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A volte ritornano... Storie di bande e briganti. Garfagnana 1946...

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Corsi e ricorsi... Da ogni epoca oscura si passa ad una eroica e
luminosa, governata dalla ragione, alla quale purtroppo seguirà una nuova decadenza e una successiva rinascita, in un ciclo eterno di caduta e ripartenza. Così succede, è una regola a cui il mondo ci ha ormai abituati e nemmeno la nostra Garfagnana è sfuggita a questa norma. Infatti dalle nostre parti esisteva un'epoca, ormai da tutti conosciuta e studiata, in cui nella valle regnava incontrastato il brigantaggio. Era quel preciso periodo storico in cui a Firenze stava per nascere quel movimento culturale e sociale che si proponeva la rinascita della grandezza del mondo classico: il Rinascimento, e mentre a Firenze cominciavano a circolare personaggi come Leonardo Da Vinci, Niccolò Machiavelli e Michelangelo, in Garfagnana vigeva ancora la legge in cui lo schioppo soverchiava qualsiasi altro pensiero e questo ben lo sapevano il Moro del Sillico, Pierino Magnano e Filippo Pacchione: briganti di prim'ordine. Da quel momento in poi però di briganti e bande di delinquenti in Garfagnana non se ne senti più parlare per cinque
secoli, fino al momento in cui, nell'imminente fine e nell'immediato dopoguerra del secondo conflitto mondiale questo fenomeno tornò prepotentemente a galla. Naturalmente il contesto storico e sociale, le motivazioni e la durata dei misfatti fu ben diversa e va contestualizzata e collocata nel tempo dove successero tali accadimenti. Rimane comunque il fatto che morte, ruberie e angherie varie tornarono di gran moda nella valle. Giaime Pintor (giornalista e scrittore) di quel nefasto periodo (fra il 1944 e il 1946) ebbe a dire: "Dappertutto la guerra ha diffuso una facile crudeltà, una crudeltà inconsapevole e piatta che è la peggiore linfa dell'uomo. L'orribile senso del gratuito, dell'omicidio non necessario. Tolti i ritegni diviene consuetudine uccidere e punire è diventato un esercizio". Sì, perchè questa nuova ondata di violenza non fu un fenomeno tipicamente garfagnino, ma la geografia italiana degli
omicidi mutò radicalmente a partire dal 1943. L’aumento del tasso di criminalità crebbe in tutta la penisola, ma in modo particolare nelle regioni centrosettentrionali. Esso raggiunse il valore più alto nel 1944 in Toscana, seguita dal Piemonte e dall’Emilia-Romagna. 
Ma anche fra queste stesse regioni vi furono significative differenze. La Toscana fra tutte ebbe un ruolo di preminenza, il tasso di omicidio, crebbe straordinariamente nel 1944, mantenendosi su alti livelli anche negli anni successivi. Quello che difatti rimane curioso e a dir poco interessante è l'analisi particolare di questi fatti e se andiamo a vedere gli anni precedenti a questi delitti (1939-1945) vediamo che in Italia ci fu un notevole calo di tutti gli atti delinquenziali, perfino le contravvenzioni subirono un forte calo. La forte caduta delle contravvenzioni fu riconducibile a due fattori, assai diversi fra loro, ma entrambi inerenti allo stato di guerra. In primo luogo, alla riduzione del traffico stradale, in secondo luogo, alla diminuzione dell’efficienza delle forze dell’ordine, impegnate in altri urgenti problemi. Il calo dei furti, delle rapine e degli omicidi poteva essere spiegato nel fatto che il conflitto bellico, allontanò dalle case e dalle strade un gran numero di giovani maschi, ovvero proprio gli appartenenti a
quel gruppo che più frequentemente commetteva tali reati. Dall'altro lato lo straordinario aumento della frequenza di molti reati nel secondo dopoguerra fu provocato da numerosi fattori: da quello economico, innanzitutto, perché in misura maggiore o minore, in tutti i Paesi europei questo periodo fu caratterizzato dall’aumento della disoccupazione e dell’inflazione (il costo della vita in Italia fra il 1938 e il 1945 salì di 23 volte !!!), dalla riduzione dei beni disponibili e dal peggioramento del livello di vita. Ma vi furono anche altri fattori che spinsero verso questa direzione: la presenza di larghi strati della popolazione che, a causa del conflitto, erano ormai assuefatti all’uso delle armi, nonchè al disorientamento di numerosi ex militari che faticavano a trovare un posto adeguato all’interno della società dopo aver vissuto la drammaticità della guerra. Infatti molti dei primi banditi erano state personalità che avevano partecipato a diverse operazioni belliche, c'è da aggiungere poi che in tutta questa situazione rimanevano un gran numero di armi disponibili
lasciate dagli eserciti in ritirata, che chiunque poteva procurarsi. Figurarsi allora in Garfagnana dove il fronte si attestò fra opposti eserciti per dei lunghi mesi. Difatti anche qui vigeva un clima d'insicurezza totale. Svariate bande di delinquenti si formarono fra queste impervie strade, tali bande si macchiarono anche di reati gravissimi. A Ponteccio (Sillano- Giuncugnano) un commerciante di Villa Minozzo (Reggio Emilia) fu prima derubato di 7.000 mila lire e poi ucciso da un uomo di Sillano. Una banda armata composta da tre uomini invece aveva presidio sul Passo delle Radici, questi manigoldi erano specializzati nel derubare i camionisti. Fra le più grosse bande c'era quella che aveva sede nella zona di Fornaci di Barga e operava in tutta la Valle del Serchio, composta da gente senza scrupoli che non esitava a risolvere le situazioni con frequenti scontri a fuoco con i Carabinieri, il suo arsenale era composto da armi residuate dalle guerra: pistole, mitra, bombe a mano, rimase alla storia lo scontro avuto con le forze dell'ordine nel mezzo del paese di Fornaci. Sempre a Fornaci furono arrestati due uomini sospettati di essere nientemeno affiliati alla banda di Salvatore
Salvatore Giuliano
Giuliano, il re di Montelepre. Insomma in quegli anni in Garfagnana c'era la base per associazioni a delinquere di vario genere che addirittura operavano su un vasto raggio territoriale, d'altronde la valle da secoli e secoli si prestava a nascondigli introvabili, le vaste selve e gli impervi boschi da sempre avevano offerto riparo a delinquenti di ogni risma a partire dai tempi del Moro per arrivare poi ad eminenti personaggi di spicco degli anni di piombo. Ad esempio a sottolineare la gamma e la varietà di malavita che in Garfagnana era presente in quel periodo fu il fatto del 1947 dove al Sillico (Pieve Fosciana) fu sgominato un traffico regionale illecito di medicinali che provenivano dal deposito americano di Tombolo (Livorno), a capo della banda c'erano un tedesco disertore e una donna del posto. In definitiva, queste erano bande  pericolosissime e armate fino ai denti, pronte a tutto e senza scrupoli che vigliaccamente cavalcavano il momento di sbandamento sociale che si era creato dopo la fine della guerra. Comunque sia niente a confronto di una banda della lucchesia che ben presto salirà alla ribalta della cronache nazionali come una delle associazioni a delinquere più spietate di tutto il panorama italiano. Svariate definizioni furono attribuite a questa banda, per molti fu la "la banda del camioncino rosso" per altri "la banda  dell'autostrada", ma per tutti sarà riconosciuta con il nome del suo capo "la banda Fabbri". Le sue attività criminose durarono per pochi mesi, dall'ottobre 1945, alle primavera successiva, in questo poco lasso di tempo uccisero cinque persone e rapinarono di tutto, dai soldi alle cose più impensabili. Il giorno in cui ci fu il processo il giudice per leggere i reati commessi si protrasse per oltre 25 minuti... La banda operava su tutto il territorio provinciale e oltre, aveva una delle sue basi operative nelle trincee e nelle grotte della Linea Gotica scavate dai tedeschi a Borgo Mozzano. I rapinatori agivano sia sulle strade che nelle abitazioni (come 
Gallerie Linea Gotica
Borgo a Mozzano
avvenne a Minucciano), la banda era composta da elementi che provenivano da tutta la regione e anche dalla Valle del Serchio. Il suo capo si chiamava 
Lando Fabbri, fiorentino di Santo Spirito. Classe 1912, prima della guerra aveva lavorato come fattorino presso una ditta farmaceutica, impiego ottenuto tramite la federazione fascista, grazie ai meriti acquisiti con la sua partecipazione alla campagna d’Etiopia. “Lo dovemmo assumere per forza– avrebbe dichiarato al processo il suo ex principale – e non lo potevamo licenziare, benché fosse violento e prepotente. Una volta inseguì un altro dipendente sparando in aria con la rivoltella che portava sempre con sé”. A seguito di una condanna a 30 anni di reclusione comminatagli nel ‘38 dal tribunale di Genova per tentato omicidio a scopo di rapina, Fabbri fu rinchiuso nel carcere di Parma, per essere poi trasferito in quello di Apuania; dal quale riuscì tuttavia a fuggire nel luglio del ‘44, sfruttando un bombardamento aereo alleato che aveva sventrato il penitenziario. Unitosi assieme ad altri evasi a una formazione partigiana, al termine della guerra egli si stabilì a Pisa, sotto falsa identità trovò lavoro alle Poste. Nella medesima città conobbe, nell’ottobre ‘45, i fratelli Attilio e Nilo Moni, con i quali formò un sodalizio criminale che, allargatosi rapidamente (la banda era composta da 22 persone), avrebbe causato, in pochi mesi di attività la morte di cinque persone, tutte uccise a sangue freddo. Come quella volta ad Anchiano (Borgo a Mozzano)quando ammazzarono come cani tre persone per rubare quattro gomme. Difatti si racconta che una parte della famigerata banda era a prendere un caffè a Lucca, quando tornando verso Viareggio scorsero un autocarro Mercedes targato Udine, carico di carrozzine per bambini. Il camioncino rosso dei malviventi si mise di traverso in mezzo alla strada e l’altro dovette fermarsi; a bordo c’erano due commercianti, i fratelli Secondo e Quinto Di Pauli e il loro amico Giorgio Pacile, provenienti da Udine e diretti a Roma. Una volta scesi, i tre si trovarono di fronte quattro rivoltelle e uno Sten; spinti al margine della strada, furono legati e imbavagliati. Gli ostaggi furono poi caricati sul camioncino rosso e il mezzo si avviò per la statale dell’Abetone avendo già in mente la destinazione: Anchiano, dove nell’ambito delle fortificazioni della Linea Gotica i tedeschi avevano approntato una caverna artificiale utilizzata come deposito munizioni. Ecco comunque la cronaca del processo e del fattaccio in questione riportata dalle pagine de "Il Tirreno" il 10 aprile 1946. Testimonianza dell'imputato Fabbri:" Erano diversi giorni che il Lippetti ci aveva pregato di aiutarlo a trovare delle gomme, perchè quelle del camioncino erano fuori uso. Così si decise di andare sull'autostrada ed avevamo aspettato due tre ore per trovare quello che andasse bene. E' arrivato il camion abbiamo guardato le gomme e così si decise di fermarlo... Ad Anchiano ci fermammo ed io andai a vedere la grotta ove avevamo stabilito di lasciarli e di andare in un altro posto per levare e gomme. Con degli stracci imbevuti di nafta esplorai la grotta e li portammo là... Essi si raccomandarono di non fargli nulla di male, ed infatti noi li rassicurammo. Il Lippetti però cominciò a dire che il suo camioncino rosso, che era ormai preso d'occhio poteva essere riconosciuto e che quindi bisognava ucciderli... Fra tutti decidemmo di ucciderli. Il Lippetti disse che se non li avessimo uccisi noi, li avrebbe uccisi lui. Allora io rientrai nella grotta e sparai!". A giudicarli per direttissima fu il Tribunale militare straordinario, istituito il 10 maggio‘45 conformemente alla legge speciale per la repressione delle 
Un momento del processo
rapine e che prevedeva anche la fucilazione. Il processo ebbe inizio a Lucca il 10 aprile ‘46 e fu peraltro l’ultimo tenuto da tale organismo giudiziario. La sentenza giunse già il 13 aprile (per leggerla ci vollero più di venti minuti), infliggendo, come il giornale riporta “le condanne più dure del dopoguerra toscano”: pena capitale per Fabbri e per il suo luogotenente Baccetti, ergastolo a Lippetti e ai fratelli Moni, 30 anni a Brega, Angelini e Fanelli, 15 anni a Baldacci, proprietario del mitra in dotazione alla banda; oltre a una serie di condanne minori. Un'ultima affascinante descrizione della miseria umana degli imputati la diede sempre "Il Tirreno" dell'epoca: 
"
Senza folla intorno, senza giudici e l’apparato del processo, nell’intervallo, seduti, stanchi e depressi, hanno gettato la maschera e abbandonato il loro aspetto tracotante, che amano ostentare davanti al pubblico. Eccoli qui senza infingimenti, miseri uomini vinti dalle loro folli passioni, più bestie che uomini, paurosi al pensiero della sorte che gli attende, e pensare che uccidevano le loro vittime come se si fosse trattato di mosche. Dal dire al fare. Oggi no, oggi ci stanno attaccati alla vita, alla propria".


Bibliografia

  • "Il banditismo in Italia nel dopoguerra" di Umberto Giovine, Bompiani 1974
  • "Crimini toscani del secondo dopoguerra raccontati da Umberto Giovine" di Giuseppe Alessandri (https://giuseppealessandri.myblog.it/2019/08/28/crimini-toscani-del-secondo-dopoguerra-raccontati-da-umberto-giovine/)
  • "La Voce di Lucca" , "Banda Fabbri il processo in 15 puntate" di "Oracolo di Delphi" (http://www.lavocedilucca.it/post.asp?id=6483)
  • "Il Tirreno" 10 aprile 1946 di Dino Grilli
  • "La Terra Promessa. La Garfagnana nella seconda metà del XX secolo" di Oscar Guidi, edito Unione dei Comuni della Garfagnana
Fotografie
  • Le fotografie riguardanti il tribunale sono tratte dalla pagina facebook "Studio legale Paolini Tommasi Piana"


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