamo la loro lingua, volevano parlare di Verdi, di Michelangelo, dell'Italia...il soldato si mise a piangere. La grande ospitalità della popolazione russa salvò molte vite, testimonianze "garfagnine" raccontano ancora che una vecchia non avendo altro dette loro un cetriolo e dei semi di girasole, un'altra pregava la Madonna perchè potessero tornare a casa dai loro cari. Nelle retrovie intanto partivano treni per il centro Europa, alcuni garfagnini fecero in tempo a salirvi fu un lungo tragitto fino a Vienna. Luigi Grilli racconta ancora la sua disperata ritirata, l'esercito ormai era in rotta e lui non sapeva più quale direzione prendere, non rimaneva altro che seguire la fiumana di gente. I suoi ricordi vengono fuori a sprazzi, i giorni e le notti di lunghe marce nella steppa sono rifiutati dalla sua memoria. La sciarpa che gli aveva inviato la mamma era ormai un blocco di ghiaccio , attorno a lui si muoveva tutto, la fame e la stanchezza diventarono sempre più pesanti, ormai sfinito stava per sedersi sul ciglio della strada,
inerme senza forze, lo salvò un tenente che lo sgridò, lo maltrattò e infine gli regalò una scatoletta di carne e letteralmente lo spinse avanti, il male ai piedi era insopportabile e l'errore più grosso fu quello di togliersi gli scarponi, non si li rimise più. La fame intanto non passava  e quello che sognava era una bella tazza di latte caldo delle sue vacche  garfagnine, ma la salvezza ormai era vicina, arrivò un treno, quel treno portava a Varsavia. Ma c'era anche chi tornò a guerra finita, fu il caso (fra i tantissimi)di Giovanni Bertolini, aveva ventitre anni, mancò da casa per tre lunghi anni. Per tornare alla sua terra partì dalla Russia con il treno insieme ad altri reduci, il 2 novembre 1945 raggiunse la Polonia, ad attenderli c'era l'ambasciatore italiano, consigliò a loro di fermarsi qualche giorno per rifocillarsi e riposare, ma la voglia di tornare a casa era tanta,
 ripartirono così senza accettare l'invito. Altra sosta fu in Germania, qui vennero accolti dagli americani e da una delegazione italiana, finalmente ricominciarono anche a mangiare, la sosta durò quindici giorni. Arrivati poi al Brennero si cambiarono d'abiti, di li ci sarebbe stato un autocarro che li avrebbe portati fino a
I percorsi della ritirata
Bologna. A Bologna infine un' ennesimo treno passeggeri li avrebbe attesi, il treno però era stracolmo, la guerra era finita tutti volevano raggiungere qualcuno, addirittura c'era chi non voleva far salire questi garfagnini, ma quando ai passeggeri fu detto che erano reduci dalla Russia molti si alzarono in piedi facendo posto agli ex soldati. Finalmente si arrivò a Lucca, da li con mezzi di fortuna il nostro Giovanni s'inoltrò per la Garfagnana dilaniata e sventrata dalla guerra appena conclusa, poi l'ultimo tratto di strada a piedi, la mulattiera che porta a Livignano (Piazza al Serchio); improvvisamente cominciarono a suonare le campane a festa, chissà perchè suonavano, a Natale mancavano ancora cinque giorni. Qualcuno dalle case del paese l'aveva visto, le campane suonavano per lui. Era il 20 dicembre 1945.
 

Non ci fu comune della Garfagnana risparmiato da questa voluta tragedia. Gallicano come numero di deceduti fu la comunità che più di tutti fu colpita dal lutto di questa scellerata campagna, ma quello che conta non sono i più e i meno, quello che conta sono quei 437 uomini che non fecero mai più ritorno.



Bibliografia:
"Alpini di Garfagnana strage in Russia 1942-43" di Lorenzo Angelini. Banca dell'identità e della memoria. Unione dei Comuni della Garfagnana anno 2014




Quando il meteo era una cosa seria in Garfagnana... parole, detti e come si prevedeva il tempo senza avere la T.V

$
0
0
Questa pioggia ha veramente scocciato, non se ne può più... Bisogna
Isola Santa
anche dire la verità, non siamo mai contenti: quando troppo caldo, quando troppo freddo, quando troppa pioggia, quando poca neve...ma insomma su! Al giorno d'oggi il tempo brutto o il tempo bello influiscono sulla nostra vita in maniera importante ma allo stesso tempo marginale, ci possono mandare a gambe all'aria una gita con amici, non ci possono permettere di fare alcuni lavori domestici. Ma una volta non era così...una stagione più o meno bella metteva a repentaglio il sostentamento della famiglia. In società contadine come quella garfagnina, dal meteo dipendevano le colture, i raccolti e una stagione inclemente poteva compromettere veramente il benessere familiare, per di più, per evitare rovine e danni alle coltivazioni c'era una saggia cura del territorio, ci si preoccupava di ripulire il sottobosco, di sistemare i sentieri, di incanalare le acque piovane, di
Pratomaleta
ripristinare i muretti a secco caduti, insomma proprio il contrario di quello che succede oggi... Figurarsi che oggi sarebbe tutto più facile per quei contadini garfagnini del tempo che fu, con le previsioni meteo a lunga scadenza ci sarebbe modo di organizzarsi e di gestire meglio tutta la situazione... ma allora come facevano i nostri avi a prevedere il tempo? Ci si affidava a tecniche puramente empiriche, cioè fondate su esperienza diretta e pratica. Una tecnica fra le più comuni era affidarsi alle Calende, questa pratica variava da regione in regione. La Toscana contava le Calende in questo modo: i primi dodici giorni del mese di gennaio si dovevano appuntare su un foglio le condizioni atmosferiche, ogni giorno dei dodici rappresentava il mese dell'anno (il primo giorno gennaio, il secondo febbraio e così via)a secondo del tempo che aveva fatto nel

rispettivo giorno, avrebbe corrisposto al tempo che avrebbe fatto in quel mese (ad esempio:se nel terzo giorno di gennaio aveva piovuto, anche marzo sarebbe stato piovoso). Naturalmente questo metodo non ha nessuna base scientifica, eppure ancora oggi è usato da chi tramanda questo folclore, sostenendo poi che nella maggior parte dei casi si ha un riscontro positivo con la realtà. Non ci si affidava però solo alle Calende, ma ad altri metodi per così dire naturali, quello della lettura dei semi di cachi era uno dei più originali e adesso completamente in disuso. Questo sistema consentiva però di conoscere il meteo per una sola stagione:l'inverno, era infatti la stagione più pericolosa per gli equilibri della natura e un inverno più o meno mite avrebbe fatto da viatico per raccolti più o meno buoni. Fattostà che questa operazione con i semi di cachi era molto semplice, bisognava prendere un seme e dividerlo in due orizzontalmente e osservare la forma del suo virgulto, se era a cucchiaio sarebbe caduta molta neve mista a pioggia, a forma di forchetta la neve sarebbe stata poca e l'inverno mite, se a forma di coltello, l'inverno sarebbe stato pungente, con venti forti e
semi di cachi
gelidi. Esisteva un altro arcaico metodo che consisteva nel tagliare una cipolla in 12 spicchi, ogni spicchio andava salato e poi (nella notte fra il 24 e il 25 gennaio) andavano posti su un davanzale ad asciugare. Se il sale si fosse sciolto parzialmente il tempo sarebbe stato variabile, se completamente significava pioggia o neve e se il sale fosse rimasto intatto sarebbe stato bel tempo. L'operazione andava ripetuta tre volte.

Come abbiamo visto le condizioni meteo hanno influito molto e in tutti i sensi nella vita dei garfagnini, da sempre popolo dedito alle coltivazioni e all'allevamento, legato quindi a filo doppio con gli elementi della natura. Infatti il suo peso è stato talmente rilevante che molte parole del dialetto garfagnino sono legate proprio alle condizioni del tempo. Parole talvolta dall'etimologia
inspiegabile e misteriosa e per questo ancora più proprie e legate al territorio. Giornate come questa che vedo fuori dalla finestra sono giornate "torbate", e da stamani non fa altro che "sbruscinà"(per i non garfagnini la frase significa che: la giornata è nuvolosa e da stamani non fa altro che piovigginare). Ma quante volte dai nostri nonni abbiamo sentito la parola "balfoia": quando la neve è trasportata dal vento, o sennò quando il vento fa i mulinelli ed è un continuo turbinio di foglie secche, ebbene, in questo caso è il "baffardel", ancora a proposito di vento il "sinibbio" o il "sinibro"è quel vento pungente che entra nelle ossa, tipico dei mesi di gennaio e di febbraio. Tipica dei medesimi mesi è la brina, in garfagnino è detta "la pruina". Esiste poi tutta una serie di parole legate alla neve: come abbiamo già letto "balfoia"è una di quelle, la stessa neve in dialetto è detta "la gneva" e quando questa neve diventa poltiglia
si dice che è "paltroffia". La "cecajola" invece è il vento che porterà la neve, prima di trasformarsi in una vera e propria "buriana": una tempesta di neve. La maggior parte di questi termini legati al tempo è "spostata" sulla stagione invernale e in effetti parole legate alla bella stagione ce n'è poche: il vocabolo "asciuttore", indica proprio la siccità delle campagne e la "fagonza"è il caldo opprimente che toglie il respiro.

Non solo semplici parole garfagnine sono legate al meteo, ma anche dei veri e propri detti, figli di una saggezza popolare propriamente tipica della nostra valle, per ogni mese esisteva più di un proverbio. A Gennaio era tipico quello che diceva "Se Gennaio mette l'erba,te,villan, il fien asserba": se questo mese sarà clemente per il contadino sarebbe bene falciare subito l'erba e conservarla per i mesi successivi. "La pioggia di febbraio fa empì il granaio", "Luna Marzolina fa vinì l'insalatina". "Chi ha un ciocchetto nel fienile lo asserbi per marzo e aprile": Marzo ed Aprile in Garfagnana da un
Ponte di Campia con neve
punto di vista meteoroligico possono riservare ancora delle sorprese e se è avanzato qualche ciocco di legna sicuramente tornerà utile per quel periodo."Fra maggio e giugno nasce un fungio". "Quando piove al solleon, la castagna edè un guscion": quando piove troppo nell'estate, probabilmente la castagna che maturerà ad ottobre sarà povera di polpa. "La pioggia di settembre pogo acquista e nulla rende":la pioggia in questo mese niente da alle coltivazioni,anzi, rischia di danneggiare la maturazione dell'uva. 

Potrei continuare ancora per molto, con parole e proverbi garfagnini a conferma del ragguardevole significato che avevano le condizioni meteo su una cultura contadina come la nostra. La solita cultura contadina che sul tempo ci ha insegnato la regola principale: è la natura che comanda, che dispone e impone quello che vuole, noi siamo qua sotto e bene o male, niente ci possiamo fare...



Bibliografia:

  • "Dizionario garfagnino...l'ho sintuto dì" di Aldo Bertozzi edizioni L.I.R
  • "Essenze di saggezza popolare" di Aldo Berttozzi. Banca dell'identità e della memoria

La Garfagnana alla vigilia della I guerra mondiale: povertà, ignoranza e un...pessimo malcostume

$
0
0
Poco più di cent'anni per la storia dell'umanità non sono niente,
per la storia del mondo figuriamoci...un granello di sabbia. Eppure in cento anni ne accadono di cose, guardiamo gli ultimi: due guerre mondiali, tre guerre in estremo oriente (Corea, Indocina, Vietnam), e quattro conflitti arabo-israeliani. In questi cent'anni abbiamo inventato la bomba atomica, abbiamo scoperto la penicillina, nati e morti fascismo e comunismo, inventata la televisione, la radio e i computer ultramoderni. Nonostante questo piccolo lasso di tempo (storicamente parlando) ci dimentichiamo spesso di ciò che eravamo e di quello che abbiamo combinato nel bene e nel male, lo scrittore inglese Aldous Huxley disse che il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia c'insegna. Così fu per quei governanti che nel 1940 ci coinvolsero nuovamente in una guerra mondiale. Niente aveva
insegnato la precedente guerra(la I guerra mondiale), anche qui c'eravamo buttati in un conflitto che ci sarebbe costato un'enorme perdita di vite umane e perdipiù ci sarebbe costato valanghe di miliardi di lire. Nessuno si curava, se socialmente parlando, la nostra Nazione aveva le cosiddette "pezze al culo". Nel 1914, alla vigilia della grande guerra, in Italia si crepava di fame... si moriva ancora di pellagra, di tifo, febbri reumatiche, gastroenterite, malaria, meningite e denutrizione. Si moriva di tutte quelle patologie legate alla sotto-alimentazione e al sudiciume. A dispetto di questo non esitammo, in tre anni di guerra, a spendere per il famigerato sforzo bellico, 45 miliardi di lire, pari ad oggi a 150 miliardi di euro. Uno sforzo gigantesco, paragonato alle reali potenzialità economiche della nazione. Il costo ammontò ad un terzo del P.I.L dell'intero periodo '15-'18 e sebbene la guerra ci vide vincitori, il Paese si trovò nelle condizioni economiche, politiche e sociali, tipiche di una nazione sconfitta.E la Garfagnana come si presentava alla vigilia della I guerra mondiale? In che condizioni sociali era? Nel 1914 eravamo 37.855 anime, divisi in 17 comuni,
Italiani in partenza per la guerra
dediti per la maggior parte alla pastorizia e all'agricoltura. Si calcolava al tempo, dagli ultimi censimenti, che di queste trentasettimila persone circa dodicimila fossero impiegati in lavori agricoli, poco più di duemila nell'industria e nell'artigianato, altre cinquecento e più persone si dedicavano al piccolo commercio. In più a questi lavoratori esisteva un'altra categoria che vedeva, impiegati dello Stato, guardie municipali e campestri, preti, frati e maestri, nella sua totalità erano quasi seicento. In più esisteva una certa elite di cosiddetti proprietari capitalisti, i ricconi, per capirsi, questi erano 721 (per la precisione), anche se nessuno di questi era da considerarsi un milionario. Ma un quadro  tagliente, drastico e reale della situazione lo riportarono i giornali dell'epoca, disegnando una condizione drammatica, uno stato delle cose che non aveva certo bisogno di tuffarsi in un imminente conflitto, ma avrebbe avuto bisogno che una parte di
Operai e operaie della Cucirini
 di Gallicano, una delle
poche industrie presenti
quello sforzo economico intrapreso per la guerra fosse dedicato alla scuola, al lavoro e all'industria, per un'area (e per molte altre ancora), come quella garfagnina, definita al tempo "depressa". Siamo nell'ottobre 1913, Augusto Torre sul periodico "La Voce" del direttore Prezzolini così diceva in riferimento alla vita garfagnina:"La vita, in generale, è tutta dedita al lavoro; i contadini e i piccoli proprietari terrieri devono lavorare continuamente in estate e in inverno, passando da un genere di occupazione all'altro, per trarre dalle terre quello che abbisogna per l'alimento, per le vesti, per pagare gli strumenti di lavoro, per pagare le imposte ecc. e sono spinti al dissodamento dei terreni e alla cultura più intensa dei vecchi. Nè si creda che per questo sia stato possibile fare entrare in Garfagnana i metodi nuovi di coltivazione del suolo: tutt'altro! I sistemi di lavorazione agricolo sono i medesimi di 50, 100, o 200 anni fa..." ma non solo,  sempre il Torre nel suo articolo riferiva
di una situazione a dir poco paradossale e confermava il fatto che ormai il garfagnino della propria terra aveva coltivato ogni metro quadro coltivabile e che ormai con l'aumento demografico (n.d.r.: non come oggi, allora i bambini nascevano veramente!) questa terra da un punto di vista produttivo stava già dando il massimo, quindi, in un futuro prossimo non avrebbe potenzialmente avuto la possibilità di sfamare altre bocche, considerando poi il fatto che le prospettive erano fra le peggiori e così continuava l'articolo: "la Garfagnana è una regione isolata dai grandi centri, lontana dal suo centro politico: Massa, priva di strade, di industrie, di commerci". Un escamotage alla miseria era investire sui figli, ma non come intendiamo oggi... se nasceva un figlio maschio, una soluzione possibile a tutti i mali era quella di farlo diventare un prete. Qui c'entrava ben poco la vocazione, pochi pensavano di servir Dio, un prete in famiglia significava mantenere
intatta la proprietà dei terreni, pagare eventuali debiti, un prete in casa raddrizzava ogni situazione, a confermare questa tesi era l'eccedenza di preti in Toscana (anno 1911), molti sacerdoti toscani e sopratutto garfagnini venivano trasferiti nelle diocesi venete. Da giornalista è da storico analista qual'era il Torre, giustamente diceva che una soluzione a questo malessere sociale sarebbe stata quella dell'emancipazione intellettuale e culturale, ma l'ignoranza a quanto pare dalle nostre parti si tagliava ancora con il coltello. L'ignoranza e la mancanza di istruzione era uno dei tipici mali del garfagnino medio di quel tempo. Dal censimento del 1911, quattro anni prima dell'ingresso in guerra, il 30% della popolazione garfagnina era completamente analfabeta, buona parte del restante sapeva appena leggere e scrivere o mettere una firma. Di vita intellettuale poi, non se ne parlava assolutamente:"...è molto se leggono un giornale qualunque, senza capir, naturalmente, quello che leggono, se non si tratta di fatti di cronaca...". Di fronte a ciò ci metteva del suo anche il garfagnino stesso. A mettere il bastone fra le ruote ad un possibile innovamento, ci facevano incastrare delle mere ragioni campanilistiche, tant'è che venti secessionisti garfagnini spiravano nella valle. Proprio alla vigilia di una guerra mondiale, questo
Vignetta satirica sulla
neutralità italiana nel 1914
appariva una situazione illogica, da una parte il mondo si contendeva nazioni e regioni intere, mentre il garfagnino voleva dividere l'alta Garfagnana dalla Bassa Garfagnana. Giornali di tutto rispetto combattevano questa battaglia e "Il Camporgiano" intendeva propugnare gli interessi della parte più alta della valle, interessi avvertiti come non necessariamente coincidenti con quelli della parte bassa: "...gagliarda e generosa alziamo in alto, su, su più in alto dell'altezza dei nostri monti, alziamo la nostra bandiera, la bandiera fiammeggiante dell'indipendenza civile, della libertà, del progresso, della nostra emancipazione...Noi vogliamo risvegliare tutte le nostre latenti energie e dirigerle senza distinzione di partito e di casta verso la lotta unica, per un nostro avvenire migliore, verso la lotta per tutelare gli interessi dell'alta Garfagnana che nulla hanno in comune con quelli della bassa". Alla faccia della globalizzazione!!! Per farla breve e chiara, nella nostra valle, non eravamo preparati non solo ad affrontare una guerra, quello che era ancora più grave era che non eravamo consapevoli di quello che intorno ci stava accadendo; Lunardi dalle pagine de "La Garfagnana" afferma che "...la Garfagnana può
raffigurarsi, amministrativamente parlando, all'Italia medievale di un tempo. Ad ogni piè sospinto troviamo un piccolo comune, in ogni comune, amministratori che vedono l'interesse della propria terra..."
, il giornalista si riferiva anche, in maniera sibillina, ad un mal costume dell'epoca che vedeva la presenza di "governi nascosti", praticamente in ogni comune si praticava la gestione del potere politico da parte di alcune famiglie maggiorenti. Su questo fatto rincarava nuovamente la dose il Torre, stavolta neanche tanto in maniera sibillina: "...le elezioni amministrative si limitano al vicendevole alternarsi di alcuni pochi individui, che sono i benestanti, le vecchie famiglie rispettabili, quelli che dovrebbero pagare una maggiore somma di imposte che procurano di scaricare sui loro contadini e sugli avversari". Ma come si suol dire, al peggio non c'è mai fine, perchè in effetti, al garfagnino di qualsivoglia elezione non importava un bel niente, anzi, importava perchè era l'occasione per rimpinguare il portafoglio, era infatti diffusissima la vendita del voto, ad opera di agenti locali e galoppini vari. Ecco l'ennesima testimonianza del coraggioso Torre:"...la massa dei garfagnini non conosce affatto quale sia, come funzioni il governo italiano, non è scossa menomamente dai problemi, nazionali, politici e sociali, che quasi sempre ignora, non partecipa insomma alla vita pubblica in alcun modo. Accorrono solo alle elezioni, perchè ve li attirano i biglietti di banca, che pagano loro il voto, quando si tratta di elezioni politiche, i fiaschi di vino quando si tratta di quelle amministrative...".

Un panorama desolante, a cui nessuno importava. Le cose poi peggiorarono ancora, per quella guerra. La I guerra mondiale portò lontano da casa giovani uomini che potevano essere la speranza di un
risorgimento della valle, rimasero solo donne, vecchi e bambini e quelli che tornarono, molti di loro tornarono con mostruose menomazioni e non più abili al lavoro... e non contenti e non appagati di quello che era successo i nostri governanti ventidue anni dopo si avvieranno in un'altra nuova ed ennesima guerra...


Bibliografia

  • Articolo di Augusto Torre pubblicato su "La Voce" ottobre 1914
  • "Corriere dell'Alta Garfagnana" articolo di Leandro Ulderico Telloli 1910
  • "Centenario prima guerra mondiale- Presidenza del Consiglio dei Ministri- Struttura di Missione per gli anniversari di interesse nazionale" 29 aprile 2014
  • Censimento 10 giugno 1911- Direzione Generale della Statistica

Le leggende di Natale della Garfagnana

$
0
0
Non voglio essere irriverente, ne tanto blasfemo, ma l'elettrizzante
magia che coinvolge buona parte degli aspetti del Natale è legata al mito, alla tradizione e in molti, moltissimi casi alla leggenda. Già la stessa data in cui si festeggia la venuta al mondo del Salvatore, rientra proprio in quest'ottica; la Bibbia non dice nulla di specifico circa il mese o il giorno in cui nacque Gesù. Nella scelta del 25 dicembre come giorno di Natale, influi il calendario civile romano, che alla fine del III° secolo celebrava in quel giorno il solstizio invernale, il cosiddetto "sole invitto". Da quella data, le giornate si facevano più lunghe e metaforicamente parlando, in questo contesto, alla nascita del Cristo gli venne attribuito medesimo significato, il significato della Luce che nasce per sconfiggere le tenebre, un nuovo sole di giustizia e verità. 
Questo è l'esempio più alto, più significativo, ma ne possiamo
Babbo Natale e San Nicola
citare altri, meno sintomatici, ma utili per capire il concetto. E se, come nella circostanza della nascita di Gesù, il paganesimo si è fatto cristianesimo, nel caso di Babbo Natale è il fatto contrario, è il cristianesimo che si è trasformato in paganesimo. Si, perchè Babbo Natale vide origine in San Nicola, santo vissuto nel IV secolo e festeggiato il 6 dicembre. Secondo la tradizione, San Nicola regalò una dote a tre fanciulle povere, perchè potessero andare in sposa, invece di darsi alla prostituzione, in un'altra occasione salvò tre bambini. Fu così, che nel Medioevo prese usanza, nel giorno in cui si festeggia il santo di commemorare tutti questi episodi, facendo piccoli regali ai bimbi. Con il passare dei secoli, in special modo nel Nord Europa, si appropriarono di questo commemorazione, trasformando San Nicola in Samiklaus, Sinterclaus o nel nome a noi più conosciuto di Santa Claus. Di li, il passo fu breve, i festeggiamenti si spostarono alla festa più vicina e più importante: il Natale. Si potrebbe continuare ancora e osservare che anche l'albero di Natale nasce dalle credenze popolari nordiche, così come le palline con cui viene decorato videro la loro genesi nella leggenda. Insomma, tutto quello che è legato al Natale è ammantato di leggenda, favola e allegoria e a tutto questo non si poteva sottrarre la Garfagnana, una delle culle di questi tradizionali racconti e allora seguitemi faremo un viaggio in alcune delle leggende di Natale della Garfagnana.


LO ZINEBRO
In Garfagnana c'è l'usanza di fare l'albero di Natale con il
Ginepro
Ginepro, mai con l'abate, nemmeno con il pino, solamente con lo zinepro (come si dice in dialetto). E sapete il perche? Perchè quando San Giuseppe e la Madonna scapparono per andare in Egitto e il perfido Erode dava la caccia a tutti i bambini, fu proprio lo zinepro che salvò Gesù, comportandosi meglio delle altre piante. Era una notte buia e tempestosa, pioveva a più non posso, e dopo la pioggia anche la neve. Il povero San Giuseppe non sapeva come fare a riparare dal maltempo se stesso e Maria, non c'era l'ombra di una capanna, nemmanco di un metato, di fronte a se aveva solamente selve. Videro allora una ginestra e gli chiesero riparo, la ginestra stizzita le mandò via. Gambe in spalla allora, finchè non videro una bella scopa 
(n.d.r: un'erica), alta e frondosa, all'ennesima pietosa richiesta di riparo la scopa ebbe a dire:- Surtitimi di torno, io nun ne vo' sapè di voialtri. E poi se per disgrazia passa Erode e vi trova qui sotto mi brugia anco me. Surtitimi di torno v'ho ditto!- Intanto continuava a nevicare copiosamente e ai due poveri sposi non rimaneva altro che cercare un albero benevolo. La stanchezza però oramai le stava vincendo, fino a che non scorsero uno zinepro, anche a lui chiesero riparo:- Vinite, vinite pure- gli rispose e per ripararli meglio e perchè Erode non li trovasse protese i suoi aghi in avanti - Cusì se viene Erode si punge tutto-. Il malvagio tiranno passò, ma non le trovò. Il mattino dopo aveva smesso di nevicare e finalmente San Giuseppe e la Madonna ripresero la strada per l'Egitto. Da quel giorno per i garfagnini lo zinepro diventò il loro albero di Natale.


I RE MAGI SULLA PANIA
Credeteci pure, c'è una notte, fra Natale e la Befana che i Re Magi
L'impronta dei cammelli sulla Pania
passano sopra la Pania, sui loro cammelli alati. Veleggiando sui nostri monti si dirigono verso Betlemme, guidati da una stella maestra. Quello che è certo che la strada è lunga da fare, il percorso è improbo e le Apuane sono uno scoglio duro da superare. Quello è proprio il periodo del maltempo, pioggia e bufere di neve sono all'ordine del giorno e i venti che spirano dal mare creano un muro di nebbia invalicabile, infatti quando i tre Re passano proprio sulla vetta della Pania della Croce i cammelli repentinamente si abbassano dirigendosi verso il monte, prendendo da li lo slancio verso il mare. Nel punto esatto dove gli zoccoli dei quadrupedi toccano la cima, lasciano l'impronta dei loro zoccoli e nel cielo uno sfavillio di scintille, che vengono giù come luccicanti stelle cadenti.


SAN PELLEGRINO E BERTONE: IL MUGNAIO CHE NON VOLEVA FESTEGGIARE IL NATALE 
C'è una località vicino a Castiglione che è detta "Il Mulinaccio",
questo dispregiativo ha un perchè. All'epoca, in questa località sorgeva un mulino che prendeva le acque dal vicino torrente chiamato "Butrion". Il padrone era il mugnaio Bertone, uomo infido,  antipatico e pure cattivo, dal momento che ad ogni piè sospinto bestemmiava Nostro Signore. Dal cielo l'arcangelo Gabriele chiedeva vendetta, ma il Signore visto l'intercedere di San Pellegrino chiudeva sempre un occhio, chiedendo però in cambio un'opera buona del mugnaio irrispettoso. L'occasione di redenzione l'ebbe la notte di Natale. Tutti i paesani si stavano preparando per andare alla messa, le campane stavano suonando, ma Bertone non ne voleva sapere di andare a messa e per dispetto e per avidità dette il via alle rumorose macine del mulino e cominciò a lavorare. All'improvviso un sinistro rumore echeggiò da sopra il suo mulino, dalla montagna si staccò un grosso masso, che sollecitato dalle ali dell'arcangelo precipitò sulla costruzione, schiacciando Bertone. Si racconta che da quei tempi, proprio la notte di Natale chi passa da quelle parti, sente ancora strani rumori, come lo strepitio di catene e il girar di macine.

IL CEPPO DI NATALE
In Garfagnana dove il retaggio contadino è ancora sentito, le tradizioni natalizie vengono tenute vive affinchè non venga
dimenticato l'insegnamento degli avi. Questo è il caso del "ceppo di Natale", che di leggenda non ha niente, ma rientra nelle nostre care, vecchie e dimenticate tradizioni. Il ceppo, non è altro che un grosso ciocco di legno messo ad ardere nei camini alla vigilia di Natale. Il grosso pezzo di legno, alcuni mesi prima veniva già adocchiato dal contadino, una volta scelto accuratamente era messo ad asciugare, pronto per quella sera ad essere arso davanti alla famiglia riunita. La particolarità era che questo grosso ciocco (talvolta talmente grande da essere trasportato da due persone), doveva ardere fino alla sera di Santo Stefano, in alcune famiglie addirittura fino alla sera del capodanno. Per durare così a lungo venivano usati alcuni stratagemmi, come ungerlo con il grasso di maiale o coprirlo di cenere perchè la brace non lo bruciasse completamente. Di solito veniva chiamato pure il prete a benedire il ceppo, dato che il suo significato rientrava nella sfera religiosa,
dal momento che il suo calore doveva servire per accogliere e riscaldare la venuta di Gesù Bambino nella casa. Ma quest'usanza vide la sua origine in tempi lontanissimi e si rifaceva probabilmente al significato puramente pagano che si dava al solstizio d'inverno: un fuoco sacro, in collegamento diretto con il sole. Tant'è che proprio San Bernardino da Siena deplorava questa tradizione. Siamo a Firenze nel 1424 e queste furono le sue parole:"Per la natività di nostro Signore Gesù Cristo in molti luoghi si fa tanto onore al ceppo. Dalli ben bere! Dalli mangiare! El maggiore della casa il pone suso e falli dare denari e frasche. Perché è così in Natale rinnegata la fede e perché so’ convertite le feste di Dio in quelle del diavolo? Si vuole mettere el ceppo nel fuoco et che sia l’uomo della casa quello che vel mette, coloro i quali pongono il ceppo al fuoco la vigilia di Natale, conservano poi del carbone alcuni contro il
San Bernardino, il predicatore
cattivo tempo pongono fuori della propria casa l’avanzo del ceppo bruciato a Natale".
Si, perchè esiste ancora l'usanza di conservare le sue ceneri, a quanto pare hanno proprietà magiche e di buon augurio: possono essere sparse nei campi per avere un buon raccolto, favoriscono la fertilità degli animali e proteggono dai fulmini.


Leggende e usanze queste, che fanno parte di un bagaglio culturale antico, che si intreccia in un singolare mix di sacro e profano, ricordandoci che non è importante cosa trovi sotto l'albero di Natale, ma chi trovi intorno. Buon Natale a tutti !!!


Bibliografia:

  • "La Pania" dicembre 1990 "Il zinebro" professor Gastone Venturelli
  • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" Paolo Fantozzi. Edizioni le lettere
  • "Predica XXIV" San Bernardino da Siena

Alle origini del campanilismo in Garfagnana

$
0
0
foto di Daniele Saisi
Scrive Goethe nel suo celebre viaggio in Italia:-Qui sono tutti in urto, l'uno contro l'altro. Animati da un singolare spirito di campanile, non possono soffrirsi a vicenda-. La questione si fa "seria" quando si trattano certi argomenti. Il campanilismo è uno di questi e noi toscani lo viviamo come il pane quotidiano e nello specifico anche la Garfagnana lo sente come una cosa viscerale. Nonostante però che la Toscana sia la patria delle cosiddette "guerre di campanile", il termine "campanilismo" deriva da un aneddoto avvenuto a centinaia di chilometri di distanza. Siamo a Palma Campania nel 1841 e finalmente per i palmesi viene il tanto sospirato giorno della separazione dal comune di San Gennaro Vesuviano, un decreto del sovrano del Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, sancisce che Palma Campania può istituire un proprio comune autonomo. Nel contempo, dall'altra parte, a San Gennaro Vesuviano viene eretto il tanto desiderato campanile,
San Gennaro Vesuviano
il campanile senza l'orologio
orgoglio di tutta la comunità, su ogni facciata viene posto l'orologio civico, tranne che su una, quella posta ad oriente, quella verso Palma Campania... Questo è quello che dice la tradizione, ma solo la definizione del vocabolario rende bene l'idea:"Attaccamento esagerato e gretto alla propria città o al proprio paese". Checché se ne dica, questo fenomeno in Italia è molto sentito e importante, simboleggia un senso di identità e di appartenenza al luogo di nascita. Un sentimento talmente forte che travalica la stessa identità nazionale. Tutto ciò non nasce a caso ma ha profonde ragioni storiche. L'Italia è una nazione molto giovane, la sua completa unificazione nazionale termina 
alla fine della I guerra mondiale nel 1918, e fino ai tempi risorgimentali siamo una moltitudine di stati separati, che spesso combattono fra di loro, ognuno con la propria lingua e le proprie tradizioni. Questa è la falsariga del perchè anche in Garfagnana il campanilismo è così sentito, non facendo riferimento solamente a quello classico fra garfagnini e barghigiani, ma ciò accade fra comune e comune, ma non solo, anche fra quei paesi che fanno parte del solito comune e che distano poche centinaia di metri uno dall'altro. D'altra parte la Garfagnana fin
Gli stati italiani
prima dell'unificazione
dal medioevo ce la possiamo immaginare come un grosso ring, dove ognuno combatte contro l'altro e dove i governanti 
della nostra valle, con furbizia, fin da quei tempi hanno fatto leva sul carattere dei garfagnini e in genere sul sentimento umano: invidia, gelosia, opportunismo, emozioni ideali per fomentare zizzania e contrasti.A quel tempo il nostro attaccamento alla terra, nel senso proprio della parola, è invece dovuto al semplice bisogno di mettere il pane sotto i denti, dal momento che per struttura morfologica la Garfagnana è difficilmente coltivabile, per questo che un solo metro di terra in meno significa meno raccolto e di conseguenza minor cibarie, quindi la filosofia del "questo è tuo" e "questo è mio", è chiara fin dai primordi, poi a soffiare sui fuochi delle discordie territoriali hanno cominciato i primi "nobiluomini" e sul motto "divide et impera" faranno le loro fortune. Gherardinghi, Rolandinghi, Suffredinghi, siamo agli inizi dell'anno mille e il territorio comincia ad essere diviso fra potenti famiglie feudali, ognuna di esse cerca di portare nella testa dei propri sudditi l'ideologia a cui la stessa potente famiglia è assoggettata: quando l'imperatore e quando il Papa. I secoli passano e la divisione è sempre più presente e più netta nelle nostre terre. La Garfagnana è divenuta terra di conquista per altre città, che sono a sua volta in lotta fra loro: Firenze, Pisa e Lucca. Nel XV 
Guerre medievali
secolo di tutta risposta i garfagnini si scocciano di questo tira e molla e mettono in ballo un'ennesima città e un nuovo signore. Così facendo nel 1429 con un atto di dedizione, si passa sotto gli Estensi di Ferrara. Al marchese d'Este Niccolò III sono assegnate le vicarie di Castelnuovo, di Camporgiano e di Gallicano, mentre al marchese Borso d'Este (nel 1451)viene affidata la giurisdizione per le cosiddette vicarie denominate "Terre Nuove". Insomma, le divisioni aumentano, addirittura sotto la medesima casa regnante! 

Perciò, capirete voi, come si faceva a non diventare campanilisti in Garfagnana, in tutto questo bailamme? Inoltre, per rendere la situazione ancor più ingarbugliata è d'uopo notare che già nel 1500 siamo il crocevia di tre stati: Lucca, Firenze e Ferrara(poi Modena). Di campanilismo ne sa già qualcosa l'Ariosto se nella IV satira così dice riferendosi alla Garfagnana:
"Ogni terra in se stessa alza le corna,
che sono ottantatre, tutte partite
da la sedizion che ci soggiorna."
Si avete capito bene, 83 comuni, divisi in quattro vicarie, e ogni
Le Satire
L.Ariosto
comune vuole dire la sua... Povero Ariosto !!! Che deve poi combattere pure l'ostilità dei garfagnini verso Firenze. Diciamoci la verità, gli Estensi ne farebbero volentieri a meno delle terre garfagnine, ma il garfagnino invece non vuole far parte di Firenze. Si vede che l'esperienza non è stata buona, quando Papa Leone X (acerrimo nemico degli Estensi) consiglia ai fiorentini di conquistare la vallata. I fiorentini accettano il consiglio e nel 1521 ne prendono possesso, ma alla morte del Papa, alla fine del solito anno, i notabili di Castelnuovo scacciano il commissario pontificio, richiedendo nuovamente la protezione di Modena. Non pensiamo che questo breve periodo di dominio gigliato non ha lasciato il segno per l'argomento che stiamo trattando, tutt'altro, da ciò nascono due fazioni con forti spinte autonomistiche, che si muovono e si regolano in direzioni opposte. I notabili garfagnini si dividono quindi in due "partiti": uno detto "all'italiana", filo ecclesiastica e "filo fiorentino" e l'altro definito "alla francese" e vicino al duca d'Este, alleato dei francesi. Barga invece accoglie a braccia aperte Firenze, anche lei tirata da una parte all'altra dai lucchesi e dai pisani, nel 1341 decide di sottomettersi a Firenze. E' la sua fortuna, i Medici hanno  grande interesse per Barga e del suo circondario, da cui traggono importanti materie prime, concedendo poi ai loro cittadini privilegi ed esenzioni fiscali che consentono lo sviluppo di fiorenti attività e commerci. Barga
Il Marzocco a Barga
simbolo fiorentino
del potere popolare
difatti rimane fiorentina fino al 1859. Questa antica ricchezza barghigiana probabilmente è la genesi del tanto "odio" garfagnino. Forse il sentimento dell'invidia, giocò molto su questo fatto, il garfagnino fu generalmente un contadino povero, questa povertà lo portò ad essere scaltro e furbo, mentre il barghigiano già all'epoca vantava un paese ricco di palazzi signorili e di uno stile di vita completamente diverso. Rimane il fatto che il culmine di questo campanilismo fra garfagnini e barghigiani è stato toccato nel lontano 1666, per la precisione sono i gallicanesi i protagonisti del fattaccio. Il fiume Serchio a quel tempo è una risorsa importantissima, sia per la pesca, sia per la creazione delle cosiddette "vasche da macero": grossi pozzi d'acqua dove viene messa a marcire la canapa, risorsa significante per l'epoca. Queste pozze sono fonte di interminabili diatribe e a complicare la situazione ci si mettono problemi di confine, dal momento che anche lo stesso fiume è diviso in tre stati (quelli sopra citati), tutti cercano di "disordinare" le acque a proprio piacimento. Per secoli è il lavoro delle Cancellerie a dirimere pacificamente le spinose questioni e nonostante la buona volontà si arriva anche al misfatto. Un "bel" giorno i gallicanesi si appostano quatti quatti dietro a dei massi e allo scorgere dei barghigiani, intenti a deviare le acque del
Vasche di macero per la canapa nei fiumi
fiume aprono il fuoco, c'è un vero e proprio scontro ad archibugiate, sedato in qualche maniera dalle forze dell'ordine.

Sarebbe però errato pensare che "il campanile" divideva (e divide) solamente Barga dal resto della valle, no, anche la stessa Garfagnana ha vissuto campanilismi estremi come quello del 1921 e dalle pagine de "Il Camporgiano" così si leggeva: "...gagliarda e generosa alziamo in alto, su,su, più in alto dell'altezza dei nostri monti, alziamo la nostra bandiera, la bandiera fiammeggiante dell'indipendenza civile, della libertà, del progresso, della nostra emancipazione. Noi vogliamo risvegliare tutte le nostre latenti energie e dirigerle senza distinzione di partito e di casta verso la lotta unica, per un nostro avvenire migliore, verso la lotta per tutelare gli interessi dell'Alta Garfagnana che nulla hanno in comune con quelli della Bassa". La questione tirata in ballo dal giornale ha origini anche economiche. Il giornalista vede una parte bassa della valle come più moderna e al passo con i tempi, da poco infatti ha aperto la
La S.M.I di Fornaci, foto d'epoca
S.M.I di Fornaci di Barga, molti dei nuovi operai cominciano ad abbandonare le colture per lavorare in fabbrica. La parte nord
(sempre secondo il periodico), invece ha esigenze diverse, legata com'è ancora alle attività rurali, per questo che l'Alta Garfagnana preferisce rimanere sotto la provincia di Massa, mentre la Garfagnana Bassa è per l'annessione alla provincia di Lucca.
Riassumendo il tutto possiamo dire che sono tre le cause che c'hanno portato al nostro campanilismo (talvolta) estremo. La prima ha una ragione storica: la Garfagnana nei secoli, rispetto a molte altre zone d'Italia prima dell'unificazione è una terra frazionata e divisa in maniera esasperata: vicarie, comuni, circondari, ognuno di essi in buona parte autonomo, essere poi terra di confine di tre stati, ha acuito ancor di più il termine più caro alla parola "campanilismo": divisione. Il secondo motivo lo possiamo ricercare in una spiegazione economica, volta allo sfruttamento
Castelnuovo,vecchia cartolina
della terra e delle acque, la povertà infatti aumentò il senso della proprietà: meno terra hai a disposizione per coltivare, meno si mangia. Il terzo motivo è puramente di carattere umano e accomuna tutti i campanilismi del mondo... d'altronde l'invidia è una "brutta bestia", Wilhelm Busch dice a proposito :-il guadagno altrui viene quasi sempre recepito come una perdita propria".

I tempi però non sono cambiati, sono passati secoli e secoli e nel 2020 ancora ognuno sta a ragionare per il proprio orticello, non abbiamo ancora capito che un popolo unito, una collettività unità è un ostacolo a chi vuole comandarla per i propri fini. Quello che invece può fare la differenza davvero, è imparare a connetterci fra
di noi, ciascuno individuando  e valorizzando le proprie caratteristiche. Per il resto ben venga la divisione del "campanile", quel sano campanilismo, dove ci sta pure lo sfottò e la presa in giro. Ma per favore, non cadiamo nuovamente nella trappola del vecchio motto: "divide et impera". La storia insegna.


Ricette antiche e origini di dolci garfagnini persi nel tempo...

$
0
0
Spesso sono bistratti, accusati di essere i maggiori colpevoli del
nostro colesterolo e messi al bando da qualsiasi dietista... In effetti parlare o scrivere di dolci per le feste natalizie è come fare un abuso su stessi, oramai siamo rimpinzati da ogni sorta di dolciume che ce lo sogniamo anche la notte... Ma nonostante tutto però, un dolce è qualcosa di più che un semplice "atto di golosità", il dolce è quella pietanza che per antonomasia sa d'infanzia, di ricordi e che possiede quel che di nostalgico. La classica torta ad esempio rappresenta un frammento di vita, mentre una qualsiasi altra pietanza come un qualsivoglia primo o un qualunque altro secondo ci lascia (sentimentalmente) indifferenti. Una torta invece no; una torta è sempre legata ad una storia, a un avvenimento importante o a  una ricorrenza speciale, ma non solo, il cosiddetto dessert può essere il simbolo di un "rito" domestico, di una tradizione familiare e popolare che si lega a filo
doppio con la storia di un territorio. La loro storia parte da molto lontano e nel Medioevo i luoghi per eccellenza per la produzione di dolci erano i monasteri. Verso la fine del XIV secolo e per tutto il XVI° ci fu un evoluzione importante in tal senso, il dolce venne sdoganato al di fuori dei monasteri e cominciò ad essere una portata di uso (per lo più) comune, ma naturalmente anche qui e in questo campo le classi sociali faranno la loro differenza. Da un lato l'aristocrazia dava sfoggio dell'arte pasticcera nell'uso di materie prime particolari e rare, che non si legavano affatto con la stagionalità, ne tanto meno con il luogo d'appartenenza. Le preparazioni dei dolci per l'elite del tempo avevano assunto una connotazione internazionale, un dolce era un trofeo da mostrare alle corti più rinomate di mezza Europa, ed ecco allora che nacque una nuova
Banchetti rinascimentali
figura: il pasticcere, la sua arte, era un'arte sopraffina che con il tempo trovò la sua massima espressione con la venuta nel vecchio continente di un nuovo alimento: "il sale dolce",
 più noto a tutti semplicemente come zucchero. Fino a quel tempo per dolcificare si usava il miele, ma la comparsa dello zucchero fu una svolta epocale, era raro e costosissimo, perchè ricavato dalla canna da zucchero, tipica dei paesi tropicali. Per il "sale dolce" si esigevano perfino dei pedaggi carissimi per permettere il suo transito nei vari paesi, tant'è che un panetto di zucchero poteva valere quanto un pane d'argento dello stesso peso. E il cosiddetto popolino? E nella stessa Garfagnana i dolci si mangiavano? Certo che si mangiavano e ce lo tramandano antiche ricette di vere e proprie leccornie, molte di queste andate dimenticate o in disuso. Quello che è certo che le preparazioni dolciarie della gente comune erano ben diverse da quelle della nobiltà, e in particolar modo per i garfagnini la realizzazione delle loro ghiottonerie era legata ai prodotti del territorio e dalla loro stagionalità e... alle limitate
dolci "poveri"
disponibilità economiche, quindi pochi ingredienti e dolci poco elaborati. In questi casi "la parola d'ordine" era recuperare gli avanzi di altri piatti(ad esempio focacce o polente), ma nonostante ciò la riuscita sarebbe stata sicuramente di una bontà unica. Questo è innegabile, dato che venivano fatti con il cuore e con passione, dal momento che venivano mangiati raramente perchè fatti per festività religiose importanti e per eventi particolari. Figuriamoci, talmente preziose erano queste ricette che venivano tramandate da generazione in generazione come un vero e proprio rituale. 

Scendendo nello specifico, oggi però non voglio scrivere dei canonici dolci garfagnini che tutti conosciamo, oggi voglio raccontarvi di ricette dimenticate o di cui poco si conosce. Si, perchè riportare in vita certe ricette è come riportare in vita un pezzo di storia del nostro tempo, una trasmissione di memoria che va tramandata anche questa come un qualsiasi altro fatto storico. Un esempio lampante!? "Il Giulebbe di Ciliegie"! Ebbene si, è un dolce tipico garfagnino. Illustri e nobili sono i natali di questa prelibatezza, questo era il dessert preferito da Ludovico Ariosto, governatore estense in terre di Garfagnana, che allietava i suoi
il giulebbe di ciliegie
malumori garfagnini con questo squisito dolce. A quanto pare l'ispirazione per questa ricetta l'ebbe osservando dei pastori della valle che per merenda cuocevano dentro ad una "pentolaccia" delle ciliegie marasche, mescolate con latte, miele e burro, una volta che questo composto era ben rappreso lo spalmavano sul pane per un sostanzioso e corroborante spuntino. Orbene, una volta fatto rientro alla Rocca diede mandato ai suoi cuochi di preparare una cosa simile, naturalmente furono aggiunti ingredienti per così dire nobili, come dei biscotti simili ai savoiardi e alcune spezie esotiche come la cannella. Da quel giorno la preparazione del dolce fu esportata in tutto il ducato e denominata "la zuppa dell'Ariosto", un connubio di prodotti nostrali con il tocco in più che poteva dare solo l'aristocrazia. Un'altra squisitezza conosciuta (adesso non più) come tipicamente garfagnina è un dolce di cui non si è mai sentito parlare... Sfido chiunque...Chi conosce "il Benzone garfagnino"? Anche questa, ad onor del vero è una ricetta importata in Garfagnana dagli Estensi. In tempi antichi, in quel di Modena,era un dolce tipico e l'impasto per questa semplice golosità era composto da
il Benzone
farina, uova, burro, latte e miele, insomma una volta infornata veniva fuori una sorta di focaccia casalinga, da inzuppare nel latte o nel vino. Questa modesta ricetta fu talmente apprezzata anche in Garfagnana che ben presto la facemmo propria e addirittura a differenza della preparazione originale fu arricchita con frutti di stagione (fichi, mele, noci). Quello che rimane originale però è il nome, tipicamente modenese, che si rifà alla parola "belson" e più specificatamente alla tradizione di regalare questa specie di focaccia ai ragazzi cresimati, era il cosiddetto "pain de bendson", "il pane di benedizione". 

Queste due leccornie, come abbiamo letto, subiscono molto "influenze" modenesi", "la Mandolata di Santa Lucia"invece è un dolce tipico non di uno specifico paese garfagnino, ma bensì di
La Mandolata
un rione di Castelnuovo, il rione Santa Lucia. Infatti era (ed è) proprio in onore della Santa, che da il nome a questo quartiere che il 13 dicembre di ogni anno veniva preparato questo dolce dai suoi abitanti, una ricetta che gelosamente si tramandava da padre in figlio (ancora oggi), e che vedeva in loro la saggia mescolanza di ingredienti rappresentativi: il miele di castagno, noci, zucchero e un filo d'olio d'oliva, insieme formavano un prelibato simil- croccante. Una ricetta bellissima anche da osservare, poichè
 era stupefacente ammirare l'abilità nel "mandare le mani"(da qui il nome mandolata) di coloro che la stavano cucinando, difatti il miele cotto preventivamente formava una lunga treccia che veniva manipolata da mani esperte e sapienti. Non poteva poi mancare un dolce legato strettamente al castagno. "La Pattona di Trassilico", questa era la classica "merendina" per i trassilichini che andavan
la Pattona
o a lavorare nel bosco. La sua preparazione vedeva un'impasto di farina di castagne, mele a pezzetti, noci, nocciole e fichi secchi sminuzzati. Del tutto si facevano delle palline che venivano poste dentro delle formine e infornate. Il giorno dopo sarebbero state pronte per la veloce merenda del taglialegna. Si dice poi che del maiale non si butta via niente, verissimo, e questa golosità
 è uno dei classici esempi di "ricette da recupero" e infatti quando nel mese di dicembre si ammazzava il maiale e avanzava un po' del grasso si faceva "la torta di sciungia", una
Foto e realizzazione di
Francesca Bertoli
torta dolce fatta proprio con il grasso dell'animale, ingentilita da uova, farina e scorza grattugiata di limone, la risultanza era quella di un biscotto friabile molto saporito.

Sapori, usanze e ricette perse nel tempo, in quel tempo in cui è tutto più facile: in un supermercato puoi trovare tutto e in casa fra mille macchine, preparare un dolce accettabile è un inezia... Una volta no, una volta non c'era il tempo che scorreva e che fuggiva, una volta anche ogni dolce aveva la sua storia... 



Bibliografia

  • "Antiche ricette medievali" Autori Vari, 1906 editore Bemporad
  • "La Cucina Gallicanese in oltre trenta ricette" Paolo Marzi Serena Da Prato, 2019 Garfagnana editrice
  • Documentazione Privata datata 1817 del dott. Ascanio Particelli

Rocca La Meja: la più grande tragedia (voluta) di militari garfagnini in tempo di pace

$
0
0
Rocca La Meja... Per molti garfagnini questo luogo non dirà niente
, molti, forse, non sapranno neanche dove si trova, ma qui, in questi posti c'è un pezzo di Garfagnana. Rocca La Meja è una montagna delle Alpi Cozie, ben più alta delle nostre Apuane, dai suoi 2831 metri si ha una vista magnifica sulla Val Maira e su Canosio, un comune piemontese di appena ottanta anime che si trova in provincia di Cuneo. A poco più di trenta chilometri però c'è un altro "paesotto": Dronero. Ecco, questa località per le orecchie garfagnine può già suonare più familiare. E' infatti dal 1906 che Dronero si lega a filo con la storia della nostra valle e con gli alpini di casa nostra. Proprio da quell'anno li, furono arruolati nel battaglione omonimo la stragrande maggioranza dei garfagnini, sia in tempo di pace, sia nelle due guerre mondiali. Il ricordo di questi garfagnini, molti di loro usciti di casa la prima volta, rimase impresso anche nella
Dronero,caserma alpini Beltricco
memoria dei piemontesi locali che così ne narravano: "
Quei conforti (i gelati acquistati dagli alpini in libera uscita per Dronero), erano possibili per chi disponeva di qualche lira e, i piemontesi, salvo poche eccezioni qualche liretta l'avevano tutti, ma, i toscanini (n.d.r: un soprannome dato che aveva origine in due parole:toscani e garfagnini), in fatto di finanze se la passavano peggio di noi, ed era notorio che alcuni di loro passarono i 18 mesi di naia senza mai ricevere soldi da qualunque parte fosse.
La loro disponibilità di denaro veniva dalla "decade" (50 centesimi ogni 10 giorni, pagati dall'ufficio contabilità della compagnia). Di conseguenza, per chi non disponeva di quattrini voleva dire tribolare a digiuno dal rancio della sera fino al rancio del giorno dopo alle 11.30.Cari toscani, contadini, montanari della Garfagnana
Rocca La Meja oggi
o cavatori di marmo delle Apuane, io li stimavo. 
Arrivavano al Battaglione Dronero in maggioranza magri, denutriti, ma ben decisi a non essere da meno dei montanari delle Alpi. Molto frugali, sobri, non disdegnavano la "sbobba" che passava il convento e, seduti addossati ai muri del cortile se il tempo era bello, come del resto si faceva un po' tutti, tenendo la gavetta in mezzo alle ginocchia, mangiavano con appetito tutto; che fossero i "tubi" (i maccheroni), il lesso di vacca vecchia o il pastone di riso stracotto e fagioli semi crudi del rancio serale. Quando ce n'era in abbondanza non se la lasciavano scappare, mangiandola poi, la sera tardi, seduti sulla branda prima dell'appello o del silenzio. 
Mangiando tutto da non schifilitosi, quei bravi ragazzi si irrobustivano e, in fatto di resistenza alle fatiche e ai disagi della vita militare, non avevano nulla da invidiare ai valligiani piemontesi".
Per far capire bene la presenza della gente della valle, emblematico
Compagnia del battaglione Dronero
fine anni 30
è anche il ricordo di Luigi Grilli di Pieve Fosciana che appena arrivato alla caserma "Aldo Beltricco" di Dronero trovò di sentinella il suo amico Tommaso Tagliasacchi, in men che non si dica fu una rimpatriata di persone e conoscenti tutti garfagnini, molti di loro però non tornarono più a casa, nel 1942, il viaggio nelle steppe russe, durante la seconda guerra mondiale fu senza ritorno. Ma questa è un'altra storia. Ma anche la storia che sto per raccontarvi fu altrettanto drammatica e dolorosa, una storia che merita di essere ricordata perchè fu 
la più grande tragedia di militari garfagnini in tempo di pace. 
Il ricordo di quella sciagura lo lascio però alla penna di un testimone diretto, lo scrittore Pietro Ponzio, classe 1905.Correva l'anno 1937, era il 1° febbraio, e in quel maledetto anno, sul Rocca La Meja, si compì (volutamente) una strage di alpini.
"Dopo tre giorni, durante i quali aveva nevicato fitto fitto,
Caserma della Gardetta 1922
finalmente una sera ad occidente le nubi si ruppero, appena in tempo per lasciar vedere mezzo disco di sole che stava tramontando dietro il monte Cassìn:-Segno di bel tempo per il giorno che arriverà- pensarono gli abitanti del Préit. 
Infatti il giorno seguente i mattinieri, con gradita sorpresa, constatarono una limpidezza di cielo da rallegrare il cuore, ma quasi contemporaneamente e con minor piacere sentirono frullare "l'aire marìn", una brezza sciroccale e ciò voleva dire, dopo così imponente nevicata, pericolo immediato e sicuro di valanghe.
Ore 8 di quella mattina: dalla mulattiera, che dal fondovalle immette nella piazzetta dinnanzi alla chiesa, sbuca una colonna di soldati. Sono gli alpini della 18a compagnia del battaglione
Esercitazioni invernali in
Valle Maira fine anni 30
Dronero. Carichi come muli di pesanti zaini, fucili, racchette e ansanti, via via che giungono, si radunano e fanno alt per un momento di sosta. Un borioso capitano, pur con evidente riluttanza, si degna tuttavia di rivolgere la parola a un gruppetto di gente del posto, che stava osservando i soldati, per avere qualche informazione sull'itinerario in direzione della Gardéto. Gli interpellati, grandemente stupiti che quell'ufficiale voglia mettere i suoi soldati in così grave pericolo di essere travolti da qualche valanga, cercano di dissuaderlo, pregandolo di desistere, ché voler marciare verso Gardéto con una nevicata simile ed il vento di scirocco equivale ad un suicidio.Un tenente, che senza parlare aveva seguito il dialogo, si avvicina e dice al suo superiore:-Capitano, se questa gente ch'è del posto ed ha certamente esperienza, avesse
Esercitazioni invernali anni 30
ragione?-.Ma il capitano, infastidito, tronca la parola al tenente, dicendogli:-Lasci perdere, tenente, che vuole che sappiano costoro! Sono solo dei "rozzi" montanari-.
E la compagnia, dopo breve sosta, si rimette in marcia. Un andare massacrante! Gli uomini del plotone sciatori, pur faticando molto anch'essi, si tengono relativamente a galla, ma quelli del grosso della compagnia, anche con le racchette ai piedi, affondano in quello spesso manto nevoso di due e più metri di altezza, col risultato che la marcia si svolge talmente lenta, da impiegare più di un'ora e mezzo per coprire i circa due chilometri e mezzo che separano Preit dalla borgata Corte. 
Qui la compagnia fa di nuovo alt, ed alle reiterate e pressanti esortazioni che la gente del posto fa di nuovo a quel capitano, perché non prosegua la marcia, tanto è immediato ed
Canosio oggi
evidente il pericolo, costui, senza tenerne conto, ancora una volta offende con volgari apprezzamenti. 
Dopo breve tragitto la compagnia giunge a Grangéto, al bivio da cui si dipartono due direttrici verso la "counco de Pianés": a sinistra per Grànjos Quialaussà e la Méyo e a destra – la più breve – direttamente verso la Gardéto. Là il capitano si trova nell'incertezza: a destra i ripidi costoni di monte Pralounc gli danno da pensare; di fronte, a distanza, gli ancor più ripidi costoni sotto le Tres Poùnchos par che gli dicano: vieni, la morte ti aspetta! Nel rugginoso testone di quell'uomo impastato di sufficienza, pare che cominci a concretarsi qualche briciola di ragionamento; si consulta con il suo tenente e opta per la direttrice Quialaussà-La Meyo. Da quella parte, anche se minore, il pericolo esiste pur sempre e, malgrado certi schianti di assestamento, che potrebbero anche dare inizio a rovinose valanghe e che fanno raggelare il sangue nelle vene a quei malcapitati ed estenuati ragazzi, la marcia continua, miracolosamente senza danni, fin dopo Grànjos Quialaussà, ma, qui giunti, sentono in alto, alla loro sinistra, il pauroso boato d'una valanga, che si è staccata dal
Rocca La Meja innevata
monte Bergia e precipita veloce nella loro direzione.

Affondati come sono nella neve e impacciati dalle racchette, ogni tentativo di sottrarsi all'investimento con la fuga appare impossibile. Ma là si verifica il miracolo! Fu davvero un miracolo che quella montagna di neve precipitante si arresti quasi a contatto con la colonna degli alpini, sfiorandola per lungo, con una inspiegabile deviazione dalla direttrice di caduta. Quel pauroso avvertimento dovrebbe far capire al capitano che è giunto, anche se in extremis, il momento di adottare ogni possibile accorgimento, per garantire il minimo di incolumità ai suoi uomini per il resto della marcia. Ma non è così. Dopo ancora un altro chilometro di cammino faticoso, giunti oramai alla base dei vasti e ripidi costoni sotto i contrafforti ovest di Rocca La Meja, là dove parte un crinale modestamente elevato, facilmente transitabile, che si allunga fin verso lou Jas de Marguerino, il capitano lo infila con il plotone degli sciatori, diretto a quella località, ed ordina al tenente di salire con la compagnia fino a metà costone, di transitarlo poi in trasversale verso sud e di riunirsi agli sciatori alle Granjos-de-la-Marguérino. Nessun "rozzo" montanaro, per cafone che fosse, e nessun ufficiale di truppe alpine degno di quella qualifica avrebbe, senza inderogabile necessità, mandato degli uomini a transitare quel costone in condizioni di così palese pericolo, ma avrebbe fruito del crinale fuori pericolo, dove, appunto, furono fatti passare gli sciatori. E perché quell'incosciente capitano non lo fece?
Sta di fatto che, appena la colonna inizia la traversata, una
valanga si stacca e investe il plotone di testa, trascinando in basso gli uomini e seppellendoli in un avvallamento. Nella grande disgrazia, fu fortuna che l'attraversamento era appena iniziato: poiché, se la neve fosse rovinata quando tutta la compagnia era inoltrata, essa al completo sarebbe stata travolta.
Altra circostanza inspiegabile per chi conosce la vita alpina e le rigorose norme preposte a garanzia della sicurezza degli uomini durante le marce militari in montagna, perché queste avvengano almeno con il minor danno possibile, è che in condizioni così pericolose il responsabile della compagnia non abbia fatto svolgere le funicelle da valanga. Dimenticanza? Indifferenza per l'incolumità dei suoi alpini, forse considerati non figli di mamma, ma solamente oggetti? Ore 17, già quasi il crepuscolo. Una pattuglietta di sciatori, sfiniti ed angosciati, arriva al Préit, di ritorno dalla marcia. Ai primi incontrati hanno appena il fiato di mormorare:-Sotto Rocca la Meya quasi tutto il plotone è rimasto sepolto da una valanga! La compagnia è di ritorno, molto staccata da noi-.
La notizia si sparge e in un baleno tutta la popolazione è radunata

nella piazzetta. L'ansia è grande, anche alcuni alpini del posto sono in quella compagnia, ma, fortunatamente, più tardi risulteranno tra gli scampati.
Passa un certo tempo e a monte sbuca una compagnia. Gli alpini procedono a testa bassa, sfiniti, con il morale a terra. Il capitano è disgustosamente impassibile, sul suo viso non si notano tracce di emozione, né di dolore, né rimorso. Lascia i suoi alpini sulla piazza fermi e disorientati e si dirige verso l'unica piccola locanda del posto, per ristorarsi. Un giovane sottotenente (il tenente era rimasto sotto la valanga) raduna i suoi soldati e li conduce ad una grande stalla disabitata, priva di porte e di finestre, dove avrebbero dovuto pernottare, senza disporre nemmeno di un giaciglio di paglia asciutta per stendervi le ossa indolenzite. Ma la grande umanità ed il buon cuore dei "rozzi" montanari del Préit in breve tempo si portò via gli alpini, a gruppetti, disponendoli al caldo un po' dappertutto: nelle stalle, se erano sane e asciutte, oppure nelle cucine, al caldo delle stufe.
Vengono subito ristorati con grandi tazzoni di caffè o latte
I primi soccorsi
bollente, poi fatti cenare con un po' tutto quel che la gente aveva a disposizione in fatto di vivande. Nelle stalle dormiranno su asciutti giacigli di paglia e nelle cucine su delle coperte stese sul pavimento, attorno alle stufe. Quella gente aiutò gli alpini come fossero figli suoi".

Una disgrazia che poteva essere evitata e tutto questo tormento per cosa? Per una semplice esercitazione militare. Nessuna urgenza, nessuna impellenza di una qualsivoglia azione di guerra o di soccorso, solo l'arroganza, la superbia e la presunzione umana vinsero sul rispetto della vita. I soccorsi comunque sia partirono immediatamente. La 19a compagnia alpini Dronero, mettendo a repentaglio la loro vita, partì alla ricerca di eventuali sopravvissuti. La valanga che colpì quei poveri alpini era enorme: 500 metri di lunghezza, tanto era grande la slavina che non lasciava individuare punti precisi per la ricerca dei corpi e più passavano le ore e più diminuiva la speranza di trovare qualche superstite. Con il tempo che passava e l'estenuante lavoro degli alpini cominciarono ad essere ritrovate le prime vittime: corpi inermi
i soccorsi sul Rocca La Meja
sotto dieci metri di neve, corpi sfigurati a causa del pietrame che la valanga aveva trascinato con se, altri poveri ragazzi nell'attesa della morte furono trovati abbracciati. Enorme fu però la gioia quando fu ritrovato vivo il caporale Busca...quel giorno evitò la morte, un'appuntamento rimandato solo di qualche anno, quando partì per le desolate steppe russe. Alla fine della storia i morti furono 23 (alcuni recuperati mesi e mesi dopo, con lo scioglimento delle nevi), cinque furono quelli
  salvati e come sempre le medaglie al valore, le corone di fiori e i funerali solenni misero la parola conclusione ad un dramma voluto dalla scelleratezza umana.
Di quei giovani garfagnini non ci rimane altro che il loro nome degno del nostro ricordo:   
Caporale Mario Piacentini, 21 anni di Gallicano 
Oggi nel ricordo
di quegli alpini
Caporale Aldo Pieroni, 21 anni di Castiglione Garfagnana
Alpino Santino Grassi, 22 anni di San Romano
Alpino Pietro Ottolini, 22 anni di Albiano
Alpino Emilio Ferrarini, 21 anni di Piazza al Serchio
Alpino Matteo Guazzelli, 21 anni di Piazza al Serchio
Alpino Antonio Linari, 21 anni di Castelnuovo Garfagnana
;corpo recuperato il 14 maggio.
Alpino Francesco Pioli, 21 anni di Castelnuovo Garfagnana
;corpo recuperato il 26 maggio.



Biblliografia:

  • "Val Mairo la nosto" Pietro Ponzo,editrice Brossura 
  • Articolo tratto da "Il Maira" gennaio 1998 a cura di Fabrizio Devalle e Mario Berardo
  • Stralcio di articolo di Pietro Ponzo del 2 agosto 1989 tratto da "Gent da ma valado- una voce dalla valle". Scritti per il "Drago" 1973-1992 edizioni il Drago e Comboscuro 

Le tracce dell' Antica Roma in Garfagnana: nei nomi dei paesi, nell'urbanistica e nelle strade

$
0
0
"Non fuit in solo Roma peracta die", ovvero, "Roma non fu costruita in un giorno", così dicevano gli antichi romani e niente di questo è più vero. Questa non solo è una frase fatta ed intesa in senso ideale: diffusione dei loro usi, costumi, religione, ma è una frase che trova il suo pieno significato nel senso letterale della parola. Immaginiamoci di essere nel 117 d.C, il momento di massima espansione dell'impero di Roma, la sua superficie ricopriva quasi sei milioni di Km2, quante strade saranno state fatte per raggiungere ogni suo angolo? Quante città saranno state fondate o riedificate? Da qualche ipotetico calcolo si dice che "solamente" di strade consolari lastricate e in terra battuta siano state realizzate in un numero difficilmente calcolabile, ma pari però ad una lunghezza complessiva di duecentocinquantamila chilometri circa. Per quanto riguarda la fondazione di colonie, castra o qualsivoglia centro abitato, in effetti anche qui non si ha un'idea precisa, tante sono le
Impero Romano
formazioni nei secoli di queste future e nuove città. Quello che si sa di sicuro è che buona parte dei paesi conosciuti in Garfagnana è di origine romana; in ognuno di essi c'è il marchio di Roma, nel loro nome e nella struttura urbanistica e stradale del paese stesso. Ma prima di addentrarci nell'argomento facciamo un salto indietro di oltre duemila anni e vediamo come arrivarono i romani nelle terre perdute di Garfagnana. Erano gli anni della dura lotta contro gli Apuani, coloro che in origine abitavano le nostre montagne, questi rudi uomini erano di ostacolo alla potente Roma, che mirava  ad un'ennesimo sbocco sulla Pianura Padana e a una possibile via alternativa per raggiungere la Gallia. Finalmente (per i romani), dopo caparbie lotte (durate anni e anni), ebbe su di loro la meglio, sconfiggendoli una volta per tutte. In concomitanza con la loro sconfitta venne fondata la colonia di "Luk", (oggi Lucca), il nome era (ed è) di origine celto-ligure e
Lucca romana
significherebbe "luogo paludoso",eravamo nel 180 a.C e questa nuova colonia era di fondamentale importanza dal momento che controllava lo sbocco della Valle dell'Auser (Auser: nome antico del fiume Serchio). Di notevole importanza, tre anni dopo (177 a.C) fu la fondazione di una nuova colonia, la colonia di "Luna" (o meglio di Luni), la città, nata alle foci del fiume Magra, fu un porto fluviale e marittimo di notevole importanza, la sua posizione era strategica da un punto di vista commerciale, da li venivano imbarcati verso Roma i blocchi di marmo delle Apuane che abbelliranno la potente Roma...e in mezzo a queste due colonie c'era una valle che doveva fare da collegamento, una valle espropriata con il sangue nemico che doveva essere
Il porto di Luni
completamente colonizzata: questa valle era la Garfagnana. Il primo passo da fare era di adoperarsi per una vera e propria urbanizzazione, la Garfagnana era una terra a dir poco selvaggia, impervia e difficilmente raggiungibile, ci sarebbe stato da rimboccarsi le maniche e così fu. Per le opere infrastrutturali i romani presero spunto dal modello greco, ma con una sostanziale differenza:
"Mentre i Greci consideravano di aver raggiunto la perfezione con la fondazione di città, preoccupandosi della loro bellezza, della sicurezza, dei porti e delle risorse naturali del paese, i Romani pensarono soprattutto a quello che i Greci avevano trascurato: fare le strade per raggiungere queste città", più chiaro di così Strabone (storico e geografo greco del 60 a.C)non poteva essere. Infatti il console romano Claudio Marcello, nel 183 a.C curò la realizzazione della prima strada (consolare) che avrebbe attraversato la Garfagnana: la Via Clodia, che prendeva proprio il
la via Clodia
nome dal suo ispiratore; la strada partiva da Lucca e toccava Sesto di Moriano, Valdottavo e Diecimo, località che prenderanno il nome dalle pietre miliari li poste per segnalare la loro distanza da Lucca (sextum, octavum, decimun lapidem), risaliva poi la Valle del Serchio, passava per tutta la Garfagnana fino a Piazza al Serchio, da dove proseguiva verso nord e verso Luni (l'altra colonia), valicando il Passo di Tea. Un altra mossa fondamentale e vitale sarebbe stato quello di abitarle queste zone... La Garfagnana fino a quel tempo era una zona quasi inesplorata, gli inverni erano duri e rigidissimi, insomma era un luogo veramente inospitale. Che fare allora? La prima cosa fatta fu quella di insediare dei presidi militari, dei "castra"(o castrum). Questi castra, proprio come nel caso garfagnino, venivano edificati in luoghi di frontiera e costruiti (come ancora oggi appare) su sommità, posizione ideale per fronteggiare eventuali attacchi nemici. Non immaginiamoci però questi accampamenti in stile "Asterix", per meglio capirsi questi insediamenti non si basavano su tende come alloggi, ma avevano edifici veri e propri, poichè questi siti erano luoghi stanziali, dove le truppe vivevano, difesi da
Castra romano
solide mura, a conferma di questo, nella maggioranza dei casi in Garfagnana si svilupparono sopratutto dei "castra" cosiddetti "stativa", cioè accampamenti stabili, fatti per essere sempre abitati, tant'è, che li i legionari portavano le loro famiglie e gli ufficiali avevano delle case di tutto rispetto. Nella maggior parte dei casi queste abitazioni erano fatte in legno, che con il tempo si evolveranno in costruzioni in muratura e ancora con i lustri, i decenni e i secoli cresceranno e si articoleranno nei paesi che oggi conosciamo. Non solo, lo sviluppo di questi posti fu incentivato anche da Roma, qualunque cittadino romano che avesse avuto intenzione di abitare o colonizzare queste impenetrabili terre avrebbe avuto vantaggi fiscali importanti, nonchè la distribuzione gratuita delle terre, ecco che grazie anche a ciò, intorno a questi castra si sviluppò anche un certo commercio e la creazione di strade
la costruzione delle strade
secondarie, quelle che collegavano il castra al bosco (per il rifornimento di legna) o quelle che univano al villaggio più vicino, per agevolare scambi o piccoli commerci. Ma perchè per la Garfagnana si parla di "castra" e non di colonia come per Lucca e Luni? Va fatto un sostanziale distinguo, la colonia non era affatto un presidio militare, ma bensi per colonia si designava quel luogo dove veniva insediato un gruppo di cittadini romani, che li stabilivano un centro autonomo ma con vincoli di stretta alleanza con Roma. Rimane il fatto, che oggi nelle viuzze interne dei nostri paesi si possono ancora vedere gli assetti viari dell'antica Roma, spesso non ci facciamo caso, ma buona parte delle stradine interne dei centri storici garfagnini (di fondazione romana) formano un reticolato di cammini che si intrecciano fra loro, attraversati da un cosiddetto "Cardo Massimo" (la strada principale che attraversava l'accampamento romano da nord a sud) e da un decumano maggiore (la strada principale che tagliava il luogo da est a ovest), ad esempio, questo si può notare benissimo a Gallicano, il cardo massimo attraversa tutto il centro storico per via Bertini, mentre il decumano maggiore è quello che oggi unisce est -ovest via San
esempio di castra romano
Fabiano, via San Sebastiano e via Castello. Questo schema urbanistico, 
tipico degli accampamenti romani, creava di fatto un quadrilatero e nell'intersecarsi delle due strade principali si trovava il Foro, il luogo centrale della vita sociale, dove sorgevano gli edifici pubblici e dove si sviluppava il mercato. Ci sono paesi garfagnini però, che sono più "romani" che altri, perchè hanno l'impronta della "Città Eterna" anche nel nome. Alcuni addirittura prendono la denominazione da esimi consoli e generali. E' il caso di Sillano, che trae le sue origini fra storia e leggenda. A quanto pare nell'anno 102 a.C, il generale romano Lucio Cornelio Silla, proprio dove ora sorge il paese, fece costruire alcune capanne dai suoi soldati, una grossa
Lucio Cornelio Silla
nevicata infatti aveva bloccato per giorni la sua guarnigione sulla strada che conduceva in Gallia, mentre stava andando in soccorso alle truppe comandate dal cognato Gaio Mario. Una volta terminato il maltempo, le capanne vennero abbandonate e abitate da pastori e boscaioli locali. Vanta origini di un certo lignaggio anche Minucciano, nella figura del console Quinto Minucio Termo, dove qui fondò un castra, posto a difesa del confine, contro eventuali invasioni barbariche. Ben più modesta, in fatto solamente di scala gerarchica, la genesi di Gallicano, il nome prenderebbe origine da Cornelius Gallicanus valoroso legionario, al quale questa terra fu donata da Roma come ricompensa per le sue imprese, il suo nome compare addirittura nella"Tabula alimentare Traianea", un'iscrizione in bronzo dove si fa riferimento a dei prestiti fatti ai nuovi proprietari terrieri. Un colono di umili origini doveva essere anche tal "Fuscianus", che ebbe i suoi possedimenti in quel di Fosciandora, come anche a poca distanza, a Ceserana, ebbe le sue terre un certo "Caeserius", per non parlare di "Cassio" che ebbe buon occhio quando prese possesso delle terre di Cascio. Questi sono alcuni esempi, per rimarcare, se ce ne fosse
Gallicano
bisogno, l'impronta che lasciò Roma. Perchè la grandezza di Roma, fu il risultato non solo della potenza militare, ma sopratutto ebbe la grossa abilità di tenere insieme ed integrare le varie parti di un impero velocemente conquistato. Il suo dominio politico fu il più capace (fra quelli dell'antichità)a suscitare consensi e gettare radici, lasciando segni nel paesaggio, nella lingua, nella cultura e nel diritto delle nazioni. 




Bibliografia

  • Imperium Romanun. La civiltà Romana.
  • Storia universale. Strabone

Leggende, segreti e benedizioni. Quando gli animali erano veramente importanti in Garfagnana

$
0
0
"Era già più di un'ora che dalla cima del poggio stavo ad aspettare.
Il "mi" babbo, m'aveva detto di stare li ad aspettare buona, buona e attenta, intanto lui  e gli zii erano a metter a posto la stalla, a spalare il letame e a dare una pulita alla bella meglio allo
stallino del maiale, mentre la mamma e la "mi" sorella erano a dare una spazzata al gallinaio e a metter paglia nuova alle conigliere. In fondo a me stava bene anche così, m'era toccato il lavoro più leggero: sdraiata sulla "poggetta" al sole, a mirar la strada, ad aspettare Monsignore. D'altronde è giusto così, a primavera la benedizione è dei cristiani, ma oggi è Sant'Antonio e la benedizione tocca agli animali". Queste parole della Beppa mi sono rimaste sempre impresse nella mia memoria, fin da bimbetto, e il parallelismo fra "cristiani" e animali centra perfettamente l'importanza fondamentale di quest'ultimi. In una cultura contadina come quella garfagnina la cura dell'animale era una seria fonte di preoccupazione, quasi si trattasse proprio di uno dei membri della famiglia, perdere un'animale sarebbe stato un danno irreparabile per la famiglia. Nella maggior parte delle nostre famiglie esistevano in genere almeno una mucca, un bue, utilizzati per il reperimento delle risorse alimentari e per il lavoro nei campi, non mancavano nemmeno le pecore e tanto meno il maiale, le cui carni (conservate) avevano un apporto proteico nei duri inverni garfagnini di una volta. Insomma rappresentavano un'elemento irrinunciabile, ogni famiglia da loro traeva elementi necessari per
la sopravvivenza: carne, latte, formaggi, uova, burro e lana. Capirete voi allora del perchè anche loro avevano bisogno di protezione divina, proprio come gli uomini, e se per noi umani e la nostra casa era la Pasqua il momento della benedizione, per gli animali e per le stalle il giorno preordinato era il 17 gennaio, il giorno dedicato a Sant'Antonio Abate, protettore degli animali domestici. In quel giorno il prete faceva proprio come nei giorni che precedevano la Pasqua, invece di girare casa per casa, in quella data andava stalla per stalla ad impartire benedizioni a destra e a manca e proprio come si faceva (e come si fa ancora oggi)per la visita del prete, era l'occasione per un'accurata pulizia delle case. All'epoca, la stessa cosa veniva fatta con le stalle che in quel giorno venivano tirate a lucido(fin dove si poteva). In altri casi per agevolare la vita al parroco, gli animali venivano portati a benedire nella piazza principale del paese, il sacerdote poi gli avrebbe reso grazia con una formula vecchia di secoli:
"O Dio creatore fonte di ogni bene,che negli animali ci hai dato un segno
della tua provvidenza 
e una compagnia nella fatica quotidiana, per  intercessione di S. Antonio Abate fa' che in un armonioso rapporto con la creazione, 
impariamo a servire e amare te sopra ogni cosa". Non sarebbe mancata poi l'occasione di un ritrovo e di un convivio contadino, un momento dove poter festeggiare mangiando e bevendo con dei vecchi amici, fare affari e comprare qualcosa per la casa. Ecco, come nacquero le fiere che si svolgono proprio il 17 gennaio.
D'altro canto non poteva che essere Sant'Antonio il protettore degli animali domestici, dato che prima di cominciare la carriera di Santo il suo lavoro era il "porcaio", infatti spesso nelle iconografie è rappresentato con un maialino ai piedi, quel maialino che non lo volle nemmeno abbandonare quando il santo fece visita all'inferno. Era un giorno freddissimo e Antonio, che aveva portato i maiali fuori a mangiare, cercò proprio all'inferno un luogo caldo dove ripararsi. I diavoli avendolo conosciuto non lo vollero far entrare, ma un vivace maialino s'intrufolò in uno spiraglio della porta aperta degli inferi, immaginate voi lo scompiglio, correva in ogni angolo e metteva sottosopra ogni cosa, i demoni erano disperati non riuscivano ad afferrarlo e disperati chiesero l'intervento del
Santo. Egli entrò e proprio come il fidato porcellino anche Antonio cominciò a tormentare i diavoli, facendoli inciampare con il suo bastone, indispettiti i demoni gli strapparono il bastone di mano e lo gettarono nelle fiamme, allora l'animale cominciò a fare confusione più che prima, a quel punto Antonio disse che avrebbe fatto quietare il suo fidato compagno solo se gli fosse stato restituito il suo bastone. I diavolacci lo accontentarono, ma il santo appena tornato nel mondo dei vivi cominciò a roteare il suo bastone in area come se stesse benedicendo,le scintille volarono da tutte le parti accendendo falò in ogni dove, da quel giorno per l'uomo fu il fuoco. 
Ma chi fu davvero Antonio? Era un egiziano del III secolo a.C che prima di convertirsi al Cristianesimo era un ricco nobile. Un bel giorno però, dopo che negli anni ne aveva combinate di ogni colore, mise in vendita ogni suo bene e abbandonò ogni agio, si ritirò in eremitaggio nel deserto di Tiberiade facendo voto di castità e povertà, fu qui in questo luogo che fu tentato più e più volte dal Diavolo che gli apparve sotto forma di maiale e in effetti è proprio questo episodio che fa si che il Santo venga rappresentato con il maiale: in questo caso il maiale, essere immondo, rappresentava il diavolo sottomesso da Sant'Antonio. A partire dal XII secolo il maiale venne "redento", quando fu concesso ai fraticelli antoniani il privilegio di allevare questi animali. Nei pressi dei loro monasteri non mancava mai nè un
mattatoio e nè un ospedale....vediamo il perchè. Nelle città dove erano presenti i religiosi ci si lamentava del fatto che i maialini andassero beatamente liberi per le strade, i comuni vietarono la circolazione, bisognava però salvaguardare la loro integrità fisica visto che la proprietà era degli Antoniani stessi. I frati infatti dagli animali ricavavano succulenta carne, ma sopratutto del loro grasso facevano unguenti e balsami, da usare negli ospedali da loro gestiti, questi rimedi erano perfetti per guarire da delle dolorose piaghe: l'herpers zoster, ovvero il fuoco di Sant'Antonio. Allora guai a toccare un maiale degli Antoniani, il Santo si sarebbe vendicato colpendo lo sventurato con la stessa malattia. Proprio al solito periodo risale la nascita della tradizione di benedire gli animali, i maiali sopratutto, destinati oltre che a riempire la pancia dei frati, ad alleviare le sofferenze dei malati, con tale benedizione "le bestiole" venivano preservate da ogni epidemia. Con il passare del tempo la tradizione si consolidò e i fraticelli quando andavano per le campagne a chiedere offerte per il convento si facevano accompagnare da un suino tenuto da una cordicella,
aspergendo poi ad ogni offerta dei devoti acqua santa anche sugli animali dei pii contadini. Le meraviglie non finiscono qui ed un'ennesima leggenda, conosciuta anche in Garfagnana, ci racconta proprio che ogni 17 gennaio gli animali avranno facoltà di parola; i contadini si tenevano però lontani dalle stalle perchè udire gli animali conversare sarebbe stato segno di cattivo auspicio... Peccato!.. chissà le cose che ci direbbero...

I Gurkha nepalesi, soldati dimenticati nella storia della Garfagnana

$
0
0
Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Nuova Zelanda, Sud Africa,
Francia, Polonia, Italia, Brasile, India, Nepal, Belgio, Jugoslavia, Grecia, Terranova, Caraibi, Siria-Libano, Cipro, Senegal, Lesotho, Swaziland, Botswana, Seychelles, Mauritius. No, non è una sorta di "villaggio globale", ma fu lo stesso generale inglese Alexander che nelle sue memorie sui tragici fatti della Campagna d'Italia, durante la seconda guerra mondiale, elencò di avere avuto a sua disposizione contingenti militari di ben ventisei nazioni, una vera e propria Babele di razze e di lingue che si presentarono per la prima volta di fronte all'attonito popolo italiano. Anche i garfagnini per la prima volta si trovarono davanti a persone dalle fisionomie diverse dalla loro, molti furono presi da un vero e proprio senso di sbigottimento, lo stupore di trovarsi davanti persone "diverse" che parlavano un'altra lingua e avevamo abitudine differenti fu un vero shock, perdipiù (anche se alleati) la diffidenza aumentava: questi uomini erano armati fino ai denti. 
In Garfagnana, sul fronte della Linea Gotica si attestarono soldati
Soldati americani della
92a divisione Buffalo
di diverse nazioni, oltre ai tedeschi (che nelle loro truppe avevano austriaci, slavi e polacchi), c'erano americani (sopratutto gli afro-americani della 92a Divisione Buffalo) e i Brasiliani della F.E.B, che insieme furono i protagonisti assoluti dello scenario bellico garfagnino, ma ci furono altri soldati che quando furono chiamati a supporto della V Armata Americana si fecero trovare subito pronti e anche se il loro intervento nella valle fu marginale, non gli è stato mai riconosciuto il merito che probabilmente gli spettava, bene o male sarebbero stati pronti a morire per la liberazione della Garfagnana, proprio come gli stessi brasiliani e americani, il destino e gli eventi poi gli evitarono di scendere direttamente in battaglia, ma questo è un altro discorso. Questi soldati facevano parte dell' VIII Armata Britannica, ma erano tutt'altro che inglesi, erano i nepalesi della Brigata Gurkha.


Fieri, coraggiosi, leali fino alla morte hanno combattuto a fianco degli inglesi in tutte le guerre, la regina Vittoria li chiamava "i miei piccoli orientali così prodi e fedeli". Fedeli, in quanto erano legati da un debito di gratitudine alla corona inglese che li aveva difesi durante un invasione cinese. 
"Ayo Gurkha!", era il grido di battaglia che da oltre un secolo e mezzo precedeva l'attacco che lanciavano ai nemici di Sua Maestà. La loro tipica arma era il kukri, un micidiale coltello dalla lama ricurva e il loro nome deriva dalla città nepalese omonima. Piccoli, robustissimi erano i figli della dimora dei ghiacci: L'Himalaya, il loro coraggio veniva proprio da quella terra, dallo dura lotta con la vita e in questo se si vuole e con le dovute proporzioni erano simili ai garfagnini, dato che fin dalla
Il Kukri arma tipica dei Gurkha
nascita i genitori abituavano i loro figli a non sentire la fatica, a camminare molte ore al giorno per cacciare e per procurarsi i beni essenziali. Fieri e sicuri di se si rivelarono combattenti ideali per situazioni disperate, quando ogni altro reparto sembrava ormai sconfitto e con il morale sotto i piedi, allora venivano chiamati i Gurkha, proprio come nel caso della celeberrima Battaglia di Natale che si svolse in Garfagnana tra il 26 e il 28 dicembre 1944. Un'offensiva tedesca che sbaragliò le posizione alleate respingendoli di diversi chilometri, che vide, nonostante la valorosa reazione, il pauroso sbandamento della 92a Divisione Buffalo. Gli afro americani si erano ritirati in maniera disordinata per oltre dieci chilometri, lasciando, armi, munizioni,viveri e attrezzature nelle mani del nemico. La situazione a questo punto era allarmante per gli alleati, bisognava tappare la falla che si era creata su quel tratto di Linea Gotica garfagnina. Già da giorni però gli americani avevano notato strani movimenti di truppe tedesche e fu deciso così di mettere in allerta anche l'VIII Divisione Indiana e i Gurkha che ne facevano parte. Nel solito mese infatti, la 2a Divisione Neozelandese, insieme alla Divisione

Indiana, liberarono Faenza sul settore Adriatico della Linea, di fatto la resistenza sul fronte si fece più tranquilla, fu così, per questo motivo che Gurkha furono mandati in supporto alla disfatta alleata che si stava compiendo in Garfagnana. Quando arrivano però i valorosi soldati nepalesi, i tedeschi si erano già ritirati sulle posizioni di partenza, pertanto non ci fu nessun intervento diretto nella battaglia, ci furono però casi sporadici di guerriglia contro uomini della San Marco che stavano ripiegando, alcune unità d'avanscoperta dei Gurkha furono attirate in un'imboscata che si concluse con la distruzione di due mezzi blindati e la perdita di diversi soldati da ambo le parti. Altra documentazione sulla loro presenza(almeno a me)oltre ai fatti nudi e crudi dei loro interventi in Garfagnana non rimane, rimangono però impresse nella mente le parole di un anziana e minuta donna nepalese, moglie di Santa Bahaudur Rai, soldato Gurkha, morto in Garfagnana per circostanze sconosciute: "Non ricordo quando mio marito si arruolò. Dopo circa sei anni seppi che era arrivata una lettera. Mio suocero non si preoccupò di spiegarmene il contenuto. Mi disse solo che mio marito non c'era più, e che avremmo dovuto
celebrare i riti funebri. Seguii semplicemente le istruzioni e feci quanto mi chiesero di fare. Non potevo credere che mio marito fosse morto. Non ho mai visto il suo cadavere. Mio padre avrebbe voluto che mi risposassi. Ma non sono mai riuscita a dimenticarlo. Mantengo ancora la speranza che un giorno possa apparire di nuovo. In più di un'occasione ho sentito dire che era ancora vivo ed era stato promosso capitano"(n.d.r.: testimonianza raccolta da Luca Villa dell'Istituto beni culturali).Di li a poco i valorosi nepalesi vennero trasferiti a Pisa per un periodo di riposo. Ma quello che non fecero in Garfagnana,fu fatto prima a Montecassino e poi sempre sulla Linea Gotica nella parte adriatica, fu li in quella zona d'Italia  che lasciarono un segno tangibile del loro valore, tanto che a Rimini esiste il "Rimini Gurkha War Cimitery" dove sono sepolti 790 "Royal Gurkha Rifleman", si stima che in Italia persero la vita circa diecimila uomini, tutti
"Rimini Gurkha War Cimitery"
giovani di età compresa fra 18 e 26 anni. Ci furono molti atti di coraggio, come accadde a Sher Bahadur Thapa insignito della Vittoria Cross, il massimo riconoscimento conferito ad un soldato al servizio di Sua Maestà Britannica, per aver tentato insieme ai suoi compagni di espugnare San Marino o Thaman Gurung che ebbe la stessa sorte due mesi dopo presso Monte San Bartolo. Oggi i Gurkha esistono sempre, sono 3640 soldati, facenti parte di uno dei più prestigiosi corpi militari del mondo. Ormai è dal 1815 che prestano servizio per la corona del Regno Unito, il loro ultimo compito è stato quello di sorvegliare lo storico incontro tra il presidente americano Trump e quello
nordcoreano Kim Jong-Un. Ma quello che non si può dimenticare è che furono inviati a combattere in un Paese lontanissimo da loro; si chiamava Italia e all'Italia donarono il loro coraggio, i loro sogni e la loro stessa vita.   




Bibliografia:

  • "Arrivano i Gurkha" di Luca Villa, casa editrice "Il Ponte" anno 2007
  • "Il Rimini Gurkha War Cimitery", oltremagazine.com, di Daniela Argiropulos, ottobre 2009
Viewing all 339 articles
Browse latest View live