Quantcast
Channel: La Nostra Storia
Viewing all 339 articles
Browse latest View live

Quando non c'era internet. La storia della Garfagnana sui quotidiani del tempo

$
0
0
Una volta non c'era internet che ci informa su tutto e tutti, adesso appena succede un qualsivoglia evento lo sappiamo in tempo reale, qualsiasi cosa succeda, anche dall'altro capo del mondo: attentati terroristici, rivoluzioni, catastrofi naturali... Una volta per "sapere" bisognava uscire di casa, levarsi le pantofole, mettersi le scarpe, andare in edicola e comprare un quotidiano. Ecco, a quel punto li ci si poteva informare su quello che accadeva nel nostro pianeta, anzi talvolta le notizie che giungevano oltre oceano venivano pubblicate qualche giorno dopo...non c'erano gli smartphone. C'è poco da fare però, il mondo cambia e...forse tra non molto (e con mio grande rammarico) assisteremo ad un "de profundis" epocale...addio carta stampata, addio giornale, compagno di tante ore liete, eravamo io, te e il mio caffè...I dati d'altronde parlano chiaro, la diffusione dei giornali cartacei è scesa al minimo storico, dal 2014 sono state chiuse venti testate giornalistiche e pensare che il secolo scorso (XX secolo)c'aveva lasciato in eredità qualcosa come 14 milioni di lettori di giornali, mentre lo scorso anno eravamo scesi a tre milioni... A dire il vero non è la prima volta che succede una cosa del genere, era già successo in prossimità di altre invenzioni di comunicazione: prima il telegrafo, poi la radio ed infine la televisione, ma stavolta la musica è cambiata, internet e gli
smartphone hanno cambiato e stanno cambiando la quotidianità delle persone, rivelandosi più minacciosi di qualsiasi altra invenzione precedente. La gente va sempre più di fretta, non ha tempo di leggere, le notizie devono arrivare sotto forma di tweet, di post, figuriamoci se qualcuno ha voglia di approfondire una notizia o di leggere un articolo intero, eppure una volta un articolo ben fatto era un efficace strumento di divulgazione, di crescita, infatti se tanto mi da tanto la stampa (storicamente parlando) ha fatto si che la popolazione incominciasse a leggere, ha favorito lo sviluppo dell'illuminismo, nonchè (e sopratutto) il diffondersi dell'opinione pubblica. Insomma, capiamoci bene, internet ben venga, non si può negare che sia una grandissima scoperta, voi infatti mi state leggendo attraverso questa invenzione e sono anch'io un suo accanito fruitore, però leggere un libro o un giornale, quella rimane un'altra cosa.Del resto la storia del giornalismo in Italia parte da lontanissimo; "La Gazzetta di Mantova" ha l'invidiabile primato
Il 1° numero de "La Nazione"
di essere il quotidiano più antico d'Italia, le sue pubblicazioni risalgono al 1664, ma dobbiamo dire che il vero e proprio boom del giornalismo fu a metà del 1800. "La Gazzetta del Popolo" di Torino fu tra i primissimi quotidiani di quel periodo, correva il 16 giugno 1848 quando uscì il suo primo numero, nel 1859 usciva "La Nazione" di Firenze fondata da Bettino Ricasoli (presidente del consiglio dopo Cavour), a ruota ecco nascere "Il Giornale di Sicilia"(1860)e "L'Osservatore Romano" (1861). "Il Corriere della Sera"(il quotidiano più venduto oggi in Italia) uscì "solamente" nel 1876 e sempre per rimanere nell'ambito toscano il quotidiano livornese "Il Telegrafo" vide luce nel 1887, prenderà poi nel 1977 il nome de "Il Tirreno".
Come detto fra i maggiori pregi che ebbe la diffusione del giornalismo ci fu anche quella di divulgare  e di portare alla ribalta nazionale zone d'Italia che fino allora erano sconosciute. La Garfagnana era fra queste, lontana se si vuole dai grandi avvenimenti del Paese talvolta faceva capolino fra i più celeberrimi quotidiani nazionali, alcune volte con notizie belle, spesso brutte e tragiche e alcune altre curiose e di attualità. Ecco allora il frutto di questa mia meticolosa ricerca,dove sono riuscito come meglio ho potuto a raccogliere le vecchie e principali notizie dei giornali a tiratura nazionale (o perlomeno regionale)dove si parla di Garfagnana, ne esce un quadro di fatti alle volte conosciuti e altre volte di notizie che ce n'eravamo dimenticati o che forse non conoscevamo.
Guardiamo quindi, quello che si sapeva in Italia della Garfagnana, quando internet non c'era...
Ultima cosa, le notizie sono divise per temi e non in ordine cronologico
  • La prima (presunta) volta che un quotidiano nazionale parla di Garfagnana 
A proposito di diffusione e conoscenza. Era il 27 agosto 1884 e  "Il Corriere della Sera" parlava di questa regione semi sconosciuta: "...del resto, è ancora poco conosciuta, giacchè abbiamo veduto qualche giornale metterla in Toscana e qualche altro crederla una borgata...".
Poco meno di un mese dopo sempre "Il Corriere della Sera" ne parlerà in tutt'altri termini. Mercoledì 18 settembre 1884, il pezzo s'intitola "Le miserie della Garfagnana". La valle è stata colpita da un'epidemia di colera. Da notare la "velocità" delle informazioni: l'articolo è del 15 settembre fu pubblicato tre giorni dopo



  • Le visite importanti...
Guardiamo un po', allora, da quello che mi risulta (almeno dai
giornali) la nostra terra è stata visitata da una regina (per due volte), da un principe ereditario, da due presidenti del consiglio e da un Presidente della Repubblica. In ordine cronologico i primi a fare visita furono il principe ereditario Umberto (futuro re per un mese) con l'augusta madre la regina Elena. Eravamo in piena I guerra mondiale e non poteva mancare la visita "alle fabbriche di munizioni" (ovverosia la S.m.i di Fornaci di Barga). Ecco allora che il 26 settembre 1918 sulle pagine de "L'Arrengo-giornale della Toscana" campeggia una bella foto gli operai della metallurgica con le loro maestà
Due anni dopo la regina Elena tornerà a far visita alla Garfagnana ma per ben altri motivi. Giungerà un'altra volta tra noi per portar conforto e...cinquantamila lire del re ai terremotati. Erano i tristi giorni del settembre 1920. Nel maggio 1930 toccherà a Benito Mussolini visitare la S.m.i e dare omaggio alla tomba del Pascoli, come evidenzia "Il Corriere della Sera". La più alta carica dello stato il toscano Giovanni Gronchi il 21 marzo 1959 inaugura l'ultimo tratto ferroviario della Lucca-Aulla.
Il Presidente della Repubblica come riporta "La Nazione" si fermerà a Minucciano, Piazza al Serchio e Castelnuovo. Ecco poi che il 17 giugno 1967 Aldo Moro, al tempo presidente del consiglio giunge a Castelnuovo Garfagnana. "Il Corriere della Sera" evidenzia l'avvenimento con un articoletto
di poche righe e riporta le parole di Moro dalla rocca ariostesca: "Vogliamo lavorare nella pace. Pace nel nostro paese, innanzitutto pace
politica..." proprio quella a cui non lo faranno mai arrivare...















  • Il terremoto del 7 settembre 1920

Dopo la guerra questo è  l'avvenimento più tragico che ha colpito la Garfagnana. Ancora oggi viviamo con la paura sulle spalle di quella catastrofe. Ore 7:56 un sisma del IX-X° della scala Mercalli colpisce la valle. I dati ufficiali parlano di 171 morti e 650 feriti. Ecco i giornali del
tempo. In uno di questi la Garfagnana viene menzionata come..."alta regione della Grafagnana", direi che non eravamo tanto conosciuti altempo...


  • Le emergenze terremoto 
In Garfagnana abbiamo vissuto anche di emergenze e sfollamenti in previsioni di terremoti catastrofici, grazie a Dio mai avvenuti. La prima risale al 23 gennaio 1985, l'allora ministro della Protezione Civile Zamberletti mobilita le prefetture, protezione civile ed esercito. Dai dati del terremoto avvenuto il giorno prima e da uno studio degli esperti sui terremoti in zona successi negli ultimi mille anni (così riporta "Il Tirreno") nelle prossime 48 ore è previsto un terremoto di forte intensità. I telegiornali e i giornali (bellissima la foto in prima pagina de "Il Tirreno) danno l'annuncio...vi potete immaginare e tanti come me si ricorderanno pure...panico totale e fuggi,fuggi generale. Era la
prima volta che in Italia si provava a fare una previsione su un terremoto e lo subirono sulle spalle i garfagnini. La cosa si ripete poi non molti anni fa (internet c'era già), infatti la notizia arrivò con un tweet dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri: "Il Dipartimento nazionale di Protezione Civile ha comunicato che nelle prossime ore potrebbero verificarsi altre scosse di terremoto con epicentro in prossimità di
Castelnuovo Garfagnana...", si ripeterono così le solite scene di quasi trent'anni prima.  In barba a Twitter e a tutti i social "Il Tirreno" il giorno dopo riportò la notizia quando l'allarme era già terminato.


  • La guerra
La Garfagnana è molto menzionata sui giornali nazionali in fatto di guerra. La Linea Gotica attraversa le montagne della valle e molti episodi della II guerra mondiale troveranno spazio sui quotidiani. Naturalmente era quasi impossibile dettagliare tutti i giornali che in questo periodo parlano di guerra riferendosi alla Garfagnana, comunque ci sono delle uscite degne di nota come le prime pagine illustrate della celeberrima "Domenica del Corriere" disegnate magnificamente da Walter Molino. Questo giornale era un supplemento settimanale de "Il Corriere della Sera" ed era fra i più apprezzati e letti a livello nazionale. Finire in una copertina illustrata del periodico voleva dire
visibilità assoluta, infatti il giornale arriverà ad una tiratura di un milione e trecentomila copie  Capiterà due volte di finire sulla prima pagina de "La Domenica del Corriere", una il 7 gennaio 1945 riferendosi della guerra nell'Italia centrale nel settore di Gallicano, dove truppe italiane e tedesche sfondano le linee nemiche ricacciandole indietro di parecchi chilometri. La seconda è dell'8 aprile 1945, mancano ormai pochi giorni
alla fine della guerra, qui si parla di un audace colpo di mano dei bersaglieri della divisione "Italia" sempre nella zona di Gallicano. Altri quotidiani come "Il Resto del Carlino" di Bologna o "Il Corriere della Sera" non fanno mai mancare gli aggiornamenti sugli scontri in Garfagnana



  • La prima volta del treno in Garfagnana
Evento storico e epocale fu l'arrivo del treno in Garfagnana, 25 luglio 1911. Al tempo il treno arrivava fino alla stazione di Fornoli e curiosamente per l'avvenimento due giornali locali si uniscono in una sola testata: "La Garfagnana" e "Il Serchio". Altra curiosità i giornali nazionali parlano delle nuove stazioni illustrandone la loro bellezza ma fanno un po' di confusione con i paesi della valle, mescolando i nomi delle
varie localita: la stazione di Barga- Gallicano diventerà Borgo- Gallicano e Fornaci di Barga, Fornaci di Bagni... 



  • Tragedia: lo scoppio della polveriera di Gallicano
E' stata sicuramente la tragedia lavorativa più grave che abbia mai colpita la Valle del Serchio. Il 27 febbraio 1953, dieci persone perirono in quella che "La Nazione" chiama a giusto modo una "terrificante sciagura": l'esplosione della polveriera di Gallicano


  • Garfagnana milionaria
Quando la Garfagnana fu baciata dalla
dea bendata era il 28 ottobre 1964. Il primo premio della lotteria di Merano, 150 milioni di lire, fu vinto da un abitante di Sassi. Così riporta "L'Unità": "il biglietto vincitore del primo premio del Gran Premio di Merano potrebbe appartenere ad uno dei cento abitanti dl Sassi, frazione di Nolazzana (n.d.r: Molazzana), nell'alta Garfagnana, in tale località, infatti, è stato venduto il tagliando vincente. Non è stato ancora possibile, tuttavia, aver'una conferma: Sassi non ha telefono e non è collegata da alcuna strada carrozzabile"


  • Attualità e curiosità
La Garfagnana è piena di tradizioni come ben sappiamo e nel lontano 22 giugno 1902 "La Domenica del Corriere" con un bellissimo articolo porta alla ribalta nazionale "il giro del diavolo" che si svolge a San Pellegrino:" ...Lo spettacolo di uomini e donne in età avanzata con sul capo rudi macigni è veramente penoso. La grossezza delle pietre è un titolo d'onore perché rende maggiore la penitenza, si che nel mucchio si scorgono pietre tanto grosse da sembrar strano che qualcuno abbia potuto trasportarle sin lassù. E basterebbe tanto poco a persuadere i pellegrini che la chiesa al santo è ormai costrutta… dal medio evo!! Ma c'è di mezzo la forza della tradizione!"
A proposito di devozione ecco il 21 dicembre 1947 un'altra storia sempre dalle pagine de "La
Domenica del Corriere" che titola "La miracolata della Garfagnana".
Lei è Anna Morelli di Gramolazzo e a quanto pare sembra che veda la Madonna. Le apparizioni chiamano in Garfagnana cronisti da tutte le parti d'Italia, ma l'articolo più bello rimane proprio questo del garfagnino Gian Mirola:"La folla si inginocchia, piange sommessamente. Anna, la "miracolata" con lo sguardo fisso in avanti, sorride e mormora parole incomprensibili. E' in estati. Riesco a percepire alcuni monosillabi privi di senso:- Si...No...-. Per accertarmi del suo stato di sensibilità la pungo per due volte inaspettatamente, con uno spillo. Due goccioline di sangue, la ragazza non sente e non fa un movimento. Gli occhi sbarrati, fissi nel vuoto vedono...Sviene". Sempre le pagine de "LaDomenica del Corriere" nel 1914 non si dimenticano
neanche delle infrastrutture garfagnine ed ecco che nelle sue pagine si parla di questa avveniristica diga: la diga di Villa Collemandina. Dalla foto dell'articolo un po' meno avveniristica mi sembra la sicurezza sul cantiere di lavoro (niente da stupirsi, una volta era così...)
Inconsueto per quel tempo, ma sulle pagine de "La Domenica del Corriere" il 3 novembre 1946 si comincia a parlare di Garfagnana da un punto di vista turistico. il titolo è emblematico: "Garfagnana terra sconosciuta". Il pezzo così comincia:"La Garfagnana non è una delle misteriose provincie dell'Asia, né uno sperduto villaggio della Patagonia. Se qualcuno,
leggendo il titolo di questo articolo, lo avesse immaginato, si ricreda.E' invece un pittoresco lembo di terra toscana, incuneato fra gli Appennini e le Apuane, dove termina il regno dell'ulivo ed incomincia quello del castagno".
Il più singolare rimane però l'articolo de "Il Tirreno", datato 16 gennaio 1988, qui si parla di un gruppo di abitanti di Bolognana che una volta partiti per un escursione sul Monte Palodina si dice che abbiano
incontrato gli gnomi, esseri non più alti di 50-60 centimetri, che una volta volta visti gli umani pare si siano rotolati lungo un pendio per poi scomparire. Da segnalare anche, che nella stessa zona tempo prima era apparso un mega lucertolone verde che aveva messo in fuga un cacciatore...
  • La morte di Giovanni Pascoli 
Il Pascoli non morì a Castelvecchio, partì dal paese il 17 febbraio 1912 per curarsi a Bologna. In Valle del Serchio non vi fece più ritorno se non da morto. Muore il 6 aprile 1912 nella sua casa bolognese in via dell'Osservanza n°4. "Il Corriere della Sera" il 7 aprile annuncia in prima pagina e a pieno titolo il decesso del poeta
  • Il rapimento di Elena Luisi
Fu un'avvenimento che toccò il cuore di tutta la valle e di tutta la nazione. Tutti i giornali dettero grande risalto alla vicenda. Nella notte tra domenica 16 e lunedi 17 ottobre 1983, durante un temporale, dopo avere scardinato la porta, un gruppo di malviventi entra a casa Luisi a Lugliano (Bagni di Lucca). I malviventi dopo avere malmenato i nonni e la mamma Luisa portano via la piccola
Elena di diciassette mesi che indossa un pigiamino azzurro e piange disperatamente. Viene richiesto un riscatto di 5 miliardi da pagare entro 5 giorni. Scattano le ricerche e le indagini da parte degli inquirenti e vengono anche coinvolti i servizi segreti. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini rivolge un appello ai rapitori e lo stesso fa anche il Papa Giovanni Paolo II. Nella notte tra il 25 ed il 26 novembre, dopo 42 giorni la liberazione: i banditi sentendosi accerchiati abbandonano la bambina, coperta solo da un cartone sul ciglio di una strada a 50 km da Messina.

Così con un pizzico di nostalgia questo è quello che era prima del web. La carta stampata oggi appare più che mai un’isola sperduta, frequentata solo da quella ristretta diaspora generazionale che ancora non si è arresa del tutto al dominio della rete. La domanda, o meglio, la curiosità è allora sapere... per quanto tempo ancora i giornali sapranno resistere all’ondata digitale?

Gli "erbi" garfagnini fra riti magici e cerimonie religiose

$
0
0
"Insegnate ai vostri figli tutto ciò che noi abbiamo insegnato ai
nostri; che la terra è la madre di tutti. Tutto ciò che capita alla terra capita anche ai suoi figli. Sputare a terra è sputare a se stessi. La terra non appartiene all'uomo, è l'uomo che appartiene alla terra. Tutto è collegato, come il sangue che unisce una famiglia. Ciò che capita alla terra, capita anche ai suoi figli". Queste erano le parole del medico francese David Servan-Schreiber che aveva capito quanto stretto e collegato fosse il legame fra l'uomo e il posto in cui vive. Questo vincolo è compreso ancor di più a colui che vive in mezzo alla natura, a colui che fin da tempi immemori ha cercato di trarre dalla terra il cibo da mettere in tavola, portando così l'uomo e i frutti della terra a una relazione intima che coinvolgeva e coinvolge tutti gli aspetti della vita. Infatti con i frutti della terra non ci sfamava "solamente", ma con la raccolta delle erbe che
forniva la natura venivano fatte medicine, colori per i tessuti e manufatti, ma si utilizzavano anche per riti e magie. Il garfagnino nei tempi passati ha fatto di questo il suo Credo,  legando alla terra, ai suoi frutti e alle sue erbe una serie di credenze popolari, tant'è che nel tempo certe credenze si sono consolidate e hanno assunto in certi casi anche il ruolo di verità, tanto da suscitare gli interessi di sociologi e studiosi che hanno voluto riscontrare scientificamente quanto in tutto questo ci sia di vero. 
Diamo anche noi allora un po' di lavoro a questi ricercatori esaminando i meandri delle credenze e dei riti garfagnini legati al mondo delle piante, dei fiori e degli "erbi". Nelle cerimonie religiose e nei riti magici la pianta che spicca su tutti è l'olivo. L'olivo benedetto nel rito cattolico ricorda la celebrazione dell'entrata trionfale in Gerusalemme di Gesù e nel giorno della sua ricorrenza,la domenica della palme, vengono benedetti i rametti di questa pianta, guai sarebbe se una volta finita la liturgia fossero buttati, poichè secondo il Codice di Diritto Canonico gli oggetti sacri non devono essere gettati nella spazzatura ma trattati con
rispetto, dato che durante la Messa sono stati presi dal sacerdote e trasformati in un sacramentale (n.d.r:oggetto che avvicina alla celebrazione dei sacramenti), anzi vanno mantenuti perchè efficaci contro i temporali e oltretutto assumono anche un valore misto fra religione e magia, difatti non mancava nelle mulattiere garfagnine di incontrare carretti o micci (n.d.r:asini)che avessero messo da qualche parte un rametto benedetto, aveva il potere di allontanare malattie e calamità. Altra pianta legata al periodo pasquale è il bussolo e curiosamente a questo era legato un gioco per ragazzi. Per tutta la durata della Quaresima, secondo altre versioni soltanto nei giorni della Settimana Santa,i più giovani erano soliti mettersi in tasca un rametto di bussolo quale segno di buon augurio. Incontrandosi tra loro chiedevano: “Ce l’hai il mi verde?”; chi non ce l’aveva doveva pagare con una penitenza, offrendo al vincitore una caramella, un
Il bussolo
uovo, o un qualsiasi piccolo dono. Nelle testimonianze raccolte a Caprignana (San Romano Garfagnana), si doveva tenere per tutti e quaranta i giorni del periodo quaresimale una foglia di bussolo in bocca che “durava fino al giorno di Pasqua”. Da non dimenticare che il bussolo è anche utilizzato come antidoto contro gli streghi, poi pulire i forni dalla cenere con i rami di questo arbusto ha un significato protettivo. 
La Chiesa Cattolica come visto fa largo uso di piante e fiori, nella solennità del Corpus Domini era solito vedere nei paesi della valle, durante la processione della ricorrenza, spargere petali di rosa prima del passaggio di essa, gettare petali rossi aveva il significato di ricordare la coppa che raccolse il sangue di Cristo, oltre al concetto universalmente conosciuto di sinonimo di amore. Anche i santi non disdegnarono l'uso di piante e fiori. San Viano si cibava
Cavolo di San Viano
solamente di una specie di cavolo, oggi a lui dedicato e conosciuto proprio con il nome di cavolo di San Viano, particolarità botanica che si trova solamente nell'area di Campocatino e del Monte Tambura, proprio la zona dove viveva in epoca medievale l'eremita. Si sostiene che cibarsi di queste foglie o solamente conservarle in casa sia di buon augurio. Anche San Pellegrino non poteva mancare a questo elenco e la storia è molto simile a quella del suo "collega" raccontata nelle righe qui sopra. Anche lui si cibava solo di un'arboscello, del cosiddetto fiore di San Pellegrino, l'unica differenza si dice che stia che tale fiore sia sempre rivolto verso il paese di San pellegrino in Alpe, dove ora riposano le spoglie del santo. Essendo vicini al Natale non poteva mancare una pianta che ricordi le festività, questa è  lo zinepro (o ginepro); al suono della campana 
la sera della vigilia di
Il fiore di San pellegrino
Natale
  bruciare un ramo di questa pianta aveva due scopi, scacciare gli spiriti e scaldare il Bambinello. Lo stesso si faceva anche con l'elicrisio; il giorno di Natale allo scampanare dell'Ave Maria veniva bruciato nel camino di casa, inoltre si dice che i fiori seccati di questa pianticella vadano messi dentro le scarpe, sono un toccasana per chi ha i piedi freddi. Alcune piante avevano anche il potere di difendere o scacciare forze malefiche e fra queste il malocchio la faceva da padrona. Il semplice finocchietto selvatico insieme a foglie d'olivo benedetto e sale, costituiva quello che negli anni passati era conosciuto come "breo". Il "breo" era un sacchettino rosso dove all'interno erano racchiusi questi elementi sopra citati, spesso veniva collocato sulle corna delle mucche e non era nemmeno difficile notarlo qualche volta messo alla canottiera del contadino, era un deterrente formidabile contro il malocchio, così come il vezzadro; i butti della pianta in Garfagnana
il vezzadro
sono apprezzati nelle frittate, ma ancor di più se si usa facendo dei decotti delle foglie che sarebbero poi utilizzati per fare i bagni, utili contro questa maledizione. Ma in Garfagnana non c'è solo da difendersi dal malocchio, anche gli streghi danno il loro bel da fare; il timo selvatico per esempio, meglio conosciuto come Labiata, una volta seccato e appeso in camera da letto a testa in giù (con radici comprese),scaccia sicuramente le oscure presenze che potrebbero assalirci la notte. Il pericolo di essere stregato veniva invece dalla pianta di noce; proprio com'è credenza in molte altre regioni italiane sotto il noce si raccoglievano in adunanza gli streghi e le streghe, quindi mai capitare in un bosco di noci, tale pregiudizio è ben sintetizzato a Sillano dove si racconta che chi andava in un campo dove c'erano dei noci veniva stregato e portato in Corsica, meta del durissimo lavoro di carbonaio per i garfagnini che emigravano in quel tempo. L'erbo dell'ascensione invece ha potere
L'erbo dell'Ascensione

divinatorio, tale consuetudine è molto consolidata in alta Garfagnana dove il giorno dell'Ascensione quest'erba veniva raccolta e portata in casa, se seccava se ne traeva un cattivo presagio, in caso contrario non sarebbe successo niente di grave e di conseguenza veniva posta in un vaso. Altra curiosa usanza viene da Orzaglia, nel comune di San Romano, e fa riferimento alla rosa canina, una volta benedetta il giorno di Santa Rita (22 maggio), i petali di questa rosa venivano mangiati da ogni componente della famiglia in segno di protezione divina. La più curiosa fra queste credenze riguarda comunque una bacca, conosciuta con il nome di bagola del lupo. Nel
la bagola del lupo
borgo di Dalli Sotto (comune di Sillano)si dice che questo frutto non va assolutamente mangiato perchè è maligno, dato che lo mangiano i lupi, animali che nella cultura popolare simboleggiano la cattiveria, ad ogni modo ricerche scientifiche dicono che questo falso mirtillo ha proprietà allucinogene, inoltre può portare anche vomito e nausea.

Dunque, ecco la degna conclusione di un semplice vademecum sui miti, leggende e usanze che si rifanno ad antiche paure, nascoste nella nostra certezza più profonda che la nostra vita sia sempre minacciata da qualche forza malefica. Quando ci sentiamo vittime cerchiamo protezione e riparo anche per mezzo di una innocente pianticella, di conseguenza tutte le nostre azioni e le nostre credenze vengono così legittimate...


Bibliografia:

  • "Cercare, raccogliere ed utilizzare piante spontanee (e non). Alcune indagini etno scientifiche in Provincia di Lucca" da uno studio di Maria Elena Giusti e Andrea Pieroni 

Quando i garfagnini andavano nelle case chiuse...

$
0
0
Ci sono mille modi per definirlo, nomi talvolta ricercati come
postribolo o lupanare, altre parole un po' più eleganti e distinte come casa di tolleranza, casa chiusa o casa di piacere, altre ancora invece non lasciano spazio a dubbi: casino, bordello o peggio ancora puttanaio...Rimane il fatto che questo luogo ha segnato la vita di molti italiani, vocabolo inteso proprio nel genere maschile del termine, era infatti un rito iniziatico quasi inevitabile per buona parte di quei giovani che raggiungevano la maggiore età, o sennò per molti altri uomini era una semplice abitudine come quella di prendere un caffè al bar, d'altronde i numeri parlano chiaro, negli anni del ventennio fascista,l'epoca proprio che andremo ad analizzare, coloro che frequentavano le case chiuse erano circa 10 milioni su una popolazione di 40 milioni di italiani, leviamoci da questa cifra donne e bambini e possiamo immaginare la proporzione del fenomeno. Fra questi naturalmente c'erano molti garfagnini che di buona lena prendevano il treno dai nostri sperduti paeselli e frequentavano le case chiuse di Lucca, dal momento che in Garfagnana non ne esistevano. Dalle nostre parti tale "emancipazione" non arrivò mai perchè da sempre attaccati a valori culturali contadini  e fortemente cattolici che non permettevano una Sodomma e Gomorra
simile. I valori di casa, chiesa, lavoro e famiglia erano ben radicati, naturalmente sotto sotto la storia era un'altra, non mancavano neanche al tempo amanti varie e scandali sotto le lenzuola e non mancavano nemmeno donnine di paese di facili costumi, ma quello che non si vedeva, non esisteva...l'importante era l'apparenza e bando alla morale sessuale anche dalla Garfagnana come detto si partiva in comitiva, proprio come si fa in una gita, in quel di Lucca verso quelle case chiuse che faranno epoca dall'unità d'Italia, quando il governo Cavour nel 1861 sancì la loro legale esistenza con il"Regolamento del servizio di sorveglianza della prostituzione" con tanto di ottenimento obbligatorio di "patente"(art.24,26 e 27) per esercitare la professione, fino al fatidico 1958 quando la senatrice Merlin le case chiuse, le chiuse per davvero...Ovviamente quale poteva essere il momento storico in cui i bordelli ebbero il loro apice? Logicamente il ventennio fascista. All'epoca non ci poteva permettere di battere la fiacca,
la parola d'ordine era virilità e allora osserviamo attraverso testimonianze e racconti di (anonimi e anziani) garfagnini come erano le case di piacere. Tutto era regolamentato da severe leggi, per aprire un esercizio bisognava dotarsi di regolare licenza, inoltre bisognava pagare le tasse e istituti medici per i controlli sulla salute delle prostitute, per di più era severamente vietato all'interno vendere cibo e bevande, fare feste, balli e canti. Non si potevano aprire case di tolleranza nelle vicinanze di chiese, scuole e ospedali, oltre a ciò le persiane dovevano sempre rimanere chiuse, da qui il nome "case chiuse".
 -Non si poteva fare diverso- dice il nostro testimone- ci dovevano essere per forza delle regole precise talmente era tanta l'affluenza nei casini, era una questione di ordine pubblico, c'è poco da fare, anche perchè questi luoghi non erano frequentati solo dal popolo ma da ogni sorta di persona: gerarchi, ufficiali dell'esercito, mariti
, bimbetti alle prime esperienze e da una categoria di persone che noi chiamavamo "i flanellisti" cioè quei tipi che bighellonavano per lustrarsi gli occhi senza nemmeno spendere un soldo, a quel punto interveniva la maitresse: "Su, su...o commercio o liberare la sala"-. 
Le prostitute iscritte al partito fascista avevano maggiore facilità di lavorare, ma dal 1938 diventò obbligatoria l'iscrizione per fare qualsiasi attività...anche quella, per esercitare bisognava fare gli esami "e aver superato l'abilitazione al regolare meretricio", dopo aver passato le prove c'era un severissimo tirocinio in un locale di meretricio di Stato...in cui si cimentavano gli aspiranti al ruolo. Ma se il corpo della povera donna era perso bisognava però salvare l'anima; ogni venerdì il prete faceva visita al casino per fare confessione e dare la comunione alle donnine e chi si sottraeva "all'obbligo di brava cristiana" il suo comportamento veniva segnalato alla maitresse per atteggiamento "non retto". 

- Erano altri tempi a raccontare queste cose adesso non ci si crede- riprende il nostro testimone garfagnino- per noi era la normalità  frequentare i casini, come andare al cinema o al bar. Con gli amici si prendeva il treno in Mologno tutti insieme, naturalmente alla mamma non si diceva dove si andava, l'importante era andare alla messa delle 11...il babbo penso che si immaginasse lo scopo delle nostre gite domenicali, comunque una volta arrivati a Lucca si prendeva il carrozzino che ci portava nella "cittadella dei casini". Per noi giovanotti il nostro mondo era in quel pezzetto di città fra via del Mulinetto, Corso Garibaldi e via della Dogana, da poco ci
sono passato da quelle parti li, adesso i casini si sono trasformati
in alberghi. Nel periodo delle feste come questo ci facevamo un regalo, quando al lavoro ci davano la gratifica natalizia ci potevamo permettere per solo una volta l'anno "Il Primavera" un casino a tre stelle, che era proprio in Via della Dogana-. 
In effetti vigeva lo stesso sistema che oggi esiste per gli hotel, più stelle aveva una casa chiusa e più alto era il suo livello, si andava dalle pregiatissime quattro stelle al servizio "low cost", più diminuivano le stelle più aumentava "la stazza" delle signorine. Tutto però era organizzato alla perfezione, era una macchina ben collaudata:
- Praticamente funzionava così: una volta scelta la ragazza pagavi anticipatamente la prestazione alla tenutaria che in cambio ti dava
"la marchetta"
"una marchetta". A fine serata il numero di marchette in possesso alla prostituta definiva il suo compenso-.
 

Di solito questi luoghi erano strutturati tutti alla solita maniera, appena entravi trovavi lo studio della "direttrice" e il locale di polizia, messa li dal partito per mantenere l'ordine pubblico e per verificare l'età dei clienti, che per legge dovevano essere maggiorenni, al solito piano o a quello inferiore si trovava  la cucina,la lavanderia e la sala da pranzo, ai piani superiori c'era la sala d'aspetto, li venivi accolto dalle ragazze vestite con veli o abiti scollati che mostravano il seno, appena ti vedevano ti si sedavano accanto e cominciavano a toccarti nei "punti strategici". Nei bordelli con più stelle c'erano anche salottini privati con ingresso riservato che accoglievano persone che non desideravano esser viste, le camere poi potevano essere più o meno eleganti ma tutte avevano affisse le regole di prevenzione sanitaria, si potevano trovare anche cartoline osè per stimolare la fantasia dei
cartoline osè
in uso nei casini
clienti, l'arredo era comunque spartano, composto naturalmente da un letto, un lavandino, un bidet e in un armadietto si custodivano profilattici e creme varie per gli usi più disparati. Il regime impose regole dure per quanto riguardava la sanità, tutte le signorine due volte a settimana venivano sottoposte a visite mediche e possedevano un kit per verificare la presenza di malattie veneree.

- Mi ricordo sempre- continua Mario (nome di fantasia)- che il personaggio più particolare era la tenutaria, era una "macchina da guerra", il suo era un vero e proprio commercio e faceva montagne di soldi, spesso come secondo lavoro facevano "le strozzine", prestavano soldi contanti a interessi elevatissimi. Io me ne ricordo una, urlava sempre: "In camera, in camera, siete tutti finocchi?"-. 
A quanto si dice il duce non vide mai di buon occhio le cosiddette case di tolleranza, erano una contraddizione che andava contro le politiche di crescita demografica a cui aspirava il governo, ma non se la senti di privare il popolo maschile di uno dei suoi passatempi preferiti, però fece si che non fossero più concesse licenze per l'apertura di nuovi esercizi, tuttavia il regime impose a queste povere donne la reclusione, per meglio capirsi non potevano lasciare le strutture perchè considerate "donne che attentavano alla debolezza dell'uomo italiano", rischiavano sonore manganellate se fossero uscite dalla "casa" senza una valida giustificazione, di solito quando uscivano andavano a prestare "servizio" a domicilio ad invalidi di guerra o
ai disabili. La condizione di queste donne era di una prostrazione assoluta, molte di loro costrette dalla vita "al mestiere", abbandonate dai mariti o afflitte dalla povertà, molte risultavano vedove anche se vedove non lo erano. Il partito facendo "un favore" alle prostitute aveva fatto si che la persona non più reperibile, il marito, venisse dichiarata morta dopo cinque anni, di modo che le mogli potessero esercitare la loro professione dal momento che le donne sposate non potevano praticare la prostituzione. Eventuali figli venivano affidati agli orfanotrofi e una parte della retta veniva pagata dal comune. In pratica un vero e proprio mercimonio, una tratta di esseri umani, a confermarlo è sempre Mario, quello che per i ragazzi del tempo era una vera e propria festa è la conferma del traffico legale che subivano queste donne:
- Ogni quindici giorni le puttane cambiavano, ne venivano di nuove in città, allora si che quel giorno era una festa, le corriere e i treni che partivano dalla Garfagnana erano pieni. Uomini di tutte le età salivano su ogni mezzo, dal vecchietto, al signore distinto che faceva finta di niente, c'era anche chi partiva in camicia nera e
fez, per non parlare di compagnie di chiassosi ragazzi (come eravamo noi). Insomma, una volta arrivati a Lucca il rituale era sempre il solito, quando scendevamo dal treno si andava in Piazza Grande e li aspettavamo le ragazze nuove. Le maitresse infatti noleggiavano sempre una carrozza dove facevano salire tutte le prostitute appena arrivate e gli facevano fare il giro completo della città per mostrare le loro bellezze. Ricordo gli applausi scroscianti dei maschi al passare di queste sfilate e le facce stizzite delle signore di Lucca. Il fine corsa era in Via della Dogana, assalita da frotte di uomini che volevano andare con la novità del momento-.
Il fascismo cadde, la monarchia fu abolita e la Repubblica si instaurò. Anche con la nuova forma di governo la prostituzione rimase legale fino a quando la socialista Lina Merlin (prima
La senatrice Lina Merlin
senatrice italiana)con la legge n°75 del 20 febbraio 1958 dette il "de profundis" alle case di tolleranza, introducendo anche i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione. C
hiusero così per sempre i battenti oltre settecento casini, lasciando senza "lavoro" oltre tremila signorine. Per difendere la sua legge (che fu molto osteggiata) la Merlin ebbe a dire:" Non chiamatele prostitute; sono donne che amano male, perchè furono male amate". 


Fonte:

  • Testimonianze dirette, da me raccolte

    • Bibliografia:
      • "Le case chiuse durante il fascismo" Focus storia dicembre 2018
      • "La legge e l'alcova. La prostituzione nella legislazione italiana fra l'800 e il 900"

      Al cuor non si comanda...Ludovico Ariosto e "il mal di Garfagnana"

      $
      0
      0
      "L'amor che move il sole e l'altre stelle", così Dante chiude con
      Ludovico Ariosto e Alessandra Benucci
      quest'ultimo verso il Paradiso e la Divina Commedia, ma non ci occuperemo del Sommo Poeta, ma di un suo collega che verrà al mondo circa centosettanta anni dopo questo componimento. In effetti questa frase calza proprio a pennello all'illustrissimo Ludovico Ariosto, governatore della Garfagnana dal 1522 al 1525...e bando ai convenevoli, penso che lo possiamo dire chiaramente, lui in Garfagnana ci stava proprio male: "Ognuno dica quel che vuole, e pensi quello che gli pare: insomma ti confesso che qui ho perduto l'allegria, il divertimento e la felicità..." e (aggiungo io)l'amore, ma lui questo non lo poteva dire (e vedremo perchè).

      Per il vero amore, quello con la A maiuscola si farebbe ogni cosa, quante cose strampalate abbiamo fatto per amore, quante volte il
      nostro cuore batteva allo spasimo per amori lontani...e questo era proprio il caso di messer Ariosto e del suo mal di Garfagnana. Partiamo dall'inizio e analizziamo allora perchè decise di venire in Garfagnana e lasciare il cuore oltre Appennino a battere per una gentil donzella e vediamo allora che nella vita non è solo l'amore che fa muovere il sole e le stelle ma anche... il "vil denaro", è si proprio così, Ludovico Ariosto aveva bisogno di palanche. L'anno prima del suo arrivo nella valle a suo detto fatta da "gente inculta, simile al luogo ove ella è nata e avvezza" aveva pubblicato la seconda edizione de "L'Orlando Furioso" esponendosi finanziariamente e aveva bisogno di uno stipendio sicuro che gli poteva offrire solo la corte estense. Così il 20 febbraio 1522 con solo nove soldati al seguito partì per Castelnuovo Garfagnana. Alfonso I d'Este duca di Ferrara e uomo d'arme lo avvertì, la Garfagnana non era la corte estense fatta di salamelecchi e riverenze e li non c'era tempo "...di scrivere quelle vostre coglionerie", lo sapeva anche lui d'altronde, che così disse:"Mi fecero da poeta a uomo di governo". La situazione infatti non era proprio delle migliori per un'inesperto; da un punto di
      Alfonso I d'Este
      vista politico il quadro globale era esplosivo, Lucca stava vivendo la paura per l'espansionismo di Firenze, altri Stati ancora vedevano di cattivo occhio il problema del papato e della donazione della Garfagnana agli Estensi, da un punto di vista sociale poi non se ne parlava: liti, furti, omicidi erano all'ordine del giorno, il comportamento dei preti che avrebbero potuto mitigare il problema era invece tra i più riprovevoli, tanto da macchiarsi anche loro di crimini e fornire poi protezione ai banditi, inoltre se ci vogliamo mettere anche l'aspetto morfologico: strade dissestate, impervie montagne e neve in quantità...Insomma aveva proprio ragione il duca, comporre versi per l'Ariosto era l'ultimo dei problemi e il suo buon stipendio se lo doveva proprio guadagnare. Possiamo immaginare allora lo stato d'animo del Signor Governatore, i sentimenti sicuramente che prevalevano nel suo animo erano solitudine, angoscia, paura e prendeva sempre più coscienza di ciò che aveva lasciato a Ferrara, sentiva la mancanza di Alessandra, gentildonna da lui amata in gran segreto.

      "Questa è una fossa, ove abito, profonda, donde non muovo piè senza salire, del silvoso appenin la fiera sponda. O stiami in Rocca o voglio all'aria uscire, accuse e liti sempre e gridi ascolto, furti, omicidii, odi, vendette et ire". Tant'è che in tre anni di sua permanenza furono solo sei  le uscite che il poeta fece fuori dalla
      La Rocca ariostesca a Castelnuovo,
      casa dell'Ariosto negli anni del governatorato
      Rocca (oggi a lui dedicata)e poi saremmo stati anche gente rissosa, ma l'Ariosto la mette giù dura, più di quanto in effetti fosse, ma come detto il problema era un altro: "chercez la femme". E che femmina!!! Lei si chiamava appunto Alessandra di nome e Benucci di cognome. Benucci era infatti il cognome da signorina (ed ecco qui l'inghippo...), da signora invece faceva Strozzi, moglie del mercante fiorentino Tito Strozzi che frequentava la corte estense per affari...e così siamo alla solita storia...I due innamorati clandestini si conobbero in quel di Firenze il 24 giugno del 1513, nel giorno dedicato a San Giovanni Battista e si conobbero niente di meno che nella casa del Vespucci e subito, se non fu amore a prima vista poco ci mancò: "Dico che l giorno che di voi m'accesi, non fu che l primo viso pien di dolcezza e li real costumi vostri mirassi affabili e cortesi", del resto lo Strozzi era sempre via per lavoro... Fortuna (per l'Ariosto) volle
      Alessandra Benucci
      che due anni dopo il primo incontro, nel 1515, messer Strozzi se ne andò all'altro mondo. Strada spianata allora direte voi, niente di più falso. Ludovico Ariosto da un punto di vista sentimentale si ammantò sempre d'ambiguità e stretto riserbo, aveva tenuto sempre nascosto i suoi amori e n'aveva ben donde dato che ebbe due figli da donne diverse ma dal mestiere uguale: governanti presso casa Ariosto, rimane il fatto di un piccolo particolare, un bimbetto fu riconosciuto l'altro no. E lo stesso riserbo fu riservato per Alessandra, anche se ad onor del vero stavolta pareva amore vero. Per farla breve il mal di Garfagnana come abbiamo visto aveva un nome, un cognome e sopratutto una sottana. Non sarebbe però neanche giusto ridurre tutto ad una sottana è anche equo e doveroso aggiungere due o tre "cosette"che influirono pesantemente sulla sua insofferenza. Si può notare anche nelle 156 lettere inviate a tutte le Signorie toscane e non, dove si lamenta che ai pochi soldati che ha a disposizione la paga mensile era a discapito personale e che nonostante i forti valori di onore, giustizia ed equità a cui lui credeva, quello che ci credeva un po' meno era proprio Alfonso d'Este duca di Ferrara e mentre da una parte l'Ariosto svolgeva una dura repressione contro i briganti, dall'altra il duca si dimostrava accomodante se non addirittura compiacente, al che, preso dallo sconforto più totale gli scappò detto:" Io non sono omo da governare gli altri omini". Alla fine dei conti però "il buon" duca si prese il cuore in mano e decise finalmente di toglierlo dall'inferno garfagnino offrendogli un ruolo di tutto prestigio: ambasciatore a Roma! Cavolo, evviva avrà detto lui! Macchè... e parafrasando Garibaldi...o Ferrara o morte...dalla bella Alessandra che "tien del mio cor solo la briglia". Rinunciava
      Briganti Garfagnini
      così a qualsiasi carica governativa tornando a fare quello che più gli piaceva: il poeta, attività quasi del tutto abbandonata negli anni garfagnini per "aver sempre villani alle orecchie". Così nella primavera del 1525 prese armi e bagagli e tornò dalla sua amata. Storia finita allora, ma certo che no! Ci fu invece la coronazione di tanti patimenti:le giuste nozze con Alessandra Benucci nell'imprecisata data del 1528, imprecisata perchè  gli sposini non contenti di aver avuto dapprima una relazione segreta, adesso avevano avuto la brillante idea di fare un matrimonio segreto. Segreto, perchè ciò evitava che la nobildonna potesse perdere la tutela e sopratutto il patrimonio dei (cinque) figli avuti dal matrimonio con lo Strozzi, morto (quel "disgraziato") senza aver fatto testamento. Dall'altro canto a Ludovico Ariosto non pareva vero, dato che anche a lui il finto celibato gli consentiva di non perdere i benefici ecclesiastici acquisiti a suo tempo. Quindi i due continuarono a vivere separati (e allora tutta 'sta voglia di fuggire dalla Garfagnana?), anche se il poeta a casa della
      La casa della Benucci a Ferrara
       quando era già signora Ariosto
      moglie andava spesso...li teneva denari, preziosi e copie dell'Orlando Furioso. Finalmente poi, Dio volle, nel 1533 dopo cinque anni di matrimonio lo sposalizio fu reso pubblico...peccato che l'Ariosto era morto...pertanto la gentildonna Alessandra Benucci così facendo ereditò denari e mobili del vate. Al figlio di lui, Virginio, andarono duecento scudi e le...copie del poema.



      Bibliografia


      • "Ariosto l'amore nascosto" Corriere Fiorentino 3 maggio 2016 di Chiara Dino
      • "Lettere di Ludovico Ariosto con prefazione storico-critica, documenti e note" per cura di Antonio Cappelli editore Hoepli 1887
      • "E tien del mio cor solo la briglia. l'amore clandestino dell'Ariosto" di Pierluigi Panza, Corriere della Sera, 1 luglio 2018

      Fuochi fatui: fra chimica e leggende garfagnine

      $
      0
      0
      Quello che sto per raccontarvi potrebbe realmente capitarvi...Se vi
      fuochi fatui
      dovesse succedere di fare una passeggiatina nei pressi di un cimitero nel buio della notte potrebbe accadere di vedervi all'interno fra una tomba e l'altra improvvise e fugaci fiammelle, mi immagino la paura e la fuga a gambe levate che prendereste...ecco, questo è quello che succedeva ai nostri nonni. Questa è stata una delle più grosse paure della Garfagnana che poco (anzi niente) aveva di esoterico ma tanto di chimico. A dire il vero adesso questo fenomeno conosciuto come fuoco fatuo perlomeno nei cimiteri non accade più, potrebbe succedere ancora nei pressi di fiumi, laghetti o acque stagnanti. Ma tutto questo al tempo non si sapeva, ed ecco allora un fiorire di leggende e credenze garfagnine su una paura questa volta vera e tangibile, qui non si parlava di streghi, buffardelli o esseri magici a cui volendo si poteva credere o non credere perchè esseri creati dall'immaginario popolare, a differenza il fuoco fatuo esisteva veramente, era presente, si poteva vedere, non era un mito, una favola o un sentito dire, c'era (e c'è), eccome!. Il fenomeno si manifesta sopratutto nelle sere estive in luoghi particolari, che

      come abbiamo visto possono essere paludi, stagni e cimiteri, difatti la combustione del metano e del fosfano (gas che si liberano da materiale organico in decomposizione) crea queste fiammelle color bluastro che vagano in qua e la, appena al di sopra del suolo portate in giro dal movimento dell'aria. Nel caso dei cimiteri sarebbero ovviamente i corpi in decomposizione a creare questi gas e succedeva sopratutto al tempo dei nostri avi, quando le bare non venivano sigillate e zincate come oggi si fa. Al tempo la cassa chiusa a stagno faceva aumentare la pressione interna alla bara, a tal punto da far uscire i gas da saldature fatte in qualche maniera, questi una volta fuoriusciti raggiungevano l'aria sovrastante che a contatto con l'ossigeno si incendiava dando luogo ai misteriosi fuochi fatui. Per quanto riguarda le acque ferme ciò è dovuto dalla presenza di animali morti. Questa è la spiegazione scientifica, ma una volta la scienza non era di casa in Garfagnana, la gente non studiava e ciò che non si spiegava o era frutto di Dio, del diavolo o dell'ignoto. Le credenze e le leggende sui fuochi fatui sono molte, si pensava infatti che queste fiammelle fossero la prova
      dell'esistenza dell'anima e si diceva che più una persona era stata buona in vita, tanto più la sua anima si illuminava dando origine appunto ad una fiamma, da qui anche il nome alternativo e più popolare di "corpi santi". Naturalmente tutti i racconti tradizionali non davano la solita spiegazione e c'era anche chi credeva che fossero si delle anime, ma anime perse che avevano bisogno di preghiere per uscire dal purgatorio, o anche che fossero gli spiriti dei bimbi morti prematuramente(che all'epoca erano moltissimi), deceduti senza aver ricevuto il battessimo. Ma c'era chi, in ciò trovava il male e credeva che fossero spiriti malvagi che sviassero i passanti in luoghi pericolosi, come le paludi o in genere corsi d'acqua. Una Leggenda di Vagli ricalca questa credenza. I fatti si svolgono nel dopoguerra e racconta di un fabbro che non voleva far credito a nessuno. La guerra aveva distrutto oltre che le case anche gli attrezzi da lavoro: zappe, vanghe, martelli, falci. I soldi la povera gente ne aveva pochi e a questo fabbro ciò non importava, o soldi o niente!. Ma arrivò anche per lui il momento della fine dei suoi giorni, quando era sul letto di morte gli comparve San Pietro e gli dette l'ultima opportunità di pentirsi della sua avidità, ma neanche in fin di vita volle redimersi e fu
      condannato a vagare sulla terra con in mano un solo carbone ardente della sua fucina. Fedele alla sua cattiveria con questo carbone ardente si raccontava che aveva l'abitudine di attirare gli inconsapevoli viaggiatori conducendoli dal lago del paese nelle selve soprastanti dalle quali era impossibile uscire. Un'altra spiegazione che si da dell'esistenze di questi fuochi e del loro apparire sopratutto nelle acque è una credenza gallicanese, nata all'epoca del passaggio della strada romana Clodia Nova e diceva che alla confluenza della Turrite con il Serchio compariva spesso un fuoco fatuo che non era altro che l'anima delle persone non battezzate, che attirava i viandanti verso l'acqua nella speranza di ricevere il battesimo. Un altra leggenda invece ci porta a Palagnana e ci narra di un ricco proprietario terriero che oltre alla sue di terre voleva anche quelle dei modesti contadini e dei pastori vicini. Un bel giorno sul far del buio mentre si recava da un pover'uomo a riscuotere l'affitto giunse in prossimità di un fiumiciattolo dove vi trovò schierati sopra ad un
      Santa Lucia Gallicano
      sulla via Clodia Nova
      ponticello una moltitudine di fuochi fatui. Lì per lì pensò ad uno scherzo di qualche buontempone, ma all'avvicinarsi si accorse che le fiamme stavano a mezz'aria. La paura lo prese e più camminava e più queste fiammelle lo seguivano, la sua fuga diventò incalzante e precipitosa, il panico era tanto poichè i fuochi erano sempre più vicini. L'uomo si rifugiò nel bosco, ma niente, queste fiammelle erano sempre li, la situazione poi peggiorò quando volle fuggire verso il torrente, infatti le fiammelle aumentarono. Allora decise di riprendere la strada di casa, ma queste entità non lo mollavano, gli turbinavano d'intorno fino a sbarrargli la porta della sua dimora. In qualche maniera l'ingordo uomo riuscì ad entrare in casa, ma fu preso da febbri altissime e ciò lo fece ripensare a tutte le sue cattiverie e alle sue angherie fatte nei confronti della povera gente del suo paese, decise così di chiamare un prete e di confessargli tutto, desiderò inoltre restituire i terreni maltolti, facendo tornare così la pace nelle
      Alpi Apuane.

      Tutte le credenze come visto ruotano intorno alla paura e alla superstizione. La paura è la principale fonte di superstizione e la superstizione in fondo è la più tangibile delle fedi...



      Bibliografia

      • "Dizionario dei simboli dei miti e delle credenze" di Corinne Murel, Giunti editore anno 2016
      • Cicap enciclopedia di Luigi Garlaschelli

      1938: "Gli ebrei fuori dalle scuole". Testimonianze sulle leggi razziali in Garfagnana

      $
      0
      0
      Pochi lo sanno e forse altrettanto pochi se lo ricorderanno, ma
      tutto cominciò ufficialmente nella nostra bella Toscana. Era il 5 settembre del 1938 nella reale tenuta pisana di San Rossore. Qui Vittorio Emanuele III re d'Italia passava insieme alla famiglia reale "il meritato" riposo estivo che andava da inizio giugno ai primi di novembre. Quella era una mattinata qualsiasi e come sempre con estrema naturalezza e indifferenza sua maestà aveva già fatto la sua passeggiata in riva al mare con i pantaloni rimboccati per non bagnarli, dopodichè si apprestò a tornare all'interno della tenuta, ma prima di pranzo lo attendeva una firma che sbrigò così, su due piedi, in quattro e quattro otto come se niente fosse, assecondando di fatto la volontà di Mussolini e di Hitler. La firma sanciva una legge dello Stato che si sviluppava su 7 articoli, la legge era la n°1390 e così titolava: "Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista", solamente i primi tre articoli non lasciavano
      Tenuta reale di San Rossore
      dove furono firmate le leggi razziali
      spazio a qualsiasi dubbio:

      Art 1: All'ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; nè potranno essere ammesse all'assistentato universitario, nè al conseguimento dell'abilitazione alla libera docenza
      Art 2: Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica
      Art 3: Al datare dal 16 ottobre 1938 tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengono ai ruoli delle scuole di cui al precedente art 1 saranno sospesi dal servizio; sono a tal fine equiparati al personale insegnante i presidi e i direttori delle scuole anzidette, gli aiuti e assistenti universitari, il personale di vigilanza nelle scuole elementari, Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall'esercizio di libera docenza.
      Benito Mussolini e
       re Vittorio Emanuele III

      Di fatto da quel giorno diventarono ufficiali le leggi razziali,che cacceranno fuori dalle scuole italiane bambini e insegnanti ebrei, una macchia indelebile nel nostro Paese. Ma quale fu l'effetto di tutto ciò in Garfagnana? Non esistono documentazioni scritte (o almeno io non l'ho trovate)su particolari provvedimenti adottati nella nostra valle, ma in compenso possiamo attingere a fonti orali da cui si può trarre spunti di riflessione interessanti.
      Le leggi razziali del 1938 non ebbero conseguenze fattive o significative in Garfagnana per il semplice motivo che ebrei non ve ne erano, la consolidata religione cattolica era presente più che mai in ogni famiglia, quello che è intrigante è vedere come apparirono agli occhi degli scolaretti innocenti di allora le leggi sulla razza. Questa testimonianza è di Adelina classe 1929 di Castelnuovo Garfagnana, al tempo frequentava la terza elementare nel capoluogo garfagnino e ricorda nitidamente tutto questo: 
      "Tutta la scuola fu convocata nell'aula magna, se ricordo bene erano
      Scuola fascista al saluto romano
      i primi giorni, la maestra ci disse che il direttore ci doveva leggere una lettera del re...Come sempre entrammo nell'aula magna, prima di tutto si salutò rispettosamente il direttore e poi al saluto romano rendemmo omaggio al quadro del duce e di Vittorio Emanuele III. Il direttore ci disse che parlava non per se ma per bocca del re, questo frase mi rimase impressa nella testa, perchè fu ripetuta più volte, solo con gli anni capì il significato di questo ripetersi del direttore, probabilmente lui non era d'accordo con queste nuove leggi, ma comunque doveva leggerle visto che il suo ruolo glielo imponeva. Fattostà che cominciò a leggere passo passo tutta la legge, articolo per articolo...e io in questa "lettera" del re non c'avevo capito proprio nulla. Come me molti altri bimbetti, infatti una volta rientrati in classe si chiese spiegazioni alla maestra. Era la prima volta che sentivo parlare di ebrei, non sapevo neanche della loro esistenza o chi fossero, pensai solamente nella mia testa di bambina che la dovevano aver combinata grossa per essere cacciati da tutte le scuole del regno e invece povera gente...
      "

      Un altra bella testimonianza viene da Piazza al Serchio, lui è Rino, ottant'anni suonati, ma anche qui la mente è vivida: 
      "Queste famose leggi sulla razza a noi le lesse il maestro in classe, in "quattro balletti", pochi ci capirono qualcosa, i bimbetti più curiosi chiesero spiegazioni, il maestro le liquidò dicendogli semplicemente di farsele spiegare dal prete, praticamente fece come Ponzio Pilato se ne lavò le mani e i piedi, a me non è che sinceramente me ne fregava più di tanto, io dopo la scuola dovevo pensare al pascolo delle pecore. Però un giorno passò il prete da casa, come al solito per "raccattare" qualche "ovo" e due pomodori freschi dell'orto, la mamma allora mi mandò nel campo a staccare qualche verdura per il prete e quando gli consegnai gli ortaggi mi ritornarono in mente le parole del maestro e allora così a bruciapelo gli domandai - Ma chi sono gli ebrei?- e lui senza batter ciglio così mi disse:-Sono quelli che hanno condannato Gesù alla croce perchè non riconoscevano in lui il figlio di Dio- e poi aggiunse questo passo della Bibbia: - E sarete maledetti voi, e i figli dei vostri figli, e tutta la vostra genia... e quello che succede in questi giorni sono le
      conseguenze che pagano!-. Devo dire la verità, così come me la buttò giù questi ebrei mi fecero una gran rabbia e dentro di me pensai che ben gli stava di essere cacciati da scuola, loro erano i colpevoli della morte di quel Gesù che pregavo tutte le sere e poi le parole del prete a quel tempo erano prese come oro colato. Poi per fortuna si cresce e si comincia a capire molte cose ed ecco che allora a quel prete oggi risponderei con un altro passo della Bibbia: "Non c'è nè giudeo nè greco, non c'è nè schiavo nè libero, non c'è nè maschio nè femmina; poiche siete tutti una persona unitamente a Gesù Cristo".
      Quest'ultimo ricordo che vado a narrare invece fa riferimento ad un'altra infamia: "Il manifesto della razza". Questo fogli pubblicati su "Il giornale d'Italia" divennero la base ideologica e pseudo scientifica della politica razzista dell'Italia fascista. La pubblicazione uscì il 14 luglio 1938 e anticipò di qualche mese le leggi razziali. Sul quotidiano furono  elencate dieci "regole" in cui ad esempio si affermava che: "esistono grandi razze e piccole razze", oppure, "La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana" e ancora, "E' tempo che gli italiani si proclami francamente razzisti" e poi,"Gli ebrei non appartengono alla razza italiana". 
      "Il manifesto della razza"
       luglio 38
      "Questi manifesti ed altri ancora erano affissi come da regolamento per le vie del paese -dice Luigi da Barga- a me personalmente non ricordo che a scuola mi abbiano letto le leggi razziali, ma ricordo bene questi manifesti perchè alcuni invece che essere scritti erano illustrati. Ne ricordo uno che diceva: "Non vi possono essere ebrei..." e poi c'era il disegno di una banca con una croce sopra come segno di diniego, oppure anche una scuola, o sennò un comune. Secondo me questi cartelli illustrati avevano maggiore effetto perchè rimanevano impressi anche nella memoria dei bambini proprio come al tempo successe a me. Un altro cartello invece aveva degli omini ritratti e descriveva che gli ebrei non potevano fare il servizio militare o che non potevano avere domestici italiani e altre cose ancora.
      Quando uscì il "manifesto della razza" molti dei compaesani e sopratutto i ragazzi più grandi si convinsero veramente di essere una razza superiore, qualcuno dava la caccia perfino all'ebreo che assolutamente non c'era nella nostra zona, però qualcuno incredibilmente cominciava anche a seminare sospetti fra le persone che magari vedeva o conosceva da anni perchè secondo le caratteristiche fisiche imposte dal regime un ebreo doveva avere un naso aquilino, occhi color azzurro scuri e le "borse" sotto gli occhi e quando questi giovani esaltati vedevano qualcuno con simili caratteristiche fiorivano mille illazioni e mille diffidenze. Pensare che tutte queste norme questo era supportate anche da importanti scienziati e professori
      italiani mi da ancora i brividi".
      Come abbiamo letto da queste testimonianze bastava veramente poco per insinuare nelle persone il dubbio, la paura del "diverso". Bastava una parola di un prete o una firma su una legge per sancire una verità assoluta, e' proprio vero l'ignoranza ha fatto più morti che dei fucili. Oggi niente è cambiato nonostante tutti i mezzi che abbiamo a disposizione per conoscere e sapere, ancora oggi ci fidiamo sempre e del solito "ho sentito dire...".



      Fonte:

      • Testimonianze raccolte da me nei quaderni di scuola di Moni Albertina (mia mamma)
      Bibliografia
      • "Il Tirreno" 3 settembre 2018 di Fabio Demui "5 settembre 1938: il re firma a San Rossore le leggi razziali, inizia il calvario degli ebrei"

      Che lavoro facevano gli emigranti garfagnini del 1900?

      $
      0
      0
      La regola è primordiale: lavorare per vivere, per vivere (nel senso
      più stretto della parola)bisogna mangiare, per comprare da mangiare servono soldi e se vuoi i soldi devi lavorare. Questa è il principio base per cui lavoriamo. Prima c'era il baratto considerato la prima forma storica di scambio di beni: ad esempio il lavoratore arava il campo e in compenso il padrone del terreno dava al contadino generi alimentari con cui sfamare se stesso e la famiglia, poi la storia cambiò e subentrò "il vil denaro": allo stesso modo il contadino arava il campo, il padrone pagava con sonante moneta e il lavoratore con quei soldi poteva comprare il suo cibo dove voleva. Questa sistema basilare vale per ognuno, a patto che il lavoro ci sia per tutti...Questo è il fatto per cui molti garfagnini emigravano verso paesi più ricchi e con maggiori possibilità di lavoro, generalmente è il solito motivo per cui anche oggi molti immigrati raggiungono le coste italiche. D'altronde i dati forniti dal "Rapporto sull'economia dell'immigrazione"a cura della Fondazione Moressa parlano chiaro: gli extracomunitari regolari che lavorano svolgono una mansione di media e bassa qualifica, il 74% dei collaboratori domestici è infatti straniero, così come il 56% delle badanti e il 51% dei venditori ambulanti e ancora il 39,8% dei pescatori, pastori e boscaioli e d'origine immigrata, così come il 30% dei manovali edili e braccianti agricoli. Ad oltre un secolo di distanza è interessante fare un parallelo con gli emigrati garfagnini di un tempo e vedere le differenze sui lavori svolti dagli attuali immigrati in Italia, vedremo poi che in questo senso le difformità non sono poi molte. 
      Per gli uomini della Valle del Serchio il mestiere qualificato più
      figurinaio
      praticato era quello del figurinaio. Siamo intorno al 1870, anno in cui fu svolta un'inchiesta industriale tra i lavori e i commerci degli italiani all'estero e appunto risultava al primo posto l'arte del figurinaio. A Parigi ad esempio ne esistevano una dozzina, con il tempo questi affinarono la loro arte diventando creatori di modelli, altri duecento circa erano operai figurinisti. A New York la cosa cambiava e vedeva la colonia garfagnina fatta prevalentemente da operai, furono circa undicimila che a a scalare diventeranno  agricoltori, muratori, scalpellini, marinai, pescatori, garzoni, cuochi, confettieri, figurinai in gesso, suonatori di organetto e commercianti. Una menzione particolare fra tutti questi lavoratori va ad Attilio Piccirilli, diciamo subito che con la nostra valle non ha niente a che fare, ma la vicenda va sottolineata perchè è poco conosciuta. I Piccirilli venivano da Carrara, dapprima erano impiegati nelle cave delle Apuane come cavatori, ma una volta emigrati in America si dedicarono alla scultura ornamentale. Il loro studio era a New York, nel Bronx, nel 1901 parteciparono ad un concorso con quaranta concorrenti dove si aggiudicarono il primo posto per scolpire la maestosa statua di Lincoln in quello che oggi
      La statua di Lincoln
      al Lincoln Memorial Washington
      è appunto il Lincoln Memorial a Washington. Una volta che fu realizzata l'opera arrivò la delusione più grande, il pregiudizio anti italiano colpì la commissione che aveva delegato i lavori, il nome dei Piccirilli non comparirà mai sul piedistallo della statua, ma verrà apposto solo quello del suo ideatore Chester French. D'altra parte era dura la vita dell'Italiano emigrato, nel 1889 il console italiano Giampaolo Riva di New York diceva: "
      Al loro primo por piede sovra questo suolo americano; ignari della lingua e degli usi, privi di appoggio e di direzione, creduli e fidenti in questa terra da loro vagheggiata come la fine di ogni miseria, come la soglia dorata di ogni prosperità, essi cadono in potere di bassi speculatori che li ingannano...". Chi riusciva a scampare al raggiro lo aspettavano comunque i lavori più duri. Dalla Garfagnana molti si adoperarono come sterratori, boscaioli, carbonai, minatori e tantissimi erano i contadini impegnati in lavori faticosissimi è il caso di Enrico Fiori che segui una colonia di abitanti di Piazza al Serchio e Giuncugnano, diretta negli anni '20 del '900 in Australia, nello
      Tagliatori di canne
       di zucchero in Australia
      stato del Queensland a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Stessa sorte toccò ad Angelo Fenili, lui andò a lavorare alla costruzione delle linee ferroviarie brasiliane nell'impresa dei fratelli Baccili originari di Vagli. Non furono comunque solo operai i garfagnini, molti si dedicarono anche al commercio. Nell'aprile del 1900 "La Domenica del Corriere" dedicò ampio spazio alla comunità italiana emigrata a Londra che risiedeva nel quartiere "italiano" di Saffon Hill, chiamato in modo spregiativo dagli inglesi "l'Abissinia", oltre a descrivere lo stato di degrado del quartiere il giornale diceva che oltre 2500 venditori ambulanti partivano di li ogni mattina per vendere la loro merce in centro città, molti di questi erano per appunto emigrati dalla Valle del Serchio che vendevano le castagne arrosto o i gelati. Da un rapporto della polizia di Coventry al viceconsole italiano si parla di un certo Giannotti di Castiglione Garfagnana, trovato morto d'infarto in giovane età nella sua casa inglese dove abitava da solo, oltre al povero cadavere gli inquirenti rinvennero anche il testamento, dove oltre a "due para" di mutande ed a un orologio in argento lasciava ai suoi cari, residenti nella lontanissima Garfagnana, anche un carretto per la vendita del gelato, uno sbatti uova e un mescolatore...tutto frutto del suo lavoro. Ci sono stati anche coloro che furono più fortunati, da semplici commercianti con il tempo passarono ad essere dei veri e propri industriali. Questo infatti è quello che successe alla ditta alimentare Gonnella. Alessandro Gonnella arrivò a Chicago nel 1886 e li riprese l'attività che aveva abbandonato a Barga, infatti riapri in città un piccolo forno in cui lavorava da solo. L'azienda cominciò a
      il "forno" Gonnella a Chicago
      svilupparsi quando gli venne la brillante idea di consegnare il pane a domicilio. Agli inizi del '900 gli vennero in aiuto i fratelli della moglie e nel 1915 fu costruita in Erie Street, quella che ancora oggi è la sede principale del gruppo industriale. Attualmente è fra le migliori cento panetterie americane.

      Destini e storie che s'intrecciano con il passare dei secoli, oggi sui giornali sembra leggere le solite cose scritte su questo articolo: lavori duri, umili, pesanti, talvolta si sente parlare di migranti raggirati o truffati...insomma le storie purtroppo non cambiano, ma i protagonisti si... 



      Bibliografia

      • Rapporto annuale sull'economia e l'immigrazione 2017 Fondazione Leone Moressa
      • "Storie di ieri, storie di oggi, di donne di Uomini. Migranti" Fondazione Paolo Cresci

      Proverbi garfagnini: come conoscere le proprie radici

      $
      0
      0
      Si diceva una volta che i proverbi erano la saggezza del popolo.
      Erano proprio in quei tempi in cui con un proverbio si metteva fine a una lunga discussione, ma non solo, il loro uso occupava tutti gli aspetti della vita, con i proverbi si insegnava ai figli le regole del viver quotidiano, con i proverbi si accettava una spiegazione a fatti naturali o anche sovrannaturali e addirittura chi parlava per proverbi veniva ritenuto una persona saggia. Insomma il proverbio era un pilastro del viver sociale, una specie di raccolta di leggi autorevoli e condivise. I proverbi non sono farina della storia contemporanea ma la loro conoscenza si ha da tempi lontanissimi, si trovavano già nelle culture primitive come parte fondamentale del sapere e in forma scritta vediamo che gli egizi, i babilonesi, gli assiri e cinesi ne facevano uso nei codici che riguardavano le varie branche delle attività e nei diversi aspetti del sapere. Per essere ben chiari il proverbio non è cosa da poco storicamente parlando, grazie ad un proverbio si possono ricostruire frammenti importanti della filosofia di vita di un popolo, dei suoi valori, del panorama sociale economico, in altre parole vi si può leggere tutto ciò che non è scritto nei libri di storia. La Garfagnana è ricca di proverbi più o meno conosciuti e anche qui come detto possiamo capire molte cose sul viver garfagnino di un tempo. La maggior parte di queste massime è infatti legata all'attività contadina e alle condizioni del clima che miravano ad avere un raccolto migliore, ma anche la devozione ai santi e alle loro auspicate grazie vede un'abbondanza di proverbi, quello che però traspare dai proverbi locali è la visione positiva di essi, volti comunque sia a trovare una soluzione positiva ad ogni problema che si presenta, questo ci dice molto anche sulla morale di vita dei garfagnini di una volta. Guardiamo allora di andare nello specifico e vedere un po' qualcuno di questi proverbi nostrali e di dare (dove mi è possibile) anche una spiegazione. 
      Direi che il proverbio garfagnino per antonomasia è questo: "Quando
      la Pania ha il cappello garfagnin prendi l'ombrello". In effetti niente di questo è più vero, quando le nuvole vengono dal mare e
      La Pania con il cappello
      (foto David Sesto)
      sovrastano la cima della Pania (nostra montagna per eccellenza)in Garfagnana è bene prepararsi alla pioggia. Infatti a conferma di questo se si vuole c'è il proverbio
       inverso che lega a doppio filo la meteorologia con l'agricoltura:"Quando le nuvole vanno verso il mare prendi la zappa e vai a zappare"e così quando vediamo che nuvole tornano verso il mare oltrepassando le Apuane il contadino può preparare i suoi attrezzi per ricominciare a lavorare nei campi.Come visto molti dei proverbi della valle sono legati al tempo, proprio perchè una situazione meteo più o meno buona in Garfagnana faceva la differenza. La nostra valle nei tempi antichi e in parte anche oggi è una terra legata ai raccolti, all'agricoltura e ai prodotti del terreno da mettere in tavola per sfamare le numerose famiglie di una volta, ecco che allora i nostri vecchi erano sempre a scrutare il cielo e a vedere dai "movimenti" della natura cosa poteva più o meno influenzare il clima e allora vediamo nascere dei proverbi che ci dicono di come può evolvere il tempo:"Arcobalen della mattina tutto il giorno spiovicina, arcobalen della sera se è torbato rinserena"; i nostri antenati dicevano che se fosse apparso un arcobaleno al mattino, tutto il giorno probabilmente avrebbe fatto tempo piovigginoso, in caso contrario qualora si fosse mostrato sul far della sera il giorno dopo sarebbe stato sereno."Quando torba sulla brina acqua o neve si avvicina"; questo è un proverbio assai conosciuto e dice che quando annuvola sulla brina non è difficile che in Garfagnana possa nevicare. Ce ne sono altri (sempre su questo tema) in dialetto stretto:"Cielo a pan o piove oggi, o piove diman", con il cielo coperto di nuvole compatte sicuramente se non piove il giorno stesso pioverà il giorno dopo. In dialetto è pure un altro:" Se piove per l'ascenzion va tutto in perdizion"; se pioverà il giorno dell'Ascensione (nel mese di maggio) tutto il raccolto ahimè andrà perso. Bellissimo e significativo il prossimo proverbio:"Quando tira la tramontana pane e vino in Garfagnana", in parole povere dice che se l'inverno sarà molto freddo, si avranno finalmente abbondanti raccolti.

      Altri proverbi ancora, invece puntano il dito sulla scaltrezza e la furbizia del garfagnino, ecco che allora a tutti è conosciuto il detto "Garfagnino scarpa grossa e cervello fino" , meno conosciuto 
      l'altro che tira in ballo un bel pezzo di Toscana:"Per farla a un fiorentin ci vuole un lucchese, ma per farla a un lucchese e un fiorentino ci vuole un garfagnino"
      Ci sono anche proverbi sulla vita quotidiana che insegnano come si suol dire "a stare al mondo"."Se vuoi star bene a questo mondo appoggiati a un campanile o a un sasso tondo"; i nostri vecchi dicevano in sostanza due cose, che per star bene su questa terra bisognava farsi prete o intraprendere il mestiere del mugnaio (il rimando al sasso tondo fa riferimento alla macina del mulino).Significativo pure quello che dice: "Penso e ripenso e a pensà vaneggio.Credevo di fa mejo e invece ho fatto peggio", insomma, certe cose bisogna farle senza pensarci troppo. Anche l'amicizia è importante e il proverbio ci rimanda a questo detto: "Se vuoi tradire l'amico acqua sulle cirage e vin sul fico"; se vuoi tradire o far star male un amico prova a fargli bere l'acqua con le ciliege e il vino con i fichi. I proverbi garfagnini mettono in guardia anche sull'amore, ed ecco che in questo caso la similitudine fra la castagna più preziosa (la carpinese) e una bella ragazza è ben azzeccata:"La carpinesa è vista ed  è presa". Attenzione anche a chi ha una bella moglie: "Se c'hai la moglie bella ti ci vuol la sentinella".
      Non potevano mancare i proverbi riferiti ai mesi dell'anno."Gennaio
      polveraio empie il granaio", un gennaio ventoso e asciutto fa si che l'anno porti dei  buoni raccolti di  grano. "Chi ha un ciocchetto nel cortile lo asserbi a marzo e aprile"; secondo questo proverbio sarebbe il caso di conservare un po' di legna per il camino per marzo e aprile, potrebbe fare ancora un po' di freddo. "Quel che fa a maggio fa a settembre", il tempo che farà a maggio lo farà anche a settembre. "Giugno ha la falce in pugno"."Luglio trebbiatore quanta grazia del Signore". "Agosto fa che il grano sia riposto". "Asciutto di settembre leva e un rende" . "Per i santi cappotto e guanti, ma se freddo non fa, aspettalo a febbrà", se non fa freddo a novembre, sicuramente lo farà a febbraio. "Dicembre imbacuccato raccolto assicurato".
      Naturalmente una terra di forte tradizione cattolica come la Garfagnana non poteva far altro che affidarsi ai santi anche nei
      Santa Barbara e il fulmine
      suoi proverbi.
       "Per San Pellegrino la castagna è come un lupino"; a maggio la castagna è ancora piccolissima, mentre "Tra San Jacopo(ndr:25 luglio) e Sant'Anna (n.d.r:26 luglio) mette l'anima la castagna", oppure a "San Lorenzo gran calura e Sant'Antonio gran freddura, l'uno o l'altro poco duran"."Santa Barbara e San Simon liberateci dal lampo e dal tron", difatti Santa Barbara protegge dai fulmini e San Simone dai tuoni."Se piove per Santa Maria(n.d.r:15 agosto) il caldo porta via".
      Siamo arrivati quindi alla fine di questo piccolo viaggio nella saggezza popolare garfagnina. I proverbi alle volte fanno sorridere, ma allo stesso tempo sono rivelatori di grandi verità e apprendere le perle di saggezza dei nostri nonni significa anche conoscere le nostre radici.



      Bibliografia:

      • "La gente garfagnina dicea così" a cura dell'Unione dei Comuni della Garfagnana edito dalla Banca dell'identita e della memoria" anno 2005

      Il guerriero apuano: la sua vita, le sue armi e la sua divisa

      $
      0
      0
      "Panoplia"...e che parola sarà mai questa. In effetti finchè anch'io
      Un fante ligure
      disegno di Jhonny Shumate
      non mi sono interessato di certe materie mai l'avevo sentita nominare, dato solo chi si interessa di specifiche argomentazioni storiche sa il suo significato esatto. Comunque sia per coloro che come me erano ignari di questo termine, ecco che "panoplia"è una parola di origine greca composta da "pan" (tutto) e "hoplon" (arma), letteralmente armatura completa. In parole povere e meglio comprensibili a tutti, questo vocabolo è usato per indicare l'insieme delle armi di offesa come la spada, la lancia e lo scudo, ma non solo dal momento che ci può descrivere anche l'elmo e la corazza che proteggeva il corpo. Gli studiosi e gli appassionati di questa branca della storia studiano tutte le armature antiche da quelle esistenti da prima della nascita di Cristo a quelle medievali, rinascimentali fino a quelle più moderne. Nelle memoria collettiva di tutti se si parla di armi e armature ci vengono subito in mente quelle dei valorosi legionari romani o quelle dei coraggiosi gladiatori, per non dire di quelle classiche in stile cavalieri della tavola rotonda. Rimane il fatto che non solo le grandi armate o i grandi eserciti che abbiamo studiato sui libri di scuola hanno avuto i loro valorosi guerrieri descritti di tutto punto dagli storici e dai film che tutti conosciamo, anche in Garfagnana abbiamo avuto i nostri valorosi combattenti che avrebbero difeso fino alla loro estinzione le proprie terre. Mi sento dunque di rendere omaggio al guerriero apuano conosciuto si di indole fiera e caparbia ma altrettanto poco conosciuto da un punto di vita prettamente circostanziato. Facendo questo anche noi finalmente ci potremo immaginare com'erano questi coraggiosi soldati.

      Cominciamo con il dire che qui il lavoro degli storici è stato immane, mentre per tutti gli altri eserciti che hanno avuto maggior risalto nella storia è stato facile trovare documentazioni e descrizioni, per il popolo apuano gli studiosi hanno potuto fare riferimento a pochi storici antichi che sommariamente descrivevano armi, armature e quant'altro, in questo caso molto hanno aiutato anche i ritrovamenti nelle tombe di oggetti atti alla difesa come pugnali e punte di lancia.
      Tutto cominciò(in questo senso) con questa frase:"Adeversus Liguras tunc primum exercitus promotus est" ovverosia:"Allora per la prima
      La stele di Lerici
      volta fu inviato un esercito contro i liguri"
      , qui Tito Livio (storico romano)ci parla del 238 a.C, di quando Roma mosse ufficialmente per la prima volta guerra contro le popolazioni liguri ed è da questo momento che gli Apuani entrano di prepotenza nelle fonti letterarie latine, illustrandoci non solo le gesta belliche di questo popolo, ma anche le loro armi. A dire il vero già una stele del VII e VI secolo a.C rinvenuta a Lerici (La Spezia) nel 1992 ci descriveva il guerriero ligure d'elite con una spada ad antenne simile ad un giavellotto, una lancia, un elmo a calotta e uno scudo tondo, con i secoli però il corredo di guerra sarà destinato a cambiare, le influenze romane modificarono sostanzialmente l'armamento e il guerriero che andremo a descrivere e di cui parlano gli storici antichi è quello che visse sulle nostre terra tra il III secolo e il II secolo a.C. Diodoro Siculo (altro storico dell'epoca) ci dice che: 
      "I Liguri hanno un armamento, per struttura, più leggero di quello dei romani; li difende infatti uno scudo ovale lavorato alla moda gallica ed una tunica stretta in vita, ed attorno avvolgono pelli di fiera (n.d.r: animale selvatico) ed una spada di media misura". Da questo punto di vista le fonti sono tutti concordi nel dire che gli Apuani avevano un equipaggiamento leggero (hostis levis) adatto al combattimento in luoghi montani, uno scontro fatto d'imboscate e scaramucce repentine. Gli Apuani non disdegnavano neanche lo scontro in campo aperto, proprio perchè abituati all'asprezza e alla morfologia della loro terra, sempre fonti latine citano la capacità di resistenza nel corpo a corpo, scontro a loro prediletto, dove dimostravano grande caparbietà: "Un nemico armato alla leggera, quindi veloce e mobile che non permetteva in nessun luogo di trovare un momento di tranquillità o una posizione sicura"(Tito Livio). Andando più nel particolare analizziamo quali erano gli elementi principali del guerriero apuano. Partiamo dall'elmo (i cui ritrovamenti sono scarsi e sporadici), sicuramente era un'oggetto di prestigio ad appannaggio esclusivo dei militari, di solito i normali fanti erano dotati di un
      elmo in ferro o bronzo a calotta, simile al cappello di un fantino,
      Elmo a calotta apuano ritrovato
      alla Croce di Stazzana (Castelnuovo G.na)
      il discorso cambiava per gli elmi cosiddetti "cornuti". Le corna avevano un significato particolare (e qui si entra nell'ambito antropologico)stavano a rimarcare la possenza virile e bellica di colui che lo indossava e molto probabilmente erano portati da individui di rango, da capi militari che sfoggiavano questo elmo come uno status symbol, sicuramente non erano usati in guerra visto il loro ingombro, l'utilizzo di questo accessorio era indicato
      Elmo apuano "cornuto"
      sopratutto in cerimonie ufficiali. Un altro elemento importante era lo scudo, sono poche però le fonti latine che ci parlano delle fattezze dello scudo, comunque sia quelle poche notizie sono tutte concordanti nel dire che era di forma oblunga, perdipiù anche i ritrovamenti nelle sepolture sono inesistenti dal momento che era abitudine dei Liguri di bruciare i loro morti, questo faceva si che anche i resti in legno dello scudo andassero inceneriti. L'arma preferita dagli intrepidi apuani era la lancia, questo fra l'altro è un elemento che che viene ritrovato molto spesso nelle tombe. Era difatti l'arma principe con cui si poteva affrontare anche una cavalleria, gli apuani con questa lancia cosiddetta "
      da urto" con punte (o meglio detto in gergo esatto cuspidi) di oltre 45 centimetri potevano disarcionare dal cavallo e uccidere un cavaliere romano in men che non si dica, altri ritrovamenti in tombe ci fanno conoscere anche lance con cuspidi notevolmente più corte. L'altro "pezzo forte" del corredo da guerra apuano era la spada; l'influenza e gli spostamenti dei celti in Italia mutò fisionomia anche a questa arma, venne così adottata quella che gli esperti chiamano "spada lateniana", una spada a
      Riproduzione di spada lateniana
      doppio tagliente (che incide da ambedue i lati), la lama era di circa 80 centimetri, ma la vera rivoluzione di questa fu quella di soppiantare la vecchia spada che era simile  per lo più a un lungo coltello, la "lateniana" invece aveva la forza dirompente dei fendenti d'ascia e la penetrazione letale delle corte lame.

      Il "De mirabilibus auscultationibus" (n.d.r: un testo di aneddoti greco) racconta che: "... alcuni liguri tirano con la fionda così bene che quando vedono parecchi uccelli, stabiliscono tra di loro quale ciascuno debba prepararsi a colpire, perchè sono convinti di colpirli tutti facilmente". La fionda (o frombola)era l'arma più diffusa e a portata di mano a tutta la popolazione ligure apuana, veniva usata a scopo di caccia, oppure per la difesa propria.
      Come qualsiasi altro rispettabilissimo esercito anche i liguri avevano le loro insegne militari, non raggiungeranno mai la fama del celeberrimo S.P.Q.R. ma a quanto pare Tito Livio non lascia dubbi su questo fatto: "Quando il console si accorse che le insegne dei liguri non si muovevano in nessuna direzione...ottantadue insegne militari furono conquistate", purtroppo qui Tito Livio si ferma, senza addentrarsi in nessuna descrizione e quindi non abbiamo
      fionda o frombola apuana
      informazioni su cosa potessero rappresentare, nè tantomeno di che foggia o materiale fossero. 

      Popolo fiero ed indomito quello Apuano che aveva nel suo D.N.A la difesa della sua terra, che lo portò a scontrarsi con l'esercito più potente del mondo: i romani. Ma l'amore per quella che millenni dopo diventerà anche la nostra terra lo possiamo dedurre da queste parole degli storici: "...nello stesso tempo i Liguri, riunito un esercito con uno speciale giuramento sacro, di notte all'improvviso assalirono l'accampamento del proconsole Minucio". Un giuramento che impressionò anche gli stessi romani. Una "lege sacrata"(giuramento sacro) che gli Apuani facevano fra di loro, una promessa solenne di
      difendere la propria terra e la propria nazione fino alla morte.


      Bibliografia:

      • "La panoplia del guerriero ligure orientale tra il II e III secolo a.C" di Andrea Guareschi (https://biatec.wordpress.com/guerriero-ligure/)

      La storia di un re che venne a fare il frate in Garfagnana...

      $
      0
      0
      Sono storie queste che sembrano nascere da qualche romanzo del 1800,
      Convento cappuccini Castelnuovo
      sono storie che la memoria ha sepolto e che meritano di essere riportate a galla e fatte conoscere al grande pubblico e non solo ad una nicchia di storici gelosi. Le vicende che andremo a narrare hanno tutto quello che si cerca in un bel libro o in un coinvolgente film, una girandola di sentimenti e di situazioni fa da corollario a queste cronache di quasi 400 anni fa : potere, amore, pentimento, fede, guerra, omicidi, insomma un quadro globale di emozioni che coinvolge a pieno diritto anche la Garfagnana e nientepopodimeno che Alessandro Manzoni e i suoi"Promessi Sposi"

      Credo con questo di aver stimolato assai la curiosità del mio lettore, dal non potermi esimere di cominciare a raccontare gli eventi mirabolanti che videro protagonista sua maestà il Duca di Modena Alfonso III d'Este.
      Tutto cominciò il 22 ottobre 1591, quando in quel di Ferrara vide la luce Alfonso, era figlio di Cesare d'Este e di Virginia de' Medici.
      Alfonso III D'Este
      Al tempo suo padre non era ancora Duca, dato che alla guida dello stato Estense c'era il cugino Alfonso II. Questi morì senza eredi e la reggenza passò allora a Cesare. Da qui in poi cominciarono le peripezie del piccolo Alfonso, che subito fu buttato dentro a spinose questione politiche e così a soli sei anni, senza nè colpa nè peccato fu messo nel mezzo nella cosiddetta "convenzione faentina", un vecchio accordo fra lo stato della Chiesa e la famiglia d'Este che diceva appunto che in caso di mancanza di eredi diretti, Ferrara sarebbe tornata in mano al Papa. Clemente VIII fece scattare subito la clausola (pertanto la capitale del regno fu trasferita Modena), a garanzia del buon esito degli avvicendamenti il Pontefice prese in ostaggio il piccolo Alfonso, trattenuto forzatamente a Faenza nelle mani del Cardinal Aldobrandini. Questo segnò molto il carattere del futuro sovrano. Una volta tornato a Modena Alfonso era cambiato, era diventato intollerante e violento, si intrometteva sempre negli affari di governo, approfittando del carattere debole del padre. L'anno della svolta fu il 1608 quando sposò a diciassette anni Isabella di Savoia, il matrimonio nonostante fosse combinato si rivelò felice, l'infanta di Casa Savoia da fonti dell'epoca fu definita "la più pia, la più magnanima, la più religiosa principessa del secolo", insomma questa donna come vedremo segnò in tutto e per tutto il destino del futuro Duca a partire dal numero dei figli nati, stavolta senza eredi non sarebbero rimasti...infatti i pargoli furono ben 14. Nel frattempo, fra un figlio ed un altro, Alfonso conobbe per la prima volta la Garfagnana (terra sotto il dominio estense), era il 1613 e fu mandato a difenderla dai bellicosi
      Isabella di Savoia
      lucchesi che se ne volevano impadronire, tornò ben presto a Modena colto da violente febbri. Nonostante il forte ascendente di Isabella sul marito, la principessa non potè però impedire che "la sua anima non fosse travolta da una disastrosa crisi spirituale, trascinato verso una vera e propria decadenza morale", così scriveva un suo biografo e continuava: "era entrato in dimestichezza con certi tipi spregiudicati il cui modo di pensare e di credere era assai più vicino a quello del Machiavelli che al Vangelo di Cristo", tutto questo lo portò ad avere molti nemici, accecato sempre di più dalla bramosia di potere, tanto da soprannominare il papà "Padre Eterno", alludendo al fatto che non ne voleva sapere di morire, ma non solo, anche l'onore degli Este andava secondo lui difeso contro chiunque si permettesse di disonorarlo; di questo ne pagò le conseguenze la famiglia Pepoli che rivendicava alcune terre nel ferrarese che il Duca non gli riconosceva, fu una lotta dura, carte bollate, giudici e azioni legali, ma l'Alfonso di quei tempi non portava pazienza e tanto meno era disposto a fare concessioni, ed ecco allora che "l'eclissi morale" tocco il suo apice. Una sera di dicembre del 1617 il futuro sovrano dette ordine ai suoi sgherri di assassinare il Pepoli. L'omicidio scatenò una serie di vendette, Alfonso scampò miracolosamente a diversi attentati, a pacificare tutto ci pensò il tribunale di Modena che sentenziò diverse pene capitali a dei poveri innocenti che dovevano fare da capo espiatorio:"la sanguinaria giustizia non potè aver tra le mani che quattro disgraziati su cui scaricarsi", in pratica
      Modena al tempo degli estensi
      l'omicidio del Pepoli e gli attentati contro Alfonso rimasero impuniti con buona pace di tutti. Arrivò così il fatidico 1628, l'anno in cui tutto cambiò, l'amata Isabella morì dando alle luce il quattordicesimo figlio, una bella bambina di nome Anna Beatrice, ma "l'annus horribils" continuò, anche il Duce Cesare dopo trent'anni di regno trovò la morte, tutto questo destò grande impressione in Alfonso che si ritirò in meditazione. Nel frattempo come tanto sperava e bramava era diventato il nuovo signore e duca di Modena, ma qualcosa non era più come prima, le ultime parole di Isabella (di riportare la pace nel Ducato) lo avevano colpito profondamente, c'era poco da fare doveva cambiare vita e comprese allora che solo abbracciando una rigorosa vita religiosa avrebbe placato i suoi tormenti...decise che prima o poi si sarebbe fatto frate cappuccino. Solo sette mesi durò il suo regno, dopodichè il 24 luglio 1629 abdicò a favore del figlio Francesco, abbandonando per sempre la lussuosa vita di corte. Prima di lasciare il regno dette l'ultimo ordine: lasciar decadere tutte le taglie sugli acerrimi nemici della famiglia Pepoli. In poco tempo Papa Urbano VIII accelerò i tempi del suo noviziato, Alfonso lasciò il Ducato e si diresse in Tirolo in un convento di cappuccini prendendo il nome di frate Giambattista da Modena. Cominciò così un
      Frà Gianbattista da Modena
      ossia
      Alfonso III
      lungo peregrinare: Trieste, Gorizia, Innsbruck, Vienna, a Modena fece ritorno nel 1632 facendo si che il figlio venisse in soccorso dei più bisognosi, la predica nel duomo di Modena raccontano le cronache dell'epoca fu memorabile, l'ex duca raccomandava l'elemosina "che libera da ogni peccato e dalla morte e non permette che l'anima, che spezza le catene dei peccati, dirada le tenebre, estingue il fuoco". Ad onor del vero sarebbe ingiusto far passare la figura di Alfonso come un mite predicatore, a quanto pare il suo "caratterino" tornava fuori quando c'era da convertire gli ebrei: "il suo zelo talora ad alcuni parve anche troppo impetuoso". Insomma Alfonso a Modena era diventato per tutti un personaggio scomodo, vuoi perchè anche lo stesso Duca sentiva la presenza del padre come un qualcosa di ingombrante, vuoi perchè anche la stessa gente non vedeva di buon occhio che un ex duca (seppur frate) fosse sempre in giro per la città. In soccorso a tutti allora venne la Garfagnana, capiamoci meglio, lo stesso ex Duca manifestò più volte il desiderio di abbandonare la città, voleva un convento tutto per se in un luogo lontano da tutti e tutto dove poter meditare e pregare, i possedimenti della Garfagnana facevano proprio a suo caso... A Castelnuovo infatti c'era una collinetta che sembrava fatta apposta per edificare un luogo sacro, era il 1632 e in soli quattro anni a spese del figlio Francesco I fu edificato il convento di San Giuseppe, meglio conosciuto come il convento dei Cappuccini. A sottolineare la bellezza del posto scelto ci pensò quattrocento anni dopo il poeta dialettale Pietro Bonini:
      Convento dei Cappuccini Castelnuovo
      "Che siano furbi i frati e molto intelligenti  lo dimostra il fatto che i loro conventi se l'enno costruiti sempre a metà collina duve non manca sole, duve c'è l'aria fina". Ad accorgersi della vita di padre Giambattista alias Alfonso III fu un altro scrittore e poeta di fama ben superiore del seppur valido Bonini, a quanto pare Alessandro Manzoni nei suoi "Promessi sposi" per il personaggio di Frà Cristoforo prese ispirazione dall'ex duca. Il Manzoni infatti era un assiduo lettore di Ludovico Muratori (storico vissuto nel 1700) che nel suo libro "Antichità estensi" parla proprio della figura di frà Giambattista da Modena, e infatti a onor del vero quello che il Manzoni racconta del personaggio del romanzo ricalcherebbe molto similmente la vera vita del monarca. Nel libro si racconta che Cristoforo era figlio di ricchi, che poteva permettersi gli agi e i lussi che voleva, inoltre si dice anche qui di un omicidio commesso su un signorotto locale e la successiva conversione alla vita monastica, insomma sono tante le coincidenze che fanno credere a più ricercatori che il personaggio manzoniano non si altro che Alfonso III. In ogni modo la vita di Giambattista da Modena nel capoluogo garfagnino scorreva tranquilla, qui diceva di voler ricercare quella pace che gli avrebbe consentito di prepararsi al grande passo della morte. E infatti non si
      il quadro di Nicolò Azzi
      ingannava...a soli 52 anni colpito da forti febbri, il 24 maggio 1644 morì nel convento da lui voluto. Nicolò Azzi, pittore garfagnino, lo ritrasse sul tavolo mortuario. 

      Finì così la vita di un personaggio dalle mille sfaccettature che della sua vita volle fare un romanzo.





      Bibliografia:

      • "Alfonso III, l'estense che volle rinunciare al ducato per vestire il saio" di Luigi Malavasi in "La fine di un mondo che fu"
      • "Antichità estensi" di Ludovico Antonio Muratori

      Cucina, tradizione, storia e segreti: la "minestrella" ricetta gallicanese

      $
      0
      0
      Le chiamiamo con disprezzo "erbacce", ma forse tanto erbacce non
      La minestrella
      sono...La storia su questo parla chiaro. Figuriamoci che per millenni le erbe selvatiche sono state la risorsa alimentare primaria per le popolazioni preistoriche che sapientemente sapevano sfruttare tutte le proprietà di queste erbe. In modo scaltro l'uomo antico osservando gli animali riuscì ad individuare tutte quelle erbe che potevano essere utilizzate per la propria alimentazione, e mentre l'uomo (inteso come maschio) era dedito alla caccia, alla donna era affidata la raccolta delle erbe. Ed è così, che prima oralmente e poi per scritto abbiamo imparato a sfruttare a scopo terapeutico ed alimentare le erbe che Madre Natura ci offre. Infatti le prime testimonianze scritte dell'uso delle erbe selvatiche in cucina ce lo da nel I secolo d.C Lucio Giunio Moderato Columella (il Carlo Cracco di duemila anni fa), autore del "De re rustica", che nella sua Roma antica mescola erbe tritate di campo con formaggio cremoso, creando di fatto una sorta di frittata, non da meno è Apicio che qualche
      il "De re rustica"
      secolo dopo (IV secolo) raccoglie una serie di ricette sull'utilizzo delle "aròmate". Nel medioevo l'uso delle erbe si affinò e si andarono a cercare "erbe forestiere": cortecce, radici, fiori e bacche costosissime, che venivano dal lontano oriente. Alla fine del 1400 però ci fu un ritorno alle tradizioni, si iniziò un lungo percorso di riduzione dell'uso delle spezie che vennero sostituite con erbe aromatiche spontanee locali, via allora quei sapori speziati, forti, artificiosi, si riscoprirono le erbe nostrali dai sapori netti e precisi. Il Mastro cuoco Martino da Como utilizzò in molte ricette il succo di erbe, sminuzzando, pestando e passando erbe, come prezzemolo, borraggine, maggiorana e menta. Giacomo da Castelvetro nel 1614 invece offrì a tutti gli appassionati della cucina con le erbe il "Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l'erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia che si mangiano"e ricordò che"gl'italaini mangino più erbaggi e frutti che carne". Anche la Garfagnana rientrava nel novero di quest'ultima considerazione, sicuramente non per motivi di gusto o di scelta prettamente culinaria, ma per ovvia necessità... Un paese su tutti però seppe trarre maestria nell'uso delle erbe di campo, questo paese è Gallicano che con la sua "minestrella" riuscì a sfamare una comunità intera. D'altronde è proprio questo il periodo (così mi dicono le esperte massaie gallicanesi) della raccolta delle erbe per questo prelibato piatto, nato povero ma oggi fra i piatti più ricercati e apprezzati della cucina toscana. Questa è una ricetta particolare che fonde tradizione, storia e segreti;
      Gallicano

      una ricetta riscontrabile solo a Gallicano e da nessuna altra parte. Il piatto ha una storia ultracentenaria, nata dai contadini che purtroppo non avevano grandi poderi da coltivare, per di più gli uomini partivano per andare a fare i carbonai in Corsica, sarebbero ritornati molto tempo dopo, e alle donne non rimaneva che farsi carico dell'intera famiglia, lavorare nei campi e sopratutto sfamare gli anziani e i bambini. Oltre a tutto questo ci si metteva la sfavorevole posizione geografica di Gallicano, gli altri paesi della Garfagnana potevano usufruire della vicinanza delle selve di castagno da cui trarre farina, il monte Palodina era ben lontano dal paese, allora alle donne non rimaneva altro che mettere in pratica la propria conoscenza delle erbe selvatiche, che così venivano cucinate in vari modi. Da uno di questi "modi" nacque la minestrella, una minestra fatta con un numero variabile di erbe che va da 15 a 30, i cosidetti "erbi boni"(come si dice in dialetto),
      un piatto esclusivamente fatto con quello che mette a disposizione la natura, niente prodotti coltivati, ma solo l'ingegno dei vecchi contadini. La ricetta si tramanda oralmente da secoli e da generazione in generazione, in teoria poi non esiste neanche una vera e propria ricetta, in quanto gli "erbi" non erano mai gli stessi da famiglia in famiglia, ognuno aveva i propri segreti e
      Un campo di "erbi boni"
      ognuno usava le diverse erbe per renderla più amabile o più amara e per ogni gallicanese la sua minestrella era la più buona di tutto il paese. Proviamo comunque a dare la ricetta, tanto per render chiaro all'attento lettore di cosa si tratta. La ricetta che darò è presa dalla leggenda che narra la nascita di questo prelibato ed esclusivo piatto: "
      C’era una volta, nel nostro paese piccolo di campagna, tanta miseria, perché i lavori non esistevano e chi lo voleva doveva espatriare per guadagnare qualche lira, e la maggioranza della popolazione faceva i contadini e viveva con quello che la terra gli dava. Ed allora le massaie tante volte dovevano inventare qualche cosa per variare quel misero pasto del giorno che quasi sempre era polenta con salacchini. Un giorno di primavera una massaia stanca di sentire dire "anche oggi...", pensò di inventare qualche cosa di diverso. Prese un paniere un coltellino, andò verso i prati che
      contadini a tavola
      incominciavano a inverdire, e china china guardava sceglieva e svelgeva delle erbette che le guardava, le odorava, e diceva “questo è un piscialletto, questo è un papavero, una lingua di vacca, ecco un cicerbita, ecco una sporta vecchia, un ingrassaporci” e via via dava a tutte queste nomi che lei coglieva e le metteva nel canestro. Quando ebbe fatto assai di questo misto d’erbe se ne tornò a casa, le mise a mollo nell’acqua per toglierle la terra, le lavò per bene e poi anche lei non convinta disse “domani si vedrà”. La mattina di buon ora mette al fuoco la pentola con i fagioli giallorini, qualche spicchio d’aglio, un po’ di salvia e lascia che tutto cuocia a fuoco lento. Quando i fagioli furono cotti li colò nel colino ed una parte li strizzò bene con le mani (il passatutto allora non esisteva) poi mise nel brodo quelli che restavano e rimise tutto sul fuoco per far bollire ancora. Poi prese un bei pezzo di lardo e fece un bello sfritto che poi mise nella pentola e quando incominciò a bollire mise anche tutta quell’erba che aveva già cotto prima, e con la mezzaluna l’aveva trinciata fina fina, e così tutto incominciò a
      "gli erbi" commestibili
      bollire piano piano. La massaia era un po’ pessimista pensava: “cosa verrà fuori?”. L’odor era buono, odorava ed assaggiava...un po’ di sale, un po’ di pepe. Però gli venne un dubbio: “se io ci facessi delle focaccette di farina di granturco? Così se non va mangiano quelle”. E così fece. Venne l’ora di mangiare, gli uomini vennero a casa trovarono le scodelle piene di questa cosa verde "oddio che hai fatto stamani?" chiesero, e la massaia imbarazzata, disse a voce alta: "la minestrella" e da quel giorno minestrella fu, e tutti mangiarono con appetito e curiosità questa minestrella fatta di nulla con le sue focaccette, ed ancora è rimasto il piatto tipico del mio paese, ma un piatto che tutti chiedono e vorrebbero
      mangiare, piatto povero fatto di nulla che però ha il sapore della terra, della nostra terra che noi l’amiamo perché i nostri vecchi ci hanno insegnato a amarla e rispettarla".




       Bibliografia

      • Leggenda tratta dall'Associazione "Buffardello Team" (http://lnx.buffardello.it/index.php?option=com_frontpage&Itemid=1)



      Dimmi come ti vesti e ti dirò chi sei...Come si vestivano i garfagnini una volta

      $
      0
      0
      C'erano una volta toppe e rammendi. Ora al primo segno di cedimento
      In Garfagnana nel giorno di festa
      (o al primo cambio di moda), il capo d'abbigliamento finisce nella spazzatura. Non è cosa da poco se si pensa che fra le industrie più inquinanti quella tessile scala posizioni fino ad arrivare al secondo posto, dietro al petrolio. Insomma l'abbigliamento ieri come oggi influenza molto il nostro modo di vivere, in tutti gli aspetti della vita quotidiana. Gli studiosi del comportamento umano hanno elaborato una tesi che dice che il nostro cervello (che lo si voglia o no) impiega circa 10 secondi per valutare una persona "nuova" e giudicarla per come si presenta, per le sue espressioni e da come si veste, tutto questo senza che l'individuo che abbiamo davanti non abbia ancora aperto bocca. Un noto proverbio infatti dice che "l'abito non fa il monaco", per dire poi che non bisogna fermarsi alla sola apparenza, ma a dire il vero nei secoli passati certi abbigliamenti erano distintivi di classi sociali ben separate. Adesso il discorso è cambiato e grazie al benessere ci siamo un po' tutti omologati, ma una volta era diverso, ciascun capo d'abbigliamento aveva  un significato culturale e sociale, in esso si condensavano alcune funzioni tramandate ed evolute nel tempo. All'epoca era netta la distinzione fra il signore e il contadino, un

      abito definiva chiaramente il mestiere che svolgeva e tutto era ben distinto e specificava lo status sociale e civile della persona. Questo era ben chiaro in Garfagnana, la cultura contadina, il lavoro della terra e la povertà segnava anche sotto questo punto di vista. Documentazioni sul vestiario nella Valle del Serchio ce ne sono molte già a partire dal medioevo, ma naturalmente le più comprovanti sono quelle di inizio 1900, dato che la memoria dei nostri nonni e anche la fotografia ci può aiutare molto. Tutto questo ci è stato tramandato e ci dice che le garfagnine anche se portavano abiti di foggia complicata, non avevano nessuna pretesa di eleganza, la praticità e la comodità di muoversi ed agire nei campi, quella doveva essere la miglior caratteristica. L'uomo invece di solito possedeva due abiti che venivano usati finchè non si rendevano inservibili, anzi, rattoppati in qualche maniera passavano di padre in figlio, proprio come un eredità necessaria. C'era dunque l'abito che si usava tutti i giorni e quello delle grandi occasioni, di stoffa un po' più pregiata che veniva usato per le feste o per andare alla messa. Naturalmente la povertà agli inizi del secolo scorso la faceva da padrona in Garfagnana, nonostante che il nuovo secolo avesse portato innovazioni tecnologiche e sociali, dalle nostre parti eravamo ancora indietro molti anni rispetto al Paese, quindi la famiglia
      Raccolta della canapa
      patriarcale del tempo doveva trovare sostentamento nella natura (non nelle nuove ed emergenti industrie)  perfino la materia utile per confezionare stoffe e vestiti. Difatti nella nostra zona crescevano rigogliosamente lino e canapa che fornivano fibre molto resistenti che le donne con pazienza e dedizione filavano nei telai, ma non solo i vegetali fornivano sostentamento per il vestirsi, anche gli animali davano il loro contributo, le pecore infatti oltre al formaggio davano lana in abbondanza. Ma scendiamo adesso un po' più nel particolare e svisceriamo quello che era l'abito femminile tipico, innanzitutto cominciamo con il dire che non esistevano i colori (sia per uomini che per donne), niente rosso, giallo, verde, ma dei semplici e austeri colori neutri: grigio, nero, bianco, per il resto la vestizione consisteva in un lungo vestito che si componeva di vari pezzi: la sottana lunga  fino alle caviglie e larga, sopra di essa di ugual misura un grembiule multiuso che serviva per non sporcare il "sottanone" e per "cogliere", per raccogliere "gli erbi boni" (n.d.r: erbe di campo), le verdure dell'orto e sopratutto le

      castagne, completava il vestito un corpetto piuttosto aderente dalle grandi e larghe maniche che si restringevano al di sotto del gomito, unica vezzosità concessa (per alcune)un corto gilè. D'inverno sopra  il vestito il classico scialle, ampio, fatto in modo che coprisse la maggior parte del corpo, per molte garfagnine era usanza portare un fazzoletto di panno più o meno pesante sulla testa. Altro discorso era per le cosiddette "signore", le donne benestanti del paese. Le ricche signore indossavano vestiti che più o meno riproducevano lo stesso modello, i vestiti però erano ornati con più gusto e raffinatezza, spesso ricamati con merletti e trine, un ruolo importante lo conferivano gli accessori: i guanti di pelle finissima in inverno, mentre per l'estate erano traforati, il capo era adornato con un capello con veletta che arrivava fino al mento, non mancava la borsetta e l'ombrellino per ripararsi dal sole. In barba a tutta questa
      eleganza le contadine invece spesso stavano a piedi nudi o con gli "scappini", rudimentali zoccoletti artigianali di legno, molte donne dell'epoca testimoniano che era talmente l'abitudine (nella buona stagione) di andare scalze che questi "scappini" venivano indossati solo quando andavano in paese.

      L'abbigliamento maschile generalmente consisteva in una camicia
      bianca di tela su cui veniva indossato un gilè senza maniche abbottonato davanti, portavano calzoni di panno grossolano di color nero larghi e lunghi, avevano giacche corte di fustagno o velluto e per copricapo il classico cappello a tesa stretta. I signorotti indossavano vestiti che si componevano di pantaloni lunghi, giacca abbottonata in alto con tre o quattro bottoni accompagnata dal gilè su cui spiccava la catena dell'orologio da taschino, sotto la giacca naturalmente era d'obbligo la camicia bianca di seta o di cotone e per coronare il tutto un bel cappello in stile homburg. 
      Ma dentro questi abiti c'erano sopratutto uomini, e le loro azioni, a loro non importava apparire, non davano peso all'aspetto, quello che contava per quelle persone erano solo fatti e parole...


      25 anni fa: quando per l'ultima volta dal lago di Vagli riemerse "il paese fantasma"

      $
      0
      0
      Sono già passati venticinque anni... Passato un quarto di secolo già
      Fabbriche di Careggine 1994

      tutto entra in quella parte di storia che è denominata "memoria storica", che dice che è arrivato il momento di ricordare un fatto e un avvenimento alle generazioni future. Infatti per senso comune affermiamo che una generazione dura in media 25 anni ed è a queste che va fatto conoscere l'evento turistico più grande che sia mai esistito in Garfagnana, che portò nella valle un milione di persone in soli cinque mesi, arrivarono perfino troupe della C.N.N e giornalisti anche dall'Australia. Tanto per rendere bene l'idea dei numeri e delle proporzioni pensiamo che il Giardino di Boboli a Firenze in un anno fa 710 mila visitatori e sempre in un anno il meraviglioso museo egizio di Torino ne fa più o meno mezzo milione, figuratevi voi quello che fu in Garfagnana da quel giugno fino a quell'ottobre del 1994, quando fu svuotato il lago di Vagli e riemerse dalle acque l'antico paese di Fabbriche di Careggine, il cosiddetto "paese sommerso"
      Rifacciamo quindi un po' di storia di questo antico borgo per i
      Com'era Fabbriche
       di Careggine
      pochi che ancora la ignorano. Il "paese fantasma" fu fondato intorno al 1270. Al tempo era un paese di fabbri ferrai provenienti da Brescia che lavoravano il ferro estratto dal Monte Tambura. L'attività era fiorente tanto che nel 1700 era considerato uno dei centri di maggior lavorazione del ferro di tutto il Ducato di Modena, alla fine del medesimo secolo cambiarono però le vie di comunicazione e il paese rimase fuori dalle rotte commerciali, presto la lavorazione del ferro perse importanza e la gente si cominciò a dedicare alla pastorizia e all'agricoltura. La vita intanto trascorreva tranquilla e solo all'inizio del novecento fu costruita la prima piccola diga sul torrente Edron per produrre solamente l'energia necessaria alla lavorazione del marmo delle vicine cave. I
      nsomma fra alti e bassi il paese andava avanti finchè non arrivarono i giorni che suo malgrado lo resero nella memoria di tutti immortale. Tutto iniziò nel 1941 quando la società Selt–Valdarno, oggi chiamata Enel, sbarrò il corso del fiume Edron con lo scopo di costruire un bacino idroelettrico. Tra il 1947 e il 1953 venne costruita la diga (92 metri di altezza), 34 milioni di metri cubi d'acqua sommersero per sempre l'antico paese. Quando venne sommerso Fabbriche di Careggine contava 31 case popolate da
      La diga di Vagli
      146 abitanti, un cimitero, un ponte a tre arcate e la chiesa romanica di San Teodoro risalente al 1590. I 146 abitanti che a malincuore lasciarono le loro case furono trasferiti nel vicino paese di Vagli di Sotto, oppure in altre paesi della valle. Il lago di Vagli venne poi svuotato quattro volte per manutenzione necessaria, rispettivamente nel 1958, nel 1974, nel 1983 e nel fatidico 1994. Era infatti la lunga estate del'94, fu un estate caldissima quella, ricordo un caldo soffocante quel giorno che si decise insieme ai miei amici di andare a visitare il "paese fantasma". Partimmo da casa e già sopra Castelnuovo Garfagnana il traffico era intenso. Per raggiungere Vagli abitualmente da casa mia bastano quaranta minuti, ma quel giorno mi ci vollero ben due ore, ne valse la pena però. Arrivammo nei pressi della diga, la macchina fu posteggiata in qualche maniera, di li cominciammo a camminare percorremmo parecchia strada sotto un sole martellante, si scese così i rapidi pendii delle sponde dello svuotato lago e finalmente quando alzai gli occhi rimasi esterrefatto, vidi uno straordinario monumento di fango in mezzo ad un paesaggio lunare,

      quasi irreale, mi sembrò di vivere qualcosa di fantascientifico, solo fango solidificato, intorno era privo di qualsiasi forma di vegetazione e in tutto questo opprimente catino nemmeno un alito di vento. Un vero miraggio, un paese in mezzo al deserto, le case prive di tetto, ancora in piedi invece era la cupola della chiesa e il suo campanile, unico punto quello dove esisteva un po' di ombra e poi ancora si vedeva la struttura del vecchio cimitero e questa immagine come in viaggio a ritroso nel tempo mi fece immaginare come poteva essere la vita quando il paese era ancora esistente: vedevo boschi lussureggianti, il torrente Edron che scorreva allegro nelle vicinanze del borgo e perchè no, in lontananza potevo ancora udire il picchiare dei martelli dei fabbri sopra le incudini , o sennò ecco la vecchietta che con i fiori sta
      andando verso il cimitero e il prete adesso che si appresta a suonare le campane... d'un tratto tornai alla realtà, ed ecco che fui catapultato nuovamente in questa specie di girone dantesco...
      La poesia di questi ricordi a venticinque anni di distanza lascia il posto a una domanda: a quando un nuovo svuotamento del lago? La domanda è di difficile risposta e a riportare tutti i garfagnini con i piedi per terra ci pensò nel 2010 l'ingegner Coletta, responsabile dei bacini idroelettrici della Garfagnana dell'Unità di business Enel Bologna che così disse:Nei nostri piani  non è in programma alcun svuotamento in quanto tale operazione viene fatta solo se richiesta da motivi di sicurezza o per sostituire qualche pezzo meccanico. Il lago di Vagli, il più grande della Toscana, è sicuro e nel 1994 sono stati inseriti pezzi meccanici in acciaio inossidabile nei punti chiave della diga, quindi al momento non è necessario da parte nostra alcun intervento. Lo svuotamento di un bacino grande come quello di Vagli (oltre 30 milioni di metri cubi d'acqua), inserito in un complesso sistema a cascata che collega tutti gli invasi artificiali della
      Garfagnana, non è un'operazione semplice e la motivazione del richiamo turistico non è certo prioritaria-. Ad oggi forse la situazione sarà cambiata, non lo so, ma quello che è certo che esiste una leggenda che dice che nei periodi che il lago viene svuotato e il paese riemerge, gli antichi abitanti facciano ritorno nelle proprie case...




      Bibliografia

      • Il Tirreno "Il lago di Vagli non sarà svuotato", 26 agosto 2010, Luca Dini

      Geografia che passione ! I "più" e i "meno" della geografia garfagnina

      $
      0
      0
      Quando eravamo piccoli erano le prima cose che imparavamo quando si
      studiava geografia. Si, proprio in quel tempo lontanissimo quando frequentavamo le scuole elementari si scopriva subito che il monte più alto del mondo era l'Everest e che quell'altitudine e di conseguenza quei numeretti che indicavano tanta magnificenza non ce li saremo più dimenticati: 8.848 metri...così come apprendevamo che il Monte Bianco era il più alto d'Europa e che con i suoi 4.810 metri si divideva fra Francia e Italia, e anche che il Po era il fiume più lungo d'Italia, un percorso lungo 652 km. Queste, come tante altre, erano le nozioni basilari per la conoscenza della nostra bella Italia in particolare e del mondo in generale. Ora sinceramente lo studio della geografia mi sembra cambiato nelle scuole elementari e medie (ops...mi sbagliavo...adesso si chiamano primarie e secondarie di primo grado...) si studiano più che altro le zone climatiche, l'ambiente e le economie globali, tutte argomentazioni importanti e valide per l'amor di Dio, tralasciando però in parte la conoscenza del territorio. Conoscere il territorio significa conoscere il posto dove si abita: i suoi paesi, le sue città, le sue montagne, i fiumi, tutte queste cose ci fanno partecipi del mondo in cui viviamo, adesso sinceramente non mi sembra così... Conosciamo poco la nostra Italia, la nostra regione e conosciamo ancora di meno (in questo
      Cartina Geografica della Garfagnana 1570
      senso) la nostra Garfagnana. Ed ecco allora che questo articolo ha la presunzione e la sfacciataggine di dare a tutti gli ignari, proprio quelle nozioni essenziali per conoscere il luogo in cui viviamo; notizie curiose e divertenti se si vuole, sui più e i sui meno geografici della Garfagnana, una sorta di Guiness dei primati nostrale, nulla di che, ma forse queste righe saranno utili per aver una maggiore conoscenza del territorio in cui si vive.

      Allora facciamo proprio come si fa a scuola e vediamo subito che la Garfagnana ha una popolazione fatta da 29.688 persone, (tutti insieme si starebbe dentro uno stadio di calcio medio piccolo), siamo su una superficie di 670 mila km2 circa e abbiamo una densità di popolazione pari a 54 abitanti per km2. Il comune che conta più abitanti di tutti è Castelnuovo Garfagnana, 5936 unità (dati
      Busdagno(Gallicano) la frazione con meno
      abitanti della Garfagnana
      (foto Daniele Saisi)

      I.S.T.A.T 2017), mentre il meno abitato è il comune di Careggine con 549 cittadini. Naturalmente al comune più abitato non corrisponde il comune più esteso, perchè infatti il più esteso è il comune di Sillano-Giuncugnano 62,15 km2 (19 abitanti per km2 !!!) mentre il più "piccolino"è il comune di Fosciandora 19,82 km2, per una densità di popolazione pari a 31 abitanti per km2. La cittadina più abitata è Castelnuovo Garfagnana, mentre la frazione con meno residenti è Busdagno(comune di Gallicano) ben 7 abitanti.
      Adesso vediamo le altezze e scopriamo che il comune garfagnino più alto è quello di Careggine, il capoluogo è a 882 metri s.l.m, mentre il più basso è Gallicano 186 metri s.l.m. Invece il monte più alto (non solo della Garfagnana ma di tutta la Toscana) è il monte Prado 2.054 m, si trova nel comune di Sillano-Giuncugnano sul versante dell'Appenino tosco-emiliano, mentre il Pisanino (1946 m) è la vetta più alta del comprensorio Apuano. Come non parlare poi del nostro
      Il monte Prado
      fiume, il Serchio? Il Serchio è il terzo fiume per lunghezza della Toscana (111 km) e il secondo per portata media alla foce, dopo il fiume non potevamo mancare i laghi. I principali laghi garfagnini sono sei: Vagli (il più grande bacino artificiale della Toscana), Pontecosi, Gramolazzo, Villa Collemandina, Vicaglia, Isola Santa e Trombacco (Fabbriche di Vergemoli) e tutti sono laghi artificiali e sempre a proposito di acque il bacino idrografico del Serchio risulta essere al 6° posto in Italia come pluviometrica, si va dai 3109 mm annui di pioggia a Orto di Donna (comune di Minucciano) per arrivare ai 2632 mm annui di Fornovolasco (Fabbriche di Vergemoli), in parole quando fa un po' di sole non lamentiamoci... Comunque sia nonostante le piogge il turismo non manca (anche se si potrebbe fare di più e meglio), il comune con più presenze di turisti nel 2018 è Castelnuovo, seguito poi da Castiglione Garfagnana (dati emessi
      lago di Gramolazzo
      dalla provincia di Lucca in attesa di conferma ISTAT)e per viaggiare ci vogliono i soldi, allora guardiamo chi si può permettere più giorni di vacanze fra i garfagnini; il più ricco comune secondo dati del 2016 è sempre Castelnuovo con 19.158 euro pro capite, mentre il più "povero"è Careggine, 12.939 euro, q
      uesto almeno secondo la classifica dei redditi elaborata dalla start up di studi economici Twig, sulla base dei dati sugli imponibili pubblicati dal dipartimento delle Finanze.
      Dopo tutti questi numeri e dati mi direte voi...ma la geografia con la storia che c'entra? Il geografo egiziano Tolomeo (II secolo a.C) disse
      Fornovolasco una delle zone
       più piovose d'Italia
      che 
      "la geografia è l’occhio della storia". Questo motto fu ripreso molti secoli dopo nel proemio del primo atlante moderno, il Theatrum Orbis Terrarum (1570) del cartografo olandese Abraham Ortelius. Secondo gli umanisti la geografia serve per conoscere e memorizzare la storia, per collocare nello spazio le imprese degli antichi...e (aggiungo io) per saper vivere al meglio la nostra terra.


      Bibliografia

      • Dati Istat dal 2011 al 2018
      • Dati Start Up di studi economici Twig

      L'arte del banchetto rinascimentale. Ecco come si svolgeva in Garfagnana

      $
      0
      0
      Non crediamo che questa moda del mangiar bene, delle cene faraoniche
      Banchetto reale di Sanchez Coello
      e dispendiose, del mangiare con regole precise e prefissate sia "roba" moderna... No, no miei cari vi sbagliate. L'arte del convivio a tavola risale a circa 500 anni fa in pieno Rinascimento e in confronto agli usi culinari odierni non vi è paragone in quanto a fastosità e abbondanza e per di più non crediamo che al tempo tutto questo fosse ad esclusivo appannaggio delle rinomate città rinascimentali... No, no, tali usanze erano consolidate anche nelle più remote zone italiche, bastava che vi fosse un signorotto locale e sicuramente non sarebbe mancato per le occasioni speciali un banchetto degno di tale nome. L'eccezione unica e fondamentale facendo un raffronto contemporaneo è che bene o male oggi un individuo con una modesta posizione sociale,qualcosa sotto i denti lo mette, al tempo era un po' più dura, gozzovigliavano solo i notabili locali. Questa regola valeva anche per la Garfagnana, la maggior parte delle persone era umile e povera, a fatica nel lontano XVI secolo riusciva a mettere insieme pranzo e cena e quando in una famiglia non mangiava il genitore,
      Il cibo dei poveri
      mangiava il figlio e viceversa; buona parte del sostentamento arrivava comunque dalla terra, i poveri garfagnini (quelli che potevano mantenersi) facevano molto uso di verdure, legumi e pochissima carne, quelli che non potevano mantenersi si recavano alla modesta mensa cosiddetta "dei bisognosi", dove la scodella della minestra aveva una croce per ricordare agli sventurati che il loro cibo era frutto della bontà di Dio. Niente a confronto di quello che passava per la tavola dei governatori garfagnini in quel di Castelnuovo, l'unico che a quanto pare fu parsimonioso nel suo viver già di per sè morigerato fu l'Ariosto, i suoi predecessori o i suoi successori quando c'era da banchettare non si tiravano sicuramente indietro, anche perchè l'arte del "banchetto rinascimentale" prende corpo e si diffonde nel nord Italia proprio alla corte estense, proprio la medesima corte che per secoli fra vicende alterne governerà in quasi tutta la Garfagnana. Ercole I d'Este quando sposò Eleonora d'Aragona principiò questa sfarzosità, che raggiunse poi i massimi livelli di raffinatezza nel periodo compreso tra il regno di Ercole II (dotto in alimenti) e quello di Alfonso II, non parliamo poi del
      Ercole II d'Este
      dotto in alimenti
      Cardinal Ippolito d'Este (figlio proprio di Ercole I), in un banchetto luculliano mangiò talmente tanti gamberoni che lo portarono all'indigestione e di li alla morte. Insomma, per farla breve tutti i governatori garfagnini venivano già improntati da Ferrara con questa arte nel proprio D.N.A e in effetti al tempo era considerata una vera e propria arte che univa il gusto dello spettacolo e della musica atta ad intrattenere gli ospiti, a quello della tavola, in poche parole era un vero e proprio status symbol che per mezzo dell'ostentazione della tavola imbandita, esaltava la grandezza del signore o del regnante di turno e in sostanza, quando il popolino in Garfagnana faceva la fame, all'interno delle fortezze estensi garfagnine (e non solo in quelle), nelle ricorrenze importanti, si metteva in atto un cerimoniale e un protocollo che nessuno avrebbe mai detto...

      Tutto era contornato da vari personaggi con compiti ben precisi, che facevano si che un banchetto risultasse degno del proprio signore.
      Rappresentazione del trinciante
      C'era lo "scalco" che decideva il menù insieme al cuoco, decideva anche i posti a sedere, infatti non è che ci si metteva a sedere a caso in tavola, il governatore (in questo caso) sedeva con gli ospiti di maggiore riguardo a un tavolo posto su una pedana, in modo che tutti potessero ammirarlo, occupava questo posto dominante rispetto agli altri, al centro, se la tavola era a ferro di cavallo, a capotavola se era rettangolare, certe volte (ma non si è mai letto di questo in Garfagnana) a questi banchetti poteva anche presenziare un pubblico di sudditi (a presenziare... non a mangiare!), rimane il fatto che lo scalco era poi anche l'economo e l'impresario teatrale che organizzava gli spettacoli ed era talmente importante questa figura da essere spesso un nobile a rappresentarla. C'era poi il "bottigliere", decideva quale vino si addicesse al pasto, era anche il proprietario della cantina, a ruota del bottigliere ecco il "coppiere", colui che mesceva il vino. Altra figura importantissima era il "trinciante", questo personaggio tagliava e disossava la
      Il coppiere
      carne, dando agli ospiti più importanti i pezzi migliori, aveva inoltre la mansione di tagliare tutto ciò che passava in tavola (pesci,frutta e quant'altro), in pratica erano considerati dei veri  artisti, dovevano affettare le vivande senza appoggiarle su nessun piano. Addetto alla credenza non poteva che essere il "credenziere", era incaricato a impiattare e a condire il cibo. Ultimi in ordine di importanza (ma di fondamentale presenza) erano i paggi, gli odierni camerieri.

      Esisteva poi tutta una parte che riguardava l'intrattenimento, il giullare o per intendersi il buffone di corte era quello che riscuoteva più successo, era inventore di burle, narratore di novelle e sonetti irriverenti. Fra una portata e un'altra c'era anche chi declamava o recitava pezzi di opere o intere poesie; alla corte estense si esibirono pezzi da novanta come lo stesso Ariosto, Pietro l'Aretino o Ruzante, il tutto era sempre accompagnato dalla musica e dai canti che interrompevano la lunghissima successione di portate.
      Ma cosa consisteva tutto questo ben di Dio? Cosa si mangiava in queste speciali occasioni? Bisogna fare subito una differenza fra un banchetto che si svolgeva direttamente alla corte estense e un banchetto che si svolgeva in Garfagnana alla corte del governatore o dei signori locali. Cominciamo con il dire che l'intrattenimento "garfagnino" era fatto sopratutto dai giullari e dalla musica, nessuno (a quanto pare) declamava poesie, l'arte poetica al tempo non attecchiva in Garfagnana... Variava anche il menù,
      Il giullare
      naturalmente nemmeno nella nostra valle non si badava a spese, tant'è che le portate erano talmente tante che i commensali non ce la facevano ad assaggiarle tutte. Venivano offerte vivande arricchite da ingredienti costosi (pensare che una noce moscata costava quanto sei mucche) e mentre prima a Ferrara e poi a Modena (capitali estensi) si potevano gustare le prelibatezze più esclusive e uniche, in Garfagnana ci si doveva "accontentare" di quello che si poteva recepire o da quello che si trovava in zona, qualcosa difatti veniva importato da oltre Appennino, ben poco però, perchè si rischiava che con il lungo viaggio le cibarie andassero alla malora. La cacciagione invece era locale, tant'è vero che un banchetto rinascimentale "garfagnino" consisteva in particolar modo in un'abbuffata di carne, vero emblema di potere, la carne era considerata roba da ricchi. Figurarsi che alla corte estense era già arrivata la pasta, già si mangiavano i maccheroni o una sorta di gnocco, nonchè tagliolini o minestre di riso, ma in Garfagnana no, si mangiava "la ciccia", ma non solo: frittate, lumache e funghi,

      che dire poi di "una bona torta fatta di fegadetti di pollo", le frattaglie al tempo erano una vera leccornia, era poi molto in voga l'utilizzo di umidi e guazzetti vari, oltre ad un ampio uso del latte e dei suoi derivati: burro e formaggi. Le carni erano di ogni sorta e tipo: vitello, suino, 
      capretto, 
      pollame e cacciagione varia. Specialità erano gli arrosti di maiale con zucca in agrodolce e funghi porcini nostrali alle pere selvatiche (nella convinzione del tempo che le pere fossero un antidoto per eventuali funghi velenosi). Una curiosità dell'epoca dice che gli arrosti prima di essere messi allo spiedo venivano bolliti nell'acqua per ammorbidirli, perchè usava uccidere animali vecchi, non più abili al lavoro nei campi. Particolarmente apprezzate erano poi le teste di vitello, manzo e capretto delle quali veniva mangiato tutto, occhi compresi. Il "trinciante"qui aveva un particolare compito di tagliare la carne in pezzi non più grandi di un dito, la carne era dura e la maggior parte degli invitati aveva denti in pessime condizioni... Molto apprezzati erano anche i dolci, sopratutto le confetture, erano accompagnate da vino speziato. 
      Sul banchettare Cristoforo di Messiburgo, cuoco di punta presso gli
      Cristoforo da Messiburgo
      famoso cuoco estense
      Estensi scrisse un importante libro di ricette, pubblicato postumo nel 1549: "Banchetti, composizione di vivande e apparecchio generale". Con una frase rese lampante l'idea di quella che fu l'arte di un banchetto rinascimentale: "...una festa magnifica, tutta ombra, sogno, chimera, finzione, metafora e allegoria"...e allora, buon appetito a tutti!!!



      Bibliografia

      • "Libro novo nel qual si insegna a far d'ogni sorte di vivanda" di Cristoforo Messiburgo, anno 1557 
      • "Rinascimento alimentare italiano" appunti storici
      • "Storia della cucina rinascimentale" autori vari, edizioni Belpasso, 1927  


      La Via Del Volto Santo: la sua storia, i suoi "ospitali" e il suo percorso medievale

      $
      0
      0
      "Nell'anno del signore 1215, il giorno 3 di Maggio, io Barna del fu

      foto tratta da Trekking.it
      Johannes de Neri, faccio testamento e parto. Questa volta non per un viaggio di affari, ma in pellegrinaggio al fine di ottenere il perdono dei peccati e sperare che il mio unico figlio, Maffeo, che viene con me e ha dodici anni, possa guarire del tutto. Ho salutato mia moglie Ludovica lasciandola alle cure di mio fratello Lapo e di mia cognata Maria. Alla mia penna d'oca e a questi fogli di pergamena affido il racconto del mio viaggio. Ho nel cuore la speranza di attraversare la terra di Garfagnana seguendo il corso del fiume Serchio e arrivare alla città di Lucca, nella cattedrale di San Martino, davanti al Volto Santo. Non ho mai percorso questa strada tra le montagne, meno battuta rispetto alla via di Monte Bardone; dicono sia più faticosa per i dislivelli. L'ho scelta per questo: perchè il nostro andare ci avvicini, passo dopo passo, a Dio".Questo è l'inizio di uno stupendo diario romanzato che gli alunni dell'istituto comprensivo di Camporgiano e la professoressa Lucia Giovannetti hanno scritto per far riscoprire, comprendere e coinvolgere maggiormente il lettore su quello che rappresentava la Via del Volto Santo, le speranze dei pellegrini, far conoscere la vita di quel tempo e le tappe di questa medievale via. Cominciamo con il dire che i luoghi principe del pellegrinaggio medievale erano tre: il Santo Sepolcro in Gerusalemme, le tombe
      Santiago de Compostela
      degli apostoli Pietro e Paolo a Roma e in Galizia e per precisione a Santiago di Compostela la tomba di San Giacomo. Insieme a queste mete tradizionali 
       e imprescindibili (e meglio conosciute con il nome di "peregrinationes majores"), per i cristiani del tempo esistevano anche delle "stationes minori", dei pellegrinaggi più brevi per capirsi, e offrivano a tutti coloro che non erano in grado di fare viaggi così lunghi e faticosi delle esperienze devozionali non meno sentite e partecipate. Fra queste"stationes minori" c'era proprio la Via del Volto Santo, che non era altro che un ramo della ben più famosa Via Francigena (o via Romea) che collegava la Francia con Roma "Caput Mundi" (per approfondimenti 
      http://paolomarzi.blogspot.com/le-antiche-strade-html), questo ramo passava dalla Lunigiana, attraversava la Garfagnana e arrivava a Lucca nella cattedrale di San Martino al cospetto del Volto Santo, statua lignea che la tradizione definisce "un'immagine acheropita"(non vi spaventate...vedremo dopo cosa significa), ma perchè direte voi questi poveri pellegrini invece di intraprendere la difficoltosa via delle montagne non si incamminavano sul ramo della Francigena che portava alla più agevole strada che passava dal mare? Si vede che qui i pericoli erano maggiori, a quel tempo la zona marittima era infestata da feroci pirati e per di più c'era il costante pericolo di contrarre malattie malariche, quindi si preferiva dirigersi fra le impervie montagne. Il cammino cominciava da
      il percorso del Volto Santo
      Pontremoli, una volta lasciata Pontremoli il pellegrino 
      saliva ad Arzengio, da lì proseguiva per Ceretoli. Poi arrivava a Dobbiana (Filattiera) alla chiesa di San Giovanni Battista. Poi proseguiva per Serravalle, e si scendeva nel Bagnonese. Proprio dalla pieve di Sorano si fa iniziare la "Via del Volto Santo" che attraversa la Lunigiana toccava la pieve di Santa Maria di VeneliaLicciana Nardi, la Pieve di Soliera ApuanaFivizzanola Pieve di OffianoRegnano, San Nicolao di Tea. Un ramo di strada proveniente dalla bassa Lunigiana toccava invece la Pieve dei Santi Cornelio e Cipriano a Codiponte. Ecco poi che si entrava in Garfagnana, la prima meta era la Pieve di San Lorenzo (Minucciano)Minucciano, Piazza al Serchio. Il percorso toccava poi San Donnino, Camporgiano, Castelnuovo, Gallicano, superava il Ponte del

      San Michele (Piazza al Serchio) 
      Diavolo, Borgo a Mozzano e poi si immetteva definitivamente per l'antica via romana, 
      toccava i paesi di Diecimo, Valdottavo, Sesto di Moriano per arrivare a Lucca. Il tracciato aveva una lunghezza di circa 149 chilometri. Consideriamo poi che il pellegrinaggio era molto diffuso e non tutti "pellegrinavano" per il solito motivo, infatti c'erano due tipi di pellegrinaggio, esisteva quello cosiddetto devozionale che aveva il suo scopo nel chiedere grazia al Signore, mentre l'altro era un pellegrinaggio di tipo penitenziale, ed era originato da una forma di dura condanna per una colpa molto grave che il pellegrino stesso aveva commesso, così in questo modo si auto condannava a vagabondare in continuazione per terre sconosciute e chiedere colpa dei propri peccati a Dio. Comunque sia questi devoti avevano tutti dei segni e delle caratteristiche che facevano si che venissero sempre riconosciuti, cosicchè portavano
      Un pellegrino medievale
      con sè il "bordone", ovverosia il bastone, vestivano con una "schiavina", soprabito lungo e ruvido e a tracolla avevano una bisaccia in pelle, dove all'interno erano custoditi soldi e cibo, segno inconfondibile era poi "la pazienza", un cordone messo in vita come quello dei frati e così messi si incamminavo nella grazia di Dio, ma esposti a pericoli di ogni sorta. A dare man forte a questi fedeli c'erano gli "ospitali", disseminati per tutte quelle strade che portavano verso i luoghi religiosi. Gli"ospitali" nel medioevo erano un posto destinato ad offrire ospitalità a chi ne avesse bisogno, in particolar modo proprio ai pellegrini che non avevano soldi per pagarsi un letto in una locanda, quasi sempre erano collocati al di fuori delle mura dei borghi, per permettere ai viaggiatori di trovare un giaciglio, anche se fossero arrivati a tarda sera, quando le porte dei paesi erano già chiuse. Erano istituzioni gestite da religiosi, quasi sempre adiacenti a una chiesa o a un monastero e vivevano di elemosine o di lasciti di cittadini, non erano certo un hotel a cinque stelle, anzi, generalmente offrivano un letto, spesso un pagliericcio in "cameroni" comuni e in qualche caso una minestra calda, in ogni modo erano fondamentali per il percorso che affrontava il pellegrino. In

      Garfagnana ce n'erano molti e alcuni di questi erano proprio lungo la Via del Volto Santo, ma non vi furono solo"ospitali", nei pressi dei guadi dei fiumi o sui valichi garfagnini furono erette torri con stanze che accoglievano i viaggiatori, queste gestite però da guide a pagamento, di queste torri non c'è quasi più alcun segno è invece rimasto segno di questi "ospitali", come quello della Sambuca, qui sorgeva un monastero di suore che ospitava i viandanti, dall'altra sponda a Camporgiano c'è una chiesa dedicata a San Jacopo e che in antichità aveva anch'essa uno "spedale", unito a quello di San Pellegrino, poi arriviamo a Castelnuovo dove sul colle San Nicolao vicino all'attuale ospedale c'era proprio "un'ospitale", scendendo verso valle si arriva a Gallicano, qui si hanno notizie di un ennesimo "ospitale"adiacente alla chiesa di Santa Lucia, che dava alloggio ai viaggiatori per un solo giorno, tanta era l'affluenza di persone. Tutto questo peregrinare (mai vocabolo fu più azzeccato)come abbiamo visto, aveva come obiettivo finale il
      Santa Lucia Gallicano
      adiacente a questo
      chiesa c'era un'ospitale
      crocefisso del Volto Santo, collocato dentro la cattedrale di San Martino a Lucca. Ma perchè tutta questa venerazione millenaria per un crocefisso di legno? Tutto sta nella parola "acheropita", cioè fatto da mano non umana, ma bensì divina. Si crede infatti che tale opera sia stata scolpita da Nicodemo (citato nel vangelo di Giovanni). Nicodemo non era proprio uno scultore provetto e così si attentò nello scolpire nel legno la figura di Gesù, a quanto pare stanco dalla fatica si addormentò, lasciando da scolpire solo la testa, al suo risveglio il crocefisso era completato, gli angeli nella notte avevano lavorato per lui rappresentando su legno quello che sarebbe il vero volto di Cristo. Fra varie vicissitudini il manufatto arrivò a Lucca, che da quel giorno è venerato da tutti i lucchesi e non. La festa di Santa Croce si svolge il 13 settembre e per secoli i paesi e i villaggi che erano assoggettati a Lucca venivano obbligati a inviare rappresentanti in quel giorno di festa, i trasgressori avrebbero pagato con multe salatissime, si arrivava anche al pignoramento dei
      Volto Santo nella
      cattedrale di San Martino
      beni. Nessuno a Lucca quel giorno poteva essere incarcerato e si concedeva amnistia per i reati minori. Anche il Sommo Poeta, Dante Alighieri nella"Divina Commedia" arrivò a citare il Volto Santo, gettando all'inferno tale Martin Bottaio anziano magistrato lucchese, che nel cercar salvezza dalla pece ardente invocò l'aiuto dell'immagine sacra, i demoni gli risposero che la pece dell'inferno non era come le fresche acque del Serchio a cui era abituato e di darsi pace che..."Qui non ha loco il Volto Santo"...   




      Bibliografia

      • "Un viaggio nel medioevo lungo la Via del Volto Santo" Istituto comprensivo di Camporgiano Autori: Misia Casotti, Matteo Conti, Nicole Conti, Mauro Grandini, Alessia Lartini, Valerio Lorenzetti, Veronica Pardini, Francesco Pedri, Jarno Rocchiccioli, Monia Talani. Insegnante: Lucia Giovannetti
      • "Storia delle tappe in Garfagnana. La Garfagnana e la Via del Volto Santo" di Andrea Giannasi 

      Prima di Greta Thunberg... Giovanni Pascoli, ambientalista "Ante litteram"

      $
      0
      0
      Prima di Greta Thunberg, Al Gore, Chico Mendes e Erin Brockovich
      c'era lui, Giovanni Pascoli... Tutti questi, qui sopra citati sono persone che hanno dato tanto per l'ambiente e sopratutto hanno dato il buon esempio, dimostrando che, il nostro pianeta lo dobbiamo proteggere sempre, e che i risultati prima o poi arrivano. Prima di tutti l'aveva capito Giovanni Pascoli, il primo ambientalista "ante litteram", da molti definito "il poeta contadino", amante della natura che nei suoi versi aveva uno spirito ecologista al di sopra di tutti. I riferimenti ideali nella testa del poeta erano Virgilio ed Orazio, veri poeti contadini che vivevano del loro lavoro, d'altronde la scelta di vivere in piena campagna a Castelvecchio rientrava proprio in questa ottica, si evidenziava ancor di più il rifiuto della città, vista come il male in persona, ad esempio nella poesia "L'Ora di Barga" si parla del ragno, del grano, del vento, tutti elementi naturali che aveva davanti e che una caotica città non poteva mai manifestare come in ambienti simili a quello della Valle del Serchio. I suoi migliori amici erano i contadini del luogo e quando qualche emigrante rientrava dalle Americhe per ricomprarsi la
      terra da coltivare, da lui era visto come un nuovo eroe, colui che dava nuova vita e che invertiva il processo dell'abbandono delle campagne. Pochi infatti vedono il Pascoli da questo punto di vita, nessuno pensa a lui come un naturalista, ma come abbiamo visto la sua vita e la sua poesia non lasciano spazio a dubbi. Un contatto stretto con la natura lo possiamo trovare in moltissime sue poesie, dove le sue parole erano sempre ispirate da un volo di un passero, un cipresso, dal verso di un uccello notturno, da un lampo improvviso ed è proprio da questi versi che si possono trarre grandi insegnamenti, ed ecco allora che nel 1906 venne pubblicato "Odi e Inni" e nella poesia "Il Serchio", a margine di questa il poeta scrisse una nota davvero degna di essere letta, che ci ricorda due cose importanti, di quanto la
      La poesia originale "Il Serchio"
      natura si dia aiuto reciproco (al contrario dell'uomo) e di quanto siano importanti gli alberi, si perchè anche un secolo fa uno dei problemi era il selvaggio disboscamento e il Pascoli questo scrisse: "Gli alberi e le acque si amano e si aiutano con fraterna vicenda: gli alberi proteggono le acque, le acque alimentano gli alberi... L'Italia deve rivestire i suoi monti già spogliati dalla spensierata ingordigia dei possessori, se vuol da per tutto ciò che, per provvidenza, per disinteresse, per virtù dei maggiori, è qui in Val di Serchio"

      La tomba di Merlino
      un merlo dall'ala rotta
      Non da meno fu il suo rapporto con gli animali, in loro trovava un amore disinteressato, di chi non vuole niente in cambio ed è anche per questo che possiamo considerare Giovanni Pascoli un antesignano animalista, non solo quindi un naturalista nel senso stretto del termine, ma un naturalista a tutto tondo, pronto ad amare e rispettare tutto quello che Madre Natura ha creato. Essere animalisti a quel tempo era ancora più difficile e se si vuole anche bizzarro, l'animale era considerato agli inizi del secolo scorso poco o niente, aveva un ruolo marginale nei sentimenti delle persone, l'animale "vero" era quello da lavoro e quello che si poteva mangiare, non così per il Pascoli, in lui trovavano amore e protezione e se invece Darwin in essi trovava l'espressione di sentimenti simili a quelli dell'uomo, il Pascoli ne coglieva una chiave poetica. Allora ecco che in casa Pascoli fu un susseguirsi di uccellini, tortone, merli, caprette, cani, alcuni di questi riposano nella loro piccola tomba nel giardino della casa del poeta a Castelvecchio; e sempre a proposito di animali e dell'intimo rapporto fra uomo e bestia rimarrà nella memoria di tutti la cavalla storna che trainava il calesse fino a casa, con sopra suo padre Ruggero assassinato. Nessuno vorrà dire chi è stato l'omicida, ma quando la madre del poeta ne fa il nome alla cavalla, lei emette un nitrito, un nitrito da brivido e di dolore disperato:
      In piedi il padre di Giovanni,
       Ruggero Pascoli con la famiglia

      "Chi fu? Chi è? 
      Ti voglio dire un nome
      E tu fa un cenno Dio t'insegni come...
      Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
      disse un nome... sonò alto un nitrito".

      Illuminante e d'ispirazione a questo articolo fu una pubblicazione di Matteo Cavezzali di qualche tempo fa su "Il Fatto Quotidiano", è sottolineato bene il fatto dell'importanza delle parole, di quanto le parole, specialmente quando si parla di natura debbano essere precise, perchè la natura non si inventa, la natura è natura perchè è così come è, e Giovanni allora rimprovera i colleghi poeti di averla maltrattata e trascurata, come può essere che nella poesia "San Martino" di Carducci la nebbia sia agli irti colli? La nebbia quando pioviggina non sale, ma scende! E il mare urla e biancheggia con il libeccio, non con il maestrale. Anche Giacomo Leopardi è caduto nella trappola, ne "Il sabato del Villaggio" si parla di rose e viole, ma le rose e le viole sbocciano in diversi periodi dell'anno, non si possono trovare rose e viole insieme. Con questo il Pascoli ci faceva capire che la natura non ha bisogno di essere forzata per rientrare in un ideale poetico, anzi questo la

      rende goffa e irreale... Basta guardare e descrivere le cose come sono, perchè sono molto più affascinanti di come possiamo immaginarle noi, che in confronto alla Natura, siamo solo piccoli uomini...



      Bibliografia

      • "Greta Thunberg, prima di lei era Giovanni Pascoli a lottare per l'ambiente" di Matteo Cavezzali "Il Fatto Quotidiano" 21 aprile 2019

      Leonardo Da Vinci...la Garfagnana e la Valle del Serchio in due mappe

      $
      0
      0
      Certo, adesso è facile fare una carta geografica, tecniche come
      Mappa di Leonardo con
      rappresentata Barga
      e la Pania
      l'aerofotogrammetria consentono attraverso gli aerei una serie di scatti fotografici sul suolo terrestre, permettendo così una fedele riproduzione di coste, montagne e fiumi, altra pratica più precisa è il telerilevamento, che si effettua con l'uso dei satelliti che ruotano intorno alla Terra, in questo caso si usano radiazioni infrarosse; in entrambi i casi tutti i dati rilevati vengono trasmessi alle stazione di ricezione, qui grazie ai computer questi dati vengono elaborati... Ma una volta? Una volta non esistevano nè aerei, nè satelliti... e allora i primi cartografi riportavano sulla carta la posizione dei luoghi in base alle stime dei viaggiatori, oppure si facevano un'idea del territorio salendo sui campanili o sulle colline, le distanze venivano misurate in passi o in giorni di navigazione, insomma tutto veniva fatto "a naso", nell'antichità nessuno pretendeva la massima precisione di una costa o di una città, ma veniva considerato rilevante avere punti di riferimento ben visibili, così una mappa poteva avere dimensioni completamente sballate, ma magari c'erano evidenziati i promontori, dei fari o dei boschi, naturalmente poi c'era una base per così dire scientifica, per la lunghezza e la distanza ci si basava sula misura delle ombre e su principi trigonometrici. A queste tecniche si affidò anche Leonardo Da Vinci, si perchè Leonardo non fu "solo" architetto, pittore, scultore, anatomista,

      botanico, ingegnere e progettista, fu anche cartografo. Da questo punto di vista Da Vinci è poco conosciuto e pensare che due delle sue carte geografiche rappresentano la Valle del Serchio e la Garfagnana... Leonardo iniziò la sua attività di cartografo dopo aver studiato la geometria di Euclide, introdusse anche qui tecniche cartografiche all'avanguardia, delle soluzioni del tutto innovative, sopratutto nella rappresentazione del territorio, anticipando l'idea della tridimensionalità. Da genio che era, era altrettanto consapevole che riportare una superficie sferica su una piatta non poteva avvenire senza errori con gli strumenti che aveva a disposizione, allora per rimediare a ciò e rendere a queste carte quel tocco di artistico ricorse alla tecnica dello sfumo a grafite  per rendere ben visibili i dislivelli delle montagne: "il lumeggiamento delle masse montuose", così come le chiamava lui. I suoi primi incarichi da cartografo li ebbe da Cesare Borgia che lo nominò suo "architecto e ingegnero generale", nel 1502 realizzò per il duca una carta con"i lochi et fortezze" conquistate. Dei servigi leonardeschi ne usufruiranno anche i Medici nella persona di Giuliano, che a Leonardo farà richieste analoghe, ed ecco allora entrare in scena la Garfagnana e la Valle del Serchio, infatti (come detto) esistono due mappe commissionate proprio dall'illustre famiglia fiorentina, sono carte rispettivamente del 1503 e del 1504, disegnate per mano di Leonardo, una di queste oggi è denominata RL 12685: in questa si risale il
      Rl 12685 Barga cerchiata in rosso
      ben visibile la Pania
      corso del fiume Serchio e fra le altre cittadine segnalate si può ben notare  Barga, sullo sfondo e alle sue spalle si può osservare bene la Pania e le Rocchette di Vergemoli(disegnate perfettamente), nell'altra catalogata con riferimento Madrid II 
      n° 12277 del Codice Atlantico, indica anche qui il Serchio che attraversa i comuni di Coreglia, Gallicano, Barga, Molazzana, Castelnuovo, San Romano, Camporgiano e Piazza al Serchio, da notare anche in questa la precisione di tutti i rilievi montuosi (la Pania è qui chiamata con il suo antico nome: Pietra Pana), perfino gli alberi sono disegnati, i laghi, i corsi dei fiumi e sempre a proposito di fiumi questa mappa fu creata con l'intento di studiare il territorio per realizzare un singolare e bellicoso progetto...come si può vedere Lucca è messa in bella evidenza, infatti il proponimento dei Medici era di deviare il corso del Serchio per inondare la città e farne conquista. Ma tutto questo tesoro
      Madrid II N 12277 CODICE ATLANTICO
       dov'è conservato? Agli Uffizi? Nei musei Vaticani? Nei musei reali di Torino? Niente affatto, i disegni sono di proprietà personale di sua maestà la Regina Elisabetta II d'Inghilterra e sono custoditi presso la Royal Windsor Library. Sono proprio nel castello reale di Windsor, dove esiste una collezione di 600 carte geografiche, comprese le due carte "garfagnine", oltre a queste ci sono mappe sul Valdarno, sull'Italia del nord, sulla Toscana occidentale, sulle paludi pontine, in più una vista della Valdichiana. Rimane comunque il fatto che parte del nostro patrimonio artistico è (purtroppo) sparso in tutto il mondo e le vicende di queste mappe leonardesche(come al solito) fanno parte di quelle vicende poco note del perchè siano sparite dal loro "suolo natio". Nel tempo ci sono stati vari passaggi di mano. Si comincia proprio dalla morte di Leonardo (quest'anno ricorrono i 500 anni della sua scomparsa), dopo la sua morte i disegni entrarono in possesso del suo allievo Francesco Melzi che le conservò con sè fino al 1570, anno della sua dipartita , dopodichè passarono nelle mani dello scultore Pompeo Leoni che le acquistò dal figlio di Melzi, qui le mappe

      vedono per l'ultima volta la propria patria e nel 1630 non si sa
      Il castello reale di Windsor
      dove sono conservate le mappe
      come (ecco qui il mistero) arrivarono in Inghilterra come patrimonio di 
      Thomas Howard conte di Arundel, da li il passo fu breve e in men che non si dica entrarono a far parte del prestigiosissimo patrimonio dei Windsor.
      Non rimane altro che la magra consolazione di pensare che dalla mano e quindi dalla penna del più grande genio dell'umanità siano usciti  i nomi dei nostri paesi e che forse, non si sa mai, nei suoi viaggi non sia capitato almeno una volta nella nostra valle...Chissà... 

      Italia- Germania, estate 1944: una partita di calcio fra nazisti e garfagnini in riva al Serchio

      $
      0
      0
      "Nonostante la guerra e le distruzioni anche noi ragazzi come quelli
      La partita di Natale del 1914
      di oggi avevamo i nostri sogni e i nostri eroi, le femminucce avevano come idoli gli attori come Gregory Peck o l'italiano Amedeo Nazzari, per noi bimbetti, i nostri modelli da imitare erano i calciatori, al tempo i Ronaldo,i Messi, non erano neanche nei pensieri della "su mamma", dato che nemmeno la loro mamma era nata... i nostri eroi si chiamavano Piola, Mazzola, Meazza e la squadra più forte di tutte... macchè Juventus !!!...era il Torino!... Ti devo dire di più, in quegli anni (n.d.r: anni 40) il calcio non fu solo passione e divertimento, in quegli anni per noi ragazzi fu un modo di fuggire dalla realtà della guerra, un modo per estraniarsi dalle crudeltà che stavano succedendo in ogni dove...tornare poi a casa e vedere la propria madre
      piangere perchè bisognava fuggire da casa, sfollare, andare chissà dove, abbandonare i nonni al loro destino perchè troppo anziani per fuggire, lasciava nel mio cuore un dolore enorme
      La mitica rovesciata di Piola
      che dimenticavo solamente quando correvo dietro ad un pallone..."

      Questa è la storia di Joe Rinaldi, nato in località la Barca vicino a Gallicano, ed emigrato negli Stati Uniti negli anni '50 del '900 e oggi pensionato felice dopo 45 anni di lavoro nella mitica Union Pacific Railroad (ferrovia U.S.A). La storia di questo arzillo novantenne garfagnino mi è arrivata via e-mail dai suoi figli. La storia di Giovanni (oggi Joe), come tante storie di emigranti è interessantissima, si narrano le mille peripezie fatte per farsi una posizione sociale degna di tale nome, si racconta ancora della fame patita prima di trovare un lavoro... ma io leggendo queste vicende non sono rimasto particolarmente attratto da quello che gli era capitato negli States, ma mi interessava molto di più un brano di questa mail dove raccontava della sua grossa passione per il calcio e..."di partite di pallone nella piana di Mologno contro i soldati tedeschi..."
      Un'immagine del film
      "Fuga per la vittoria
      nella foto Ardiles,
      Stallone, Pelè, Moore
      Come? Mi sono domandato, ho capito bene? Ed ecco ritornarmi alla mente la celeberrima "partita di Natale": 25 dicembre 1914, I guerra mondiale, inglesi e tedeschi uscirono dalle trincee e in un segno di fratellanza  ormai persa cominciarono a giocare a calcio, facendo così tacere i fucili per un giorno e ancora come dimenticarsi il bellissimo film "Fuga per la vittoria", che ha come attori calciatori veri come Pelè, Ardiles e Bobby Moore? La storia fu presa da un fatto realmente accaduto, conosciuto meglio con l'appellativo di "partita della morte", giocata fra ufficiali tedeschi e prigionieri ucraini, ed ecco allora che queste partite nella piana di Mologno hanno stimolato il mio interesse e riportato Joe ai giorni memorabili di quella lontana estate del 1944.

      "Eravamo sempre i soliti, io, il Mario, il Beppe, il Luciano e il
      La Barca (Gallicano)
      luogo di origine di Joe
      Franco. La mattina ci sbrigavamo tutti e cinque a fare i lavori nei campi, tagliare il fieno e dare da mangiare alle bestie che avevamo nascosto per non farle trovare ai tedeschi o ai partigiani che sicuramente ce le avrebbero requisite, poi fatto quello che c'era da fare ci davamo appuntamento al fiume...per fare una cosa proibitissima dai nostri genitori...giocare a calcio. La proibizione veniva dal fatto che giocando a pallone c'era il rischio di potersi far male, se mi fossi fatto male chi avrebbe aiutato in tutti i lavori agricoli il babbo? Quanto sarebbe costato ai miei genitori farmi medicare? Per di più con la guerra in atto medicine non se ne trovavano e poi un cosa sarebbe stato farsi male mentre lavoravo o facevo qualcosa di produttivo e un'altra cosa sarebbe stato farselo per il semplice gusto di giocare. Ma la passione che avevamo per il calcio era superiore a qualsiasi pericolo, così in un campetto al di là del fiume fra Vizzano e Mologno inscenavano le nostre partite. Dentro

      una buca avevamo nascosto anche il nostro pallone che era una vera e propria meraviglia, era una palla fatta con i "cenci" dismessi di casa, una pezza l'avevo portata io, l'altra il Mario, insomma ognuno aveva contribuito a fare il nostro pallone, fatto di stoffa "appallottolata" e legata insieme con un filo, il tocco in più a fare si che somigliasse ancora di più ad una vera palla l'avevamo dato con il grasso di maiale rubato a casa, si perchè una volta fatta la palla l'avevamo tutta cosparsa con il grasso, in modo che le pezze di stoffa rimanessero rigide, così non si sarebbero sfilacciate; il più era quindi fatto, per cominciare una partita a quel punto bastava poco, infatti la porta era fatta con due bastoni che fungevano da pali e siccome eravamo in dispari uno a turno stava in porta e gli altri quattro facevano la partita due contro due, non vi immaginate il divertimento, la spensieratezza, intorno a me non vedevo le nostre montagne ma vedevo spalti festanti a ogni mio gol, addosso non mi vedevo la pesante
      Torino stagione 1943-1944
      canottiera, ma mi vedevo la bella maglia granata del Torino. Finito di giocare però si tornava alla dura realtà e il rituale era sempre il solito: un bel bagno rinfrescante nel fiume e poi di corsa a casa zitti, zitti. Un bel giorno durante una di queste partite, il pallone rotolò in una"scarpatella"  arrivando quasi sul greto del fiume, mi apprestai di corsa per recuperare la palla, appena allungai le braccia per afferrarla rimasi di ghiaccio, era stata fermata da un mitra e da un elmetto tedesco, che erano li depositati a terra...alzai gli occhi e vidi un soldato che si stava bagnando i piedi nel fiume, girai lo sguardo e sotto una frasca ce n'erano altri quattro...è la fine pensai! Presi la palla facendo finta di niente e mi incamminai per tornare dai miei amici, appena fatti tre passi una frase in tedesco secca e perentoria mi gelò il sangue
      Soldati tedeschi
      nelle vene, in men che non si dica i cinque tedeschi si erano già alzati, ricomposti e imbracciato i mitra, nei loro occhi notai la stessa mia paura, io non sapevo le loro intenzioni  e d'altronde nemmeno loro sapevano chi eravamo, mi accompagnarono per quei trenta lunghi metri che mi distanziavano dal campetto e dai miei cinque amici, che appena videro la scena caddero a terra a piangere. I soldati non parlavano una parola di italiano, ma già avevamo capito che volevano comprendere chi eravamo e perchè eravamo li, insomma cercavamo di spiegarci a gesti o come si poteva meglio fare, poi ad un certo punto il Beppe fece un gesto che aprì le porte ad una totale serenità, di colpo prese la palla e con un calcio la tirò verso la porta, dopodichè esultò come facevano i grandi campioni del tempo, da li un tedesco prese la palla e fece cenno ad un mio compagno di andare in porta, in men che non si dica ci ritrovammo cinque contro cinque in un epica partita Italia -Germania.I nazisti si levarono il pesante giaccone, si misero in canottiera, l'altra porta la fecero loro, al posto dei pali avevamo messo due elmetti, la partita cominciò , noi eravamo un po' titubanti, ma man mano che i minuti passavano non esistevano più tedeschi, americani, francesi o
      Foto tratte da La partita del Natale 1914
      qualsivoglia soldato, ci stavamo divertendo tutti e dieci come dei matti, quei soldati poi in fin dei conti erano poco più grandi di noi, loro avranno avuto una ventina di anni, noi quattordici, quindici e sedici anni. Alla fine dell'incontro (che purtroppo perdemmo) ci salutammo con pacche sulle spalle e ognuno tornò da dove era venuto. Qualche giorno dopo si ripresentò l'occasione di tornare a giocare a calcio e ci trovammo con i miei compagni di gioco al solito posto, arrivati al campetto con grande sorpresa ritrovammo i soliti soldati che ci stavano aspettando per giocare, uno di loro batteva il dito indice sul polso ad indicare che eravamo in ritardo, ben presto tirammo fuori la palla di cencio e via un'altra partita, loro però giocavano con gli scarponi e noi con gli "scappini" (n.d.r:zoccoletti di legno)e in effetti la cosa era impari, da una parte loro con gli scarponi ci pestavano senza volerlo i piedi e dall'altra il loro portiere giocava con l'elmetto, perchè quando si calciava il pallone spesso partiva lo zoccolo, per farla breve trovammo l'accordo, si giocava tutti a piedi nudi. Era

      molto bello perchè il calcio aveva buttato giù la barriera che idealmente ci divideva, anzi il gioco ci aveva uniti in una vera amicizia. Questi soldati da quel poco che si capiva venivano da Gallicano e anche loro scappavano per giocare a calcio, mentre noi fuggivamo all'insaputa dei nostri genitori, essi da quella del loro comandante, questo ci rendeva ancora di più amici e complici. Non mi ricordo quanti giorni durarono queste partite, sicuramente qualche settimana, ricordo ancora che a ogni partita c'era in palio un premio che loro portavano, quando una cioccolata, quando un pezzo di pane, quando qualche scatoletta... ma alla fine che si vincesse o si perdesse il premio ci veniva sempre lasciato... Un brutto pomeriggio tutto cambiò. La partita che stavamo giocando insieme agli amici tedeschi era in pieno svolgimento, ad un tratto dalle piante che davano verso Mologno ecco una decina di nazisti con a capo un comandante... non ti dico le urla  di questo comandante che inveiva contro i nostri amici; il piccolo plotone prese a calci le porte, gli elmetti e i giacconi dei giocatori tedeschi, noi eravamo impietriti ... che succederà?... una raffica di mitra ci fece scappare come il vento... un soldato aveva sparato in aria proprio con l'intento farci fuggire. Quel giorno li finirono per sempre gli incontri internazionali fra Italia e Germania. Un bieco ufficiale tedesco aveva interrotto per sempre un bella amicizia...da grande poi sono riuscito a capire ancor di più l'intervento di quel plotone in quel maledetto giorno, la spietata logica della guerra aveva i suoi perchè, fraternizzare con "il
      Il monumento che ricorda la mitica partita
      di quel lontano Natale 1914
      nemico" avrebbe voluto dire avere pietà, comprensione e questo non era permesso dalle leggi non scritte della guerra. Nei giorni seguenti tornammo al campo, la palla era sparita, non so che fine abbia fatto, sperai solo che un nostro amico tedesco l'abbia portata via come ricordo. Quello che  mi rimase di quella lunga estate fu il gesto di quei cinque soldati, un atto di libertà, di unione che solo lo sport in ogni sua forma ha sempre trasmesso e voluto insegnare".



      •  Special thanks to Joe for his beautiful testimony (june 2019 Maine, U.S.A)

      Leggende garfagnine e personaggi storici, un mix tra mito e realtà

      $
      0
      0
      Le leggende garfagnine, (ma in genere un po' tutte) nella maggior
      parte dei casi sono legate a personaggi di fantasia o a esseri sovrannaturali, oramai questi esseri (come già abbiamo avuto modo di raccontare) come il buffardello,gli streghi, il biscio bimbin e molti altri ancora sono entrati nel nostro immaginario popolare, per ognuno di essi viene raccontata la storia, l'origine e i miti che si sono sviluppati dietro questi personaggi, queste entità hanno influenzato la nostra fantasia facendoci viaggiare in un mondo senza tempo il cui fascino non si è mai spento. 
      Gli esperti di antropologia hanno poi sempre sostenuto una correlazione fra leggenda e verità, per spiegare meglio, essi sostengono che in fondo ad ogni leggenda una base di verità esiste sempre, naturalmente il mitico buffardello non è reale, ma con ogni probabilità i danni, le carestie e gli impicci che si credeva che fossero causati da questa creatura, quelli sono veri. Il discorso sarebbe lungo e si vuole anche un po' complesso da affrontare, non basterebbe sicuramente un semplice articolo per essere esaurienti, ma però ad avvalorare ancor di più questa tesi sono le leggende che riguardano i personaggi realmente esistiti, in questo caso personaggi storici che nei secoli passati hanno vissuto o sono passati in Garfagnana. Facciamo allora un viaggio fra questi personaggi che il destino ha voluto ammantare la loro vita di un aurea leggendaria tutta garfagnina.

      Annibale

      Annibale, come tutti ben sappiamo, fu uno dei più abili condottieri
      che la storia abbia mai avuto, riconosciuto come il più grande generale dell'antichità, famoso per le sue vittorie durante la seconda guerra punica, ma sopratutto ancor più famoso quando nel 218 a.C valicò le Alpi con ventiseimila cartaginesi e trentasette elefanti per conquistare Roma. Dopo aver valicato le Alpi, leggenda racconta che arrivò il momento di attraversare gli Appennini con questi mastodontici animali. Ma quale fu il passaggio? In quale punto degli Appennini riuscì a valicare le montagne per poi dirigersi verso Roma? Passò attraverso la Valle del Taro? Oppure scese a Lucca dal passo di Foce a Giovo? Sul nostro Appenino sono molte le località che narrano del passaggio di Annibale, tradizione vuole che ai piedi del versante nord occidentale del Monte Giovo nel tratto di sentiero che conduce alla Boccaia (Castiglione Garfagnana) si trova, in una zona sassosa formata da pietre di origine morenica, il punto in cui i cartaginesi fecero sosta con gli elefanti.

      Matilde di Canossa

      O meglio conosciuta come la Grancontessa o più correttamente Matilde
      Matilde di Canossa
      di Toscana, fu contessa, duchessa, marchesa, vicaria imperiale, nonchè vice regina d'Italia. Potente feudataria e ardente sostenitrice del papato, personaggio di primo piano assoluto specialmente in un'epoca (XI secolo) in cui le donne erano considerate di rango inferiore. Si racconta che da donna tanto potente quale fosse, ebbe l'ardire di chiedere il permesso al Papa di poter celebrare messa. Il Santo Padre non voleva naturalmente deluderla e non sapendo come fare ad uscire dall'imbarazzante situazione decise di prendere la cosa un po' per le lunghe e un giorno le disse:- Se farai costruire cento ospizi, allora potrai celebrare messa-. La contessa cominciò subito a darsi da fare, ordinò ai suoi vassalli di costruire ospizi per tutto l'Appennino. Ecco così nascere sia nel versante garfagnino e  sia in quello emiliano questi "hospitali", nati proprio per dare ospitalità (vedi la località di Ospitaletto) ai poveri viandanti. Purtroppo la contessa non potè coronare il suo sogno di celebrare messa, poichè morì dopo aver costruito il novantanovesimo ospizio.

      Miglior sorte toccò ad un suo soldato. Si dice che questo soldato cantava benissimo ed allietasse molte delle serate della contessa. Un bel giorno la contessa gli chiese cosa desiderasse per ricompensare i suoi servigi di soldato e di cantante. Il soldato chiese allora delle terre in Garfagnana, la contessa era molto riluttante di fronte a questa richiesta, decise comunque di proporgli un patto e così gli disse:- Se riuscirai a raggiungere una vetta delle Apuane e da li a far sentire la tua voce alla gente e fin dove il tuo canto sarà udito, ti concederò le mie terre- Di buon mattino il soldato salì sulla montagna e cominciò a cantare, la sua voce rimbalzò da valle in valle, la contessa fu così costretta a cedere al soldato tutte le terre fin dove era stato udito il suo canto.

      Ludovico Ariosto

      Le leggende sull'Ariosto sono molteplici. L'Ariosto fu governatore
      estense in Garfagnana per tre anni (1522-1525), la poesia e le odi nella nostra valle se le era dimenticate, il suo compito era combattere le orde di briganti che infestavano le selve.
      Infatti un giorno mentre ispezionava con i suoi soldati i boschi delle Apuane settentrionali a caccia di questi ribaldi, i ribaldi stessi lo sorpresero e lo catturarono, lo condussero all'ingresso di una grotta e li lo legarono ad un albero e mentre proprio un brigante lo legava a questo albero, uno dei banditi cominciò a recitare versi del poema dell'Ariosto, storpiandoli a più non posso; il poeta all'udire tale obbrobrio intervenne subito, recitandoli con passione e sentimento, dimostrando così di essere l'autore che aveva composto i magnifici versi. Con stupore ed ammirazione i briganti liberarono il prigioniero e lo invitarono a declamare i versi de "L'Orlando Furioso", tale e tanto fu lo spettacolo che i banditi rilasciarono l'Ariosto con la promessa di non importunarlo mai più.

      C'era un tale conosciuto con il soprannome di "Pretaccio". Era un uomo che non badava troppo per il sottile, era un losco faccendiere che commerciava a cavallo dell'Appennino. Aveva ottenuto in promessa sposa una giovane castelnuovese di buona famiglia. A pochi giorni dalla nozze, la ragazza si pentì e fuggì nel convento delle suore a Barga. Lo smacco per il "Pretaccio" fu grande, così si mosse verso Barga con cinquanta uomini per riprendersi la donzella. Detto fatto invase così le proprietà del monastero, dichiarando che non si sarebbe mosso di li finchè la promessa sposa non sarebbe tornata fra le sue braccia. La questione giunse all orecchio di Ludovico Ariosto, attraverso i suoi buoni uffici convinse il "Pretaccio" a desistere e a tornare a Castelnuovo.

      I Conti di Gragna e i nobili di Dalli 

      I conti di Gragna erano una potente famiglia feudale del XII secolo
      da sempre in lotta con i feudi vicini, il suo castello era proprio dove oggi c'è la località di Gragna, vicino Ponteccio (Sillano). Nonostante le liti e le guerre continue con le consorterie vicine i nemici per eccellenza dei conti di Gragna erano i nobili di Dalli. Tra i conti di Gragna e i nobili di Dalli era una continua guerra, fra le più sanguinarie che la Garfagnana ricordi, si racconta di catapulte che lanciavano pietre da Gragna verso Dalli e si racconta di una battaglia epica; si narra che tanto fu il sangue versato che i sassi si tinsero di rosso, l'erba seccò e per anni e anni non crebbe più rigogliosa. Durante queste guerre naturalmente una delle prime cose da fare era proteggere il tesoro della casata e proprio sotto il castello il conte di Gragna aveva fatto costruire un cunicolo, dove si racconta che ancora oggi è sepolto il tesoro, protetto però da un mostruoso serpente.

      Il bandito Cesare   

      Il bandito Cesare era uno fra i tanti manigoldi che infestava la
      Garfagnana in epoca rinascimentale. Questo malfattore non è sicuramente fra i più famosi che la Garfagnana ricordi, ma su di lui la leggenda ha posato i suoi occhi. Anno di grazia 1541, il bandito Cesare era ormai accerchiato dalle guardie, le vie di fuga erano rimaste ben poche, non rimase altro che rifugiarsi nella casa del rettore della chiesa di Vergemoli, insieme ad altri suoi sei compagni. Qui rimase sotto assedio per alcuni giorni, fino al momento in cui le guardie decisero di passare ad un deciso contrattacco. La casa era ormai circondata dalle guardie, le urla dei soldati invitavano i banditi ad uscire, se non fossero usciti le guardie avrebbero appiccato il fuoco alla casa. I briganti non si fecero spaventare e così si affacciarono alle finestre, cominciò un violento scontro a fuoco. La situazione era diventata tragica, al comandante delle guardie non rimase che una soluzione, trattare con i briganti. Se il brigante Cesare si fosse fatto arrestare i suoi compagni sarebbero stati liberi. Così i compagni tradirono Cesare che fu consegnato alle guardie, ma anch'essi a loro volta furono traditi dalle guardie che ben presto le legarono come salami e le condussero nelle prigioni di Barga. Non soddisfatte le guardie misero a fuoco anche la casa del rettore. Ci sono delle sere che quando il vento soffia forte si odono ancora le grida disperate, le parolacce e le maledizioni dei poveri diavoli che furono portati in prigione ed ancora si passa malvolentieri dov'era quella casa, si dice che mani invisibili bussano ancora alle porte in cerca di briganti.

      "Cos’è la storia, dopo tutto? La storia sono fatti che finiscono col diventare leggenda; le leggende sono bugie che finiscono col diventare storia".
      (Jean Cocteau)

      Viewing all 339 articles
      Browse latest View live