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Storia e caratteristiche di un albero di Natale tutto garfagnino

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Con il tempo e i secoli che trascorrevano sono cambiate tante cose,
figuriamoci se in questi cambiamenti epocali non rientrava l'albero di Natale. Finto, vero, monocolore, futuristico, minimale, oramai le versioni di un albero natalizio sono molteplici. Nel suo allestimento ci si sono perfino cimentati rinomati artisti, spacciando queste creazioni come vere e proprie opere d'arte. Non parliamo poi dei suoi addobbi, siamo passati dalle caramelle colorate, alle palline di ogni foggia e tipo, per arrivare a futuristiche installazioni a led. Insomma, volendo ce nè per tutti i gusti, c'è addirittura chi lo addobba già a fine novembre, impaziente di assaggiare il clima natalizio, non manca nemmeno chi lo tiene in soggiorno fino a primavera, aspettando che possa miracolosamente "spacchettarsi" da solo. Fattostà, bando a quello che ognuno pensi sul suo uso e sul suo addobbo, l'albero di Natale rimane una vera e propria tradizione e con la sua storia e la sua simbologia è diventato parte integrante della nostra cultura. Naturalmente prima di arrivare in Garfagnana l'albero di Natale ne ha fatta di strada, tant'è che le sue radici affondano nella notte dei tempi in culture puramente pagane e precisamente furono i celti i primi che attribuirono un significato profondo a quell'abete. I druidi, gli antichi sacerdoti di quelle
popolazioni, lo consideravano un simbolo di lunga vita, proprio perchè era una pianta sempreverde, ed era con l'avvicinarsi dell'inverno che questo albero veniva addobbato con nastri, fiaccole e animaletti votivi, il tutto per propiziarsi il favore degli spiriti. Non solo i celti però, anche altre popolazioni del nord Europa si appropriarono di questo rituale, dato che furono i Vichinghi a seguire "il culto dell'abete rosso", pianta capace di esprimere poteri magici, infatti questi alberi venivano tagliati, portati a casa e decorati con frutti, ricordando in questo modo la fertilità che la prossima primavera avrebbe ridato a loro. Naturalmente l'avvento del Cristianesimo, così come fece per altre tradizioni pagane, decise che anche questa usanza andava "convertita" e fu così che l'uso di tale albero si affermò anche in molti altri luoghi. Bisognava però dargli un significato di fede e quindi era doveroso trovare un nesso (piuttosto) logico con la religione. Studia che ti ristudia il legame fu trovato nella scena biblica dell'Eden: nella notte in cui si celebra la nascita di Cristo, l'albero posto al centro del giardino dell'Eden diventava anche l'albero intorno al quale l'umanità ritroverà il perdono. Nei secoli a seguire la Chiesa, non proprio convintissima da tale motivazione, cercò di perfezionare il tiro e proprio in quell'abete, così come molto tempo prima i Celti, trovò la pianta principe per celebrare il Santo Natale, la sua forma
triangolare ricordava infatti la Santa Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. La spiegazione fu azzeccata e in men che non si dica
 la tradizione natalizia dell'albero decorato cominciò a prendere piede soprattutto nei Paesi dell'Europa del nord. Il primo albero natalizio di cui si ha menzione fu quello di Tallin, in Estonia, correva l'anno 1441. Di li l'usanza fu poi ripresa in Germania e precisamente a Brema, era il 1570. Insomma, questa consuetudine si sparse a macchia d'olio e in breve tempo arrivò in tutte le altre nazioni del mondo. E In Italia quando giunse? Bhè, in Italia eravamo molto più dediti al presepe, già nel 1223 esisteva questa usanza e fu San Francesco il primo ad introdurla. L'albero di Natale da noi era ritenuto quasi una sciccheria, una cosa che non ci apparteneva, lontana dai nostri modi di fare e pensare. La situazione cambiò nel 1898 quando la Regina Margherita di Savoia di ritorno da
La Regina Margherita di Savoia
alcuni viaggi fatti nelle prestigiose corti europee rimase stupita dalla visione di questi bellissimi alberi natalizi. Fattostà che tanto fu il suo stupore che decise di allestirne uno negli splendidi saloni del Quirinale. Il risultato fu sbalorditivo, si narra che le palline erano di vetro soffiato e i nastri che lo contornavano scintillavano di seta bianca. Insomma, la novità proposta dall'amata regina in men che non si dica fu apprezzata e copiata da tutte le famiglie italiane, trasformando ben presto l'abete in uno dei simboli del Natale italiano. Anche in Garfagnana ci si adeguò a quella che allora era una moda imperante e con i mezzi (pochi)che avevamo a disposizione, ognuno nella propria casetta cercò di allestire il proprio alberello come meglio poteva. A proposito di alberello, bisogna dire che in origine i nostri avi garfagnini non usavano il classico abete per il proprio albero natalizio, al tempo di abeti in Garfagnana ce n'erano ben pochi, dato che tale pianta non è autoctona. Si pensò così di ripiegare su quello che di più simile
la nostra montagna offriva e il ginepro (in dialetto zinepro) era quello che più si avvicinava. Fu così che in Garfagnana prese 
usanza di fare l'albero di Natale con il Ginepro. Naturalmente la tradizione garfagnina fece leggenda di questo uso e la favola ci racconta che quando San Giuseppe e la Madonna scapparono per andare in Egitto e il perfido Erode dava la caccia a tutti i bambini, fu proprio lo zinepro che salvò Gesù, comportandosi meglio delle altre piante. Era una notte buia e tempestosa, pioveva a più non posso, e dopo la pioggia anche la neve. Il povero San Giuseppe non sapeva come fare a riparare dal maltempo se stesso e Maria, non c'era l'ombra di una capanna, nemmanco di un metato, di fronte a se aveva solamente selve. Videro allora una ginestra e gli chiesero riparo, la ginestra stizzita le mandò via. Gambe in spalla allora, finchè non videro una bella scopa (n.d.r: un'erica), alta e frondosa, all'ennesima pietosa richiesta di riparo la scopa ebbe a dire:- Surtitimi di torno, io nun ne vo' sapè di voialtri. E poi se per disgrazia passa Erode e vi trova qui sotto mi brugia anco me. Surtitimi di torno v'ho ditto!- Intanto continuava a nevicare copiosamente e ai due poveri sposi non rimaneva altro che cercare un albero benevolo. La stanchezza però oramai le stava vincendo, fino a che non scorsero uno zinepro, anche a lui chiesero riparo:- Vinite, vinite pure- gli rispose e per ripararli meglio e perchè Erode non li trovasse protese i suoi aghi in avanti - Cusì se viene Erode si punge tutto-. Il malvagio tiranno passò, ma non le trovò. Il mattino dopo aveva smesso di nevicare e finalmente San Giuseppe e la Madonna
ripresero la strada per l'Egitto. Da quel giorno per i garfagnini lo zin
epro diventò il loro albero di Natale. Per quanto riguardava le decorazioni si facevano con quello che la casa offriva, niente palline colorate naturalmente, costavano molto e da noi erano quasi introvabili. Infatti, buona parte degli ornamenti erano tutti commestibili: frutta secca o frutta colorata come arance e mandarini, i biscotti della mamma non mancavano, così come non mancava la creatività e la fantasia nei bambini del tempo che fu: -Arrivava la vigilia ed era tradizione in casa mia fare l'albero proprio quel giorno. L'albero veniva fatto di zinebro, mia madre mi aiutava a metteva sul tavolo fichi secchi, castagne secche, noci, qualche arancio e qualche mandarino. Io mi procuravo dei pezzetti di carta  di vari colori o anche di carta argentata per incartare le castagne e le noci che avrebbero fatto da palline, poi qualche fiocco di cotone sembrava neve, la stella veniva fatta di cartone poi la coloravo di giallo con la matita e l'albero era fatto. Era bello il mio albero! A me sembrava così! Veniva messo alla finestra in cucina, la finestra dava sull'aia ,io mi sentivo
felice e passavo molto tempo ad ammirarlo".
Così la signora Iva di Gallicano ricordava il suo albero di Natale del 1948. Reminiscenze e memorie di tempi lontani, quando il Natale sapeva di comunità, di calore umano. Quando ancora tutto era legato alle piccole cose, quando eravamo più poveri di beni materiali ma più ricchi nell'anima.

Bibliografia

  • "Stasera venite a vejo Terè" Le veglie della Garfagnana. Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria

  • "La Pania" dicembre 1990 "Il zinebro" professor Gastone Venturelli
  • Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" Paolo Fantozzi. Edizioni le lettere

  • Quelli che erano i nomi di battesimo più diffusi in Garfagnana...

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    Cari futuri genitori, dare il nome al nascituro che fra poco tempo
    allieterà (più o meno...) le vostre prossime giornate non è cosa da poco. D'altra parte un nome attribuito ad un pargoletto non rivela nulla delle sue caratteristiche personali e d'altronde è indubbio che questo bambino si ritroverà un nome fra "capo e collo" che lui (ovviamente) non ha scelto. Invece, dall'altro lato, è altrettanto chiaro che questo nome dirà molto delle caratteristiche di chi lo sceglie, infatti, è fuori di dubbio che l'insieme di tutti questi nomi in una società possono essere considerati un indicatore sensibile delle tendenze, dei gusti e dei valori comuni di una determinata epoca storica. Insomma, bene o male anche i nomi fanno parte della sfera della moda, del gusto del momento o dell'usanza corrente. Rimane il fatto, comunque sia, che esiste una classifica ben definita dei nomi di battesimo più diffusi in Italia ed è curioso vedere anche tale classifica riferita specificatamente alla nostra cara Garfagnana. Il lavoro fatto per arrivare a questo è stato a dir poco certosino e fa riferimento allo spazio di tempo che parte dal 1900 e arriva al 1999 e tutto ciò è stato tratto dagli archivi digitali dell' Istituto Nazionale di Statistica, meglio noto a tutti come I.S.T.A.T. Prima di arrivare al nocciolo della questione però e doveroso fare un viaggio nei regolamenti e nelle leggi che esistono sull'attribuzione di un nome.
    Si perchè non è che proprio proprio ad un bambino si può dare il nome che uno vuole... La scelta tuttavia è ben ampia, sono infatti 28.000 i nomi di persona documentati in Italia nel '900, in base ai dati del Ministero delle Finanze. La vastità di tale repertorio non lascia dubbio sull'ampio grado di libertà che possono avere i futuri padri e madri. Con tutto ciò però, è bene specificare che fino al 2000 è stato in vigore il divieto, introdotto nel 1939, di: "imporre un cognome come nome, altresì ridicoli o vergognosi o contrari all'ordine pubblico, al buon costume o al sentimento nazionale o religioso, o che sono indicazioni di località o in generale denominazioni geografiche e, se si tratta di un bambino avente la cittadinanza italiana, anche nomi stranieri". Naturalmente è inutile affermare che nel corso del secolo scorso non sono mai stati rispettati pienamente questi vincoli e visto che queste norme venivano pienamente disattese i legislatori hanno fatto buon viso a cattivo gioco e una revisione introdotta dal D.P.R 396 del 3 novembre 2000 non ha fatto altro che prendere atto di una situazione esistente, facendo cadere indicazioni divenute anacronistiche per una società democratica e multietnica. Unico limite alla fantasia dei genitori è rimasto il divieto di attribuire un cognome come nome, nonchè nomi ridicoli o vergognosi, una forma di tutela della persona che ci piacerebbe pensare di non dover delegare alla legge. Il secolo preso in visione in questo caso per quando riguarda la Valle del Serchio intera riflette un periodo storico particolare, perchè in questo arco di tempo in Italia la società ha avuto cambiamenti profondi: due guerre, conflitti politici e sociali, ma non solo, anche la circolazione delle persone e delle idee ha inciso profondamente a livello onomastico. Difatti se è vero come è vero che i nomi sono legati alle tendenze del momento vediamo che anche in Garfagnana negli anni '80 ci fu un proliferare del nome Pamela,
    Pamela...di "Dallas"
    probabilmente questo era legato ad una delle prime serie T.V: "Dallas". La serie ebbe un successo clamoroso e "Pamela" era una delle protagoniste di questo telefilm. Non crediamo però che questa moda di attribuire nomi di personaggi della televisione e dello spettacolo 
    sia una tendenza attuale, anche nei primi anni del 1900 il nome "Cabiria" fu dato grazie ad una pellicola cinematografica del 1914, uno degli sceneggiatori di questo film, che fu uno dei primi kolossal, era nientepopodimeno che Gabriele D'Annunzio e Cabiria (in Garfagnana c'erano otto bambine che portavano questo nome) era appunto la protagonista di questa opera. Questa voga continuò nei decenni a venire e negli anni '40 anche dalle nostre parti fu il momento di venire alla luce di alcune bambine di nome "Deanna". Deanna Durbin era infatti un'attrice famosissima, vincitrice di un premio Oscar e acerrima rivale di Judy Garland. Ascese alle cronache nazionali poichè si racconta che nel 1941 il dittatore italiano Benito Mussolini scrisse una lettera aperta sul giornale "Il Popolo d'Italia" dove invitava l'attrice ad adoperarsi per convincere il presidente statunitense Franklin Delano
    Deanna Durbin
    Roosvelt
     a non far coinvolgere la sua nazione nella seconda guerra mondiale, l'invito non fu mai raccolto... A proposito di Mussolini, anche in Garfagnana non potevano mancare i nomi legati a quell'ormai lontano ventennio... Naturalmente il nome Benito vide il picco massimo proprio in quel periodo e in Garfagnana di Benito ce ne erano molti... ma non moltissimi come si potrebbe credere. L'era fascista portò (anche) in dote altri nomi legati alle italiche imprese. Adua infatti prima di essere un nome, era, ed è una città dell'attuale Etiopia. La guerra in questa nazione africana fu intrapresa (fra i vari motivi) dall'Italia fascista proprio per vendicare una sonora sconfitta avvenuta in questa località nel
    La battaglia di Adua
    conflitto d'Abissinia del 1895. Sempre su questo leitmotiv non ci possiamo dimenticare nemmeno di Derna. Nella nostra valle erano presenti 27 ragazze che portavano il nome di questa città libica, divenuta provincia italiana nel 1939. Vabbè, poi i nomi Vittorio, Vittoria e Italia saranno quelli che in quegli anni andranno per la maggiore. Sempre ed a proposito di politica è giusto dire che con l'attribuzione del nome non veniva omaggiato solamente tutto quello che era sotto l'egida del littorio, nei primi anni del 1900 anche in Garfagnana nella più alta spinta patriottica si volle dare onore al proprio figlio chiamandolo con il nome dei regnanti di Casa Savoia, ossia Umberto, il re e Margherita, la regina. Altro caso singolare e a dir poco curioso fa riferimento nel dare il nome ai
    Il re Umberto I
    propri figli in base al numero ordinale di nascita. Se per caso il bambino era il primogenito (con uno sforzo di fantasia enorme) il piccolo poteva essere chiamato Primo, Quinto se era nato per quinto, Settimo se era il numero sette di una larga figliolanza. Questo andazzo nelle famiglie contadine garfagnine era piuttosto in uso. Molto in uso erano anche tutti quei nomi portati in eredità, non mancava che il piccoletto portasse il nome dei nonni o dei bisnonni che i genitori davano a loro in memoria o in ossequio al proprio genitore. In alcuni di questi casi andava bene e in altri casi ancora si ereditava un nome che addirittura era già passato di moda: Alvise, Alceste, Clemente, tutti nomi (presenti anche da noi)e che erano in auge nel 1800. Logicamente fra tutte queste categorie di nomi in Garfagnana c'è quella che fa la parte del leone ed è proprio quella numerosa fascia di nomi che rientra negli "agionimi". La forte tradizione cattolica della valle ha fatto si che nel corso del secolo sotto esame una larghissima fetta di questi nomi provenisse dal nome proprio di un santo: Giovanni, Giuseppe, Maria, Lucia, e chi più ne ha più ne metta. Da un attenta analisi vediamo che questi nomi per così dire "devozionali" nella Valle hanno avuto il suo apice nel decennio che va dal 1950 al 1959, probabilmente perchè il 1950 fu un anno particolare per tutti i cattolici, dato che si celebrò a Roma il cosiddetto Giubileo di Papa Pio XII, l'Anno Santo fu convocato dopo le miserie della seconda guerra mondiale. Il medesimo anno fu 
    anche l'anno in cui il Papa
    proclamò il dogma dell'Assunzione di Maria, secondo il quale la Madonna, alla sua morte, è stata trasferita in cielo nell'anima e nel corpo e
     sempre nell'occasione di quell' Anno Santo il Santo Padre diede l'annuncio del ritrovamento della tomba di San Pietro. Insomma il fervore religioso di quegli anni vide un proliferare di nomi strettamente legati ai santi o anche a nomi d'ispirazione biblica: Luca, Matteo, Simone, Davide. Ad ogni modo vediamo nello specifico la classifica "garfagnina" dei nomi di battesimo più diffusi. Di sorprese non ce nè e tutto rimane nell'alveo della classicità più assoluta. Al primo posto nella graduatoria maschile c'è Giuseppe, al secondo c'è Giovanni, al terzo Antonio, seguono Mario, Luigi e Francesco. Tra le donne Maria ed Anna sono al primo e secondo posto, poi nell'ordine Giuseppina, Angela, Giovanna, Teresa e Lucia. Quello che possiamo aggiungere è che tutti questi nomi sono condannati a sparire, tant'è che negli ultimi trenta, quaranta anni questi nomi sono quasi del tutto scomparsi e la tendenza ha virato su altri nomi ancora. Infatti fra le femminucce spiccano i nomi Giulia, Martina e Sofia e fra i maschietti primeggiano Lorenzo, Andrea, Matteo e Francesco. Consideriamo ancora il non marginale fatto che in questa classifica, abbiamo nomi come Kevin, Thomas, Alex e Denis, fatto praticamente inesistente fino alle fine degli anni '70 del 1900. Peraltro, segno evidente di una società che si sta dirigendo verso la multietnicità, notiamo la presenza di nomi come Kamal, Youssef, Fatima e Miriam o nomi tipicamente dell'Europa dell'est come Gheorge, Constantin, Ana e Iona. Fattostà, che anche
    un nome può anche essere non per sempre...Ad onor del vero le procedure per il suo cambio sono tutt'altro che semplici. Innanzitutto serve il via libera dal Ministero dell'Interno, dopodichè bisogna rivolgersi alla Prefettura e tale domanda verrà approvata solo se il nome è ridicolo, vergognoso o oggetto di discriminazione... In alternativa esistono i soprannomi...

    Le inaspettate origini del Vin Brulè...

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    Talvolta può succedere di credere che alcune proprie tradizioni,
    ormai in uso e nella consuetudine da tempo immemore siano originarie del luogo e della regione in cui si vive, non sapendo magari che in altri lidi la stessa medesima usanza è li che è nata e che magari è molto più diffusa di quanto si possa ritenere. Questo vale per qualsiasi tradizione, ma questa realtà capita con frequenza maggiore se applicata nei piatti, nei manicaretti e nelle bevande di cui certe volte ci fregiamo del titolo di primogenitura. Tutto quello che riguarda la sfera della cucina e dei piatti tradizionali è molto soggetta a questa malfatta abitudine, scatenando la corsa di storici ed esperti del settore nello scovare documenti e manoscritti dove si attesti che lì in quel posto quella determinata ricetta si faceva prima che in ogni altro dove. Quello che è sicuro che una data su un foglio, pur antico che sia, non certifica affatto che in altri luoghi quel piatto o quella ricetta prima non fosse mai stata fatta. Figurarsi poi se in una terra di accesi campanilismi come la Garfagnana questo non accade... Senza scendere nel particolare (per l'amor di Dio !!!) questo principio si può applicare su squisitezze nostrane come il biroldo, la pasimata, i befanini, ogni paese ed ogni borgo garfagnino non esista infatti a rivendicarne l'appartenenza. Comunque sia per chiarire ancor meglio il concetto e per fare qualche esempio pratico che non tiri in ballo guerre di campanile possiamo portare a modello qualche prelibatezza nazionale. Gli spaghetti senza dubbio sono uno dei nostri piatti portabandiera, conditi con molteplici sughi, preparati in decine e decine di modi, eppure non sono italiani... Infatti per alcuni storici fu Marco Polo ad
    introdurre gli spaghetti in Italia nel 1295, al suo ritorno dalla Cina e a quanto pare s
    embra certo che il più antico piatto di spaghetti giunto fino a noi fu rinvenuto in una zona nel nord-ovest della Cina stessa e risalirebbe a circa 40.000 anni fa, ma sono spaghetti di miglio, infatti gli spaghetti cinesi, sebbene antichissimi, erano soprattutto a base di soia, il frumento non era  conosciuto. Che dire poi del pomodoro? Condimento principe dei suddetti spaghetti? Le regioni del sud Italia ne producono fra i migliori al mondo. Ciononostante, come ben si sa, il pomodoro è originario del Sudamerica occidentale. Portato nell’America centrale, fu messo a coltivazione dai Maya, i quali svilupparono il frutto nella forma più grande che conosciamo oggi. Fu qui che Hernán Cortés lo vide durante l’occupazione della regione, fra il 1519 ed il 1521. Dal Messico i semi giunsero in Spagna al seguito di coloni e missionari. L’Italia fu il primo paese europeo, dopo la Spagna, a conoscere il pomodoro, grazie agli stretti rapporti esistenti tra i Borbone e le famiglie regnanti dell’epoca e ai domini spagnoli su territorio italiano. Come questi casi narrati ne esistono molti altri e un caso simile riguarda una bevanda che alcuni credono garfagnina e che proprio in questo freddo inverno trova il suo maggior consumo... Signore e Signori ecco a voi le inaspettate origini del Vin Brulè. Innanzitutto cominciamo con il dire che se anche il Vin Brulè non ha niente a che fare con la Garfagnana, non
    per questo non lo possiamo considerare a buon titolo anche una nostra tipica bevanda e pertanto merita come tutte le altre prelibatezze nostrane il suo degno articolo in questo blog. Fatta la doverosa premessa possiamo sicuramente affermare che il "brulè"è la bevanda tipica delle zone montane italiane e di tutta l'Europa continentale. Proprio per questa sua internazionalità, la sua è una storia che fa il giro del mondo. Ma partiamo dall'inizio. Le sue prime notizie scritte si hanno nell'antica Roma, è nel "De re coquinaria" che si ha per la prima volta nero su bianco la sua ricetta che risale nientepopodimeno che tra il I e il IV secolo a.C. Il vin brulè dagli antichi romani era chiamato il "conditum paradoxum" e Marco Gavio Apicio (lo scrittore del ricettario) ci dice che: "
    siano versati in un vaso di bronzo un quarto di vino e due cucchiai di miele, in modo che, mentre il miele bolle, il vino diminuisca di volume. Scaldalo a fuoco lento di legna secca, gira il tutto con un bastoncino finché prenderà il bollore. Quando comincerà a salire trattienilo versando altro vino. Quando lo avrai tolto dal fuoco, sarà diminuito di volume. Una volta freddo fallo scaldare di
    nuovo. Ripeti per altre due volte. Il giorno dopo lo schiumerai. Aggiungi allora 120 grammi di pepe, poco pistacchio, cannella e zafferano, cinque ossi arrostiti di datteri. Trita cinque datteri che dal giorno precedente avrai posti nel vino per farli ammorbidire. Fatto ciò versa due litri circa il vino giovane. La cottura sarà perfetta quando avrai consumato circa un chilo e mezzo di carbone”.
    Insomma, a quanto pare la preparazione era un po' più complicata di come lo facciamo oggi e sicuramente con ingredienti diversi. La questione degli ingredienti in effetti è molto variabile e giustamente i prodotti da inserire nel vino differiscono da quello che la natura offre a un determinato territorio, infatti c'è chi mette pezzetti di mela, lo zenzero o il cardamomo. Fattostà che più i secoli andavano avanti e più la ricetta del vin brulè, così oggi come la conosciamo trova una sua versione simile alla nostra nel lontano medioevo. Come sempre i divulgatori "moderni" di queste preparazioni saranno i frati, sapienti conoscitori di spezie, e fu proprio durante questo periodo che questa bevanda raggiunse anche la Garfagnana. La valle è sempre stato terra di chiese, monasteri ed eremi e in quel remoto tempo le nostre strade pullulavano di umili fraticelli, che sulle origini del "vino conditum" avevano tutt'altra teoria e ci raccontavano una storia ben più diversa  da quella romana. Una storia che risalirebbe ai tempi del medico greco Ippocrate, ipotesi fra l'altro avvallata dal nome scelto per indicare il vin brulè di quell'epoca: "ipocras", ossia "manica d'Ippocrate". I frati scelsero di chiamarla così perchè in questo
    modo vollero sottolineare le caratteristiche medicamentose della bevanda, efficace, così dicevano, per combattere le malattie stagionali: raffreddori e bronchiti. In sostanza possiamo però affermare che fino a quei tempi questa bevanda non conobbe una grossa diffusione, la sua vera "globalizzazione", a quanto pare, la dobbiamo agli svedesi che associarono la bevanda al periodo natalizio. Fu un "merchandaising" ante litteram se il vin brulè, o meglio "il glogg" (così che si chiama in Svezia) prese la via del successo, a fine 1800 furono infatti i vinattieri e gli speziali di quei luoghi che per aumentare un po' gli introiti si misero a dipingere delle bottiglie di "glogg" e le iniziarono a vendere ai mercatini natalizi. Fu così, in questo modo, che la fama di questa bevanda prese piede in tutti i luoghi di montagna di tutta Europa. In Germania così  diventò "il gluwhein", in Francia "il vin chaud", in Inghileterra e Stati Uniti "il mulled wine" e... in Italia perchè lo chiamiamo "Vin Brulè". "Brulè", letteralmente significa "bruciato". La parola deriva dal dialetto franco-valdostano, perciò tradotto in parole povere indica un "vino bruciato". La ricetta naturalmente non sto manco a dirvela, sicuramente la sapete meglio di me. Dosi, spezie e quale miglior vino usare, tutto dipende dai gusti che uno ha. Comunque sia niente è più
    profumato di un vin brulè: quel vino bollito nel pentolone con cannella, bucce d'arancia, chiodi di garofano, zucchero, inebriano l'aria dei nostri paesi dal giorno dell'Immacolata fino alla fine del Carnevale.

    Quando e come nacquero i mercati settimanali in Garfagnana. Storia curiosa e a dir poco singolare

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    Gallicano mercato anni'30
    "È domenica mattina si è svegliato già il mercato, c'è la vecchia che
    ha sul banco f
    oto di Papa Giovanni, lei sta qui da quarant'anni o forse più e i suoi occhi han visto re scannati, ricchi ed impiegati capelloni, ladri, artisti e figli di...". Queste sono le strofe dell'ormai famosa canzone di Claudio Baglioni "Porta Portese". Era il 1972 quando queste note portarono alla ribalta nazionale quello che era il più famoso mercato di Roma. La storia narra che questo mercato nacque intorno al 1945 come nuova "location" della borsa nera che precedentemente si teneva a Campo 'de Fiori. La gente che esponeva la propria merce a questo gran bazar a cielo aperto era fatta da ambulanti, venditori improvvisati e perfino da semplici privati e la canzone di Baglioni fotografò perfettamente l'anima di chi vendeva qui la sua mercanzia. La storia dei mercati settimanali però nasce da molto più lontano, a Roma la fiera di Porta Portese esiste dal 1945, ma le vicende dei mercati settimanali garfagnini hanno una storia ultrasecolare, che parte addirittura nel lontano medioevo. Si può sicuramente affermare che tutto sia nato dal mestiere dell'ambulante che già in epoca antica percorreva mulattiere e strade, accompagnato dal fedele animale da soma, i più attrezzati avevano anche "il baroccio" e altri ancora un carro trainato dai 
    muli. Figurarsi, con questi mezzi e con la forza delle proprie braccia questi commercianti "ante litteram" si spingevano fino a città lontanissime e di casa in casa per vendere o per procurarsi materie prime per creare i loro prodotti. Consideriamo poi che per lungo tempo questa figura fu di un'importanza sociale fondamentale, dato che l'ambulante fu l'unico a fornire beni e minuterie varie per gli abitanti dei molti paesini della montagna, ma non solo, egli fu l'unica fonte d'informazioni sul mondo, una sorta di telegiornale viaggiante. Poco alla volta, comunque sia, con lo sviluppo dei paesi e la relativa crescita di popolazione, dalle autorità locali furono individuati spazi appositi nei principali centri urbani per favorire l'incontro fra compratori e venditori in quello che in epoca medievale era definito "il libero commercio". Da quel momento il mercato settimanale assunse per la gente un nuovo momento di vita, il paese era diventato un cuore pulsante, le piazze e le vie del paese si animavano, era l'occasione per vestirsi a festa, per incontrare amici, si chiacchierava con chi non si vedeva da tempo, addirittura si allacciavano nuove conoscenze e si discuteva di affari, di politica e c'era chi portava perfino i propri risparmi per cercare di fare l'affare del momento. Tale giorno, era atteso con trepidazione,

    Castelnuovo mercato
    c'era anche chi veniva solamente per trascorrere una gradevole mattinata tra i banchi, immersi nei profumi delle spezie, di formaggi e salumi. Qui giungevano gli abitanti dei paeselli limitrofi, che arrivavano seguendo i tracciati di secolari mulattiere. Le donne che arrivavano a farvi le spese, oltre ai fagotti necessari, ne avevano sempre uno supplementare con dentro gli zoccoli buoni e poco prima di arrivare nella piazza principale sostituivano gli "scappini" (una sorta di scarpa rustica fatta in casa), che venivano nascosti in una siepe, li pronti per essere presi e calzati al ritorno. Nel "paesotto" si comprava tutto ciò che era necessario alla sopravvivenza delle piccole comunità: generi alimentari, attrezzi e utensili vari e pure cianfrusaglie per le vezzose del paese. Insomma questo fu lo spirito che per secoli e secoli rimase inalterato e che animò i nostri mercati, fino a qualche anno fa, oggi questa magia è però terminata... Tuttavia, in Garfagnana, lo sviluppo dei mercati (anche come oggi li conosciamo) lo dobbiamo ad una strada... la Via Francigena. Per i pochi che non lo sanno la Via Francigena fu una delle più importanti strade di pellegrinaggio che conduceva a Roma alla tomba dell'apostolo Pietro, questo cammino era una "selva" di strade, viuzze e di sentieri spesso paralleli, confusi, uniti e scissi dallo scorrere del tempo che trovava il suo passaggio anche in Garfagnana e nei suoi "hospitali". Era proprio questo il periodo in cui l'Italia era percorsa da una moltitudine di pellegrini, soprattutto da quei pellegrini provenienti dalla terra dei Franchi
    La Francigena
    (da qui il nome alla via). Tutto questo traffico di persone e cose portò i garfagnini ad ingegnarsi e a vendere i loro prodotti a questi forestieri, che a loro volta commerciavano anch'essi i prodotti provenienti dalle loro terre. Possiamo dire senza ombra di dubbio che gli affari andavano a gonfie vele, ma c'era pure qualcuno che non era affatto contento di questo andazzo, tant'è che si mise a protestare, cercando di far valere le proprie ragioni con chi di dovere. Difatti, coloro che abitavano più a valle si lamentavano di non poter usufruire di questi floridi commerci, poichè questi pellegrini scendendo dal nord si fermavano a smerciare o a comprare nei primi paesi garfagnini che incontravano sul loro cammino, escludendo di fatto una buona fetta di Garfagnana dal lucroso "businness". Senza ombra di dubbio tutto ciò necessitava di regole ferree ed eque, e così fu. Con buona pace di tutti le Signorie locali si accordarono e decisero di regolamentare questi mercati, stabilendo che i principali paesi della valle un giorno alla settimana, alternativamente potessero godere di scambi commerciali con i pellegrini. La soluzione trovò il consenso di tutti ma naturalmente bisognava pagare dazio e com'è nella più classica tradizione
     italica, ogni paese interessato da queste faccende doveva versare una tassa alle autorità locali. La "vil gabella" scomparì, quando in Garfagnana giunsero gli Estensi, che da buoni e saggi nuovi "padroni" vollero portare a sè i consensi della popolazione, recando ad essa forti vantaggi economici. Pertanto gli Este per un 
    Niccolò III
    determinato tempo esentarono le comunità della Garfagnana dal pagamento di ogni sorta di tassazione personale e reale, dai dazi interni ed esterni, dalle collette e dalle imposizioni sul sale. I nuovi sudditi estensi ottennero inoltre la libertà di commerciare con Lucca e la Toscana e di recarsi alle scuole di Pisa anziché a quelle di Ferrara; la possibilità di muoversi armati in tutti i domini Estensi e... udite udite, il beneficio di tenere fiere e mercati settimanali esenti da tributi. Era il 1439 quando Niccolò III Marchese di Modena decise tutto questo, disciplinando ulteriormente  questa attività, dando licenza a chiunque ne facesse richiesta di vendere la propria merce, i prodotti del campo, i propri manufatti, concedendo la vendita di attrezzi e di fare piccole riparazioni, confermò e dispose che tutti quei paesi che erano sul percorso della "Santa Strada" (la Francigena) un giorno a settimana "vicendevolmente" godessero degli scambi commerciali, e
    cco allora che il giovedì sarebbe stato il turno di Castelnuovo, il mercoledì quello di Gallicano, il martedì a Piazza al Serchio e così via... Ma non solo, si decise infine di riunire a Castelnuovo, una volta l'anno, nella prima settimana di settembre tutti i migliori commercianti di bestiame e di prodotti agricoli provenienti da tutta la Garfagnana e dalle zone limitrofe, qui si vendevano o si scambiavano prodotti, si discuteva di nuove merci o di semine. Era nata così, in questo modo, la prima fiera garfagnina. Man mano che gli anni passavano la fiera divenne sempre più grande, diventando dopo Modena e Ferrara, l'esposizione più importante del Ducato. Anche le altre comunità garfagnine non soggette al potere degli Estensi come Gallicano (che era sotto la Repubblica di Lucca)organizzarono i propri mercati e sull'onda modenese indissero nuove fiere che potevano durare anche una settimana intera: "Si fa noto che a ciascheduna persona, qualmente in esecuzione della Special Grazia accordata dall'Eccellentissimo consiglio a questa Comunità, si darà principio martedì prossimo al nostro mercato nella piazza fuori da questo Castello, e così continuerà in avvenire ogni settimana, e in caso che il detto giorno venisse impedito da festa si anticiperà il lunedì. Vi
    sarà poi una volta l'anno la Fiera alla quale si darà principio il 24 agosto e durerà tutto il restante di detto mese, per il qual tempo sarà lecito ad ognuno di vendere liberamente pane, vino e cibi cotti come sarebbe il biroldo".
    La delibera gallicanese era del 1769 e introduceva una novità per i mercati nostrali, la vendita del cibo cotto. Ovviamente le persone che frequentavano questi mercati settimanali garfagnini erano ben diverse da quelle che oggi siamo abituati a vedere, gli ambulanti vendevano merce diversa da quella che oggi vediamo sulla bancarelle, ad esempio il sale. A tal proposito non mancò chi di questo ingrediente ne faceva contrabbando vendendolo sul "mercato nero". Questo preziosissimo bene era infatti soggetto a tasse onerose da parte dello Stato e un giorno di mercato (era
     il 20 maggio 1720) in quel di Castelnuovo, tal Giacomo Giacomelli, contrabbandiere d'eccellenza, nonchè novello Robin Hood si presentò nella piazza principale della cittadina con i suoi muli carichi, vendendo pubblicamente sale "con aperto scandalo universale", la gente nonostante la meraviglia accorse in fretta e furia e in men che non si dica il sale finì e il Giacomelli se ne andò tranquillamente come era venuto. Naturalmente il malvivente non la passò liscia, l'onta subita dal governo estense proprio sotto le finestre di "casa" fu troppo grossa e fu così che subì una condanna in contumacia al bando perpetuo. Non solo contrabbandieri, ma fra i protagonisti dei mercati di casa nostra esisteva un altro "fanfarone" da cui era bene star lontani: il ciarlatano. Questi malfattori erano veramente instancabili, percorrevano tutta l'Italia, dalle Alpi alla Sicilia, scaltri, furbi, sapevano stuzzicare la curiosità delle persone con mezzi sagaci che stimolavano una morbosa curiosità nel popolo. Appena arrivavano nei mercati garfagnini sapevano rubare subito la scena, montavano in men che non si dica il loro palchetto e subito vi salivano sopra. Alla fine dei conti il successo era garantito, tant'è, sempre a
    Castelnuovo, gli fu riservato lo spazio migliore, quello dover poter accogliere più gente.
     Fra i "dotti" impostori che bazzicavano i mercati della Garfagnana si ha notizie di due infingardi, non sappiamo se le generalità fornite siano vere, ne dubito, ma dai registri delle autorità si ha notizia del dottor Salvadori, medico tirolese, vendeva "vino amaro", approvato nientedimeno dal sigillo del medico di corte del Regno di Napoli, un vero toccasana. Ma il medicamento più richiesto, a quanto pare, era un olio benefico, detto "olio di Sasso", un prodotto che veniva direttamente dalle terre del Ducato di Modena, tale portento scaturiva da alcune sorgenti del Monte Giglio, nei pressi di Sassuolo. Sicuramente questa "medicina" non mancava al più famoso di tutti i ciarlatani che in Garfagnana andava di mercato in mercato: Luigi Gambarotta di Pistoia, possessore inoltre del vero ed unico salutifero "balsamo antiermintico". Per fortuna c'era anche chi svolgeva il proprio commercio in maniera onesta e fra la svariata merce, questa persona offriva servizi che oggi sarebbero chiamati "alla persona". Lo scrivano di questa funzione ne era l'interprete principale visto che, fino agli inizi del 1900 la Garfagnana aveva un livello di analfabetismo al di sopra della media nazionale, perdipiù la necessità di scrivere lettere
    aumentò di pari passo con l'incrementarsi dell'emigrazione. Lo scrivano lo si poteva incontrare 
     con cadenza settimanale nei principali paesi garfagnini nei giorni di mercato, aveva il suo banchino solitamente nella piazza principale, pronto a scrivere per l'innamorato di turno appassionate lettere d'amore, oppure a leggere anche le notizie inviate per lettera del caro parente emigrato nelle lontane Americhe, non gli mancava nemmeno di redigere anche missive di notevole importanza. Dopotutto la varia umanità che circolava nei mercati paesani, lasciò il suo segno anche nei detti popolari: "al mercato si conoscono gli uomini meglio che in chiesa". Quegli stessi detti popolari che hanno la forza di immortalare per sempre la vera essenza della saggezza.


    Bibliografia

    • "Usanza, credenza, feste, riti e folclore in Garfagnana" di Lorenza Rossi, Banca dell'identità e della memoria, anno 2004
    • "Stasera venite a vejo Terè" . Gruppo vegliatori di Gallicano. Banca dell'identità e della memoria. "La strada" testimonianza di Maria Valentini
    • "Ciarlatani nei secoli" di Ugo Gabriele Becciani, Pistoia 2005
    • "Corriere della Garfagnana" n°4 aprile 2015, "I nuovi articoli sul dazio" di Guido Rossi
    • Antichi mestieri della montagna italiana (Leonardo Ansimoni 1980 stampato in proprio)
    • "Il cammino del Volto Santo. Dalla Lunigiana, attraverso la Garfagnana, fino a Lucca"

    Le visite di un Presidente della Repubblica nella Valle del Serchio

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    Ci stavo pensando proprio in questi giorni... Da poco è stato rieletto
    Sergio Mattarella come Presidente della Repubblica e fra me e me stavo ragionando sul fatto se la Garfagnana e la Valle del Serchio avessero mai ricevuto una visita ufficiale da parte di un Capo dello Stato italiano. Quello che bisogna dire è che la nostra valle non ha mai avuto un grosso "appeal" istituzionale... Nel corso degli ultimi decenni poche volte le alte cariche dello Stato ci hanno fatto visita, la cosa non è che sia di fondamentale importanze per le nostre umili vite, però, tanto per analizzare questa circostanza possiamo dire che i motivi in cui si può ricercare il perchè di ciò sono svariati e sicuramente non mi metterò qui ad elencarli per non scivolare in quel terreno pericoloso ed infido che è la politica. Il mio lettore prenda quindi questa constatazione come un semplice dato di fatto. Comunque sia, in passato le visite importanti non sono mancate. Il 15 maggio 1930 ad esempio arrivò "lui": "Il 15 maggio 1930, il Duce si recò a visitare la tomba di Pascoli. In tutte le borgate, in tutti i paesi, attraversati dal Duce, si svolsero scene d'entusiasmo. Tutta la nostra popolazione ne attese il passaggio. Appena comparve l'automobile, la folla scattò in un'ovazione vibrante ed entusiastica al grido di: Viva il Duce!".
    Mussolini a Fornaci alla SMI
    (foto archivio Istituto Luce)
    Questi erano i resoconti dei giornali dell'epoca, l'enfasi mediatica trionfalistica ed esuberante di quegli anni sottolineava fra l'altro l'importanza di quella visita che vide il suo motivo principale nella Metallurgica (la S.M.I) di Fornaci di Barga. Infatti era il tempo in cui l'Italia fascista cercava "un posto al sole", le maggiori potenze europee vantavano colonie in ogni dove, e l'Italia ancora no, era arrivato il momento di prepararsi ad una guerra coloniale e in quest'ottica un'ispezione alla fabbrica di munizioni di Fornaci cadde a pennello. Passeranno poi altri anni e il 17 giugno 1967 un Presidente del Consiglio della Repubblica fu accolto per la prima volta in Garfagnana, era Aldo Moro. 
    Era un afosa giornata di un sabato mattina, Aldo Moro venne a Castelnuovo (e nella stessa giornata anche a Gallicano) per incontrare le amministrazioni comunali della valle, fu ricevuto dal sindaco Loris Biagioni, dall'onorevole lucchese Maria Eletta Martini e dall' onorevole Togni. Il palco d'onore fu allestito sul terrazzo della Rocca Ariostesca, proprio di fronte a Piazza Umberto I e in via
    Aldo Moro a Castelnuovo
    Fulvio Testi campeggiava lo striscione "W il presidente del consiglio"... Oggi di striscioni così non le leggereste più... E a dire il vero non mancò nemmeno la vista (anzi le visite) di un Presidente della Repubblica. La storia di questo Presidente nasce a circa 70 chilometri dalla Garfagnana. Giovanni Gronchi nacque infatti a Pontedera (Pisa) il 10 settembre 1887, le sue origini sicuramente non erano altolocate, il babbo faceva il ragioniere di un panificio e arrotondava lo stipendio commerciando salumi. Il 29 aprile 1955 diventò il terzo Presidente della Repubblica, il primo democristiano e fu votato al quarto scrutinio con 658 voti su 843 (78,1%). Da sottolineare, in questo senso, un fatto curioso. Quando ci furono queste elezioni presidenziali, Gronchi era il Presidente della Camera e il compito di leggere i nomi sulla scheda elettorale era suo. Lesse impassibilmente il suo nome per 658 volte senza battere ciglio, dopo aver letto l'ultima scheda abbandonò l'aula e toccò al vicepresidente della Camera Leone (anch'esso futuro Capo dello Stato) proclamare il risultato. Ad ogni modo rimase uno dei
     pochi presidenti che godrà di una certa fama nella cultura di massa. Infatti fu nel 1959 che Gronchi concesse la grazia al pluriomicida ed ergastolano Sante
    Sante Pollastri
    Pollastri, colui che negli anni'20 del 1900 era considerato il nemico pubblico n°1 in Italia. La sua figura rimase legata a doppio filo con la canzone di De Gregori "il bandito e il campione" . Il campione era il ciclista Costante Girardengo. Entrambi erano nati a Novi Ligure ed erano amici prima che le loro strade si dividessero per destini opposti e a quanto pare si frequentarono anche quando il Pollastri era in latitanza. Si racconta che fu proprio 
    in Francia durante la corsa dei "sei giorni" che il bandito più ricercato d’Italia chiamò con un tipico fischio delle loro parti il suo vecchio amico. Dopo la gara i due si incontrano e iniziano a parlare, in particolare modo Girardengo rimase scioccato dalle parole del suo amico Sante che gli rivelò tutte la malefatte compiute. Il campione al ritorno in Italia avvisò immediatamente la polizia. Pollastri fu arrestato in Francia nel 1927 dopo mesi di ricerche e al processo intervenne anche Girardengo. Il tutto si concluse con la condanna all'ergastolo, tuttavia ebbe la grazia dal presidente Gronchi, poiché durante la seconda guerra mondiale aveva sedato una rivolta contro le guardie carcerarie. Ma l'avvenimento che rese questo presidente per sempre indimenticabile nella memoria di tutti gli italiani è legata ad un francobollo. Durante un suo viaggio in Perù (era il primo presidente italiano a viaggiare in Sudamerica) fu per l'occasione emesso un francobollo, il cosiddetto “Gronchi rosa”, ritirato poco dopo l’emissione poiché 
    Gronchi rosa
    sulla mappa dell’America Latina riprodotta sull’immagine, presentava un errore nei confini del Paese andino. Il “Gronchi rosa” diventò, per questa sua particolarità, un oggetto di culto per gli appassionati di filatelia ed è tutt’ora il francobollo italiano più prezioso e più falsificato. La storia del Presidente Gronchi con la Garfagnana e la Valle del Serchio, invece, parte da molto più lontano dei fatti sopra citati, era infatti il 1919 quando subito dopo la Grande Guerra (dove il futuro presidente partecipò come ufficiale di fanteria) si presentò nelle elezioni politiche di quell'anno nella circoscrizione Pisa- Lucca- Livorno e Massa Carrara, la circoscrizione che comprendeva appunto anche la Garfagnana e la Valle del Serchio, ebbene anche grazie a questi voti fu eletto inaspettatamente alla Camera dei Deputati nelle liste del Partito Popolare Italiano che aveva fondato insieme a Don Luigi Sturzo. Ma il legame andrà oltre il mero interesse politico, nella nostra valle aveva amici come l'onorevole Loris Biagioni che con lui fu uno dei Padri Costituenti, ma non solo, l'amicizia con il barghigiano professor Angelo Duilio Arrighi risaliva già ai tempi dell'università e anche il conterraneo Monsignor Lino Lombardi, Proposto di Barga, lo conosceva piuttosto bene. Il legame con questa terra era difatti talmente stretto che subito dopo la seconda guerra mondiale, alla vigilia di quel fatidico 2 giugno 1946, Gronchi venne a Castelnuovo a fare uno dei primi comizi elettorali per le liste della Democrazia Cristiana. La Democrazia Cristiana vincerà a mani basse in Garfagnana e in tutta la valle, diventando anche grazie a lui un caposaldo della "balena bianca" in tutta la rossa Toscana. Un'altra occasione si presentò (a carriera politica già bene avviata) nel settembre 1949, da Presidente della Camera salirà in quel di Barga per assistere ad una 
    manifestazione pascoliana. Dopo qualche anno da questa ultima apparizione si arriverà a quel fatale 29 aprile 1955, quando scalzando "il rivale" Cesare Merzagora, Gronchi divenne il primo Presidente della Repubblica toscano (il secondo sarà Ciampi). La soddisfazione in Garfagnana fu tanta e una delegazione di sindaci di quella che era la sua vecchia circoscrizione andò a rendergli 
    Gronchi al Quirinale con i
    sindaci della Garfagnana
    (foto archivio Quirinale)
    omaggio. La comitiva era capeggiata dall'onorevole Loris Biagioni di Castelnuovo e fu ricevuta al Quirinale, la storica visita era esclusiva ed avvenne il 29 settembre 1955, appena sei mesi dopo la sua elezione. Con gli anni che passavano ci fu un successivo incontro
     legato ad grande evento, dopo sessantanove anni fu completata l'intera tratta ferroviaria Lucca- Aulla. Per veder terminata questa opera ci volle un arco di tempo che comprese due re, due guerre mondiali e due Presidenti della Repubblica... Il terzo Presidente venne infatti ad inaugurarla. La giornata di Gronchi quel 21 marzo 1959 cominciò alle otto e cinquanta del mattino nella stazione di Aulla, di li il treno presidenziale proseguì per Minucciano dove rese omaggio ai caduti sul lavoro morti nella costruzione della galleria del Lupacino. La corsa proseguì e trovò nuovamente sosta a Piazza al Serchio, di li il treno giunse poi a Castelnuovo. Il Presidente scese dal treno e salutato il sindaco e le autorità prese posto in auto e si diresse con tutto il corteo verso 
    Gronchi inaugurazione Lucca Aulla
    il nuovo Ospedale Santa Croce che inaugurò con solenne cerimonia. Ma le visite ufficiali non finirono qui. L'ultima fu il 6 aprile 1962, fra poco più di un mese sarebbe terminato il settennato di presidenza, ma per il 50° anno della morte di Giovanni Pascoli non mancò alle celebrazioni che si svolsero a Barga e a Castelvecchio. La giornata trascorse poi con il taglio del nastro del nuovo Istituto magistrale (intitolato proprio al poeta) e continuò con l'inaugurazione delle scuole medie di Fornaci. Insomma possiamo dire che il feeling che ci fu fra il Presidente Gronchi e la Valle non si è mai più ripetuto con nessun'altro uomo politico. Alla fine dei conti in sette anni di presidenza due furono le visite ufficiali, senza considerare quella che avvenne da
    presidente della Camera e le altre volte che vi giunse da "semplice" onorevole. Gronchi morì a Roma il 17 ottobre 1978, ma la notizia passò in secondo piano, in quanto i giornali e le televisioni dedicarono i loro servizi all'elezione di Karol Wojtyla quale nuovo Pontefice, avvenuta il giorno prima. Così un grande uomo moriva, ed altro grandissimo si apprestava a scrivere pagine di storia indelebili.


    Bibliografia

    • "Portale storico della Presidenza della Repubblica" archivio.quirinale.it
    • Studi del professor Umberto Sereni 

    Denunce e processi a tre streghe garfagnine. Erano gli anni della caccia alle streghe

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    Anno di Grazia 1424:"In quell'anno frate Bernardino(di Siena ch'era
    un buon frate) fece ardere tavolieri, canti, brevi, sorti, capelli  che fucavano le donne, et fu fatto un talamo di legname in Campituoglio, et tutte queste cose ce foro appiccate, et fu a 21 iunio. Et dopo fu arsa Finicella strega, a 8 del ditto mese di iulio, perchè essa diabolicamente occise de molte criature et affattucchiava di molte persone
    " . Erano gli anni tremendi della caccia alle streghe e in questo stralcio di cronaca, l'umanista Stefano Infessura ci racconta dell'importante ruolo che ebbe a Roma Frà Bernardino da Siena nell'accusare le donne che si occupavano di magia. Egli, nelle sue prediche le additava all'opinione pubblica, accendendo nei suoi ascoltatori lo sdegno e la mistica esaltazione contro queste "nemiche", non mancò di sguinzagliare le forze dell'ordine sulle loro tracce, ritenendole responsabili dei cattivi raccolti, di menomazioni o morti di neonati e di drammi individuali o collettivi. Come narra il suddetto resoconto dopo 15 giorni di estenuanti prediche alla popolazione, il frate arrivò perfino a bruciare in Campidoglio gli emblemi del lusso
    e della stregoneria, ordinando ai fedeli di recarsi a baciare una sua tavoletta con l'incisione dell'ideogramma di Cristo: IHS, che era, secondo lui, l'unico vero antidoto contro le pratiche magiche. Infiammato ed eccitato da queste sue parole il popolo cercò e trovò la sua vittima sacrificale e a farne le spese fu una povera ragazza di nome Finicella, finita sotto processo come strega e data al rogo come tale, in quello che un cronista del tempo definì "un autentico spettacolo". Dopo qualche tempo da questi abominevoli fattacci, Frà Bernardino da Siena, arrivò nella nostra valle dando un'ennesimo impulso alla terrificante caccia alle streghe. In effetti la Garfagnana non avrebbe avuto bisogno dell'intervento di San Bernardino (la chiesa lo farà santo otto anni dopo la sua morte...) dato che il Tribunale Inquisitore di competenza sarà uno dei più attivi e solerti di tutta Italia. La Santa Inquisizione di Modena aveva giurisdizione su tutta la Garfagnana e il suo archivio, insieme a quello di Venezia, Siena e Napoli conserva ancora la documentazione più cospicua che testimonia di fatto la grande attività di questo tribunale durante quell'ignobile periodo, difatti nel complesso del
    Convento di San Domenico sono conservati ancora oggi i fascicoli processuali di oltre seimila inquisiti in un arco di tempo che va dal 1329 al 1785. In questo importante archivio sono costuditi alcuni casi che riguardano povere donne garfagnine, accusate delle più fantasmagoriche nefandezze e per capire ancor meglio, semmai ce ne fosse bisogno, a quale livello giungeva l'ignoranza umana, ecco al mio lettore tre casi di denunce contro quelle che erano considerate delle vere e proprie streghe. Ma prima di narrarvi i tre casi mi è doverosa una premessa, necessaria per far comprendere dove nascevano simili accuse, capire a chi erano rivolte e come si svolgeva un processo per chi praticava stregoneria. Innanzitutto cominciamo con il dire che molte delle donne incolpate erano guaritrici che avevano la capacità di curare le malattie con l‘utilizzo medicinale di erbe e piante. Maldicenze e gelosie andavano a colpire quelle che erano donne sole, vedove, forestiere e che godevano di una certa libertà personale o che avevamo un particolare successo con gli uomini. Infatti, le donne nel medioevo erano considerate degli esseri caratterizzati da una innata debolezza, e per questo dovevano essere soggette al controllo di un uomo, difatti dovevano essere “proprietà“ ora del padre, ora del marito. Una donna sola, non protetta, poteva essere molto più facilmente attaccata. Per questo poi, in modo farneticante venivano accusate di tenere patti segreti con il diavolo e di riuscire, grazie ai loro poteri a piegare a loro vantaggio le forze della natura e la salute delle persone. Il processo a loro carico assumerà poi i contorni della farsa. Tale simil-processo 
    si divideva in diverse fasi: la denuncia, l’inchiesta e il processo vero e proprio. La denuncia poteva avvenire sia da parte di un accusatore che aveva delle prove, sia da parte di un accusatore senza prove ma che godeva di buona reputazione. Dopo aver ricevuto le accuse il giudice avviava il processo e davanti a un notaio si faceva dire dall’accusatore se le accuse presentate erano per esperienza diretta o per sentito dire. Tra i testimoni si accettavano anche nemici
    dell’imputato e nell’interrogatorio venivano fatte molte domande sulla vita privata dell’accusato. Si procedeva poi con l’inchiesta che era la prima fase per giudicare una persona. L’inquisitore, giunto nel luogo in cui sospettava abitasse la strega si presentava al vescovo locale. A questo punto il tribunale pubblicava due editti: l’editto di Grazia, con cui si concedeva la grazia a chi si fosse spontaneamente denunciata all’inquisitore entro un determinato lasso di tempo, e l’editto di Fede, con cui si obbligava chiunque fosse stato a conoscenza dell’esistenza di una strega a denunciarla all’inquisitore. Dopo l’inchiesta l’imputata veniva arrestata, la presunta colpevole poi non poteva sapere né per cosa fosse stata accusata né chi fossero i testimoni fino al giorno processo. Per ottenere delle confessioni certe, e così poi sottoporle al processo, si usavano spesso le celeberrime torture. Le torture più comuni erano la corda, la ruota, la frusta e la lapidazione. Alcune streghe resistevano alle torture e venivano rilasciate, altre non ce la facevano e confessavano anche reati non commessi, per evitare di soffrire. Dopo la tortura e la
    confessione, si decideva come la strega doveva essere uccisa in base al fatto compiuto; venivano condannate per stregoneria, eresia, omicidio, avvelenamento o satanismo. Le modalità di esecuzione erano diverse: il rogo, l’impiccagione e lo schiacciamento da pietre. Detto questo non rimane che portare alla vostra conoscenza i tre assurdi casi di denuncia fatti a tre donne garfagnine in anni diversi, a testimonianza del delirio collettivo di quel nefasto periodo. Il primo caso riguarda un fatto accaduto nell'anno 1540. La circostanza è al quanto singolare e forse secondo da quale punto di vista viene interpretato l'avvenimento forse non lo è affatto... Difatti un contadino di Sillicagnana si accorse che la moglie di notte usciva da casa mentre lui dormiva... Sospettando strani sotterfugi, rivelò al padre
    inquisitore che la moglie prima di uscire di casa si denudava completamente e si cospargeva il corpo con un misterioso unguento che aveva il potere di trasformarla in un asino appena varcata la soglia di casa. - Ebbi a comprendere tutto allora !!!- enfatizzava il marito- avevo a che fare con una strega, il demonio mi era entrato in casa!-. Raccontò poi, che come prova madre della possessione, una sera mentre l'asino (la moglie) usciva l'afferrò per la coda e lo condusse nei suoi campi caricandogli sulla soma quintali di letame che erano destinati a concimare le coltivazioni. Ebbene, al mattino quando l'asino tornò ad assumere le sembianze della donna, così raccontò l'uomo, la poveretta aveva tutte le ossa indolenzite e il marito certificò il fatto che dopo questo accadimento la sposa non abbandonò più il letto. Che dire, molto probabilmente la moglie di notte usciva sicuramente, ma per andare nel letto di qualcun altro... Il marito a dir poco geloso volle vendicarsi della signora denunciandola al Sant'Uffizio. Il secondo caso accadde a Vergemoli anni dopo e si racconta di questa donna che solitamente invitava altre donne a filare in casa sua. Fin qui tutto normale fino al giorno in cui una di queste filatrici si presentò al prete del paese e gli raccontò di un giorno in cui nevicava tantissimo e che tutte le donne erano a filare tranquillamente a casa dell'Anna (la presunta strega). Ad un certo punto, così continuò il racconto: -ella si alzò e indossò uno scialle unto, bisunto e consunto e uscì fuori-. Quando
    rientrò aveva con sè un cestino di fichi che offrì alle ospiti:-Questi frutti non potevano che essere frutti del diavolo, facendomi il "nomine patri" (n.d.r: il nome del padre) tutti li fichi si trasformarono in legno arso-. Quelli erano tempi in cui la miseria abbondava, talmente era tanta che si poteva tagliare con il coltello e colui o colei che magari aveva qualcosina di più, suscitava la gelosia di un paese intero. L'ultimo fatto accadde a Vagli nell'anno 1607 e la denuncia alle autorità fu di un contadino di nome "Minico" (n.d.r: Domenico), che nelle sue mucche vedeva un costante deperimento. Questi poveri animali si lamentavano e dimagrivano a vista d'occhio: - E' opre del maligno!- affermava il villico:- e io so anco chi per sua mano fu- Per scoprire da chi era era stato perpetrato il maleficio, "l'astuto" bifolco, a suo dire mise a bollire in una pentole dei ciuffi di peli della coda della mucca. A mezzanotte una donna venne a bussare alla porta del Minico pregandolo di togliere la pentola dal fuoco per le opprimenti vampate di calore che aveva... I resoconti del tempo ci dicono che nessuna di queste tre donne fu data alle fiamme come strega. Rimase per tutte le indiziate la presunzione di colpevolezza e nel dubbio che avessero avuto in qualche modo legami con il
    demonio, il Sant'Uffizio decideva per delle pene corporali. La gogna era la punizione prevista. Nella piazza principale dinanzi al duomo di Modena, nel giorno della Santa Messa le misere donne erano messe alla pubblica vergogna del popolo: offese, talvolta prese a schiaffi, a sputi o bruciate con tizzoni ardenti. Dopodichè potevano fare ritorno a casa... a piedi.


    Bibliografia

    • Archivio di Stato di Modena
    • https://www.asmo.beniculturali.it/home

    Le antiche lavorazioni. Quando in Garfagnana si produceva la seta

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    La vera protagonista di tutto è lei: la "Bombix Mori"... A molti il nome scientifico di questa specie di falena dirà ben poco, visto che la sua origine è data nei lontanissimi Paesi dell'Asia centro orientale. Certo la cosa cambia nel dirvi che la larva di questa farfalla è da tutti conosciuta come "baco da seta". Il piccolo baco è un gran lavoratore, produce la seta da due ghiandole che sono collocate all'interno del corpo. La seta è costituita da proteine raccolte nelle sue ghiandole, che fa uscire da aperture situate ai lati della bocca. Questa specie di bava è sottilissima e una volta che viene a contatto con l'aria si solidifica e, guidata dai movimenti della sua "testolina" si dispone in strati, formando un bozzolo di seta grezza, costituito da un singolo filo continuo di lunghezza variabile fra i 300 e i 900 metri. Il baco impiega 3-4 giorni per preparare il bozzolo, formato da circa 20-30 strati concentrici costituiti da un unico filo ininterrotto. Questi animaletti, oltretutto, sono dei grandi "mangioni", mangiano foglie di gelso giorno e notte, senza
    interruzione e di conseguenza crescono rapidamente. Di tutto questo gran lavorio se ne accorse casualmente, così come leggenda racconta, l'imperatrice cinese Xi Ling Shi. Era il 4000-3000 a.C quando sua altezza imperiale nel bere il suo quotidiano tè all'ombra di un gelso, si accorse che un bozzolo gli era caduto accidentalmente nella sua tazza bollente e fu proprio grazie al calore di quella bevanda che si rese conto del filamento che se ne poteva ricavare. Da quel giorno l'allevamento dei bachi e la procedura della lavorazione dei bozzoli per secoli e secoli furono procedimenti tenuti segreti dagli imperatori cinesi che ambivano a mantenere il monopolio della produzione e della vendita di questo pregiatissimo manufatto. Verso il 550 d.C il segreto non fu più un segreto, il mondo si era aperto ai mercanti che cominciarono a fare bei soldoni con questo prezioso tessuto. Fu così che questi mercanti cinesi fecero apprezzare le qualità della seta ai paesi confinanti e di li piano piano la conoscenza di questa lavorazione arrivò anche in Europa. La storia ci racconta che furono dei monaci agli ordini dell'imperatore bizantino Giustiniano che portarono a Costantinopoli dal lontano oriente delle uova di baco, nascoste nella parte cava di alcune canne di bambù. A quanto pare fu però un principe normanno ad introdurre il baco da seta in Italia. Era verso
    l'anno 1100 quando tramite gli arabi, il principe Ruggero II portò in Sicilia ed in Calabria questa nuova produzione. D
    a queste due regioni ben presto l'elaborazione della seta si sparse in tutto il Paese e in circa due secoli l'Italia divenne il maggior centro europeo della lavorazione della seta. Como, Bologna e soprattutto Lucca divennero le principali protagoniste nell'arte della seta. Ma perchè proprio Lucca? La città aveva la grande fortuna di trovarsi sulla Via Francigena, una strada, come ben si sa, che collegava tutto il traffico della Pianura Padana e dei Paesi d'oltralpe verso la tomba dell'apostolo Pietro in quel di Roma. Per altro Lucca, per questi pellegrini, era meta di sosta per coloro che volevano far visita al Volto Santo. Fra i devoti della Santa Immagine c'erano anche mercanti di lana grezza e di seta, dai quali i lucchesi impararono le tecniche di lavorazione di questo nuovo e straordinario tessuto. Una volta appresi tutti i segreti di questa produzione giurarono poi di non confidarli mai a nessuno e per nessuna ragione al mondo. Fra l'altro rimaneva un mistero anche la sapiente procedura della colorazione della seta, abilità in cui i lucchesi divennero esperti maestri. Alla base di tutto c'era però il fondamentale allevamento dei bachi da seta. Fino agli inizi del 1300 questa pratica non era assolutamente esercitata in Toscana, la grave
    "Lavorazione della seta"
    pittore Barsotti
    Archivio di Stato Lucca
    mancanza fu ben presto risolta e l'attività cominciò (anche) in una lontana e remota parte della Repubblica lucchese. Questo luogo era in Garfagnana e Gallicano e il paese di Verni erano i più importanti territori deputati a questa difficile coltura. La scelta di installare nella Vicaria di Gallicano la lavorazione della seta non fu dovuta certamente a qualche abilità particolare dei gallicanesi o degli abitanti di Verni, tutt'altro, la circostanza si rifaceva a due sostanziali motivi. Il primo era di natura opportunistica: a Gallicano esistevano già delle fabbriche tessili, in questo modo non ci sarebbe stato bisogno di cercare altri telai altrove. Il secondo e più considerevole motivo era di carattere puramente economico. La Vicaria alla fine del 1500 si trovava in gravi difficoltà finanziarie per le grandi carestie di segale, frumento e castagne e per il costoso mantenimento delle soldatesche, di fondamentale importanza poichè il paese era zona di confine con il Ducato di Modena. Per questi motivi Gallicano contrasse molti debiti con la stessa Repubblica di Lucca, con i privati cittadini e soprattutto con la Corte dei Mercanti. Infatti si ha notizia da fonti di archivio che il consiglio gallicanese, di frequente inviava a Lucca dei messi in cerca di aiuti, con la promessa che questi sarebbero stati ripagati con i nuovi raccolti. Ma nonostante gli sforzi, i bandi di proibizione di trasportare fuori del territorio pani, pattone e castagne e il vile censimento per
    Gallicano
    controllare i raccolti, non fu mai possibile pareggiare i debiti contratti. Ad ogni modo gli esosi mercati lucchesi non sentirono discussioni, decisero così che i gallicanesi avrebbero pareggiato il loro debito con la lavorazione della seta e l'allevamento del baco per loro conto. Si iniziò così in quel lontano periodo l'allevamento di questo insetto, furono così piantati i gelsi e prese vita nelle case della comunità la produzione dei bozzoli. Le uova perchè si sviluppassero meglio con caldo costante e umidità necessaria, per dieci giorni venivano tenute in seno da alcune donne, racchiuse in sacchetti di stoffa; quindi una volta schiusesi le uova, i bachi venivano poste sui "cannicci" in stanze apposite. I "cannicci" erano sorretti da quattro colonne di legno alla distanza di 50 centimetri l'uno dall'altro e sopra di essi veniva sparsa la foglia di gelso. Dopo varie mute il baco compiva il suo sviluppo ed era pronto per la formazione del bozzolo, si facevano così delle fascine di stipa, affinchè le bave potessero attaccarsi e formare in questa maniera il bozzolo. Si passava poi alla raccolta e alla lavorazione. Il bozzolo veniva così messo in acqua bollente in modo che la crisalide morisse, una volta morta l'operaio poteva trovare il capo del filo. Si passava poi alla "torcitura", era prima necessario ripassare la seta in acqua calda per eliminare tutte le impurità, dopodichè una volta raffreddata si staccavano i filamenti e si procedeva alla torcitura di tre fili. Con l'umidità i fili s'incollavano e rimanevano
    resistenti e compatti. Il passaggio successivo era la tessitura. La seta usciva dai telai grezza e per sbiancarla doveva essere sottoposta a trattamenti particolari. Ogni bozzolo produceva cento metri di filo! Come avete letto tutta la lavorazione aveva un procedimento lungo, laborioso e complicato, proprio per questo, su tutto ciò si celava il più grande riserbo, guai allora per chiunque osasse portare il segreto fuori dalle mura del paese: "Per parte e comandamento dei Signori Giudici e Consoli dell'abbondanza e magnifica città di Lucca, si fa bandire pubblicamente e notificare ciascuna persona di stato grado condizione si sia che non ardisca fuori dalle mura castellane, dare ed assegnare seta tranne alle maestre (n.d.r: le donne addette alla lavorazione)che la trarranno in loco di lavoro. La consegnazione della seta si debba fare drento alla città di Lucca". Così, nel 1593 deliberò il Consiglio della Vicaria di Gallicano, sarebbe stato cacciato dal paese chiunque avesse fatto uscire seta dalle porte
     del castello... Anche gli stessi lavoratori della seta aveva delle severe limitazioni, infatti si potevano tenere in casa non più di due mazzi di seta per volta. Coloro che invece la seta andavano a ritirarla a Lucca dovevano tenere un libro per il carico e lo scarico del tessuto, un altro libro in cui notificare tale trasporto da riconsegnare ai commissari del podestà, ed un terzo libro tenuto per il pagamento delle tasse. Dulcis in fundo, il podestà faceva giurare i maestri, le maestre e gli ufficiali addetti, di dare un vero
    resoconto ai proprietari della seta. Su questo leitmotiv le leggi gallicanesi sulla lavorazione della seta continueranno negli anni, segno che, questa manifattura non fu un fatto sporadico. Anno di Grazia 1605: "...che persona alcuna ardisca vendere, comprare o mercatare seta fuori dalle mura, pena 50 scudi. Che non si possono possa portar fuori dallo Stato stracci di seta, acce, e bozzoli forati...". Insomma era il periodo del trionfo della seta. Nella Repubblica di Lucca l'apice di questa industria fu dal XIII secolo al XVI, un lungo periodo, figuriamoci che durante la Signoria di Paolo Guinigi (1400-1430) nella Repubblica di Lucca c'erano tremila telai che davano lavoro a dodicimila persone. Attilio Giovanni Arnolfini (idrologo e scrittore lucchese)  scrisse che all'inizio del 1500 si esportavano da Lucca 1440 casse contenenti libbre 36.000 di seta, pari ad un guadagno di cinquecentomila scudi. Con i secoli che passavano piano piano il grosso giro di affari cominciò però a ridursi. All'inizio del 1700 i telai attivi erano rimasti 700. Nel 1767 erano già meno della metà. La grande concorrenza di stati nazionali e di città come Venezia avevano ormai messo in ginocchio una delle industrie più fiorenti della storia della Repubblica lucchese. E a Gallicano e a Verni la storia come finì? In questi paesi garfagnini seppero
    riadattarsi in maniera a dir poco egregia. I telai non furono assolutamente abbandonati, anzi, furono risistemati per nuove lavorazioni. L'intensificarsi della coltivazione della canapa dava ottimi risultati. Cominciò così la produzione di biancheria pregiata dei corredi, quei corredi che ancora oggi (grazie alle nostre nonne) sono ancora nelle nostre case.


    Fonti

    • Archivio Storico di Gallcano
    • "Regolamento della lavorazione della seta nella Vicaria di Gallicano-1593-" da uno studio del Professor Gastone Lucchesi

    Si viveva meglio nella Garfagnana di inizio secolo scorso o adesso? Curiosa analisi storico- culturale del tempo che fu...

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    Si viveva meglio nella Garfagnana di inizio secolo scorso o nella
    Garfagnana del 2022? Era più longevo un contadino garfagnino o un operaio della valle del XXI secolo? Era preferibile abitare negli sperduti borghi di una volta o nei paesi di adesso? In definitiva si viveva meglio in passato? Vale sempre la regola del "bei mi tempi"? Non è facile rispondere a tutte queste domande, anche se, e ne sono convinto, se provassimo a viaggiare nel tempo alla scoperta della vita quotidiana di epoche e paesi diversi avremmo delle belle sorprese. Innanzitutto cominciamo con il dire che per fornire una risposta scientifica, storici e statistici preferiscono affidarsi ad alcuni indici che misurano la qualità della vita. Questi indicatori si basano su alcuni parametri confrontabili, di questi parametri ne esistono a decine, ma i più importanti riguardano la salute, la sanità, le condizioni del lavoro, la sicurezza, la giustizia e l'alfabetizzazione. Il periodo preso in esame per fare il raffronto con i giorni nostri è il XX secolo. Lo scorso secolo fu un epoca che segnò per sempre la storia dell'umanità, sia nel bene che nel male: due guerre mondiali, grandi innovazioni ed invenzioni, vaccini, antibiotici e così via. Guardando più nel particolare la nostra Nazione nel primo censimento del 1901 eravamo quasi 33 milioni di abitanti (oggi quasi 60
    milioni), questa popolazione di media campava circa 60 anni (oggi 81 l'uomo e 83 la donna) ed era formata dal 50,3% da uomini e dal 49,7% da donne. Questo dato deve far riflettere, poichè in tempi di benessere è statistico che le donne sono sempre più numerose degli uomini (visto che vivono di più) e la probabile causa della suddetta anomalia era dovuta alle cosiddette morti "post partum", infatti queste povere donne spesso morivano di parto e talvolta, la solita fine la faceva il bimbo che portavano in grembo. A conferma di questo è il numero mostruoso dei neonati decessi, circa 46 mila perivano al momento della nascita (o comunque perivano poco dopo), oggi sono "solo" 2084 i bambini che muoiono nei primi cinque anni di vita. A casa nostra (in Garfagnana), il primo dato che anche qui balza agli occhi è riferito al numero degli abitanti e se in Italia (come abbiamo appena letto) eravamo molti di meno, in Garfagnana (sempre in quel tempo) eravamo molti di più: ben 46.916, contro gli attuali quasi trentamila. La dimostrazione palese di questa dato era il numero dei componenti familiari, la media garfagnina fino agli anni '50 era fatta da sei persone (all'interno di essa non c'erano solo i figli, ma i nonni e le zie zitelle), la
    media attuale è invece di 2,3 persone. 
    Di fronte a questi numeri penso che sia chiaro che l'attività principale era l'agricoltura: 8573 maschi e 3912 donne per un totale di 12.485 erano le persone impiegate "in qualità di contadini o coloni", da aggiungere a tutti questi, i piccoli proprietari che lavoravano direttamente il proprio terreno, sommando questo dato si può affermare che gli addetti all'agricoltura erano i due quinti dei residenti. Nell'industria, nei mestieri e nell'artigianato lavoravano 2416 uomini e 501 donne, numeri questi destinati a crescere dato che le cose cambieranno totalmente nel 1916, quando a Fornaci di Barga aprirà la Società Metallurgica Italiana, meglio conosciuta come S.M.I. Che dire allora? Stress e super lavoro sembrano le malattie dell'uomo moderno, ma siamo proprio così sicuri? Fino a qualche decina di anni fa (metà del 1900) una larga fetta di garfagnini era adibita ai pesanti lavori nelle campagne, sulle proprie spalle si sobbarcavano circa 11 ore al giorno di fatica per tutto l'anno, con rari momenti di festività. Nel cosiddetto  "fabbricone" lo sforzo non era da meno, vigevano turni massacranti e senza regole. E quando oggi diciamo che andremo in pensione con una misera 
    Vecchia foto della S.M.I
    rendita, in quell'epoca la pensione come la intendiamo oggi non c'era, infatti
     fra tutti questi lavoratori coloro che godevano di pensione erano 44. E i bambini come se la passavano? Saranno andati a scuola? Direi proprio di no... I dati scolastici garfagnini difatti mettevano i brividi. Gli studenti e i seminaristi erano 1003 maschi e 1032 femmine, un numero veramente bassissimo. Eppure le scuole elementari in Garfagnana erano tantissime, ben 122, ma i bambini che la frequentavano erano pochissimi. Consideriamo che la riforma della scuola secondo la legge Coppino del 1877 prevedeva l'obbligo fino alla terza elementare e la facoltà di arrivare fino alla quinta  classe (ed eventualmente anche oltre), ma purtroppo il 65% dei bambini abbandonava l'istruzione finita l'obbligatorietà. Naturalmente con i decenni che passavano la situazione cambiò... Ma cambiò molto tardi. Per fare un esempio in Italia si è passati dal 54,3 % di analfabeti all'inizio del
    secolo XX, al 20,8 % del 1921, al 2,8 del 1981, a circa il 2 % del 1991. Lasciamo perdere adesso i noiosi numeri e guardiamo quella vita da un punto di vista esclusivamente pratico... La sveglia in Garfagnana cari dormiglioni era all'alba, i contadini che lavoravano nei campi dovevano sfruttare più ore di luce possibile per lavorare (ricordo che questa abitudine salvò numerosissime vite nel celeberrimo terremoto del 1920 di Villa Collemandina, visto che, quando alle 7:56 del mattino arrivò la fatale scossa la maggior parte delle persone era già nei campi da diverse ore), per lavarsi, niente doccia calda, c'era infatti l'acqua del pozzo, in alternativa quella del fiume. Sempre ed a proposito di bagno il problema si presentava quando scappava forte, il bagno in casa era ancora un miraggio, la toilette era infatti una turca esterna all'abitazione, al limite un secondo bagno era nella stalla degli animali e se i bisogni scappavano la notte c'era il famoso vaso. Naturalmente la lavatrice non esisteva, i panni si lavavano in fiume, nei torrenti o nei lavatoi del paese, sia d'estate che d'inverno, a conferma di questo ancora oggi nella toponomastica garfagnina ci sono tuttora molte "Via Serchio",
    proprio in memoria di quella strada che portava al fiume
     decine e decine di donne con la cesta dei panni in testa. Nemmeno il frigorifero esisteva, il cibo si conservava nelle fredde cantine o nel ghiaccio che veniva venduto porta a porta. Tutto questo anche perchè l'elettricità arrivò già a secolo inoltrato. Candele e lampade ad olio erano le lampadine di quel tempo. Comunque sia tutte queste comodità arriveranno nella valle abbastanza stabilmente fra la fine degli anni '50 e gli inizi degli anni '60 del 1900. E figuriamoci allora se si poteva parlare di riscaldamento nelle case... Pensiamo a quello che erano gli inverni garfagnini di quel tempo la. Gli inverni erano molto più rigidi di adesso, per scaldarsi di solito nelle case era presente il camino nella stanza principale, che però faceva calore solo in quell'ambiente lì, quindi niente bocchette d'areazione che mandavano il calduccio nelle altre stanze, anzi il resto della casa e soprattutto le camere che erano ai piani superiori erano a dir poco gelide. E da un punto di vista sanitario che dire? Gli ospedali c'erano, ma erano lontani dai piccoli borghi garfagnini, per trasportare lo sventurato all'ospedale più vicino c'erano le carrozze e i barrocci a patto però che in paese arrivasse una sorta di strada, se al posto della strada c'era una cosiddetta mulattiera il malato veniva trasportato su una lettiga improvvisata alla strada più vicina, di li la carrozza avrebbe proseguito la sua strada. Capirete voi che vista la situazione molti rimedi sanitari erano fatti in casa dalle anziane del paese, che in buona parte supplivano al medico, i bambini infatti nascevano in casa e se per caso avevi il mal di denti erano veramente dolori... i denti si toglievano senza anestesia, anzi l'anestesia c'era, era la grappa fatta in casa l'anno prima... Insomma, la conclusione di tutta questa analisi ci dice che era tutto un tribolo, un malessere ed un tormento, dunque molto meglio adesso direte voi. Cos'era allora che ai nostri nonni e bisnonni gli faceva dire: "si stava meglio, quando si stava peggio"? Io ci ho pensato e direi che era una cosa sola, importante e fondamentale: l'umanità. La fratellanza, la solidarietà, l'aiuto reciproco erano cose su cui non si scherzava. Erano i valori assoluti di un mondo povero ma più umano e che oggi è perduto e questi fondamentali valori non te li calcola  nessun freddo dato statistico. Si, è vero, una volta si viveva peggio, ma quella vita malgrado mille difficoltà era serena, tranquilla e limpida.
    Alla fine possiamo dire che una volta erano poveri di tutto, ma anche la povertà veniva vissuta con dignità anche nelle piccole cose. Si aggiustava tutto perchè di ogni cosa si capiva il valore. Oggi invece viviamo nella società dell'usa e getta. Nulla si aggiusta più, si butta via tutto: sedie, ombrelli, televisori... amicizie, amori e persone.


    Bibliografia

    • "Censimento della popolazione del Regno d'Italia" 10 febbraio 1901. Volume V. Direzione Generale di Statistica. Roma
    • "15° Censimento generale della popolazione e delle abitazioni 2011" Ufficio stampa ISTAT
    • "La Garfagnana" di Augusto Torre. Articolo pubblicato su "La Voce", 26 ottobre-2 novembre 1911




    I giochi di una volta in Garfagnana. Quali erano e la loro storia

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    C'è poco da fare, il gioco da sempre è l'espressione più autentica
    della cultura umana, come fra poco leggerete, l'attività cosiddetta ludica è figlia del tempo che trascorre, passa e scorre fra i millenni e si adatta come un guanto al contesto sociale in cui si svolge. Pertanto il recupero dei giochi tradizionali rappresenta senza dubbio la riscoperta della propria storia, delle proprie origini e del senso di appartenenza. Lo stesso Platone, al pari di un pedagogo moderno affermava che il gioco era utilissimo per la formazione dell'infante, in special modo in quelle attività svolte in gruppo e che privilegiavano il movimento. Sempre ed a proposito di antiche civiltà evolute anche i nostri cari romani, attraverso "la penna" di Cicerone, Marziale e Orazio ci parlavano di giochi che sono pervenuti ai nostri bambini a distanza di oltre duemila anni. L'oscuro medioevo e più che altro la Chiesa contrastò invece in maniera netta sia i giochi per adulti che per i bambini: "I giochi sono oggetti demoniaci, fatti apposta per distogliere l'attenzione del credente
    dal pensiero di Dio
    ". I tempi passavano e per fortuna cambiò anche il modo di vedere e pensare sulle cose e fu verso il 1400 che si trovò un atteggiamento più tollerante verso i giochi, rimanevano infatti proibiti quelli d'azzardo e per i più piccoli si prediligevano giochi che prevedevano l'attività motoria come la corsa e il salto, tutto però si doveva svolgere sotto l'occhio attento dell'adulto che doveva guidare il gioco per renderlo "morale". Bisogna attendere l'età moderna per vedere la sublimazione del gioco. L'illuminismo prende campo in tutta Europa, questa nuova forma di pensiero voleva illuminare la mente degli uomini, ottenebrata da secoli da ignoranza e superstizione, e così anche alle attività giocose gli venne attribuito un rinnovato  significato improntato sui valori pedagogici, sociali e civili. Anche i giochi dei bambini garfagnini nel corso dei secoli che passavano si sono adattati alla società del tempo, per secoli siamo stati una collettività povera e con pochi mezzi e come in tutte in tutte le collettività povere i bambini si costruivano da soli i loro giochi con i materiali che c'erano a loro disposizione, sennò era proprio la fantasia che diventava una materia
    primaria. I giochi si facevano per strada o negli spazi che la natura concedeva. Per altro quello che si può affermare con sicurezza è che non esiste un gioco tipico garfagnino, visto che molti giochi sono praticati in modo simile in molte regioni della Terra. Ci sono svaghi come "il gioco dell'anello", la trottola o "mosca cieca" che si riscontrano in altre nazioni d'Europa, ma non solo, anche in Africa, fra i Pellerossa americani, o nelle tribù selvagge dell'Oceania. Questo dimostra che questi giochi hanno un fondo comune di tradizione. Guardiamo ad esempio il "nascondino" o "rimpiattino" che dir si voglia. Ci abbiamo giocato tutti, proprio tutti se le prime notizie di questo gioco si hanno da Polluce nel II secolo, quando nella Magna Grecia veniva chiamato "apodidraskinda" (fuggire,
    scappare, nascondersi). In Garfagnana esisteva una variante detta "bombolo": "il bomba libera tutti" consisteva nel dare un calcio ad un barattolo che veniva sorvegliato attentamente da colui che doveva cercare i bambini nascosti. Sicuramente uno dei più appassionanti e divertenti era "il gioco del fazzoletto" o detto anche "bandiera". Il passatempo nasce da antichi addestramenti militari dove venivano misurate le attitudini guerresche, a volte infatti vinceva il più veloce, altre ancora il più scaltro o anche il più bravo a bluffare. Anche la stessa simbologia richiama il militarismo: togliere il simbolo di riferimento di chi combatte contro di te e impadronirsi del suo vessillo. Insomma, qui non vigeva
    la legge del più forte, ma quella del più abile. Si rifà anche ad antiche origini il gioco della "Mosca Cieca", lo citava già nel V secolo lo scrittore romano Macrobio, chiamandolo "mosca di rame". A quanto pare Roma ha dato i natali anche ad un altro gioco, un gioco diventato veramente internazionale: in Brasile si chiama "amarelinha", in Vietnam "cò, cò", in Germania "Ichelkasten", in Italia "Campana" o "Mondo". Oggi non lo si vede giocare più da nessuna parte, ma sicuramente era già praticato ai tempi dei romani. Il classico disegno dove si saltellava da una casella all'altra è rappresentato a Roma sulla pavimentazione del Foro Romano, a quel tempo si chiamava "claudus" cioè "lo zoppo" (chiaro il riferimento di saltare su un
    piede solo). Questa internazionalità è dovuta proprio alle conquiste romane che portarono gli stessi soldati ad insegnare questo gioco da cortile.
     E chi da bambino non ha giocato al girotondo? Ve la ricordate la celebre filastrocca che accompagnava il gioco? Sicuramente si! Il suo significato però non aveva niente di allegro. La filastrocca vanta una tradizione lunga almeno tre secoli ed è originaria dell'Inghilterra, infatti la vera canzone è in lingua inglese e parla di rose da odorare e di cadere tutti per terra. Quello che però racconta ha dell'orribile e risale ai tempi più bui della Gran Bretagna: la Grande Peste del 1665. Infatti i morti erano talmente tanti da invadere le strade e le persone quando giravano si portavano al naso dei sacchettini con dentro petali di
    rosa o fiori profumati per non sentire il tanfo dei cadaveri in putrefazione. In quel tempo nacque la famosa filastrocca che aveva lo scopo di far accettare la morte ai più piccoli e quindi esorcizzarla, da qui le strofe "Casca la terra", "Tutti giù per terra"
    . Esistevano poi tutti quei giochi che richiedevano uno "strumento". Naturalmente questo strumento era fatto in casa o con quello che la natura offriva. La fionda difatti era immancabile per ogni ragazzino del tempo. Tutti i bambini si costruivano una fionda, per cacciare gli uccelli o per i tiri di precisione. Per costruirla veniva utilizzato un ramo biforcuto e due elastici ricavati dalle camere d'aria delle ruote della bicicletta. Anche la trottola faceva parte di questi giochi che si costruivano.
    I ragazzi
    facevano vere e proprie competizioni per vedere chi riusciva a farla girare più a lungo. Molti di loro si procuravano il legno per la trottola e il falegname col tornio la creava
    . A volte succedeva che qualche trottola fragile si spaccava e quindi rabbia e lacrime del perdente e le risate degli altri, per non correre simili rischi si ricorreva a trottole di legno molto duro. Il gioco dei tappini è il gioco più moderno, il passatempo è tipicamente italiano ed è nato nel nostro  secondo dopoguerra, in seguito alla grande diffusione dei tappi a corona. In emulazione delle corse ciclistiche, era anche diffusa l'usanza di ritagliare dai giornali i volti dei corridori preferiti e incollarli, in questo modo il giocatore otteneva la personalizzazione del proprio tappo. Si potrebbe ancora continuare a scrivere pagine e pagine sui vecchi giochi di una volta, mi limito però di far notare che nessuno di questi giochi qui sopra descritti
    viene giocato più. Nella nostra epoca siamo riusciti anche in questo, a far scomparire giochi che hanno resistito alle guerre, alle catastrofi naturali e al peso della storia. Oggi tutto il gioco dei bambini sta su una semplice console... 

    Storie di guerra. I devastanti bombardamenti aerei in Garfagnana

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    Castelnuovo G.NA bombardata
    Guernica per chi non la conosce è oggi una cittadina spagnola di
    appena quindicimila abitanti. Nonostante sia così piccola ha da sempre avuto un ruolo centrale nell'identità dei paesi baschi, la regione nel nord della Spagna che da secoli rivendica una maggiore autonomia dal governo centrale. La sua fama però raggiuse l'apice il 26 aprile 1937, quando nel pomeriggio di quel giorno 
    venne colpita da uno dei bombardamenti più conosciuti e rappresentativi del novecento. Il contesto era quello della guerra civile spagnola, cominciata meno di un anno prima tra i nazionalisti del generale Francisco Franco e i repubblicani guidati dal Fronte Popolar. A compiere il bombardamento furono 24 aerei militari, in buona parte della Luftwaffe, l’aviazione tedesca, e tre dell’esercito italiano: sia Adolf Hitler che Benito Mussolini, infatti, erano alleati delle forze nazionaliste. Questo bombardamento criminale, che cambiò per sempre il modo di fare la guerra, causò una strage di civili inermi. Un reportage del giornalista inglese del "Times", Georghe Stear, dette visibilità internazionale al fatto, attirando così le condanne della politica e della società
    Guernica bombardata 
    civile occidentale, diventando di fatto il simbolo delle stragi di civili. Quel "nuovo" sistema di fare guerra, bombardando dal cielo, a quel tempo
    (ma anche oggi) fu visto  come un evento sommario, le bombe colpivano senza distinzioni civili e militari, senza nessuna regola umana e guerresca che dettasse legge. Un'analisi perfetta a riguardo la fece lo storico inglese Paul Preston: "A Guernica è stata effettuata la prima prova di una chiara strategia: rompere i vecchi limiti morali e le regole della cavalleria del 19° secolo e promuovere la guerra totale, senza regole, che stermina le vite non solo dei militari che prendono le armi ma anche dei familiari che sono rimasti a casa”. La fama di Guernica e di questo infame modo di guerra fu poi amplificata da uno dei più grandi pittori contemporanei: Pablo Picasso, che era già un pittore famosissimo e che nel maggio del 1937, pochi giorni dopo il bombardamento, cominciò a dipingere un’enorme tela, lunga quasi otto metri e alta tre e mezzo. Il governo repubblicano spagnolo gli aveva commissionato un’opera da esporre nel padiglione della Spagna all’esposizione internazionale di Parigi, e lui aveva avuto 
    Guernica di Picasso
    l’ispirazione dopo il bombardamento. Il quadro, che si intitola "
    Guernica", fu apprezzatissimo per la sua capacità di rappresentare il caos e il terrore del bombardamento, ed è diventato probabilmente la più famosa opera d’arte di sempre sulla guerra. Sette anni dopo dai fatti di Guernica, 
    in piena seconda guerra mondiale, anche la Garfagnana fu colpita dalla stessa sorte: da una serie impressionante di bombardamenti. La strategia americana in questo caso era molto chiara, bombardare vie di comunicazione ed infrastrutture strategiche e militari e dovunque si credesse, da fonti di intelligence, si potesse nascondere il nemico, in tutto questo però a farne le spese furono soprattutto i civili. La situazione si fece poi ancora più drammatica quando  qui si attestò il fronte della guerra. Gli attacchi aerei in Garfagnana
    cominciarono il 18 maggio del 1944, era il Giorno dell'Ascensione. Le prime vittime da bombardamento ci furono invece il 29 giugno per San Pietro e Paolo, l'abitato di Piazza al Serchio fu preso di mira, morirono così le prime 14 persone di una lunga serie. Di fronte a queste significative date il piano americano si manifestava in tutta la sua nefandezza. In quei giorni specifici, in quei luoghi non c'era nessun obiettivo militare perseguibile, erano "solamente" due giorni di festa che a quel tempo venivano celebrati non solo nel calendario liturgico, ma anche in quello civile. La gente era a casa, in famiglia a godersi un giorno di meritato riposo. Quale miglior momento, secondo le cervellotiche strategie militari alleate, ci poteva essere per fiaccare il morale della popolazione se non essere bombardati in un giorno di festa? E difatti così fu... Qualche giorno dopo, il due luglio, cominciarono i primi bombardamenti a tappetto, anche qui era un giorno di festa: domenica. Gli obiettivi stavolta oltre che ad essere palesemente civili, colpirono anche quelli strategici: il bersaglio era la stazione ferroviaria di Castelnuovo Garfagnana. Prima di arrivare a Castelnuovo lo stormo di 12 aerei americani Douglas A-20 Havoc passò prima sopra Gallicano e per la prima volta 
    Douglas A-20 Havoc
    venne colpito anche questo paese, seminando inevitabilmente morte e distruzione. Nel successivo passaggio sul capoluogo garfagnino i bombardamenti causarono un vero e proprio inferno. Alle ore 11 e 15 del medesimo mattino vennero sganciate 41 bombe da 500 libbre, alcuni minuti dopo altre 91 da 260 libbre. Fra le vittime anche tre bambini. Le persone da quel giorno capirono che sarebbero stati mesi duri e senza tregua. Infatti nei mesi successivi i bombardamenti si intensificarono, i paesi più colpiti furono quelli nel fondovalle, ma anche Camporgiano, dove aveva sede il comando della Divisione Monterosa non fu risparmiato, così come non fu risparmiato l'annesso ospedale militare e quello civile di Castelnuovo, che fu provvisoriamente trasferito nella frazione di Antisciana. Anche altri paesi come Minucciano non furono graziati e 
    nei giorni successivi al Natale 1944 una serie di bombardamenti aerei investì i centri abitati del Comune di San Romano. Le uniche frazioni che non vennero colpite furono Orzaglia e Sillicagnana. Si ipotizza che vennero risparmiate per i campanili a cupola delle rispettive chiese, punti di riferimento per l’aviazione alleata. La Villetta rappresentò invece uno dei bersagli principali dell’offensiva militare. Il paese infatti era una delle sedi scelte come base operativa dall’esercito nazista e  questa presenza di truppe tedesche e italiane attirava le squadriglie degli aeroplani
    Gallicano bombardata
    americani. Nel corso dei bombardamenti di quel maledetto dicembre 1944 e del  successivo febbraio 1945 morirono ben quattro civili. Era sempre in quel lontano dicembre quando un ufficiale italiano raccontò nei suoi diari l'atrocità di uno di questi bombardamenti: " 
    Giorno 30 dicembre 1944.
    Prosegue ininterrottamente l'offensiva aerea. Gli americani vogliono far pagare a caro prezzo il successo dell'operazione Wintergewitter. 
    I cacciabombardieri spezzonano e mitragliano la zona dove sono alloggiate le salmerie della linea pezzi della nostra batteria. Terminata l'incursione ricevo telefonicamente notizia dal sergente Rabitti loro comandante, che non vi sono state perdite. Felice scendo di corsa le scale per recarmi al piano terra e comunicare agli uomini la buona notizia, ma alla porta d'ingresso della costruzione incontro una giovane donna con un bambino in braccio. La mano destra della donna che sorregge la testa del piccolo è sanguinante e il bambino ha la testa sfracellata. La ragazza tutta coperta di sangue è venuta da chi sa dove per cercare soccorso. E' in stato di shock. Questa improvvisa, inaspettata visione mi fa passare in un istante da uno stato di contentezza ad uno stato di sconvolgente costernazione; ho un capogiro, devo appoggiarmi alla costruzione per non cadere per terra, non riesco a guardare" Il piccolo bambino di cui si parla non era un maschietto, ma bensì una dolce femminuccia, era appunto Ada Cassettari figlia di Carlo e di Regoli Silvia, la giovane madre che
    Contraeree tedesche
     la teneva in braccio. Ada aveva appena due anni e morì in località Tineggiori (nel comune di Fosciandora) il 30 dicembre '44 dopo un violento bombardamento aereo. Una scheggia attraversò il braccio della mamma che la sosteneva, conficcandosi nella testolina della povera piccola. 
    L'assiduità di questi attacchi aerei e il pericolo incombente di perdere la vita  cominciava farsi sentire, la gente abbandonava i paesi e si rifugiava  nei posti più impensati: nelle condotte idroelettriche, nelle gallerie dei treni e naturalmente nei boschi e nelle selve circostanti. D'altronde gli aerei alleati erano gli assoluti padroni del cielo garfagnino, le forze dell'Asse a quel punto del conflitto non avevano forze aeree da impiegare nella valle, la sola forza di contrasto era affidata da batterie contraeree posizionate a Piazza al Serchio, a Pieve Fosciana e in altri luoghi della valle. Queste contraeree però, potevano fare ben poco contro la potenza soverchiante dei Thunderbolt americani e questo fu da subito ben chiaro. A farne le spese maggiori di fronte a questa inaudita potenza fu Castelnuovo e il suo circondario, si calcola che tra il luglio 1944 e l'aprile dell'anno successivo nel capoluogo garfagnino ci furono più di 70 incursioni aeree, la più drammatica di queste incursioni ci fu appena a due mesi dalla fine della guerra. Il 13 febbraio '45 accadde il bombardamento più drammatico, quello che lascerà il bilancio più pesante in tutta la lucchesia. I cacciabombardieri cercando forse di colpire una postazione di artiglieria tedesca non lontana dal centro della cittadina, colpirono invece un improvvisato rifugio antiaereo in località Novicchia: morirono trenta persone. Ovviamente come succede in tutti i
    Castelnuovo
    bombardamenti della storia non rimane che sottolineare una cosa. Anche in questo caso gli obiettivi militari centrati da queste bombe che provenivano dal cielo furono esigui, a pagare il prezzo maggiore furono civili inermi. Per rendere chiaro a tutti i miei lettori questo concetto basta elencare solo i dati di quel tempo di Castelnuovo Garfagnana: si calcolò che ci fu un 80% di danni ai fabbricati e alle case, quattromila sinistrati, 862 persone da assistere, di cui 288 di età inferiore ai 15 anni...


    Bibliografia
    • "I bombardamenti su Castelnuovo" Istituto storico della Resistenza e dell'Età contemporanea. Provincia di Lucca
    • "L'incubo dei bombardamenti aerei" di Marioo Pellegrineschi https://digilander.libero.it/mariopellegrinetti/aereicaduti.htm#
    • Comune di San Romano Garfagnana "26 dicembre 1944. Il Bombardamento di Villetta"
    • Le foto riguardanti Castelnuovo mi sono state inviate gentilmente da Nicola Simonetti
    • La foto riguardante Gallicano è stata tratta dal libro fotografico "Gallicano in Garfagnana" di Daniele Saisi  

    Storia di epiche battaglie, "mestaine" insolite e di intercessioni (quasi) miracolose nella Garfagnana del 1600

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    Le possiamo sentire chiamare in svariati modi: marginette, maestà,
    madonnine, edicole, per noi in Garfagnana sono semplicemente le "mestaine". La Mestaina non è altro che una piccola cappella votiva  contenente un'immagine sacra di qualche santo, di Gesù ma in particolar modo è la figura della Madonna che prevale in tutte queste piccole architetture. L'origine del nome lo si deve proprio al fatto di ciò che rappresentano: "una maestà", parola derivante dal latino "majestatem" cioè "grande", in riferimento all'immagine iconografica cristiana di Maria seduta sul trono. Nella forma "garfagnina", il vocabolo diminutivo "mestaina" significa proprio "piccola maestà", che richiama di fatto la piccola dimensione dell'icona. L'origine di questi tempietti si perde nella notte dei tempi e molto probabilmente già gli etruschi avevano l'abitudine di costruire queste opere (che rappresentavano le loro divinità), in prossimità delle strade o negli incroci viari. I romani con il tempo non mancarono di fare loro questa tradizione, che trasformarono ben presto in una ricorrenza, nella quale si rendeva omaggio ai "Lares Compitales", le divinità protettrici della
    famiglia. Con l'avvento del Cristianesimo le immagini pagane furono poi soppiantate in maniera definitiva dalle icone cristiane. 
    Il gran numero di mestaine nella nostra Garfagnana ci induce però a pensare che non siano frutto  di occasionali iniziative, ma bensì di un rituale consolidato nei secoli e ciò va inserito nel fermento religioso che coinvolse la valle intorno al 1600-1700, sull'onda della fine del Concilio di Trento che portò una ventata di "modernità" e di rispolvero in tutto il cattolicesimo, che vide proprio in quell'epoca un vero fiorire di queste edicole. Questi tempietti venivano collocati di norma nei pressi di incroci stradali, perchè, come spesso accade in questi casi, il sacro e la superstizione si fondono in un'unica cosa, visto che era diffusa la credenza che in queste intersezioni si potessero generare energie cosmiche tali da richiamare un confluire di streghe e demoni; da qui l'importanza della presenza di un'immagine evocante un soggetto più forte del Diavolo: la Madonna, che notoriamente schiaccia il
    serpente, simbolo del maligno. 
    Questo però non era il solo scopo della loro esistenza, erano soprattutto luoghi di preghiera e quelle più grandi servivano anche da riparo di fortuna per i viandanti, ma non solo, queste costruzioni spesso delimitavano i confini, ed erano pure un punto di riferimento e di orientamento. Ne esiste una che però esula da tutto questo contesto e da queste funzioni. La sua storia è particolare e al contempo curiosa, tant'è che vale la pena di raccontarla, dato che, a mio avviso (vi prego semmai correggetemi) di questo tipo in Garfagnana credo che non ne esistano altre. Infatti lo scopo della sua erezione a quanto pare lo si deve all'intercessione divina della Santissima Vergine, che non permise alle soldatesche estensi di radere al suolo il Castello di Gallicano. Ma andiamo per gradi e raccontiamo questa intrigante storia dall'inizio. Era il tempo in cui gli Estensi, padroni assoluti di quasi tutta la Garfagnana, avevano perso l'amata Ferrara che, per questioni dinastiche avevano restituito al Papa. Il conseguente indebolimento della casata d'Este non passò inosservato nemmeno agli acerrimi nemici di Lucca che da sempre aspiravano a conquistare l'intera valle, non si accontentavano più dei soli possedimenti di Gallicano, Castiglione e Minucciano, si aspirava a molto di più. Così ogni futile pretesto diventava buono per rinfocolare scontri, battaglie e guerre. L'occasione per Lucca si fece propizia nell'anno di grazia 1603 quando il generale lucchese Jacopo Lucchesini inviò a Gallicano 500 soldati e attraverso i monti del Sillico ne inviò altrettanti a Castiglione. La risposta degli agguerriti Estensi non si fece attendere e il condottiero modenese, il marchese Bentivoglio, ai primi sentori di guerra inviò una parte delle sue truppe ad assediare Castiglione e il restante del suo esercito si attestò sulle colline sotto il paese di Cascio, qui vi piazzò due potenti cannoni che puntavano le loro bocche da fuoco
    Sotto le colline di Cascio
    direttamente su un forte che era posto nell'odierna località detta il Broglio. Questo forte era l'avamposto di difesa di Gallicano, da qui la strada per la conquista di quel castello si sarebbe fatta molto più facile. Ci possiamo quindi immaginare la battaglia che ne scaturì. Era il 15 maggio 1603, la scontro fu cruento e sanguinoso come non mai. Il forte del Broglio era al comando di un tale "Mone" da Gallicano che chiamò a difesa dell'ultima frontiera perfino i civili, fra questi diverse donne che  prestavano 
    coraggiosamente il loro aiuto. I morti però oramai non si contavano da ambo parti, furono addirittura dati  alle fiamme gli indispensabili mulini di Vescherana e un cronista del tempo raccontò che le acque del canale che di li passava rosseggiavano del sangue dei contendenti. Insomma, tanta e tale fu la confusione nel tremendo scontro, che la tradizione orale racconta che nel furore della mischia i combattenti non si riconoscevano tra loro, così uccisero per fatale errore (imbroglio) amici e nemici. Questo "imbroglio" a quanto pare dette il nome alla località dove accadde questo fattaccio: "il Broglio". A dare fine alla battaglia ci pensarono però i due cannoni posizionati sotto il paese di Cascio: "fatti collocare due pezzi da cannone sotto la collina, lo spianò (n.d.r: il forte) alle fondamenta". Gallicano era ormai spacciato, la
    Il castello di Gallicano
    strada per la conquista era ormai aperta. Senza se e senza ma gli Estensi in men che non si dica avrebbero distrutto il borgo e non avrebbero risparmiato nessuno, d'altronde Gallicano rivestiva un'importanza fondamentale vista la sua posizione strategica, per di più all'interno delle sue mura era costudito una buona parte dell'arsenale lucchese. Rimane il fatto che tutto quello che si crede ineluttabile così non è. Il destino, la fede, o quello che volete credere spesso e volentieri ci mette lo zampino. Fattostà che calata la notte, quando ormai a Gallicano si stavano preparando al peggio, il Marchese Bentivoglio ritirò clamorosamente e inaspettatamente le sue soldatesche. Tridui ed orazioni di tutta la popolazione si levarono al cielo per lo scampato pericolo, stavolta a difendere le mura castellane non furono i moschetti, ma la buona sorte. Ma perchè il Bentivoglio decise di ritirarsi? Le possibili risposte sono due. Bisogna ricordarsi che in quel tempo gli Stati italiani erano più o meno dei satelliti della Spagna e che a Milano risiedeva il Vicerè. Furono sempre i rappresentanti di Milano a mediare le contese, per cui è probabile che il condottiero estense si accontentasse solamente di tenere desta l'azione militare senza strafare, cercando in questo modo di non urtare le autorità spagnole che miravano sempre a tenere "la barca pari". L'altra risposta ha una considerazione puramente militare. Come scritto in precedenza anche Castiglione Garfagnana era al contempo assediata, diventava perciò
    Castiglione Garfagnana
    difficile sostenere due assedi, che potevano forse rivelarsi inefficaci entrambi, sarebbe stato più saggio concentrare le forze su uno dei due e in questo caso fu deciso per Castiglione. Ci fu poi una terza ragione sostenuta dagli assediati ed è quella del perchè di questo articolo. Ebbene, in primis si volle credere che su questa incredibile decisione estense contribuì il comportamento dei difensori del forte. Figuriamoci se un piccolo forte era stato difeso con tanto vigore da infliggere numerose perdite al nemico, come sarebbe stata allora la difesa della roccaforte di Gallicano? Sicuramente un fondo di verità in tutto questo ci fu, difatti non bisogna dimenticare il sostegno avuto dalle donne in questa battaglia. Il loro aiuto fu a tal punto eroico che il Consiglio Generale di Lucca, ad una famiglia di queste valorose, morta negli scontri e che si era distinta particolarmente per il suo coraggio fu attribuita una dote: "...alla figlia di Lorenzo Moni da Gallicano per il riconoscimento dimostrato portando polvere d'archibugio ai soldati del forte del Brolio nel giorno che fu assaltato dai modenesi, ne fu ferita a morte con una archibugiata
    La mestaina del broglio nel
     luogo della Battaglia
    nella testa. Si intenda costituita una dote di scudi 50
    ..." . Ma in tutto questo si volle credere ancor di più che la mano che guidò questi eventi, fu una mano divina. Per i gallicanesi ci fu l'intercessione della Madonna, solo Maria Vergine con il suo santo intervento poteva far si che il castello e la sua gente scampassero all'ineluttabile destino. Si decise perciò di rendere atto devozionale perpetuo costruendo una "Mestà" dedicata alla Madonna e che si facesse ogni 15 maggio per i secoli a venire una processione dal paese di Gallicano fino alla mestaina del Broglio:" 
    Quella Comunità deliberò solennemente che, pel pericolo da cui fu scampato il paese, si facesse in perpetuo, in detto giorno 15 maggio, una festa solenne con processione generale per la terra di Gallicano; e si dovesse costruire una Mestà, ossia piccola cappelletta, al Brolio presso il
    canale, ove accadde il fatto sanguinosissimo, che a tutta ragione ritiensi essere avvenuto là dove anche attualmente vedesi una Vergine dipinta nel muro della casa presso al ponte su quel canale
    "... La "mestaina" dopo quattro secoli è sempre lì, ma la processione, che doveva essere perenne, non si fa più... 

    Bibliografia

    • "Il Pettorale- la rocca di Gallicano" di Fabrizio Riva, edito MARIA Pacini Fazzi 2020
    • "Gallicano" - capitolo "Vicende storiche" dell'Ingegner Achille Fiorello Saisi- Maria Pacini Fazzi editore-anno 1995
    • "Descrizione geografica storica economica della Garfagnana" di Raffaello Raffaelli anno 1883
    • Gian Mirola- da La PANIA giornale del Comune di Molazzana

    "Giusti fra le Nazioni". La storia di Giuseppe Mansueto Rossi e di sua moglie Maria da San Pellegrino

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    Calcolare il numero esatto di persone che morirono a causa delle politiche naziste è un'impresa difficile. Non esiste alcuna documentazione tenuta da funzionari nazisti che contenga il numero dei morti causati dall'olocausto. Per stimare con maggior precisione le perdite umane, i ricercatori insieme a organizzazioni ebraiche e agenzie governative hanno usato, fin dal 1940, fonti diverse quali censimenti, archivi o indagini condotte dopo la fine della guerra. Man mano che venivano trovati nuovi documenti i dati venivano perciò aggiornati. Fattostà che senza l'intervento di persone di buon cuore il numero degli ebrei sterminati sarebbe stato di gran lunga maggiore. Fu proprio per questo motivo che nel 1953 venne fondato con un atto del Parlamento israeliano lo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la memoria della Shoa con sede a Gerusalemme. Questo ente ha infatti lo scopo (fra gli altri) di nominare, ricordare e celebrare i "Giusti fra le Nazioni". La definizione "Giusto fra le Nazioni" va fatta risalire al "Talmud", testo fondamentale per la religione ebraica e Yad Vashem ha ripreso questo termine per rendere omaggio e commemorare coloro

    che rischiarono la vita per salvare gli ebrei negli anni delle persecuzione nazifasciste. "Chi salva una vita, salva il mondo intero", così si legge nel Talmud. Nel memoriale di Gerusalemme è stato a loro dedicato un grande giardino, per ogni giusto veniva piantato un albero e ai piedi di questi alberi ogni visitatore lasciava un sasso. I sassi sono il simbolo del perpetuo ricordo, mentre l'albero è simbolo della vita che continua e che è  continuata grazie a questi  "Giusti fra le Nazioni". Fra quelli che hanno lasciato un segno indelebile nella nostra memoria non possiamo dimenticare Oskar Schindler, forse il più famoso, ma ci anche sono molti italiani (circa 700) come Gino Bartali, Giorgio Perlasca, Carlo Angela (padre del giornalista Piero)e Monsignor Angelo Riotta. Ma esistono anche personaggi meno illustri, e che hanno contributo in ugual maniera a salvare vite umane e che purtroppo non hanno mai avuto la ribalta della cronaca. Ebbene fra questi "Giusti fra le nazioni" abbiamo anche due garfagnini e queste che vado a trarre integralmente dal data base dello Yad Vashem sono le vicende che portarono Giuseppe Mansueto Rossi e sua moglie Maria di San Pellegrino in Alpe a fregiarsi di questa alta onorificenza. Nell’agosto del 1943 assieme alla madre Felicina Barocas, incinta della seconda figlia, Franca Sraffa si recò a Farnocchia di Stazzema, una località della montagna tra i boschi non lontana da Pietrasanta, dove i nonni Federigo Abramo Ventura e Ersilia Barocas possedevano un negozio di stoffe, in Via
    San Pellegrino in Alpe
     Mazzini. E lavorava anche il padre, Aldo. Quella a Farnocchia doveva essere solo una breve vacanza consigliata dal medico a Felicina in vista delle sue condizioni di gravidanza e della calura estiva. Poi però con la caduta del regime fascista, e il precipitare degli eventi bellici, furono costrette a restarvi, dal momento che la situazione si era fatta particolarmente difficile in quanto la famiglia era ebrea sia dalla parte di Aldo Sraffa, che dalla parte di Felicina. Erano infatti comparse scritte antiebraiche in prossimità del negozio a Pietrasanta, e fu così che a Farnocchia arrivò anche Aldo. La famiglia Sraffa abitava in paese in una casa in piazza del Carmine, e fu a Farnocchia che il 18 ottobre 1943 nacque la piccola Donatella-Miriam. Purtroppo, l’ostetrica del paese, Siria Catelani, era di ideologia fascista, e dopo il parto si recò al comando tedesco per denunciare la presenza in paese di una famiglia ebrea.
    Don Innocenzo Lazzeri
    In questa condizione di grave pericolo, gli Sraffa furono accolti per alcuni giorni dal parroco di Farnocchia, don Innocenzo Lazzeri, che li nascose nella locale canonica. La stessa ostetrica tuttavia informò i nazifascisti del rifugio, e così una pattuglia arrivò a perquisire la canonica. In quel momento, l’intera famiglia Sraffa riuscì a nascondersi in un antro defilato della canonica, con Donatella-Miriam attaccata al seno materno in pieno allattamento, e l’alto rischio che se avesse smesso avrebbe potuto mettersi a piangere, permettendo così ai nazifascisti di trovarli. Dopo la perquisizione, gli Sraffa e don Innocenzo capirono che la canonica non era il posto più sicuro per loro, e così l’8 dicembre del 1943 si ritirarono a Greppolungo, un piccolo borgo del Comune di Camaiore, a circa 5 km di distanza da Farnocchia. Dopo un mese di permanenza su quelle montagne, nel corso del quale gli Sraffa cambiarono spesso luogo di residenza per evitare di essere scoperti, il dottor Mario Lucchesi, figlio del primario dell’ospedale di Pietrasanta, organizzò il loro trasferimento al Tendaio, località di montagna presso San Pellegrino in Alpe, nel comune di Castiglione di Garfagnana. Il trasferimento vide Aldo e famiglia scendere a Camaiore, ad attenderli trovarono Mario Lucchesi che con la sua auto li condusse a casa sua a Castiglione, dove trascorsero la notte e poterono rifocillarsi. La mattina seguente, all’alba alcuni membri della famiglia Rossi del Tendaio, tra cui Giuseppe Mansueto, venne a prelevare gli Sraffa per
    Giuseppe Mansueto Rossi
     portarli presso la loro abitazione, a circa 15 chilometri da Castiglione. Al Tendaio, Aldo, Felicina, Franca e la piccola Donatella Miriam vennero accolti con grande generosità dalla famiglia Rossi, Giuseppe Mansueto, la moglie Maria, il figlio Franco e la sorella di Maria, Rosina. Gli Sraffa vennero raggiunti anche dagli zii Augusto Ventura e Giuseppina Trevi, e tutti rimasero dai Rossi per circa un anno e mezzo, fino al giugno del 1945, ovvero la fine della guerra, organizzando ogni notte dei turni di veglia per controllare l’eventuale arrivo di truppe nazifasciste. Allora, don Innocenzo Lazzeri aveva già trovato la morte, il 12 agosto 1944, trucidato dalle SS nel tristemente noto eccidio di Sant’Anna di Stazzema. 
    L’8 dicembre 2015, Yad Vashem ha riconosciuto don Innocenzo Lazzeri, Mario Lucchesi, Giuseppe Mansueto Rossi e Maria Rossi come Giusti tra le Nazioni. Per far capire ancor meglio al caro lettore l'importanza e il significato di questo riconoscimento è giusto ricordare cosa poteva capitare a chi dava aiuto agli ebrei. Tali normative variavano secondo il Paese in cui veniva commesso il fatto. Innanzitutto le pene venivano date senza bisogno d'alcun processo e si andava dalla deportazione verso i famigerati lager, al carcere o alla fucilazione, le autorità naziste consigliavano però l'esecuzione di questi collaboratori sul posto. E' doveroso anche sfatare il mito di "italiani brava gente", non fummo tutti dei "Giuseppe Mansueto Rossi", ci furono molti "Siria Catelani", ossia dei delatori. Infatti, per quanto efficienti, i 
    Maria Rossi
    comandi della polizia tedesca avevano troppo poco personale e furono quindi costretti ad appoggiarsi ai funzionari della R.S.I.
    Ma non fu soltanto la politica ufficiale della Repubblica a essere di aiuto. Anche la collaborazione spontanea di migliaia di «italiani comuni», di normali cittadini, fu fondamentale per l’arresto di migliaia di ebrei. I poliziotti tedeschi sfruttarono ampiamente i collaboratori italiani: spie, delatori, infiltrati, che agivano nei modi più diversi. Questo lavoro veniva pagato piuttosto bene, dato che su ogni ebreo, in media, veniva messa una taglia di 5.000 lire dell’epoca. Comunque sia come cita il Talmud: "Basta che esista un solo giusto perchè il mondo meriti di essere stato creato".


    Bibliografia

    • Data Base online Yad Vashem
    • "Chi salva una vita. In memoria dei giusti toscani" di Alfredo de Girolamo. Regione Toscana 
    Fotografie

    • Le fotografie di Giuseppe Mansueto Rossi e di Maria Rossi sono tratte dal libro "Dalla Versilia alla Garfagnana Storia di ebrei e di Giusti" di Marco Piccolino

    La leggenda del fantasma del passaggio segreto della Fortezza di Mont'Alfonso e storia misteriosa delle stanze segrete

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    "CASTELNUOVO GARFAGNANA (LUCCA), 06 APR - Una stanza segreta è stata
    scoperta durante i lavori di restauro e recupero della Rocca Ariostesca a Castelnuovo Garfagnana (Lucca), struttura militare fortificata risalente al Medioevo. 
    Gli operai delle ditte incaricate dei lavori hanno notato un abbassamento di una parte di pavimento del piano terra e da lì a poco, spostando una notevole quantità di detriti, dal sottosuolo è emersa una stanza segreta: si tratta di un vano o di un passaggio la cui presenza era finora rimasta sconosciuta e non è escluso che possa condurre ad altre stanze dell'antico palazzo che fu anche la dimora di Ludovico Ariosto". Sono le 20:15, l'Agenzia Nazionale Stampa Associata, a tutti meglio nota come ANSA (la quinta agenzia d'informazione al mondo) rilancia la clamorosa notizia. E pensa un po' che avevo creduto di chiudere quella giornata davanti alla tele in maniera tranquilla e rilassata. La notizia invece mi riportava a ricordi di quand'ero bimbetto. Infatti chi fra noi non ha mai immaginato di avere per sè un luogo dove dedicarsi ai propri hobby e alle proprie passioni, lontano da sguardi indiscreti? E' sempre stato un mio sogno, ma l'ho sempre visto come un'idea uscita solo dai libri o dai film, ma non è sempre così, anzi... Chi studia "castellologia" sa benissimo che nel primo medioevo sia nelle massicce fortezze o negli imponenti manieri era piuttosto usuale scavare cunicoli, passaggi e stanze segrete a vari metri di profondità. Un lavoro duro, da talpe, che veniva fatto con abbondante forza lavoro che creava questi sotterranei, talvolta piccoli ed angusti, altre volte talmente grandi da permettere il passaggio di una carrozza. D'altronde la vita dentro un castello era dura e abbastanza scomoda, si doveva vivere al
    suo interno cinti da alte mura di protezione, si doveva rientrare dentro di esse a determinate ore prestabilite, dopodichè, chi non rientrava sarebbe rimasto fuori a passare la notte in preda ai briganti, malfattori e nemici vari. Fra tutti questi nemici i più temuti erano quegli eserciti che in alcune occasioni assediavano la roccaforte di turno e quando da parte degli assediati ormai anche l'ultima speranza di resistere al nemico spariva, quale miglior soluzione per salvarsi la vita c'era che fuggire attraverso stanze che portavano a dei passaggi segreti? Questi passaggi, spesso conducevano verso impenetrabili selve nascoste alla vista di chicchessia o anche  in direzione di altre inaccessibili fortezze. In questa fuga verso la salvezza avevano la precedenza i reali o i Signori del castello, si doveva in questo modo evitare un pericoloso vuoto di potere, ma non solo, un'altra funzione di questi passaggi era quella di avere un fondamentale ricambio di soldati fra una fortezza e un'altra. Quello che però è evidente che queste stanze segrete non sono un'invenzione medievale, già ai tempi dell'antico Egitto illustri architetti progettavano e realizzavano immensi monumenti funerari che prevedevano stanze e passaggi segreti per proteggere i tesori del loro faraone, alcune di queste ancora oggi rimangono segrete. Tornando a casa nostra uno dei passaggi segreti più famosi è quello del Castello Sforzesco di Milano, che si snoda fra cunicoli attraversabili anche a cavallo, fino ad arrivare alla campagna aperta. Altrettanto famoso è quello del Passetto di Borgo, un passaggio che collega il Palazzo Vaticano con Castel Sant'Angelo,
    Passetto di Borgo
    fortezza considerata inespugnabile. Sarebbe altresì sbagliato pensare che con l'avvento dell'era moderna la necessità di costruire stanze segrete sia svanita, tutt'altro. Oggi si chiamano "Panic Room". La Panic Room non è altro che una camera di sicurezza interna che permette di trovare riparo in caso di aggressione. Questa stanza ha trovato molta diffusione nei paesi anglosassoni ed è riservata a persone che se la possono permettere: attori, personaggi famosi e soprattutto politici. Essa non è una semplice stanza segreta ma un vero e proprio bunker, dotato di rivestimento in cemento armato, di porte blindate e antiproiettile, di sistemi tecnologici avanzati per comunicare con l'esterno. Manco a dirlo la più famosa è quella della Casa Bianca, accessibile attraverso porte nascoste negli angoli più impensabili. Ma torniamo però alla stanza segreta scoperta nella Rocca Ariostesca di Castelnuovo. Dopo l'incredibile scoperta la domanda più ricorrente è una sola. Dove condurranno questi misteriose camere? Alcune ipotesi sono state fatte... Chissà, potrebbe condurre ad altri locali dell'antico palazzo? O Forse potrebbe essere la classica "via di fuga"? Fra tutte le ipotesi fatte però, quella più affascinante narra del leggendario passaggio segreto che collegava la Rocca Ariostesca con l'imponente Fortezza di Mont'Alfonso, che si trova più a monte di qualche centinaio di metri. Da sempre si è parlato di questo
    passaggio, molti danno per scontato che sia sempre esistito, ma in effetti nessuna l'ha mai trovato. Naturalmente le teorie di dove potesse sbucare sono molteplici. C'è chi dice che forse poteva arrivare in Piazza Umberto I, chi asseriva che arrivasse proprio dentro la Rocca. Altri ancora invece "giurarono" di averne visto una porzione durante i lavori di scavo e manutenzione degli acquedotti comunali. D'altra parte c'è chi assicura che all'interno del favoloso passaggio ci sia imprigionato un fantasma. Tutto insomma rimane avvolto nel mistero, nel mito e nell'enigma più recondito. Rimane comunque opportuno mettere in guardia coloro che andranno a fare i futuri scavi, forse potrebbero incontrare chissà chi o forse chissà che cosa... Questa è infatti la leggenda del fantasma del passaggio segreto della Fortezza di Mont'Alfonso. Come in tutte le rocche, fortezze e castelli che si
    Fortezza di Mont'Alfonso
    rispettino, al comando di esse vigeva sempre un castellano che aveva il compito di guidare la vita del castello, sia da un punto di vista civile che militare. Difatti a questa regola non sfuggiva nemmeno la Fortezza di Mont'Alfonso, dato che, anche li risiedeva con tutta la sua famiglia il suo Signore, in quella che oggi è denominata "la casa del Capitano". Il castellano oltre a due figli maschi aveva anche una figlia femmina di nome Lucia, di cui era a dir poco geloso, tanto geloso da proibirle l'uscita dalla fortezza stessa. Ma come ben sappiamo la fortezza era costituita da valorosi soldati e fra questi soldati c'era un fascinoso ufficiale. Nonostante i severi controlli cupido scoccò però la sua freccia e la fanciulla s'innamorò perdutamente del militare. I due giovani infatti divennero  amanti all'insaputa di tutti, il problema stava però nel dichiarare questo amore al padre geloso. Il fato tuttavia ci mise lo zampino e durante una delle frequenti guerre fra gli Estensi e i fiorentini, anche i soldati della fortezza furono chiamati a dar man forte all'esercito del Duca di Modena. La battaglia in questione fu dura, morti da entrambi le parti e nel bel mezzo di uno di questi combattimenti il giovane ufficiale salvò la vita al castellano. Una
    La rocca Ariostesca
    volta, come ben saprete, la cavalleria era cosa seria e il protocollo prevedeva che colui che aveva avuto salva la vita dovesse concedere al suo salvatore un desiderio e così il castellano fece con il suo ufficiale. Il giovane difatti non si fece sfuggire l'occasione e chiese al padre la mano di sua figlia Lucia, confessando pubblicamente l'amore corrisposto della futura sposa. La richiesta fu delle più ferali che il signorotto potesse ricevere, avrebbe quasi preferito perire valorosamente in battaglia che cedere a questo desiderio, ma a questo punto non poteva nemmeno negare il consenso alle nozze, e così fu. L'ufficiale felice come non mai chiese il permesso al futuro suocero di andare a Modena per avvisare i genitori della lieta notizia. Il castellano furbescamente acconsentì. Nei giorni successivi il padre prese così da parte la ragazza e dato che sarebbe diventata la Signora della Fortezza era giusto che ne conoscesse tutti i suoi segreti, che erano ad esclusiva conoscenza di colui che la comandava. Fra tutti gli arcani che ci potevano essere dentro il fortilizio, il più misterioso e segreto era quello della galleria che conduceva di lì fino al paese di Castelnuovo. Così fu che un giorno, lontano da occhi indiscreti il padre portò la ragazza a conoscere questo fantomatico passaggio. Una volta davanti all'entrata aprì il cancello d'ingresso e nell'attimo preciso che la ragazza ebbe oltrepassata la soglia d'accesso il castellano la richiuse immediatamente, imprigionando di fatto la sventurata. In men che non si dica, fra le urla disperate della fanciulla, il malvagio uomo si adoperò senza indugio alcuno a murare l'ingresso della galleria, in questo modo "l'amata" figlia non sarebbe stata sua, ma
    La stanza segreta trovata
    a Castelnuovo (foto de "Il Tirreno")
    nemmeno di nessun'altro. La poveretta infatti li rinchiusa in poco tempo morì di fame e di sete. Il castellano nei giorni successivi raccontò alla gente che la figlia era fuggita, la stessa versione fu poi raccontata al ritorno dell'ufficiale. Il giovane disperato cominciò a cercare Lucia in ogni dove, naturalmente le ricerche non portarono a nessun esito e preso dallo sconforto, passato un po' di tempo, abbondonò l'incarico e tornò nella sua Modena. Di li a poco anche per il perfido 
    castellano il destino fu avverso, una malattia misteriosa lo portò inesorabilmente alla morte. La storia però non finì qui. Si racconta che il fantasma di Lucia ancora oggi vaga in quel passaggio segreto che collega la Fortezza con Castelnuovo. La sventurata di fatto è ancora lì che cerca di fuggire da quella maledetta prigione. La sua anima non ha ancora pace, quella pace sarà ritrovata solamente quando uno dei varchi d'entrata del passaggio sarà nuovamente aperto...


    Bibliografia 

    • "Garfagnana isola fantastica" di Alberto Cresti, edito Banca dell'Identità e della Memoria, anno 2020

    Pelè, il suo soprannome e la Garfagnana...

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    Pelè da bambino
    Alessandro Manzoni nei suoi "Promessi Sposi" scriveva:"... parve di sentire in que' tocchi il suo nome, cognome e soprannome". Il soprannome infatti da secoli e secoli è stato quell'epiteto che ha contraddistinto certe caratteristiche di una persona. La provenienza di questi nomignoli nasce difatti dalla pura fantasia popolare e trova le sue radici fra mille e mille motivazioni: il mestiere, l'aspetto fisico, particolarità del carattere o anche un semplice difetto; alcuni di questi vanno perfino "in eredità": un soprannome si può rinnovare da padre in figlio per generazioni e generazioni. Inoltre, soprattutto negli anni passati, sono serviti da funzione distintiva, in quei luoghi dove erano presenti molte omonimie. In parole povere è giusto dire che il soprannome è stato l'antesignano di quel cognome che oggi tutti portiamo. Tuttavia esiste un altro tipo di "soprannominazione" ed è quella che colpisce i personaggi dello sport e dello spettacolo. Qui le cose cambiano perchè questi nomignoli non sono più popolari ma bensì "elitari", coniati in genere da giornalisti e addetti ai lavori. Pensiamo al calcio. Gianni Brera era uno specialista ad appioppare questi soprannomi: "Rombo di Tuono" per Gigi Riva, "Abatino" per Gianni Rivera e "Penna Bianca" toccò a
    Roberto Bettega e così fu per molti altri ancora. Lo stesso avvocato Agnelli con la sua fine arguzia dispensava questi epiteti a destra e manca, "il Pinturicchio" Alessandro del Piero ne sapeva qualcosa. Rimane il fatto che a sottrarsi a questa regola del cosiddetto soprannome "elitario" fu quello che oggi è considerato il più forte calciatore al mondo, che si portava dietro il suo nomignolo già dalla tenera età. Prima di fare il nome, cognome e (soprattutto)il soprannome di questo personaggio è legittimo addentrarsi un attimino nei numeri che lo riguardano, per sottolineare proprio la sua grandezza. Pertanto cominciamo con il dire che i suoi gol furono 
    1281 su 1362 gare disputate. Tre volte fu Campione del Mondo (unico giocatore al mondo). Con la sua nazionale (il Brasile)giocò 92 partite, segnando 77 gol. Ma non fu solamente un giocatore formidabile, con gli anni che scorrevano diventò una vera e propria icona del nostro tempo. Rimase uno degli uomini più intervistati e fotografati di sempre, più di un qualsiasi statista o chicchessia divo del cinema. Accolto poi in 88 nazioni, ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e ben tre Papi. Il "Time" lo inserì tra i 100 eroi ed icone del XX secolo. Lui, come avete bene capito è Edson Arantes do Nascimiento, soprannominato "O Rei" o anche la "Perla Nera", ma da tutti conosciuto come Pelè. E già... è proprio da questo celeberrimo nomignolo che entra in gioco la Garfagnana e la sua gente. La notizia difatti ha del clamoroso e ribalta di fatto quella che era la versione da tutti conosciuta del significato e del perchè il più grande calciatore che sia mai esistito sulla faccia della Terra gli fosse stato affibbiato il soprannome di Pelè. A
    riguardo di questo, un'interessante e curioso articolo è comparso sulle pagine de "La Nazione" il 3 gennaio 2023, a pochi giorni dalla morte del calciatore e porta l'autorevole firma di Dino Magistrelli. Comunque sia partiamo dall'inizio e vediamo quello che era la sola versione conosciuta fino ad alcuni mesi fa. La storia nasce da un umile portiere brasiliano che militava nelle squadre amatoriali del suo paese, il suo nome era Josè Lino Conceicao detto "Bilè". Il portiere era amico del padre di Pelè ed entrambi militavano nella squadra del Vasco de Sao Lourenco, nella stato del Minas Gerais. Ebbene, a quei tempi il futuro Pelè era un bambino che non aveva ancora la passione del gol, anzi il suo ruolo preferito era proprio quello di fare il portiere e come tutti i ragazzini aveva un suo idolo con cui compararsi, il suo modello di portiere era proprio quel "Bilè" che giocava con il suo papà. A quanto pare, così narrano le vicende, Edson non riusciva bene a pronunciare correttamente il nome "Bilè" e nelle partitelle con gli amici quando faceva una buona parata era solito dire:-Seguuura Pilééé!!!-, ossia:-Prendilaaa Pilè-. Fu a quel punto che gli amichetti per prenderlo in giro crearono il soprannome di Pelè, un nomignolo che lui odiava ed effettivamente nei suoi racconti così narrava: 
    -A scuola mi chiamavano Pelé ed io litigavo con tutti. Pelé è un termine infantile ed i compagni di classe lo utilizzavano per 
    Dal film "Pelè"
    farmi arrabbiare. Oggi, però, lo adoro, perché è un nome conosciuto in tutto il mondo. Con il trascorrere del tempo, poi, è stato come se nel mio cuore ci fossero due persone: Edson, che si divertiva con la famiglia e gli amici, e Pelé, il calciatore
    -. Questa era la versione adottata da tutti fino a poco tempo fa, poteva variare qualche dettaglio, ma in sostanza questo era quello che si sapeva. A stravolgere tutto il 3 gennaio ci pensò con il suo bell'articolo Dino Magistrelli che raccolse le parole di Antonio Bacci di Pieve Fosciana, nipote di emigrati garfagnini nel lontano Brasile, ed è proprio da qui che comincia la stupefacente storia.

    Riporterò integralmente l'articolo di Dino Magistrelli in modo che le vicende raccontate non siano snaturate.


    "Nella straordinaria vicenda sportiva di Edson Arantes do Nascimento, Pelé, si inserisce a pieno titolo la Garfagnana, grazie a un emigrato di Pieve Fosciana, Pellegrino Bacci, partito per il Brasile nei primi anni del secolo scorso, insieme alla sorella Luisa e al fratello Giuseppe. I Bacci, grandi lavoratori, stabilitisi a Baurù nello Stato di San Paolo, fecero fortuna raggiungendo una certa agiatezza. Vicina di casa era la famiglia di un ragazzino, diventato poi il grande Pelè, e la mamma Celeste, ancora vivente con i suoi cento anni, che aiutava nelle faccende domestiche la famiglia Bacci. Tra i primi a notare le qualità di quel simpatico discolo che scorrazzava nel giardino di casa Bacci e giocava insieme al figlio Gino, anche lui diventato giocatore professionista e poi dirigente del Palmeiras, fu proprio Pellegrino Bacci che lo segnalò alla società dilettantistica locale del Baurù, dove la futura "Perla nera" si trovò a giocare con l’amico Gino. proprio la famiglia Bacci ama raccontare, tra mille aneddoti, che da Pellegrino sarebbe nato anche il famoso soprannome di Edson Arantes do Nascimento, ovvero Pelé. Infatti nella narrazione dello stesso Pellegrino, un giorno, durante una pausa dell’allenamento con i coetanei nelle giovanili del Baurù, il tre volte campione del mondo avrebbe pronunciato per diverse volte: "Me lo ha detto Pelé", riferendosi a Pellegrino, detto Pellè. Agli altri ragazzi parve buffo questo termine e così un po’ per scherno, o forse per invidia per colui che era il migliore con il pallone tra i piedi, cominciarono a chiamarlo Pelè. Questa bella storia che lega Pelé alla Garfagnana ce l’ha raccontata – nei giorni in cui il mondo ha salutato il suo campione – Antonio Bacci, il cui papà Aldo, classe 1927, nipote di Pellegrino Bacci, da giovane aveva trascorso diversi anni in Brasile, impegnato nell’azienda di famiglia. Antonio Bacci ci ha fornito anche una fotografia scattata il giorno di Natale 1961 nella casa dei genitori dell’allora già campione del mondo con la nazionale verde-oro in Svezia e che si accingeva a diventarlo una seconda volta in Cile. Nella foto(N.D.R: quella qui sopra riportata), inviata da Pellegrino al nipote Aldo, già rientrato in Italia da anni, ci sono Pelè con quattro nipoti di Pellegrino, Josè Omar, Josè Salmenzinho, Nelson detto Nelsinho e Adele".

    Dino Magistrelli "La Nazione" 3 gennaio 2023

    Naturalmente a noi garfagnini piace dare credito a questo nuovo resoconto, proprio perchè nella nostra lunga storia di emigrazione  abbiamo sempre lasciato un segno positivo ovunque siamo stati e ci piace appunto credere che i nostri avi abbiamo lasciato anche un segno indelebile nella grande storia del calcio mondiale.

    Bibliografia

    • La foto inserita nell'articolo di Dino Magistrelli è quella in  cui si fa riferimento nell'articolo stesso ed è stata pubblicata da "La Nazione" il 3 gennaio 2023. Proprietario dell'immagine la famiglia Bacci
    • "Pelè giocava nel mio giardino..." di Dino Magistrelli. Da "La Nazione" 3 gennaio 2023

    Gli animali d'allevamento e il contadino garfagnino, storia di un legame millenario

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    "Grandezza e progresso morale di una nazione si possono giudicare dal
    modo in cui si tratta gli animali
    ", così diceva Mahatma Gandhi. Gli animali domestici sono oggi parte integrante delle nostre famiglie. Per molti di noi, sarebbe difficile immaginare la vita senza di loro. Rispettati, coccolati e fin troppo umanizzati. Una volta però si badava meno al sottile e nella cultura contadina l'animale, soprattutto quello d'allevamento, era amato e principalmente rispettato per un semplice motivo, era una delle fonti principali di mantenimento per l'intera famiglia. In quei lontani tempi questi animali venivano infatti chiamati  
    "animali da sostentamento" per il semplice motivo che servivano proprio al sostegno della famiglia. Oggi la legge li definisce però in maniera molto più cinica "animali da reddito": "DL 26 marzo 2001, n. 146 , gli animali da reddito sono rappresentati da “qualsiasi animale, inclusi pesci, rettili e anfibi, allevato o custodito per la produzione di derrate alimentari, lana, pelli, pellicce o per altri scopi”. La definizione di questo sarebbe poco importata ai contadini garfagnini di quel tempo, quello che contava era allevare in maniera sana i propri animali, importanti e fondamentali nell'economia rurale della Garfagnana. Guardiamo allora com'era il profondo rapporto fra i garfagnini e i propri animali. Partiamo dal lontano medioevo quando l'animale era si rispettato, ma nel contesto e nella mentalità di mille anni fa. Tutto infatti si concentrava su una "brutta" parola: "antropocentrismo", che è quella teoria che affermava che l'uomo era al centro dell'universo e sotto di lui la natura, sia nella forma animale che vegetale. Grande ispiratore di questa dottrina era l'imperatore del Sacro Romano Impero, Federico II detto "Stupor Mundi" (meraviglia del mondo). Secondo lui sulla Terra esisteva un preciso ordine gerarchico, tutto era sottoposto alla volontà Divina, e a lui, proprio come
    Federico II
    rappresentante di Dio, tutti gli esseri viventi dovevano dare osservanza ed ubbidienza. Questo valeva anche per gli animali, infatti, non stupiva quando faceva decapitare i suoi amati sparvieri, colpevoli di aver ucciso un'aquila, simbolo del suo Impero. In quest'ottica va quindi visto il rapporto che aveva la gente comune con gli animali e se è vero che tutti gli animali erano sottoposti all'uomo era altrettanto vero che nemmeno gli animali potevano essere considerati tutti sullo stesso piano. Al primo posto c'era infatti il cavallo. I
    l cavallo rappresentava il più nobile tra tutti gli animali, perché “attraverso quello i principi, i magnati e i cavalieri potevano essere distinti dai minores”. Non stupisce, perciò, che i trattati relativi alla cura degli animali riguardino principalmente questo vero e proprio status symbol del tempo. Oltre al cavallo, venivano presi in considerazione prevalentemente gli animali il cui lavoro o la cui carne erano considerati necessari all’utile del genere umano: i buoi, indispensabili per il lavoro nei campi, le pecore, fondamentali per la produzione della lana, i rapaci, utilizzati dai nobili e dai sovrani nelle loro attività venatorie, i cani da caccia e da pastore, gli animali da cortile e i maiali. Naturalmente con l'andar dei secoli questa bislacca teoria andò scemando, quello che rimase però inalterato, a parte alcune variazioni, fu la scala gerarchica attribuita agli animali d'allevamento e questo era dovuto dal fatto che questi animali erano una vera e propria rendita familiare
    . In Garfagnana tale graduatoria vedeva ai primi posti, buoi, mucche, maiali e pecore che rappresentavano una fonte di reddito irrinunciabile, in quanto, da tutti questi, ogni famiglia traeva dal loro allevamento i prodotti necessari per sopravvivere: il latte per i formaggi e il burro, le uova, la lana per gli indumenti invernali e ovviamente la carne. In (quasi)tutte le famiglie contadine della
    Garfagnana esistevano in genere almeno una mucca e un bue, utilizzati per il reperimento di risorse alimentari e per il lavoro nei campi, a cui si affiancavano pecore, capre e maiali le cui carni conservate fornivano l’apporto proteico durante la brutta stagione, non mancavano nemmeno galline e oche. Com’è ovvio, le bestie più tutelate, per le quali valeva la pena di spendere i soldi per il veterinario erano i bovini 
    che erano minacciati da diverse patologie più o meno gravi. Tra tutte, risultavano di gran lunga le più pericolose la tubercolosi, la mastite e le intossicazioni alimentari, spesso determinate dall’ingestione di piante velenose o dall’eccessiva ingestione di cibo. Le medicine, per gli animali come per gli uomini, comprendevano essenzialmente elementi vegetali. Venivano impiegate le stesse erbe utilizzate nell’alimentazione umana. Ai questi rimedi, si mescolavano anche pratiche magiche e popolari: per difendere le pecore dai serpenti, che spesso si nascondevano nelle stalle, si consigliava ad esempio di bruciare del legno e dei capelli di donna. Sennò si diceva anche che il sesso dei nascituri, poteva essere influenzato da un corretto e sapiente utilizzo degli elementi della natura: chi desiderava avere pecore di sesso maschile doveva porre il gregge contro vento, mentre i venti da sud erano fondamentali per la generazione delle femmine. C'era anche chi tra i contadini, sempre in questo campo, poteva avere una premonizione guardando la direzione presa dagli animali dopo il coito: se questi si fossero diretti a destra il piccolo sarebbe stato un maschio, se invece gli animali avessero imboccato la direzione sinistra avrebbero certamente generato una femmina. Non solo medicine naturali ed improbabili riti magici, a protezione degli animali i garfagnini rivolgevano le

    proprie preghiere a Sant'Antonio Abate. Tanto è vero che affissa nelle stalle compariva spesso l'immagine del santo. Il 17 gennaio, giorno in cui si festeggia era consuetudine benedire gli animali
     che durante quella giornata venivano abbondantemente rifocillati e sottoposti ad un'accurata pulizia, non venivano impiegati nei trasporti, per il lavoro nei campi, macellati e neppure vegliati durante la notte, in quanto si diceva che acquistassero la parola e chiunque si fosse trovato ad ascoltarli sarebbe andato incontro alla morte... Insomma, a conferma dell'importanza di questi animali sono le nefande gesta che facevano nei loro confronti il "Buffardello" e gli altri esseri sovrannaturali che popolavano la Garfagnana. Sono molte le storie che coinvolgono queste bestie e queste entità dispettose che andavano proprio a colpire ciò che il contadino aveva di più caro. Si racconta infatti di quel contadino che trovava nella sua stalla le code delle mucche e i crini dei cavalli intrecciati e ancor meglio quei poveri marito e moglie che possedevano solo due vacche le quali una ingrassava a vista d'occhio, mentre l'altra deperiva quasi fino alla morte, ebbene si scoprì che il buffardello la notte toglieva il fieno dalla mangiatoia della vacca magra per darlo a quella grassa. Che dire poi di quell'altro spiritello chiamato il "Settescintille" che dava il meglio di sè, proprio sul fare del giorno, o meglio, quando era ancora buio e i pastori si apprestavano a portare i greggi al pascolo, appariva allora quel folletto sotto forma di stella luminosa a sette punte, pronto a spaventare il pastore e le povere pecore. Volteggiava, girava su se stesso per tutto il sentiero che portava al pascolo e poi improvvisamente s'inoltrava nei boschi creando ombre spaventose ed inquietanti, facendo assumere agli alberi forme spaventose. Alla fine dello "spettacolo" con tre balzi scompariva dentro una buca del Monte Tambura. Non disdegnava nemmeno entrare dentro le stalle per
    mettere paura alle mucche: entrava e scompariva con un gran botto. Anche la Chiesa, nella cattolica e puritana Garfagnana di un tempo, faceva leva sulla salute e l'integrità degli animali d'allevamento, perchè tutti i buoni cristiani osservassero con diligenza tutti i precetti di Santa Romana Chiesa. A riguardo di ciò la storia che vi narrerò è tratta dal libro
     "Descrizione Istorica della Provincia della Garfagnana" di Sigismondo Bertacchi, i contorni della vicenda assumo il contesto di verità assoluta. Era infatti l'anno di Grazia 1612: "Dell'anno 1612, essendo una donna chiamata Caterina Mazzoni da Dalli, d'età d'anni 40 in circa, maritata in Antonio di Bernardino da Orzaglia, dal quale aveva avuto quattro figliuoli, e tal donna era poco osservante de SS. Precetti di Dio. Ella aveva il peccato della bestemmia e quello di non santificare le feste commandate, e per ordinario usare fare le sue bugate (n.d.r: il bucato) ne' giorni festive, et in essi andarle a lavare alla fonte. Avvenne che fattane una in giorno di Domenica, et andatala a lavare, secondo il suo uso, condusse seco alla fontana un paro de vacche, acciò esse mangiassero, mentre essa lavasse la bugata, e mentre ciò faceva, venne una folgore, overo saetta dal cielo, et ammazzò lei, senza che li vedesse nella sua vita male alcuno, e la spogliò nuda, come se fosse allora escita dal ventre della madre; e quella stessa saetta ammazzò anche una delle vacche. Il marito con il Clero andornò a condurre la donna alla sepoltura, il che fatto, condussero anche la vacca nella Terra. Qui ora nasce la maraviglia. La vacca fu
    scorticata et aperto il suo ventre vi trovorno tutti i panni della donna, senza aver patito lesione alcuna".
    In conclusione non rimane che dire che 
    gli animali e i loro indispensabili prodotti sono fra i principali protagonisti di una volta,  che tracciano il profilo della vita quotidiana del mondo contadino garfagnino, in un’epoca trascorsa ma non del tutto perduta, la cui eco oggi, è giunta sino a noi.


    Bibliografia

    • "Racconti e tradizioni popolari delle Alpi Apuane" di Paolo Fantozzi, edito da "Le Lettere", anno 2013
    • Sigismondo Bertacchi, “Descritione istorica della Provincia di Garfagnana” - 1629

    Il casello ferroviario del Salice: cronaca di un ultimo viaggio...

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    Le cronache di questo ultimo triste viaggio hanno una data e un'ora
    ben precise. Erano le 14:30 del 7 aprile 1908. Fu proprio in quel nefasto giorno che Giovanni Pascoli fu operato da quel funesto male che aveva allo stomaco. Proprio in quell'anno comparvero per la prima volta i segni della malattia da lui definita "solito incomodo" e che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni. Il tutto lo si apprende dalle agende annuali saltuariamente scritte dal poeta, ma è dalla penna della sorella Mariù che il quadro dei fatti si rende nitido, il racconto è come un album di fotografie che permette di capire in pieno la relazione affettiva della sorella verso il fratello, in una girondola di emozioni fatta di turbamenti, preoccupazioni e speranze. Infatti è proprio nelle lettere che Mariù scriveva alla cara domestica Attilia Caproni (figlia del celebre Zi Meo)che tutto compare chiaro ed ineluttabile: "
    Carissima Attilia, non so se glielo abbia detto il suo cuore. Ieri 7 aprile alle ore 14 e mezza, Giovannino è stato operato di quel disturbo che le accennai, e che vide anche il dottor Caproni. Era cosa più grave di quello che non si credeva. L’operazione è stata dolorosissima tanto da far uscire dalla bocca di Giovannino qualche alto gemito disperato. Io non le so dire di me. Ero in un’altra stanza con Gulì e nel sentire la voce di dolorosa di Giovannino ero diventata come una furia. Gulì abbaiava disperatamente. Che brutto e triste momento! Non me lo posso levare dalla mente! Hanno preso parte all’operazione tre bravissimi dottori. Ed ora, or l’uno or l’altro se lo curano con un amore indicibile". Era dunque era il 7 aprile 1908 alle 14:30 quando fu operato a Bologna dal professor Bartolo Nigrisoli e  la malattia si mostrò più grave del previsto. Fra questi "bravissimi dottori"
    menzionati da Mariù c'erano il fior fiore dei medici italiani, il suddetto professor Bartolo Nigrisoli, un luminare nel campo della chirurgia, amico del Pascoli conosciuto ai tempi dell'Università di Bologna, il professor Severino Bianchini, romagnolo, anch'esso amico fin dalla giovinezza e direttore dell'ospedale di Lucca, importante fu anche l'apporto dato da Antonio Ceci, professore alla cattedra di chirurgia dell'Università di Pisa, fondamentali furono anche le cure del suo medico Alfredo Caproni. Nonostante l'operazione e gli esimi dottori, le cose purtroppo non migliorarono, turbe digestive su base epatica insorsero nuovamente dal 1910 e proprio il dottor Bianchini sottolineava  questo peggioramento: "
    Da qualche mese era cominciato un vago malessere, accompagnato a stanchezza, svogliatezza di cibo, senso di inquietudine generale, lento decadere di forze, dimagrimento". Insomma, fra alti e bassi il tempo trascorreva e il male cui affliggeva il Pascoli non presentava più alcun dubbio: neoplasma maligno allo stomaco con metastasi al fegato che già presentava evidenti segni di cirrosi. Questo lo avevano capito bene il buon dottor Caproni e il già menzionato professor Bianchini che nascosero l'evidente gravità a Mariù e allo stesso Giovanni. A peggiorare la situazione ci si mise anche l'ineffabile destino che a volte, anzi direi spesso, si diverte a tracciare strani disegni. Difatti il fedele cagnolino Gulì stava per spegnersi. Era il gennaio 1912 e nel frattempo si stava anche preparando il trasferimento di Giovanni Pascoli a Bologna, in questo modo sarebbe stato agevolmente e maggiormente curato, ma i due fratelli Mariù e Giovanni non ne volevano di sapere di lasciare il povero Gulì morente e si decise così di rinviare qualsiasi viaggio. Tanto è vero che anche il povero cane sembrava avesse avuto il presentimento della
    Gulì
    malattia che aveva colpito il suo padrone, rimaneva il fatto che anche per lui, come per il suo amato Giovanni erano riservate cure amorevoli. Purtroppo però arrivarono anche i suoi ultimi giorni. Oramai respirava affannosamente, rifiutava ogni cibo, le forze cominciarono a calare di giorno in giorno, quando il 21 gennaio 1912 alle ore 21:45 Gulì morì. Ora, a questo punto, si doveva pensare solo ed esclusivamente alla compromessa salute del poeta. Arrivarono così anche i primi del febbraio 1912 e il Caproni scrisse al professor Bianchini:"
    In pochissimo tempo era decaduto. Nel silenzio dei fenomeni si era ordita la malattia insidiosa che, sorta nello stomaco, andava diffondendosi al fegato … Una visita brevissima bastò a rendermi conto della situazione tragica …". La notizia e la preoccupazione ben presto si diffuse in tutto il Regno d'Italia, a Castelvecchio giunse una comunicazione a Mariù di Gabriele D'annunzio:"Leggo stamane cose che mi rendono inquieto. Prego telegrafarmi assicurandomi. Dica a Giovanni che gli sono vicino. Lo abbracci per me". Perfino la Regina Madre Margherita di Savoia s'interessò alla sua salute. Ormai, davanti all'evidenza dei
    fatti non rimaneva che organizzare quell'ultimo viaggio tante volte rinviato. Saranno così gli amici più cari a chiedere alle più alte cariche dello Stato un treno speciale che raggiungesse la Valle del Serchio per portare a Bologna il povero malato. Fu il senatore ed ex ministro della Pubblica Istruzione Luigi Rava ad interessarsi personalmente delle cose. Ad ogni modo bisognava ancora decidere la stazione ferroviaria in cui far fermare il treno speciale. La linea ferroviaria Lucca- Aulla era stata inaugurata l'anno precedente, le stazioni erano nuovissime e il comune di Barga, dove Giovanni Pascoli era residente, nella nuova tratta ne aveva ben quattro
    la nuova stazione di Castelvecchio
    (Castelvecchio, Barga- Gallicano, Fornaci di Barga e Ponte all'Ania), nonostante ciò fu scelto come luogo di fermata un umile casello ferroviario. Per i pochi che non sanno cosa sia un casello è necessario evidenziare che questa struttura non è altro che una casa cantoniera ferroviaria, al cui interno abita e lavora un casellante adibito alla manutenzione e al controllo di quel tratto di linea. Comunque sia fu appunto scelto "il casello del Salice", così chiamato perchè nelle sue vicinanze albergava questa maestosa pianta. La casupola si trovava in località Piezza, nel comune di Gallicano a qualche centinaio di metri da quel "Ritrovo del Platano", l'amata osteria in cui il poeta passava parte delle sue giornate. Questa ambigua decisione rimase però a molti assai strana... Perchè non aver scelto una comoda stazione che poteva essere raggiunta facilmente?
    Il casello del Salice oggi
     Alcuni misero in evidenza il fatto che  questa scelta fatta servì per evitare un grande assembramento di folla che avrebbe potuto stancare ed emozionare troppo l'ammalato. Altri ancora portarono avanti motivazioni di risentimento politico da ricercare nelle elezioni parziali per il consiglio comunale di Barga del 1905: "... la stima e quasi la gratitudine dei barghigiani per il Pascoli non diminuiscono: ne sono la prova le elezioni parziali per il consiglio comunale di Barga Il poeta è messo in testa alla lista unica dei tre candidati concordati tra "la crema" e "il popolo" e proposti nella seconda metà di giugno; nel luglio compare nei giornali di Barga la sua accettazione, ripromettendosi egli giovane all'istruzione scolastica del Comune; e il 3 settembre votano 432 barghigiani su 1005, il poeta ottiene ben 428 voti... Ma, nuovo motivo di doloroso dispetto, il giorno dopo viene annullata l'elezione, perchè il Pascoli era, come si diceva, "forestiero", cioè non iscritto nelle liste del Comune. "Ci rimasi male", e ci fu chi, nei giornali locali volle sentirci "una rappresaglia" della massoneria, sia per il suo orientamento nazionalista, sia per il recente discorso su la Messa d'oro. Ma egli non fece che lievi proteste...". In sostanza il Pascoli risultava ineleggibile nonostante la cittadinanza onoraria di Barga e rimase in silenzio fino al giorno dopo le elezioni amministrative del 1907, quando rinunciò proprio a quella cittadinanza onoraria avuta nel 1897. Era il 30 luglio 1907 e il poeta scriveva questa dura lettera al Sindaco barghigiano: "Due anni sono, quasi tutti i voti, quest'anno nessuno ... E perciò sebbene creda di non meritare questo spregio e quindi non me ne curi, non si turbi la S.V Ill.ma se anche per mia parte respingo e rinunzio quella cittadinanza d'onore...; gli elettori hanno tacitamente ma chiaramente detto che nessun onore Barga riceve da me e che nessun onore merito da lei. Sia. Resto contribuente".  Per quattro anni, in una sorta di (auto) esilio, non entrò più nella cittadina. Vi tornerà nel 1911 per fare un vero e proprio comizio in occasione dell'annullamento delle elezioni provinciali a Barga e Coreglia. In sostanza si può dire che qualcuno vide la decisione della partenza dal casello del Salice come un'idea di non dare lustro ed onore di quell'ultimo viaggio (che oramai anche lui sapeva di fare) a quel comune che lo aveva politicamente respinto. Ad ogni modo arrivò anche il fatidico giorno: "
    E’ definitivamente stabilito che il treno speciale a disposizione dell’Illustre Professore giungerà domani alle ore 11,52
    e ne ripartirà per Lucca alle 11,57, dove giungerà alle ore 13 precise. Facciamo i voti migliori, perche’ le speranze nostre e di tutto il Paese, di una rapida guarigione siano esauditi”
    . Il telegramma arrivò il 16 febbraio del 1912 ad Alfredo Caselli, un caro amico del professore, a mandarlo fu un funzionario
     delle Regie Ferrovie. Gli abitanti di Piezza e del Ponte di Campia si misero subito a lavoro per rendere all'amico Giovanni la strada per il casello praticabile e comoda, difatti nel corso di quella notte fu colmato un ripido dislivello proprio per consentire il passaggio del poeta. Il giorno della partenza e di quell'ultimo viaggio arrivò, in quel 17 febbraio 1912. Il paziente lasciò in tutta fretta la Garfagnana, la Valle del Serchio e la sua amata Castelvecchio: "Poi salì sul treno con Maria e i due medici appena dentro nel saloncino per malati ebbe un lampo quasi gioioso, di quella sua gioia che sembrava infantile nel vedere quella vettura quasi camera da letto. A Lucca salì a salutare e a portare i soliti piccoli doni il Caselli; il viaggio fu compiuto senza disagio; verso le 18 si arrivò a Bologna (erano alla stazione alcune delle autorità bolognesi, lo Zanichelli, studenti) e poi la casa in via dell’Osservanza”Il poeta morì a 57 anni, poco dopo, il 6 aprile del 1912. Ad onorare l’ultimo viaggio del poeta la
    gente di Gallicano ci pensò subito. E infatti nel settembre del 1912 un comitato pubblico depose una lapide in Piezza, ad opera dello scultore lucchese Francesco Petroni che nelle parole di Italo Pierotti così dice: “Qui Giovanni Pascoli, il 17 febbraio del 1912, giorno tristissimo per se e per la patria,  piangendo dette l’ultimo lampo dei suoi occhi, 
    l'ultimo sogno del suo cuore alla valle dei buoni e degli umili, che dopo averla amata, immortalò. Il popolo di Gallicano”. 


    Fonti e bibliografia
    • "Lungo la vita di Giovanni Pascoli" Maria Pascoli, Arnoldo Mondadori editore, 1961, memorie curate ed integrate da Augusto Vicinelli
    • "Giovanni Pascoli Tutto il racconto di una vita tormentata di un grande poeta" di Gian Luigi Ruggio, Simonelli editore, anno 1998
    • "Il cipresso e la vite" di Lorenzo Viani, Vallecchi editore 1943
    • "Giovanni Pascoli il nostro poeta. Intervista a Umberto Sereni" Barganews archives https://www.barganews.com/2012/08/20/giovanni-pascoli-il-nostro-poeta-intervista-a-umberto-sereni/
    • "Poesia di Luigi Sorrentino- il primo blog della Rai dedicato alla poesia"- Pascoli l'ultimo viaggio del poeta- pubblicato 17 febbraio 2012
    • "Giovanni Pascoli e la malattia. Tra biografia e scienza medica" della Professoressa Patrizia Fughelli Dipartimento Scienze mediche e chirurgiche Università di Bologna (https://centri.unibo.it/centro-camporesi/it/dna-di-nulla-accademia/patrizia-fughelli-giovanni-pascoli-malattia-biografia-scienza-medica-1#:~:text=La%20malattia%20fu%20da%20lui,ma%20che%20tutto%20andr%C3%A0%20bene.)

    Il Monte Forato agli Uffizi... Storia di un quadro unico e del suo pittore

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     Michele Mointaigne, Sthendal, John Ruskin, il poeta Keats, per non
    parlare del celebre scrittore Johann Wolfgang von Goethe, il poeta inglese George Byron e perfino la scrittrice Mary Shelley, autrice del celebre "Frankestein". Questi furono fra i personaggi più famosi che intrapresero "il Grand Tour". Il Grand Tour, per quelli che non lo sapessero era un viaggio in tutta Europa dove i giovani imparavano a conoscere la politica, l'arte e la cultura del vecchio continente, che (nella maggior parte dei casi) facevano i rampolli aristocratici. La meta principe naturalmente era l'Italia, che era considerata dai più un vero e proprio museo a cielo aperto. Questo giro per l'Europa raggiunse il suo massimo splendore verso la fine del 1700 e la metà del 1800. D'altronde c'era un tempo in cui non esistevano viaggi organizzati, nè tour operator, nè tantomeno crociere di qualsivoglia itinerario e se volevi conoscere il mondo questo era il modo che intraprendevano i giovani dell'alta borghesia europea, che così si prendevano un anno sabbatico dai loro impegni per conoscere il mondo esterno, per conoscere nuova gente e vedere diversi stili di vita. L'Italia era l'obiettivo finale che sicuramente immergeva il visitatore dell'epoca nella storia e nella cultura che forse nessun'altro paese europeo gli poteva dare. Tappe obbligate erano città come Venezia, Roma, Firenze, Napoli, Pompei, c'era anche chi s'avventurava in Sicilia e ai quei segni rimasti della cultura greca.
    Naturalmente non era semplice muoversi, non esisteva la guida turistica, ci si spostava lungo un percorso ben definito dai precedenti viaggiatori, non era consigliabile uscire da questi tragitti per via dell'alto rischio di essere rapinati dai briganti. Ma come facevano poi questi illustri giovanotti ad immortalare per sempre questi viaggi unici ed irripetibili? Smartphone di ultima generazione? Macchine fotografiche ultramoderne? Ovviamente niente di tutto questo. L'usanza dei giovani nobili era quella di viaggiare con i loro ritrattisti o paesaggisti al seguito, così da poter fare degli schizzi durante i loro viaggi, in alternativa questi rampolli commissionavano gli schizzi ad artisti locali. Uno di questi intrepidi viaggiatori portava il nome di Karol Markò, lui sicuramente non aveva bisogno di portarsi al suo seguito nessun disegnatore, dato che lui era già uno dei più grandi paesaggisti ungheresi. Lasciò così nel 1822 l'Ungheria, il suo viaggio prosegui in Cecoslovacchia e di li continuò per l'Austria dove si stabilì per alcuni anni a studiare all'Accademia di Belle 
    Karol Markò
    Arti di Vienna. Dopodichè, riuscì finalmente a realizzare il suo sogno. Nel 1832 grazie all'intervento di un ricco mecenate si trasferì in Italia. Andò ad abitare a Firenze e di lì non si muoverà più per tutta la vita. Attratto dall'arte rinascimentale fiorentina, dalle opere del Michelangelo, del Vasari e di Leonardo pensò che tanta bellezza doveva essere condivisa con i suoi figli, doveva così trovare il modo di fargli raggiungere la Toscana dalla lontana Ungheria. Messi da parte un po' di risparmi riuscì a farli arrivare in Italia. Anche loro erano pittori di tutto rispetto, ma fra Karol (junior) e Andrea, nell'arte pittorica sembrava primeggiare quest'ultimo. Fu così che Andrea per niente intimidito dai giganti dell'arte toscana cominciò a fare scuola di paesaggio. Era stanco di rifugiarsi nel buio di uno studio, condusse così i suoi allievi fra pastori e greggi, prima intorno al Castello di Staggia e poi in Versilia e fu proprio in Versilia che rimase attratto da quei  monti che vedeva in lontananza: le Alpi Apuane, chiese così informazioni agli abitanti del posto che gli raccontarono la bellezza di tali vette e gli narrarono in particolar modo di due singolari montagne: il Monte Forato e il Procinto. Nel frattempo la sua fama cresceva, le sue mostre in giro per l'Italia avevano un 
    "Paesaggio Montano"
     di Andrea Markò
    Il Procinto sullo sfondo
    successo unico, la sua pittura era una pittura vera, rappresentava i paesaggi con meticolosità unica. In questo suo girovagare per mostre il bizzarro destino volle che il Monte Forato ritornasse un'altra volta nei suoi pensieri, visto che fra le mani gli capitò una litografia della disegnatrice Charlotte Bonaparte, nipote di Napoleone, questo disegno s'intitolava proprio "Vue de Monte Forato" (Veduta del Monte Forato). Pensò così che il destino non andava sfidato e armato di cavalletto e pennelli si inerpicò su quei difficili sentieri apuani per poter fissare su tela questa bellezza miracolosa. Era il 1871 quando Andrea creò 
    questo dipinto che ci offre una lettura del fenomeno naturale ferma e chiara, che non rinuncia però ad un tocco di sublime romanticismo: la pastorella infatti, piccola insieme ai suoi animali, ci offre la misura e la maestosità della conformazione rocciosa e induce in noi stupore e meraviglia. Negli anni a venire l'opera d'arte passò nelle mani del pittore anglo-fiorentino Robert William Stranger, che nel 1913 la donò alla Galleria d'Arte Moderna
    di Palazzo Pitti. Ora il quadro è sotto la tutela de "La Galleria degli Uffizi".


    La Storia nel piatto... Polenta e ossi e la sua presunta origine

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    Di soppiatto, piano, piano, un po' alla volta ma finalmente è
    arrivato... Alcuni dicevano che quest'anno avrebbe saltato il suo appuntamento con tutti noi. Invece l'autunno come sempre è giunto con tutte le sue immancabili caratteristiche. I colori ad esempio: giallo. arancione, marrone, la fastidiosa ed indispensabile pioggia, le corte giornate... Ma l'autunno non è solo questo. L'autunno è fatto soprattutto di sapori, di cibi, di ricette uniche ed inconfondibili. I funghi, l'uva, la zucca, i cachi, le pere, le nocciole, insomma, questi sono solo alcuni prodotti autunnali con cui possiamo sbizzarrirci per fare mille e mille leccornie. Ma fra tutti questi, in Garfagnana il prodotto principe è uno solo: la castagna. Naturalmente di ricette con le castagne e principalmente di quelle fatte con la sua farina ne conosciamo a bizzeffe: il succulento castagnaccio, gli stuzzicanti necci, i gustosi manafregoli e chi più ne ha più ne metta. Eppure, in maniera particolare,  fra tutte queste preparazioni ne spicca una che con il suo contrasto dolce-salato rende questo piatto unico. Polenta e ossi infatti è una ricetta particolare, poichè il gusto dolce della polenta di castagne e il salato della carne attaccata alle ossa del maiale, rende il tutto un matrimonio culinario originale e 
    Necci
    straordinario. Questo 
     piatto oggi come oggi, nonostante che sia considerato un "piatto povero" e perciò nato dalla miseria e dall'arte "del non si butta via niente", è annoverato come una specialità, talvolta servita in maniera "glamour" in rinomati ristoranti. Tuttavia quello che è importante sottolineare e ribadire nuovamente che questa come altre ricette vedono la loro origine nella povertà che attanagliava la Garfagnana  nei tempi andati. Le castagne abbondavano, e almeno la farina non mancava, così come nelle case contadine non mancava nemmeno il maiale, che una volta ucciso e spolpate le sue ossa dalla prelibata carne, queste non venivano buttate via, tutt'altro, venivano conservate e riposte in un largo recipiente con l'aggiunta di rosmarino, un pizzico di cannella e pepe. Dopo che erano passate alcune ore e dopo averli rotolati nel sale grosso, sempre in un recipiente venivano sistemate a strati,  fatto questo ogni strato a sua volta veniva ricoperto di sale e venivano fatti riposare per dieci giorni in un luogo fresco ed asciutto. Solitamente le parti del maiale preferibili per questa ricetta erano e sono gli ossi della bistecca, del petto e gli zampucci con abbastanza carne attaccata. Passati questi fatidici dieci giorni venivano poi lavati dal sale con acqua corrente e messi a bollire in abbondante acqua per più di due ore. A cottura ultimata venivano portati in tavola e serviti con
    le ossa del maiale
    fumante polenta di neccio. Insomma, una ricetta tipica garfagnina, ma che... a quanto pare, da un punto di vista geografico propriamente garfagnina non è, così come oggi intendiamo i confini della nostra valle. In ogni caso, bando a campanilismi e diatribe varie, mi è d'uopo dire e sottolineare, prima di addentrarmi nel tema, che ai tempi della possibile "primogenitura" della ricetta, cioè intorno al XIV secolo, per Garfagnana s'intendevano tutti quei territori a nord della Val di Lima e quindi a buon titolo rientravano anche Coreglia e Barga. Si, perchè a quanto pare tale squisitezza sembra nata proprio a Barga. Tale ipotesi, almeno a quanto io sappia, non è avvalorata da nessun documento, quindi prove a sostegno di tale tesi non esistono, però rimane il fatto che la vulgata nei secoli diffuse questa conoscenza e siccome "vox populi, vox Dei", un fondamento di verità probabilmente ci sarà. Fatto sta che i destini di questa ricetta sono legati ad una morte. Tutto infatti cominciò di lì. Anno di Grazia 1328 in data 3 settembre Castruccio Castracani degli Antelminelli morì per un'improvvisa febbre malarica. Per chi non lo sapesse il Castracani fu uno dei condottieri più valorosi d'Italia. Nel tempo, attraverso 
    Castruccio Castracani
    le sue conquiste, diventò Signore di Carrara, Lerici, Pisa, Pistoia, Pontremoli e Sarzana, nonchè Gonfaloniere del Sacro Romano Impero e soprattutto divenne Duca di Lucca, sua città natale. Era infatti il 1316 quando si sostituì come Signore di Lucca al già Signore di Pisa Uguccione della Faggiola. Fra i possedimenti di Lucca c'era anche Barga e proprio con Castruccio Castracani Barga tornò ad essere un'importante Vicaria. Il nuovo signore e padrone riedificò quelle stesse mura distrutte dagli stessi lucchesi anni prima (1298) per questioni di contrabbando e di commercio con Firenze, e proprio anche quel commercio, che per lunghi anni era venuto meno riprese vigore. C'è da dire però che 
    i barghigiani non vedevano di buon occhio i lucchesi, con gli anni che passavano tolleravano appena la sudditanza a Lucca, dall'altra parte però ben si guardavano di ribellarsi nuovamente alla città delle mura, poichè proprio il Castracani, fra le altre cose era noto anche per la sua spietatezza e crudeltà. Tutto però cambiò quel suddetto 3 settembre 1328 quando il condottiero lucchese morì. I barghigiani allora presero coraggio e nel 1331 in men che non si dica si dichiararono volontariamente sudditi di Firenze. Lucca dopo la morte del suo Signore era ormai allo sfascio, venne più e più volte venduta, fino a che nel 1341 i fiorentini l'acquistarono definitivamente per ben 100 mila fiorini d'oro. Il resto delle Signorie locali però non volle rimanere inerme di fronte a questi accordi e Pisa gelosa e spaventata dell'ingrandimento di Firenze invase tutte quelle terre già acquistate dalla città del giglio, Barga compresa. In quattro e quattr'otto le Vicarie di Coreglia e di Castiglione caddero nelle 
    Barga nel 1500
    mani pisane, mentre per l'ostinata Barga cominciò un lungo assedio. Abbiamo visto nei film e nei libri quanto può durare un'assedio: giorni, mesi, addirittura anche anni. L'assedio mira allo sfinimento della popolazione, l'esercito che circonda le mura conta proprio ad indebolire gli assediati, a non fargli avere comunicazione con l'esterno, puntando più di ogni altra cosa a non far
     pervenire mezzi e soprattutto cibo e così fu anche per Barga. Erano passati mesi e ormai le riserve di cibo si stavano esaurendo. Qualcuno attanagliato dai morsi della fame aveva proposto di cedere ai pisani, di aprire le porte del castello, in questo modo almeno le donne e i bambini si sarebbero salvati dall'inedia. D'altronde gli abitanti di Barga avevano mangiato tutto il commestibile, dalle bacche, alle erbe di campo, ai frutti più strani ed impensabili. Ciò che si poteva arrostire era stato arrostito: polli, conigli, uccelli e maiali...  Proprio di quei maiali erano rimaste le sole misere ossa con dei rimasugli di carne attaccata. Ad ogni buon conto, come ben si sa, la necessità talvolta porta all'ingegno e taluni pensarono al modo di preservare queste ossa. L'unica maniera per conservarle sarebbe stata quelle di metterle sotto sale, il sale è un conservante, in questo maniera ci sarebbe stata anche una riserva di cibo per i giorni a venire. Inoltre quello che non mancava in casa era la farina di castagne, tutti ne avevano, chi più o chi meno,
    Farina di castagne
    oltretutto quella era una vivanda che dava nutrimento e forza. Pertanto dopo alcuni giorni si cercò la maniera di cucinare queste ossa avanzate. Furono messe così a bollire in grossi paioli, mentre in altri misero al fuoco la farina di castagne. Il connubio fu molto gradito e più che altro servì a salvare la pelle ai barghigiani, tanto è vero che ciò permise alla popolazione di resistere all'assedio (e alla fame) alcuni giorni in più, dando  modo ai fiorentini di giungere finalmente a Barga e di sconfiggere i pisani, liberando dall'accerchiamento Barga. Insomma, a quanto pare, fra leggenda e storia vera questa è la genesi del piatto. Che dire... verosimilmente un fondo di autenticità ci sarà, niente nasce dal caso. Comunque sia da qui in avanti quando mangeremo questo tradizionale piatto lo guarderemo con occhi diversi, saremo così consapevoli che dietro ogni pietanza la storia con la esse maiuscola potrebbe aver messo il proprio sigillo. 

    "Il Muro del Carlo", un'opera d'arte nascosta ai piedi della Pania...

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    Il muro del Carlo
     Allora... guardiamo un po'... Cosa può fare un turista che viene in
    Garfagnana !? La nostra terra può offrire molte cose... oltre alla rigogliosa natura, alla stupende passeggiate, al relax del corpo e della mente, può anche proporre per gli interessati viaggiatori la visita di monumenti di un certo rilievo, ricchi di storia e di una bellezza unica. La Fortezza delle Verrucole a San Romano ad esempio, o quella di Mont'Alfonso a Castelnuovo; sempre a Castelnuovo c'è la Rocca Ariostesca, dove vi soggiornò proprio Ludovico Ariosto. Immancabile deve essere la visita al suggestivo Eremo di Calomini, o alla millenaria chiesa di San Jacopo a Gallicano, dove al suo interno è costudita una meravigliosa pala di Luca della Robbia. Insomma, luoghi da visitare ce ne sono molti e per tutti i gusti. Esistono poi altri posti che per la loro curiosa e misteriosa storia e per la loro unicità meritano di entrare a pieno titolo nei "luoghi da visitare". Ad esempio, un muro è degno di entrare in questa meritevole lista? A mio avviso si, anche se nella storia i muri non hanno mai contribuito a niente di buono. Difatti i motivi per cui vengono innalzati sono molteplici: costruiamo muri per difenderci, per proteggerci o per sentirci al sicuro. La storia di muri in eredità ce ne ha lasciati una moltitudine, il più famoso è quello di Berlino, f
    u costruito
    Il muro di Berlino oggi
    nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961 dal regime comunista dell’Est per arginare il flusso migratorio verso l'altra parte della città, che dire poi della Grande Muraglia Cinese? La costruzione di questo muro aveva scopo difensivo e fu realizzata 
    nel terzo secolo A.C. sotto la dinastia di Chin Shih-Huang-Ti con l’obbiettivo di proteggere i confini settentrionali del regno dalle tribù mongole, le sue ultime misurazioni risalgono al 2012 e stimano che sia lungo addirittura 21.196,98km. Ma anche Roma ebbe il suo muro, fu i
    Vallo di Adriano, una fortificazione in pietra voluta dall’imperatore Adriano nel secondo secolo D.C., aveva lo scopo di difendere il confine settentrionale dell’Impero Romano in Britannia dalle tribù scozzesi, era lungo ben 173 km. Una cosa che poi deve far riflettere è che sui 70 muri presenti nel mondo oggi, quasi un terzo è stato costruito negli ultimi 50 anni e la maggior parte di essi è stato costruito fra il 2005 e il 2015. Quindi possiamo dire che questi muri sono tutti uguali? No, come abbiamo visto ognuno ha il suo scopo, la sua storia e il suo perchè, proprio come "il muro del Carlo". Ebbene si, anche in Garfagnana abbiamo un muro da pochi conosciuto. Ma chi è questo fantomatico Carlo? E di che muro si tratta? Diciamo che tutto è avvolto nella leggenda e nelle storie che i vecchi raccontano,

    fatto stà che questo muro a secco è una vera e propria opera architettonica, fatta sicuramente da una mano "superiore". Di muri a secco in Garfagnana e altrove ne abbiamo visti molti, ma questo sicuramente li supera tutti per la precisione e linearità con cui è stato fatto. Cotanta opera si trova in un bosco di faggi ed è facilmente raggiungibile dal campo di Pianizza, luogo di mille scampagnate, che si trova proprio ai piedi della Pania e sembra che fu proprio qui che un tale di nome "Carlo" cominciò ad edificare questo muro. Qualcuno dice che il Carlo era un pastore dalla corporatura gigantesca e che ogni giorno per oltre cinquant'anni quando portava le sue pecore al pascolo si metteva li e come in una sorta di "tetris" collocava, faceva combaciare ed incastrava pietre su pietre, pare che tutto ciò lo facesse per delimitare il confine della sua proprietà con quella del fratello con cui aveva litigato in malo modo. Alla fine di questi lunghi 50 anni il Carlo passò purtroppo "a miglior vita" e all' Alpe di Sant'Antonio i vecchi raccontavano che al momento della sua sepoltura, l'ordinaria fossa scavata dagli addetti fosse stata troppo piccola per contenere il mastodontico uomo. Infatti fu
    proprio grazie alla sua ciclopica corporatura che potè costruire quel muro che alla fine della sua vita arrivò a misurare ben 200 metri di lunghezza, alto circa un metro e 70 e largo 80 centimetri. Insomma, quello che ne venne fuori fu un capolavoro di vera ingegneristica artigianale. Ma ad onor del vero in tutta questa storia i misteri non finisco qui e spesso ci siamo domandati, ma tutte quelle migliaia di pietre da dove arrivano? I vecchi dicono che forse potrebbero arrivare dalla Borra Canala, la pietraia che si trova nei pressi della Pania della Croce, ma vi immaginate allora la fatica ed il tribolo !? Solo un forzuto come il presunto Carlo poteva affrontare l'immane sforzo. E poi, quando sarà stato costruito questo benedetto muro? Nessuno lo sa, nessuno lo ricorda, niente è scritto o documentato. Si potrebbe però ipotizzare che la sua origine risalga al XIX secolo, quando
    Borra Canala
    costruzioni di questo tipo erano particolarmente usate. Comunque sia, qualsiasi sia la sua genesi per favore non stiamo a scomodare mani extraterrestri o qualsivoglia forza occulta. Qui l'unica mano è stata quella dell'uomo e del duro lavoro di una o più persone, che con la pazienza ed il rispetto per la natura che solo nei lontani tempi andati esisteva, hanno cercato di modellare un territorio nel modo più cortese possibile, trasformando talvolta certe costruzioni in delle opere d'arte di rara bellezza, proprio come è accaduto al "muro del Carlo". A confermare questo pensiero ci ha pensato nel 2018 l'UNESCO che grazie alla proposta 
    di otto paesi europei (fra i quali anche l'Italia) ha inserito i muri a secco nel Patrimonio Mondiale
    dell'Umanità. Che dire allora... Grazie Carlo per l'onore che hai regalato alla tua e nostra Garfagnana.





    • Le foto riguardanti il "Muro del Carlo" sono state realizzate e gentilmente concesse da Daniele Saisi

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