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Quando i cavatori garfagnini salvarono dalla distruzione lo splendore di Abu Simbel

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L'Egitto, nella fantasia di ogni bambino rappresenta nell'immaginario
infantile la figura dell'esploratore e difficilmente possiamo dire il contrario visto che proprio quella terra è stata fonte di migliaia e migliaia di ritrovamenti e di scoperte archeologiche. Eppure, trovarsi di fronte al ritrovamento del tempio di Abu Simbel deve essere stata un'emozione unica, senza pari, superiore a qualsiasi sogno fanciullesco. Quel tempio fu eretto dodici secoli prima della venuta di Cristo sulla Terra e il faraone Ramses lo fece costruire per intimidire i nemici e per celebrare la sua vittoria nella battaglia di Qadesh. In effetti ancora oggi, vista la grandiosità e la magnificenza dell'opera, un po' di soggezione la mette ancora. Sulla facciata alta 33 metri e larga 38 spiccano le quattro statue di Ramses II, ognuna della quali è alta 20 metri e in ognuna il faraone indossa le corone dell'Alto e
Tempio di Nefertari
del Basso Egitto. Ai lati delle statue colossali ve ne sono altre più piccole, che rappresentano la madre Tula e la moglie Nefertari, mentre tra le gambe delle statue ce ne sono altre di alcuni dei suoi figli. Sopra le statue, proprio sul frontone del tempio ci sono altre 14 statue di babbuini che guardano verso est aspettando la nascita del sole per adorarlo, in origine  queste erano 22, quante erano le province dell'Alto Egitto. Insomma, possiamo dire senza ombra di dubbio che il complesso archeologico egiziano di Abu Simbel è uno dei più famosi e conosciuti al mondo, secondo solamente alle piramidi di Giza. Tuttavia quel 22 marzo 1813 quando l'esploratore svizzero Johann Ludwig Burckhardt 
scoprì queste meraviglie, di quelle enormi statue spuntavano 
dalla terra solo le spalle: "Per un caso
Burckardt
fortunato mi allontanai di qualche passo verso sud e i miei occhi incontrarono la parte ancora visibile di quattro immense statue colossali, tagliate nella roccia alla distanza di circa duecento iarde dal tempio. Queste statue si trovano in un profondo avvallamento scavato nella collina
". Così lo studioso annotava ancora nel suo taccuino: "
Una delle statue ha ancora tutta la testa e una parte del petto e delle braccia fuori dalla sabbia. Di quella contigua non si vede quasi nulla, poiché il capo è rotto e il corpo è coperto di sabbia fin sopra le spalle. Delle altre due emergono solo le acconciature". Immaginatevi allora  l'entusiasmo per la scoperta. L'allegria e la gioia dell'esploratore svizzero era incontenibile, infatti furono informati i giornali di tutto il mondo e la fama di Burckhardt andò così alla stelle. Purtroppo questo entusiasmo durò poco e qualche mese dopo da quel mirabolante giorno tutto cadde un po' nel dimenticatoio. Fino al giorno in cui, alcuni anni dopo la scoperta, comparve sulla scena l'esploratore padovano Giovanni Belzoni, che rimase nella leggenda per aver riportato alla luce tutto il complesso di Abu Simbel. Le vicende ci narrano che Belzoni conobbe Burckhardt proprio in Egitto. Lo svizzero e l'italiano divennero amici e un bel giorno lo svizzero rivelò all'italiano di essersi imbattuto,
Giovanni Belzoni
risalendo il Nilo ai confini con la Nubia, nelle rovine di un tempio rupestre fronteggiato da quattro statue colossali e semisommerso dalla sabbia. Quei racconti stimolarono la curiosità di Belzoni e in seguito lo spinsero ad inoltrarsi nelle profondità nel paese, la sua intenzione era infatti quella di liberare il tempio di Ramses dalle migliaia di metri cubi di sabbia che lo circondavano. "Andammo al tempio di buon’ora, animati dall’idea di entrare finalmente nel sotterraneo che avevamo scoperto", scriverà Giovanni Battista Belzoni nel diario di viaggio
Dopo ventidue giorni di scavi, l'esploratore padovano sentiva che l’impresa era fatta e il mistero di Abu Simbel stava per essere svelato. Avevano spostato dieci metri di sabbia, lavorando col termometro che sfiorava i 50 gradi. La liberazione del tempio dalla sabbia avvenne il 1 agosto del 1817, fu un'impresa sensazionale. Difatti quella maledetta sabbia non bastava toglierla che quella ritornava. Belzoni aggirò l'ostacolo e con un colpo di genio gli venne l'idea di bagnare l'arenaria, innalzando al contempo palizzate di sostegno: "Togliere la sabbia ai lati perché potesse essere rimossa quella del centro". Fu così che quel giorno
Abu Simbel 1930
violarono il tempio maggiore, consegnando al mondo una vera e propria meraviglia. Trascorsero qualcosa come 142 anni da quel giorno e anche la Garfagnana entrò con Belzoni a far parte della storia del faraone Ramses e di Abu Simbel. Tutto cominciò nel 1959, quando il presidente egiziano Nasser diede il via alla costruzione della grande diga di Assuan, opera indispensabile per la modernizzazione del Paese. La costruzione della diga avrebbe comportato la creazione di un immenso lago a valle della diga (l'attuale lago Nasser), nel bel mezzo della regione storica della Nubia. Tale regione era disseminata di straordinari complessi faraonici di inestimabile valore storico e culturale, destinati però ad essere sommersi dalle acque del grande lago artificiale. Tra questi c'era anche l'immenso tempio di Abu Simbel. Cosa fare allora? Quale soluzione? L'otto marzo 1960 l'UNESCO per bocca del suo direttore generale Vittorino Veronese rivolse un appello a tutti i paesi del mondo perchè partecipassero a un'operazione d'emergenza: il salvataggio del patrimonio archeologico dell'Egitto che stava per essere sommerso dalla diga di Assuan. Una
La diga di Assuan
gara di solidarietà a cui il nostro governo (insieme a molti altri) aderì con estrema convinzione e generosità. Comunque sia rimaneva in molti la convinzione dell'impossibilità del salvataggio del ciclopico sito, era un'impresa quasi impossibile, considerando proprio le dimensioni e l'urgenza dell'operazione (l'inondazione era prevista per il 1966) e in più i dubbi degli ingegneri su quale procedimento eseguire per la salvezza di Abu Simbel erano molti. Nel 1963 si decise per la soluzione più improbabile e la più spettacolare, si decise 
che i templi sarebbero stati tagliati in più di mille blocchi, per essere trasferiti su un altopiano 65 metri più in alto e rimontati esattamente nella posizione originale. Nella pratica ciò significava rimuovere tonnellate di terra e trasportare centinaia di blocchi di pietra.
Lavori ad Abu Simbel
foto di Werner Emse
Era un’impresa senza precedenti e ancor oggi rappresenta 
una pietra miliare ineguagliabile nella storia dell’archeologia. Ecco allora entrare in scena la Garfagnana e la sua gente. Il governo italiano affidò gli stupefacenti lavori all'impresa lombarda "Impregilo", che si mise così a cercare manodopera in tutta Italia per il taglio dei blocchi di pietra. Fu così che gli ingegneri della ditta milanese si recarono anche in Garfagnana. A Gorfigliano esisteva il fior fiore degli intagliatori di marmo, furono reclutati così il meglio della specializzazione marmifera locale: Tonino Marchi e il figlio Carlo, Leandro Casotti, Ivano Paladini e Michele Ferri, tutti giovani ragazzi che avevano cominciato a lavorare il marmo fin da
ragazzetti, il Pisanino e la Tambura furono per loro una vera e propria palestra  d'esperienza, quell'esperienza che dovevano trasferire per salvare una delle più importanti opere dell'archeologia mondiale. Il loro compito sarebbe stato quello di tagliare, smontare, trasferire e riassemblare 1003 blocchi di pietra. Insieme a loro una poderosa squadra di altri cavatori di marmo, un nucleo decisivo di duemila persone fra tecnici e operai che dovevano riposizionare perfettamente il tempio, portandolo sessanta metri più in alto in perfetto allineamento solare, così com'era nella vecchia collocazione quando una lama di luce  all'alba di ogni 22 ottobre e 22 febbraio penetra nella profondità del tempio illuminando le statue divine. Al loro arrivo in Egitto gli operai garfagnini trovarono sul luogo di lavoro una vera e propria città abitata da tremila persone, costruita proprio per questa impresa, non mancava niente, negozi, bar, alloggi, mense e perfino una centrale elettrica. Il lavoro si doveva svolgere in quattro fasi e la prima di questi
foto di Georg Gerster 
 fasi era quella che impegnava gli operai di Gorfigliano. Gli uomini 
si dedicarono a rimuovere tonnellate di roccia attorno ai templi. Precedentemente era stata collocata al loro interno un’armatura d’acciaio per evitare frane, mentre le facciate furono ricoperte di sabbia per prevenire danni alle sculture. Quindi l’operazione più delicata: il taglio in blocchi degli ipogei. Si effettuarono delle sezioni di tre metri di altezza fino a cinque di lunghezza, con un peso di 20 tonnellate per pareti e soffitti e di 30 per la facciata. Il contratto stabiliva che i tagli dovessero essere di un 
foto di Georg Gerster
massimo di 6 millimetri, ma i marmisti si fecero un punto di orgoglio nel farli ancora più sottili, soprattutto negli elementi decorativi. Una volta tagliati, i blocchi venivano etichettati con un codice che ne indicava la posizione, venivano introdotti in contenitori di cemento rinforzato e trasferiti in un sito di deposito. I lavori durarono otto anni, dal 1960 fino a quel 22 settembre 1968, quando con una grande cerimonia si annunciò al mondo la rinascita dei magnifici complessi monumentali di Ramses II e di sua moglie Nefertari. L'Egitto nel ringraziare le ventidue nazioni che aderirono all'impresa decise che questi partecipanti avrebbero potuto conservare una parte dei pezzi rinvenuti negli scavi. Quattro Paesi ricevettero in omaggio perfino un tempio completo che fu inviato e smontato e poi ricostruito nel luogo di adozione, per questo che oggi a Torino troviamo il 
tempio di Ellesija, a New York quello di Dendur, a Leida quello di Tafa e a Madrid quello di Debod. Infine il governo egiziano dalla pagine de "Il Corriere della Sera" scrisse parole di ringraziamento
foto di John Keshishi
agli italiani, ricordando che: "
Era stato salvato il gioiello dei tesori della Nubia, il monumento più grandioso mai scolpito nella roccia, esaudendo in questo modo il sogno del faraone Ramses di rendere il suo tempio immortale", anche grazie, aggiungo io, agli operai garfagnini.


Bibliografia

  • "Il trasferimento del Tempio di Abu Simbel" di Ester Pons Mellado, "Storica- National Geographic", settembre 2020
  • "Cinque operai da Gorfigliano in Egitto per salvare i tesori della Valle dei Re", "La Nazione- Lucca" di Amilcare Paladini. Anno 1960


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